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Noi non dimentichiamo
Giornata della Memoria 27 Gennaio 2012




          Classe IIIa a.s. 2011-12
 Istituto Comprensivo “San Vito Romano”
“Auschwitz non è fuori di noi, ma è intorno a noi, è
   nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia:
sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i
         segni: il disconoscimento della solidarietà umana,
            l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui,
 l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al
principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto,
una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù
           guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea”.


                      Primo Levi da “L’asimmetria e la vita”
Quelle che state per leggere sono le riflessioni che noi,
ragazzi di IIIa, abbiamo scritto dopo aver commemorato
la Giornata della Memoria: letture, video, fotografie,
musiche, tutto ci è servito per ricordare il dolore che è
stato e che è segnato nella storia.
Qualcuno di noi si è immedesimato in un deportato,
provando sulla propria pelle le sofferenze e le umiliazione
fino ad allora solo lette o viste; qualcun altro ha scritto
delle riflessioni; altri tra noi hanno dato voce ai loro
sentimenti coi versi di poesie; altri infine…hanno chiesto
scusa.


A voi, lettori e a noi, scrittori: perché ri-cordiamo,
riportiamo al cuore il senso profondo e sacro della dignità
umana


                                            I ragazzi di IIIA
Ho compiuto un viaggio
                    Di Cecilia Bernardini


     “Ho compiuto un viaggio una volta, non era ciò che
esattamente mi aspettavo.

E’ stata una corsa contro il tempo, giorno dopo giorno. Mi
avevano detto che mi avrebbero portato in un posto
perfetto, rispettava tutte le mie aspettative da come me lo
descrivevano così con le valigie piene di ricordi, sono
andato. In questo viaggio eravamo tanti, ci chiedevamo
ansiosi dove saremmo arrivati. Strano, non capivo, alcuni
non volevano partire, ma venivano fatti salire a forza, con la
forza di uomini armati, con un grosso casco sopra la testa e
urlavano e il loro urlo ancora lo ricordo, è rimasto come un
mal di testa che non vuole lasciarmi, come una melodia
forte e incancellabile. I bambini, le famiglie che venivano
addirittura prese a calci, con
tanta violenza e i pianti, quelli a
gran voce di quelli più piccoli e
deboli che esprimevano tutto il
loro dolore e la loro voglia di
scappare, eppure era solo un
viaggio, perché portavano tutti?

L’idea che mi ero fatto stava pian piano perdendo il suo
valore, quando davanti ai miei occhi sconcertati ho visto un
alto palo, no anzi tantissimi pali cui erano legati fili spinati,
sembrava una gabbia, una maledetta gabbia che ha portato
via nel vento migliaia di uomini. Ora era arrivato il mio
turno come quello di tanti altri bambini e uomini e donne
mai più liberi, l’avevo capito, ho odiato essere un ebreo.
Volevo solo avventurarmi nel viaggio di cui mi avevano
parlato insieme a mio figlio, e invece è stato un incubo, da
cui credo che non mi risveglierò più.

Ho visto la morte.

Una volta ho visto una donna con una bambina di quattro
anni, o forse più piccola, essere divise: la donna cercava di
liberarsi dalla forza dei soldati per raggiungere la piccola
che piangeva spaesata con il suo orsetto in mano. Urlava il
nome della mamma, mentre cadeva a terra, sfinita dal
pianto esattamente come era successo con mio figlio. Lo
avevano fatto con la rabbia, la stessa rabbia che aveva
accatastato morte persone come me, colpevoli...colpevoli di
cosa? di essere innocenti? Di essere come siamo, meno
perfetti? Ma chi di voi è perfetto? Intanto però ora toccava
ad altri. Nessuno di voi può descrivere le sensazioni che
abbiamo provato, la disperazione di donne che venivano
spogliate davanti agli uomini per cosa? Donne picchiate,
sottoposte a esperimenti sulla loro pelle, donne forti e donne
deboli. Volevano solo riabbracciare i loro piccoli, volevano
                             la loro dignità. E noi, gli uomini,
                             ci sentivamo schiacciati, con un
                             cuore fallito, erano in troppi e
                             non potevamo fare niente per le
                             nostre famiglie. Prima ci
                             permettevano di riabbracciarci,
poi non ho saputo più niente di mio figlio. Ho visto i
bambini, diventare numeri, disperarsi, morire. Come si fa a
sottoporre a tutto questo i bambini? Quanto può arrivare in
basso la mentalità umana? Maledetti. E’ stata quasi la morte
dove speravo di non arrivare mai. Intorno una cerchia di
soldati dallo sguardo dritto in un solo punto, mentre piccoli
piangevano e si inginocchiavano urlando con tutta quella
forza che ancora avevano, con la forza di chi non ce la fa
più, di un bambino che non diventerà uomo per il semplice
fatto di essere ebreo.

Tu, nazista, dov’è la tua sensibilità?

E poi quel maledetto giorno in cui ci hanno tagliato i capelli,
lo ricordo come fosse ieri, tutto è un ricordo di ieri. Ad
alcuni li strappavano, siamo persone anche noi, sai, nazista?
Il dolore, era quello che non sopportavo. Non volevo
soffrire per qualcosa che non avevo fatto!!!! I giorni
passavano e vedevo morire le persone, quelle più disperate.
Ci avevano tolto tutto, la dignità per me è tutto. Ero
diventato anoressico, ero diventato uguale agli altri: era la
cosa che mi faceva piangere più di tutte, uguali ma perché?
Non avevo più nessuna forza. Mi inginocchiavo ai loro
piedi. Ero pronto per morire anche io.

Un desiderio di riscatto, non c’era più.

HO ODIATO ESSERE EBREO, noi eravamo la “razza”
inferiore, inferiore a cosa? A chi? C’è un senso di inferiorità
nel cuore di quegli animali, perché si ricordano così, come
una grossa nube nera che ha intossicato migliaia e migliaia
di persone. Come un branco di insensibili ed è dir poco, che
hanno lasciato un segno indelebile, terribile nella storia, ma
soprattutto nei cuori di ebrei spogli. Sentire senza sosta la
voce di quegli assassini nella testa, tutte le immagini che mi
intrappolano la mente di pensieri, e la rabbia di essermi
sentito inferiore , sono riusciti a impossessarsi del mio
corpo, della mia mente.

Ero ancora giovane, mi hanno tolto la vita in quel momento;
il futuro. Come si può arrivare a tanto mi chiedo ora?
Eravamo nelle mani di uomini? Non posso pensare ai
bambini morti: avevano strappato il loro “domani”, bambini
sorridenti, ma solo prima di questo viaggio. Ci chiamavano,
li chiamavano “sporchi ebrei”... è questo il vostro essere
perfetti? Il RISPETTO, non c’è mai stato , ci consideravate
come degli oggetti, ma anche noi siamo persone con
un’anima, con un modo di pensare. E i bambini con quale
mentalità crescono?

Prima di questo viaggio, avevo insegnato a mio figlio a
lottare per ciò in cui credeva, gli avevo detto di non
ascoltare le voci degli altri, di essere forte. Ora non so dov’è,
spero ancora nel giorno in cui mi venga a bussare alla porta
                               e dire “Papà sono sano e salvo”.
                               Dovevo proteggerlo, penserà che
                               l’avrò abbandonato, chissà. Io
                               non l’ho abbandonato, io lo
                               porto nel cuore, voglio che lo
                               sappia. Piange ancora il mio
                               cuore, è il pianto di sempre, il
pianto che mi ha fatto perdere tutto. Ho odiato essere ebreo,
per colpa loro.

Sono sopravvissuto fisicamente, ma la mia anima non
sopravviverà mai. L’unica forza che mi rimane è far
conoscere al mondo intero questa fetta della storia così
piena di atrocità fatta dall’uomo sull’uomo. “
O bambino
                   Di Daniele Giustiniani




                    O bambino,
       tu che non hai mai avuto un'infanzia,
            tu che non hai mai giocato,
              ma hai sempre sofferto.


                     O bambino,
            mi hai fatto capire molte cose,
    mi hai fatto capire la crudeltà delle persone,
            che si sono arrabbiate con te,
                  senza un motivo,
             solo per il gusto di farlo...


                    Mi dispiace,
mi dispiace per la crudeltà a cui ti hanno sottoposto,
                    Mi dispiace.
Che orrore
             Di Marta Trinchieri




                 Che orrore,
              ci hanno derisi.
    Hanno calpestato la nostra dignità.
       Ci hanno trattato come bestie,
               forse peggio!

                 che orrore,
          ci hanno preso in giro,
         ci hanno strappato la vita
           nei modi più orrendi!
         ci hanno marchiato a vita!

                 che orrore,
hanno testato su di noi qualsiasi diavoleria.
     Per loro non eravamo esseri umani.
              Noi eravamo ebrei,
          degni solo di sofferenza!
che orrore,
è indescrivibile c'ho che sono stati capaci di fare!
             godevano nel massacrarci!
        i loro volti cinici e insofferenti,
         dimostravano l'odio verso di noi!

            Ad Auschwitz Dio non c'era!
          sfruttati, umiliati,calpestati.
               uccisi senza dignità
            bambole, ecco cosa eravamo!
       ad Auschwitz anche Dio ci abbandonò,
                      perchè?
Riflettendo oggi
                                  Di Flavia Mercuri



Il rispetto è figlio del sapere; la paura è figlia del non sapere.
Così inizio la mia riflessione, con un aforismo, perché se non si ha rispetto di
una persona o una cosa, non si può vivere.
Se si cerca sul vocabolario la parola rispetto si trova:
1. Sentimento di stima, di considerazione che si prova verso qualcuno.
2. Riconoscimento dei diritti di qualcuno.
Tutto ciò che dovrebbe accadere nel mondo. Tuttavia, anche se la vita ci
insegna che essere diversi è bello, ci sono persone che esprimono senza pudore
il loro non rispetto. Un esempio, Adolf Hitler che perseguitò ebrei, gruppi
etnici, sociali e politici. Riuscì a togliere all’uomo la dignità, il nome, i beni, gli
affetti, il rispetto, la vita.

Il proprio rispetto inizia quando finisce quello del prossimo.

                                 Rispetto...questa parola può anche essere vista
                                 come sinonimo di educazione: ai bambini, una
                                 delle prime cose che viene insegnata è, appunto,
                                 il rispetto, come nella poesia “I bambini
                                 imparano quello che vivono” in cui è scritto: “Se i
                                 bambini vivono con l’incoraggiamento imparano
                                 ad essere sicuri di se”.

                                Evitare di dare o fare agli altri ciò che non si
vorrebbe ricevere è un insegnamento molto antico e presente in più religioni.
Il rispetto è una forma di fiducia. Agire in modo corretto. Non intaccare la
libertà altrui.

Su internet, ho scritto: Cos’è il rispetto per te? Un uomo ha risposto: Se dico
tutti i miei pensieri ad una persona, significa che la rispetto, ovvero che la
ritengo intelligente e in grado di capirmi. Se mi reprimo e taccio, non è che
abbia tanta fiducia nelle sue capacità mentali". Allora mi chiedo: che rispetto è
quello di tacere, perché immagino che si risenta per un nonnulla
immaginandolo pieno di pregiudizi? Che rispetto è quello di non aprirsi
all'altro, ritenendolo inferiore?

Concludo scrivendo solamente RISPETTO, così, in stampato grande, perché
questa parola ne vale più di mille.
VI CHIEDO SCUSA…
                   di Guglielmo Ruggeri




Vi chiedo scusa,
per quello che vi hanno fatto,
perché vi hanno deportati,
perché vi hanno uccisi.


Vi chiedo scusa,
perché non hanno avuto rispetto di voi,
perché vi hanno trattato da popolo inferiore,
perché hanno distrutto i loro fratelli.


Vi chiedo scusa Ebrei,
perché gli europei non sapevano quello che facevano..
Come ogni sera
                Di Elisa Carrarini e Costanza Testa


Come ogni sera, tornavo dalla mia passeggiata pomeridiana.
L’aria fresca era rilassante, rigenerava i miei sensi. Infilavo la
chiave nella serratura e giravo due volte, per evitare che
qualcuno rubasse quelle ultime cose che mi erano rimaste, dopo
essermi spogliata della mia dignità. Non avevo più nulla ormai.

La casa era vuota, cupa. Forse era la mia immaginazione, ma
cominciavo ad udire voci straniere; percepivo un odore
sgradevole di morte; il gelo colpiva improvvisamente il mio
gracile e,ormai, attempato corpo; sentivo sulla lingua l’amara
paura di quegli interminabili anni che sembravano secoli. Non
potevo permettermi di ricordare, il mio cuore non avrebbe
sopportato tutta quella sofferenza. Con un rapido gesto
accendevo la luce. E di colpo tutte quelle sensazioni svanivano nel
nulla.

                         Come ogni sera, alle sette in punto,
                         preparavo la mia cena e mangiavo,
                         come non avessi mai mangiato.
                         Ringraziavo il Signore del pane che,
anche quella sera, mi aveva donato.

Ma, nella mia lunga e interminabile vita, c’erano stati dei giorni in
cui di pane non ne avevo neanche una briciola. Quei giorni che
hanno reso la mia lunga e interminabile vita senza senso.

Come ogni sera, infilavo il mio caldo pigiama notando,in ogni
minimo dettaglio, che la mia pelle era sempre più secca e
raggrinzita. Un segno della mia sofferenza, ormai sfocato, era
ancora impresso sul braccio destro, oltre che nella mia
anima…ma che dico?!? Io un’anima non ce l’ho più, mi è stata
rubata tanti anni fa.

Quel numero, quelle lettere, tanti significati, tanti ricordi, tanto
dolore. Si, è stampato ancora nella mia mente.

A156B8.

Cosi mi chiamavano ad Auschwitz. Non avevo più un nome,
un’identità, una diversità. Ero diventata una delle tante. Avevo lo
stesso pensiero, la stessa bellezza, le stesse abitudini di tutte le
mie compagne della baracca numero 8.
Quel giorno, quel maledetto giorno, ci presero con la forza,
costringendoci a lasciare le nostre adorate case. Ci permisero
anche di preparare una valigia, come se fossimo diretti in luogo di
vacanza.
Ma non era cosi.

Ci fecero salire su un carro. Eravamo stretti, quasi non si
respirava. Non sapevamo quale fosse il nostro destino.

Il viaggio durò sei giorni. Alcuni dei
miei compagni di viaggio, non
sopravvissero a lungo. Non ci
diedero cibo né acqua. Eravamo
trattati come bestie, anzi, le bestie
erano trattate meglio di noi. Ci costringevano a lottare per avere
una goccia di acqua in più per dissetarci. Ci costringevano ad
odiarci.

Le porte si aprirono. Scesi da quella specie di carro per bestiame
e cominciai a guardarmi intorno. Mi convinsi del tutto che non
era un luogo di vacanza. No, non lo era affatto.

Il cielo era grigio, neanche il sole aveva il coraggio di guardare con
i suoi occhi quello che vedevo io. Dalle ciminiere usciva un fumo
nero, di cui percepivo l’odore in lontananza. Udivo le voci di
soldati che parlavano in tedesco. Ordinavano agli altri deportati
di darsi una mossa, o forse parlavano a me, ma non me ne
curavo. Ero intenta ad osservare, a bocca aperta quello che
sarebbe stato il mio inferno. Non c'era un filo d’erba, un fiore, un
arbusto per abbellire un simile panorama. Quale sarebbe stato il
mio destino? Come sarei uscita da quell’incubo? In quale modo
sarei riuscita a sopravvivere? L’unica cosa che in quel momento
riuscii a pensare era “Dov’è la mia casa? Dove sono i miei cari?
Dov’è la natura, la vita? Non c’è nessuno qui ad aiutarmi. Voglio
morire!”

                         Mi separarono da mio marito e dai miei figli.
                         Non sapevo dove fossero diretti, non
                         riuscivo a chiedere ai soldati se fossero
                         morti. Volevo continuare a sperare di
                         rivederli, dopotutto la speranza è sempre
                         l’ultima a morire. Se avessi visto i loro corpi
                         bruciare non sarei riuscita a sopravvivere.
                         Ci tolsero con la forza le nostre valigie e
presero anche i nostri vestiti. Ci fecero indossare un’uniforme
bianca a strisce grigie. Si appropriarono di tutti i nostri beni. Non
avevamo più nulla. Ci rasarono tutti i capelli. Ci toglievano la
libertà, la dignità, la vita.

Cos’è che avevamo fatto di male a queste persone, noi ebrei?
Qual era il motivo di tanta crudeltà? Avevamo forse peccato
contro i signori d’Europa? No, cercavano solo un pretesto per il
loro fallimento. Quegli uomini erano solo dei vigliacchi. Forse noi
ebrei puzzolenti avevamo distrutto qualche piano europeo?
Eravamo così d’intralcio per la società?

I giorni passavano e, nel giro di una settimana, molte compagne
andavano al lavoro senza più tornare. Le speranze di riavere la
nostra vita diminuivano giorno dopo giorno.
Dovevo, in qualche modo uscire da quell’orrore che stavo
vivendo. Dovevo testimoniare la tragica vita ad Auschwitz.
Dovevo sopravvivere.
Una o due volte a settimana ci dividevano in gruppi, uomini e
donne, conducendoci nello studio del Dottor Mengele, che
selezionava le donne che erano ancora in grado di lavorare. Senza
esitazioni spediva tutte le altre nelle camere a gas o nei forni
crematori.

Dalle ciminiere si levavano
incessantemente colonne di
fumo nero. Evidentemente
Mengele provava divertimento e
piacere nel vedere con i suoi
occhi persone che bruciavano
vive.

Pur vivendo in un incubo, volevo continuare a vivere. Tutti
volevano vivere. Per non essere considerate inutili e senza forze
in quel maledetto campo che tutti, ormai, conoscevano come
“Campo di sterminio”, ci tingevamo il viso pallido e smilzo con
gocce di sangue che fuoriusciva dai tagli che ci procuravamo sulle
dita per apparire più colorite.
Le notti all’interno della baracca non passavano mai. Sembrava
che il tempo si fermasse. In quelle notti d’inverno, la temperatura
arrivava tranquillamente sotto lo 0. La mia migliore amica Goti
mori. Non sapevo più con chi parlare, con chi scaldarmi durante
la notte. Nei “letti” spesso dormivamo in tre o in quattro persone,
per riuscire a superare la dura e interminabile notte. Il gelo
passava attraverso le fessure della porta, penetrandomi nelle
vene.
Quel gelo, ancora oggi, scorre nel mio sangue e mi perfora il
cuore quando ripenso al mio atroce passato.

Come ogni sera, mi rintanavo nel mio letto caldo. Pregavo il
Signore di passare una notte tranquilla senza gli incubi che ogni
notte infestavano la mia mente. Spegnevo la luce e speravo di
svegliarmi anche l’indomani mattina.
Ricordo
       Di Tiberio Carp




          Ricordo
       quel periodo
       di sofferenza
       di disprezzo
da parte di esseri come noi
       nostri fratelli


           Ricordo
  momenti di solitudine
       per aver perso
           la casa
         la famiglia
 e il nostro esser persona


           Ricordo
         i miei cari
 entrar uomini dalla porta
    della camera a gas
uscire poi fumo dal camino
dei forni
volando verso quel dio che non li aiutò


               Ricordo
        le urla dei bambini
     che col cuor pieno di paura
       cercano la loro madre
           la mano dolce
            che li coccolò
          che li abbracciò
    e che gli diede una speranza
              RICORDO
Lettera dal passato
                       Di Ilaria Tolomei
Cara professoressa,
le scrivo per raccontarle un viaggio verso il male che vorrei
non fosse mai accaduto. Un viaggio che per un ragazzo come
me sarebbe il peggiore degli incubi. Non è come vedere un
film pauroso con gli amici o con chiunque altro. E’ un film
che si vive veramente. Porterò sempre con me un dolore che
mi avvolge l’anima. Essendo un ragazzo, non mi sarei mai
aspettato dove mi avrebbero portato. Mi ricordo ancora le
parole di mia madre: - Non preoccuparti, andiamo solo un po’
di giorni via, via di qui.
Non ero sicuro che dicesse la verità, ma zitto e con lo sguardo
pieno di lacrime, la abbracciai. Era una situazione mai
accaduta prima, almeno per me. Ero abituato ad andare a
scuola con i miei amici, il pomeriggio tornare a casa e fare
subito i compiti e poi.. Via! A giocare di fuori con mia sorella.
Facevamo di tutto, cose tra fratelli. Eravamo tutti, ma proprio
tutti. E’ impossibile che non mi abbiano mai detto di questo
viaggio, eppure sono abbastanza grande per capire certe
                             situazioni. C’era qualcosa che non
                             quadrava… Forse il papà avrà
                             avuto qualche problema con il
                             lavoro, ma no, che dico! Se
                             saremmo andati a fare una
                             vacanza ce lo avrebbero detto e,
magari, avremmo deciso insieme dove andare. Eravamo in
una delle tante carrozze del treno, un treno che trasportava
animali, bestie. Noi non siamo mica bestie. C’erano troppe
persone in quella carrozza. Tutti piangevano, si lamentavano
e urlavano.
Cominciai a capire che non stavamo affatto andando in
vacanza. Era impossibile. Chi va in vacanza guarda sempre
fuori dal finestrino con l’ansia di arrivare il prima possibile,
oppure chiede in continuazione ai genitori quanto mancasse
per poter arrivare. Questa non è una vacanza, è un incubo.
Passavano le ore e nelle piccole finestre, la luce del sole era
sempre più fioca, fino a scomparire. Una voce urlò: -Siamo
arrivati!
Le porte si aprirono e la gente
cominciava a scendere dal treno.
Gli anziani non riuscivano a
scendere, perché era troppo
alto, allora questi uomini con la
divisa li spingevano, facendoli
cadere per terra. Perché mai portare dei ragazzi in questo
posto? Pensavo continuamente che ci avrebbero fatto
studiare da pazzi, o magari, saremmo stati i loro servi. Non
vedevo scuole, non vedevo case, ma soltanto baracche e
un’altissima rete spinata. A cosa serviva? Per non far scappare
chi o cosa? Era una gabbia, di sicuro. Un faro era puntato
contro di noi accecandoci gli occhi. Stavano dividendo i figli
dalle madri, gli uomini dalle donne. Non volevo separarmi da
mia madre. Per ora non c’era da preoccuparsi, c’era mia
sorella con me. Uomini, donne e anziani venivano fatti
spogliare e portati in una grande stanza. I soldati li
rassicuravano dicendo che era soltanto una doccia. Non c’era
cosa peggiore di questa. Cominciavano ad urlare, cercando di
fuggire, ma i soldati gli puntavano contro il fucile,
costringendoli ad entrare nella doccia. Era l’ultima volta che
vidi mia madre. Mio padre lo vedevo lavorare, stanco non ce
la faceva più. Doveva fingere di star bene, altrimenti sarebbe
morto anche lui. Mia sorella ed io eravamo rinchiusi in una
baracca insieme ad altri bambini.
Avevo visto la morte. I bambini
piccoli venivano fatti uccidere,
perché non avrebbero avuto la
forza per lavorare. Mia sorella
piangeva, ma la rassicuravo
dicendole che un giorno saremmo scappati, oppure che
qualcuno ci avrebbe salvato. Avevamo dei vestiti puzzolenti,
sporchi e rigati di bianco e di celeste. Sul braccio avevamo un
numero strano, un tatuaggio. Alcuni soldati ci portavano del
brodo. Uno per pranzo e uno per cena. Mia sorella ed io
eravamo costretti lavorare come tutti gli adulti, presto ci
avrebbero ucciso. Una sera uscii per andare a prendere
dell’acqua. Dovevo stare attento. Se mi avrebbero preso, cosa
sarebbe successo? Mi avrebbero ucciso con un colpo di
fucile? Riuscii ad arrivare sano e salvo alla baracca. Mentre
tornavo con il secchio pieno d’acqua sentii un odore alquanto
strano. Una fossa piena di calce e con persone morte. Non
avrei voluto vederlo. Il mio cuore mi usciva fuori dal petto, il
mio respiro sempre più affannato. Ad un tratto vidi un
qualcosa di strano, forse la libertà. Mi avvicinai sempre di più
e vidi un buco nel filo spinato. Andava oltre il campo di
lavoro. Il secchio cadde e mi bagnai i piedi, ma subito corsi da
mia sorella. Con le lacrime negli occhi la portai con me e così
riuscimmo ad essere liberi per sempre.
Non so come sono riuscito a ricordare questo, eppure l’ho
fatto. Non tornerò mai più in Italia, forse per un saluto a lei e
ai miei compagni. Resterò ad abitare da mia zia, sperando che
lei ci cresca come una madre. Spero che riuscirai ad avere
questa lettera e a capire quanto dolore ho provato a perdere
mia madre. La mia richiesta è: aiuta i miei compagni a
diventare dei veri esseri umani. La lettura, la scrittura,
l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere le
persone più umane.
“Quel che ora penso veramente è che il male non è
        mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non
            possegga né profondità né una dimensione
  demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo
    intero, perché si espande sulla superficie come un
fungo. Esso ’sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il
pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare
       alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è
     frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua
       ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere
                                              radicale”.


  Hannah Arendt (1906-1975), “La banalità del male”
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Giorno della memoria

  • 1. Noi non dimentichiamo Giornata della Memoria 27 Gennaio 2012 Classe IIIa a.s. 2011-12 Istituto Comprensivo “San Vito Romano”
  • 2. “Auschwitz non è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea”. Primo Levi da “L’asimmetria e la vita”
  • 3. Quelle che state per leggere sono le riflessioni che noi, ragazzi di IIIa, abbiamo scritto dopo aver commemorato la Giornata della Memoria: letture, video, fotografie, musiche, tutto ci è servito per ricordare il dolore che è stato e che è segnato nella storia. Qualcuno di noi si è immedesimato in un deportato, provando sulla propria pelle le sofferenze e le umiliazione fino ad allora solo lette o viste; qualcun altro ha scritto delle riflessioni; altri tra noi hanno dato voce ai loro sentimenti coi versi di poesie; altri infine…hanno chiesto scusa. A voi, lettori e a noi, scrittori: perché ri-cordiamo, riportiamo al cuore il senso profondo e sacro della dignità umana I ragazzi di IIIA
  • 4. Ho compiuto un viaggio Di Cecilia Bernardini “Ho compiuto un viaggio una volta, non era ciò che esattamente mi aspettavo. E’ stata una corsa contro il tempo, giorno dopo giorno. Mi avevano detto che mi avrebbero portato in un posto perfetto, rispettava tutte le mie aspettative da come me lo descrivevano così con le valigie piene di ricordi, sono andato. In questo viaggio eravamo tanti, ci chiedevamo ansiosi dove saremmo arrivati. Strano, non capivo, alcuni non volevano partire, ma venivano fatti salire a forza, con la forza di uomini armati, con un grosso casco sopra la testa e urlavano e il loro urlo ancora lo ricordo, è rimasto come un mal di testa che non vuole lasciarmi, come una melodia forte e incancellabile. I bambini, le famiglie che venivano addirittura prese a calci, con tanta violenza e i pianti, quelli a gran voce di quelli più piccoli e deboli che esprimevano tutto il loro dolore e la loro voglia di scappare, eppure era solo un
  • 5. viaggio, perché portavano tutti? L’idea che mi ero fatto stava pian piano perdendo il suo valore, quando davanti ai miei occhi sconcertati ho visto un alto palo, no anzi tantissimi pali cui erano legati fili spinati, sembrava una gabbia, una maledetta gabbia che ha portato via nel vento migliaia di uomini. Ora era arrivato il mio turno come quello di tanti altri bambini e uomini e donne mai più liberi, l’avevo capito, ho odiato essere un ebreo. Volevo solo avventurarmi nel viaggio di cui mi avevano parlato insieme a mio figlio, e invece è stato un incubo, da cui credo che non mi risveglierò più. Ho visto la morte. Una volta ho visto una donna con una bambina di quattro anni, o forse più piccola, essere divise: la donna cercava di liberarsi dalla forza dei soldati per raggiungere la piccola che piangeva spaesata con il suo orsetto in mano. Urlava il nome della mamma, mentre cadeva a terra, sfinita dal pianto esattamente come era successo con mio figlio. Lo avevano fatto con la rabbia, la stessa rabbia che aveva accatastato morte persone come me, colpevoli...colpevoli di cosa? di essere innocenti? Di essere come siamo, meno perfetti? Ma chi di voi è perfetto? Intanto però ora toccava ad altri. Nessuno di voi può descrivere le sensazioni che abbiamo provato, la disperazione di donne che venivano
  • 6. spogliate davanti agli uomini per cosa? Donne picchiate, sottoposte a esperimenti sulla loro pelle, donne forti e donne deboli. Volevano solo riabbracciare i loro piccoli, volevano la loro dignità. E noi, gli uomini, ci sentivamo schiacciati, con un cuore fallito, erano in troppi e non potevamo fare niente per le nostre famiglie. Prima ci permettevano di riabbracciarci, poi non ho saputo più niente di mio figlio. Ho visto i bambini, diventare numeri, disperarsi, morire. Come si fa a sottoporre a tutto questo i bambini? Quanto può arrivare in basso la mentalità umana? Maledetti. E’ stata quasi la morte dove speravo di non arrivare mai. Intorno una cerchia di soldati dallo sguardo dritto in un solo punto, mentre piccoli piangevano e si inginocchiavano urlando con tutta quella forza che ancora avevano, con la forza di chi non ce la fa più, di un bambino che non diventerà uomo per il semplice fatto di essere ebreo. Tu, nazista, dov’è la tua sensibilità? E poi quel maledetto giorno in cui ci hanno tagliato i capelli, lo ricordo come fosse ieri, tutto è un ricordo di ieri. Ad alcuni li strappavano, siamo persone anche noi, sai, nazista? Il dolore, era quello che non sopportavo. Non volevo soffrire per qualcosa che non avevo fatto!!!! I giorni
  • 7. passavano e vedevo morire le persone, quelle più disperate. Ci avevano tolto tutto, la dignità per me è tutto. Ero diventato anoressico, ero diventato uguale agli altri: era la cosa che mi faceva piangere più di tutte, uguali ma perché? Non avevo più nessuna forza. Mi inginocchiavo ai loro piedi. Ero pronto per morire anche io. Un desiderio di riscatto, non c’era più. HO ODIATO ESSERE EBREO, noi eravamo la “razza” inferiore, inferiore a cosa? A chi? C’è un senso di inferiorità nel cuore di quegli animali, perché si ricordano così, come una grossa nube nera che ha intossicato migliaia e migliaia di persone. Come un branco di insensibili ed è dir poco, che hanno lasciato un segno indelebile, terribile nella storia, ma soprattutto nei cuori di ebrei spogli. Sentire senza sosta la voce di quegli assassini nella testa, tutte le immagini che mi intrappolano la mente di pensieri, e la rabbia di essermi sentito inferiore , sono riusciti a impossessarsi del mio corpo, della mia mente. Ero ancora giovane, mi hanno tolto la vita in quel momento; il futuro. Come si può arrivare a tanto mi chiedo ora? Eravamo nelle mani di uomini? Non posso pensare ai bambini morti: avevano strappato il loro “domani”, bambini sorridenti, ma solo prima di questo viaggio. Ci chiamavano, li chiamavano “sporchi ebrei”... è questo il vostro essere
  • 8. perfetti? Il RISPETTO, non c’è mai stato , ci consideravate come degli oggetti, ma anche noi siamo persone con un’anima, con un modo di pensare. E i bambini con quale mentalità crescono? Prima di questo viaggio, avevo insegnato a mio figlio a lottare per ciò in cui credeva, gli avevo detto di non ascoltare le voci degli altri, di essere forte. Ora non so dov’è, spero ancora nel giorno in cui mi venga a bussare alla porta e dire “Papà sono sano e salvo”. Dovevo proteggerlo, penserà che l’avrò abbandonato, chissà. Io non l’ho abbandonato, io lo porto nel cuore, voglio che lo sappia. Piange ancora il mio cuore, è il pianto di sempre, il pianto che mi ha fatto perdere tutto. Ho odiato essere ebreo, per colpa loro. Sono sopravvissuto fisicamente, ma la mia anima non sopravviverà mai. L’unica forza che mi rimane è far conoscere al mondo intero questa fetta della storia così piena di atrocità fatta dall’uomo sull’uomo. “
  • 9. O bambino Di Daniele Giustiniani O bambino, tu che non hai mai avuto un'infanzia, tu che non hai mai giocato, ma hai sempre sofferto. O bambino, mi hai fatto capire molte cose, mi hai fatto capire la crudeltà delle persone, che si sono arrabbiate con te, senza un motivo, solo per il gusto di farlo... Mi dispiace, mi dispiace per la crudeltà a cui ti hanno sottoposto, Mi dispiace.
  • 10. Che orrore Di Marta Trinchieri Che orrore, ci hanno derisi. Hanno calpestato la nostra dignità. Ci hanno trattato come bestie, forse peggio! che orrore, ci hanno preso in giro, ci hanno strappato la vita nei modi più orrendi! ci hanno marchiato a vita! che orrore, hanno testato su di noi qualsiasi diavoleria. Per loro non eravamo esseri umani. Noi eravamo ebrei, degni solo di sofferenza!
  • 11. che orrore, è indescrivibile c'ho che sono stati capaci di fare! godevano nel massacrarci! i loro volti cinici e insofferenti, dimostravano l'odio verso di noi! Ad Auschwitz Dio non c'era! sfruttati, umiliati,calpestati. uccisi senza dignità bambole, ecco cosa eravamo! ad Auschwitz anche Dio ci abbandonò, perchè?
  • 12. Riflettendo oggi Di Flavia Mercuri Il rispetto è figlio del sapere; la paura è figlia del non sapere. Così inizio la mia riflessione, con un aforismo, perché se non si ha rispetto di una persona o una cosa, non si può vivere. Se si cerca sul vocabolario la parola rispetto si trova: 1. Sentimento di stima, di considerazione che si prova verso qualcuno. 2. Riconoscimento dei diritti di qualcuno. Tutto ciò che dovrebbe accadere nel mondo. Tuttavia, anche se la vita ci insegna che essere diversi è bello, ci sono persone che esprimono senza pudore il loro non rispetto. Un esempio, Adolf Hitler che perseguitò ebrei, gruppi etnici, sociali e politici. Riuscì a togliere all’uomo la dignità, il nome, i beni, gli affetti, il rispetto, la vita. Il proprio rispetto inizia quando finisce quello del prossimo. Rispetto...questa parola può anche essere vista come sinonimo di educazione: ai bambini, una delle prime cose che viene insegnata è, appunto, il rispetto, come nella poesia “I bambini imparano quello che vivono” in cui è scritto: “Se i bambini vivono con l’incoraggiamento imparano ad essere sicuri di se”. Evitare di dare o fare agli altri ciò che non si vorrebbe ricevere è un insegnamento molto antico e presente in più religioni. Il rispetto è una forma di fiducia. Agire in modo corretto. Non intaccare la libertà altrui. Su internet, ho scritto: Cos’è il rispetto per te? Un uomo ha risposto: Se dico tutti i miei pensieri ad una persona, significa che la rispetto, ovvero che la ritengo intelligente e in grado di capirmi. Se mi reprimo e taccio, non è che
  • 13. abbia tanta fiducia nelle sue capacità mentali". Allora mi chiedo: che rispetto è quello di tacere, perché immagino che si risenta per un nonnulla immaginandolo pieno di pregiudizi? Che rispetto è quello di non aprirsi all'altro, ritenendolo inferiore? Concludo scrivendo solamente RISPETTO, così, in stampato grande, perché questa parola ne vale più di mille.
  • 14. VI CHIEDO SCUSA… di Guglielmo Ruggeri Vi chiedo scusa, per quello che vi hanno fatto, perché vi hanno deportati, perché vi hanno uccisi. Vi chiedo scusa, perché non hanno avuto rispetto di voi, perché vi hanno trattato da popolo inferiore, perché hanno distrutto i loro fratelli. Vi chiedo scusa Ebrei, perché gli europei non sapevano quello che facevano..
  • 15. Come ogni sera Di Elisa Carrarini e Costanza Testa Come ogni sera, tornavo dalla mia passeggiata pomeridiana. L’aria fresca era rilassante, rigenerava i miei sensi. Infilavo la chiave nella serratura e giravo due volte, per evitare che qualcuno rubasse quelle ultime cose che mi erano rimaste, dopo essermi spogliata della mia dignità. Non avevo più nulla ormai. La casa era vuota, cupa. Forse era la mia immaginazione, ma cominciavo ad udire voci straniere; percepivo un odore sgradevole di morte; il gelo colpiva improvvisamente il mio gracile e,ormai, attempato corpo; sentivo sulla lingua l’amara paura di quegli interminabili anni che sembravano secoli. Non potevo permettermi di ricordare, il mio cuore non avrebbe sopportato tutta quella sofferenza. Con un rapido gesto accendevo la luce. E di colpo tutte quelle sensazioni svanivano nel nulla. Come ogni sera, alle sette in punto, preparavo la mia cena e mangiavo, come non avessi mai mangiato. Ringraziavo il Signore del pane che,
  • 16. anche quella sera, mi aveva donato. Ma, nella mia lunga e interminabile vita, c’erano stati dei giorni in cui di pane non ne avevo neanche una briciola. Quei giorni che hanno reso la mia lunga e interminabile vita senza senso. Come ogni sera, infilavo il mio caldo pigiama notando,in ogni minimo dettaglio, che la mia pelle era sempre più secca e raggrinzita. Un segno della mia sofferenza, ormai sfocato, era ancora impresso sul braccio destro, oltre che nella mia anima…ma che dico?!? Io un’anima non ce l’ho più, mi è stata rubata tanti anni fa. Quel numero, quelle lettere, tanti significati, tanti ricordi, tanto dolore. Si, è stampato ancora nella mia mente. A156B8. Cosi mi chiamavano ad Auschwitz. Non avevo più un nome, un’identità, una diversità. Ero diventata una delle tante. Avevo lo stesso pensiero, la stessa bellezza, le stesse abitudini di tutte le mie compagne della baracca numero 8. Quel giorno, quel maledetto giorno, ci presero con la forza, costringendoci a lasciare le nostre adorate case. Ci permisero anche di preparare una valigia, come se fossimo diretti in luogo di vacanza.
  • 17. Ma non era cosi. Ci fecero salire su un carro. Eravamo stretti, quasi non si respirava. Non sapevamo quale fosse il nostro destino. Il viaggio durò sei giorni. Alcuni dei miei compagni di viaggio, non sopravvissero a lungo. Non ci diedero cibo né acqua. Eravamo trattati come bestie, anzi, le bestie erano trattate meglio di noi. Ci costringevano a lottare per avere una goccia di acqua in più per dissetarci. Ci costringevano ad odiarci. Le porte si aprirono. Scesi da quella specie di carro per bestiame e cominciai a guardarmi intorno. Mi convinsi del tutto che non era un luogo di vacanza. No, non lo era affatto. Il cielo era grigio, neanche il sole aveva il coraggio di guardare con i suoi occhi quello che vedevo io. Dalle ciminiere usciva un fumo nero, di cui percepivo l’odore in lontananza. Udivo le voci di soldati che parlavano in tedesco. Ordinavano agli altri deportati di darsi una mossa, o forse parlavano a me, ma non me ne curavo. Ero intenta ad osservare, a bocca aperta quello che sarebbe stato il mio inferno. Non c'era un filo d’erba, un fiore, un arbusto per abbellire un simile panorama. Quale sarebbe stato il mio destino? Come sarei uscita da quell’incubo? In quale modo sarei riuscita a sopravvivere? L’unica cosa che in quel momento
  • 18. riuscii a pensare era “Dov’è la mia casa? Dove sono i miei cari? Dov’è la natura, la vita? Non c’è nessuno qui ad aiutarmi. Voglio morire!” Mi separarono da mio marito e dai miei figli. Non sapevo dove fossero diretti, non riuscivo a chiedere ai soldati se fossero morti. Volevo continuare a sperare di rivederli, dopotutto la speranza è sempre l’ultima a morire. Se avessi visto i loro corpi bruciare non sarei riuscita a sopravvivere. Ci tolsero con la forza le nostre valigie e presero anche i nostri vestiti. Ci fecero indossare un’uniforme bianca a strisce grigie. Si appropriarono di tutti i nostri beni. Non avevamo più nulla. Ci rasarono tutti i capelli. Ci toglievano la libertà, la dignità, la vita. Cos’è che avevamo fatto di male a queste persone, noi ebrei? Qual era il motivo di tanta crudeltà? Avevamo forse peccato contro i signori d’Europa? No, cercavano solo un pretesto per il loro fallimento. Quegli uomini erano solo dei vigliacchi. Forse noi ebrei puzzolenti avevamo distrutto qualche piano europeo? Eravamo così d’intralcio per la società? I giorni passavano e, nel giro di una settimana, molte compagne andavano al lavoro senza più tornare. Le speranze di riavere la nostra vita diminuivano giorno dopo giorno.
  • 19. Dovevo, in qualche modo uscire da quell’orrore che stavo vivendo. Dovevo testimoniare la tragica vita ad Auschwitz. Dovevo sopravvivere. Una o due volte a settimana ci dividevano in gruppi, uomini e donne, conducendoci nello studio del Dottor Mengele, che selezionava le donne che erano ancora in grado di lavorare. Senza esitazioni spediva tutte le altre nelle camere a gas o nei forni crematori. Dalle ciminiere si levavano incessantemente colonne di fumo nero. Evidentemente Mengele provava divertimento e piacere nel vedere con i suoi occhi persone che bruciavano vive. Pur vivendo in un incubo, volevo continuare a vivere. Tutti volevano vivere. Per non essere considerate inutili e senza forze in quel maledetto campo che tutti, ormai, conoscevano come “Campo di sterminio”, ci tingevamo il viso pallido e smilzo con gocce di sangue che fuoriusciva dai tagli che ci procuravamo sulle dita per apparire più colorite. Le notti all’interno della baracca non passavano mai. Sembrava che il tempo si fermasse. In quelle notti d’inverno, la temperatura arrivava tranquillamente sotto lo 0. La mia migliore amica Goti mori. Non sapevo più con chi parlare, con chi scaldarmi durante la notte. Nei “letti” spesso dormivamo in tre o in quattro persone,
  • 20. per riuscire a superare la dura e interminabile notte. Il gelo passava attraverso le fessure della porta, penetrandomi nelle vene. Quel gelo, ancora oggi, scorre nel mio sangue e mi perfora il cuore quando ripenso al mio atroce passato. Come ogni sera, mi rintanavo nel mio letto caldo. Pregavo il Signore di passare una notte tranquilla senza gli incubi che ogni notte infestavano la mia mente. Spegnevo la luce e speravo di svegliarmi anche l’indomani mattina.
  • 21. Ricordo Di Tiberio Carp Ricordo quel periodo di sofferenza di disprezzo da parte di esseri come noi nostri fratelli Ricordo momenti di solitudine per aver perso la casa la famiglia e il nostro esser persona Ricordo i miei cari entrar uomini dalla porta della camera a gas uscire poi fumo dal camino
  • 22. dei forni volando verso quel dio che non li aiutò Ricordo le urla dei bambini che col cuor pieno di paura cercano la loro madre la mano dolce che li coccolò che li abbracciò e che gli diede una speranza RICORDO
  • 23. Lettera dal passato Di Ilaria Tolomei Cara professoressa, le scrivo per raccontarle un viaggio verso il male che vorrei non fosse mai accaduto. Un viaggio che per un ragazzo come me sarebbe il peggiore degli incubi. Non è come vedere un film pauroso con gli amici o con chiunque altro. E’ un film che si vive veramente. Porterò sempre con me un dolore che mi avvolge l’anima. Essendo un ragazzo, non mi sarei mai aspettato dove mi avrebbero portato. Mi ricordo ancora le parole di mia madre: - Non preoccuparti, andiamo solo un po’ di giorni via, via di qui. Non ero sicuro che dicesse la verità, ma zitto e con lo sguardo pieno di lacrime, la abbracciai. Era una situazione mai accaduta prima, almeno per me. Ero abituato ad andare a scuola con i miei amici, il pomeriggio tornare a casa e fare subito i compiti e poi.. Via! A giocare di fuori con mia sorella. Facevamo di tutto, cose tra fratelli. Eravamo tutti, ma proprio tutti. E’ impossibile che non mi abbiano mai detto di questo viaggio, eppure sono abbastanza grande per capire certe situazioni. C’era qualcosa che non quadrava… Forse il papà avrà avuto qualche problema con il lavoro, ma no, che dico! Se saremmo andati a fare una vacanza ce lo avrebbero detto e,
  • 24. magari, avremmo deciso insieme dove andare. Eravamo in una delle tante carrozze del treno, un treno che trasportava animali, bestie. Noi non siamo mica bestie. C’erano troppe persone in quella carrozza. Tutti piangevano, si lamentavano e urlavano. Cominciai a capire che non stavamo affatto andando in vacanza. Era impossibile. Chi va in vacanza guarda sempre fuori dal finestrino con l’ansia di arrivare il prima possibile, oppure chiede in continuazione ai genitori quanto mancasse per poter arrivare. Questa non è una vacanza, è un incubo. Passavano le ore e nelle piccole finestre, la luce del sole era sempre più fioca, fino a scomparire. Una voce urlò: -Siamo arrivati! Le porte si aprirono e la gente cominciava a scendere dal treno. Gli anziani non riuscivano a scendere, perché era troppo alto, allora questi uomini con la divisa li spingevano, facendoli cadere per terra. Perché mai portare dei ragazzi in questo posto? Pensavo continuamente che ci avrebbero fatto studiare da pazzi, o magari, saremmo stati i loro servi. Non vedevo scuole, non vedevo case, ma soltanto baracche e un’altissima rete spinata. A cosa serviva? Per non far scappare chi o cosa? Era una gabbia, di sicuro. Un faro era puntato contro di noi accecandoci gli occhi. Stavano dividendo i figli dalle madri, gli uomini dalle donne. Non volevo separarmi da mia madre. Per ora non c’era da preoccuparsi, c’era mia
  • 25. sorella con me. Uomini, donne e anziani venivano fatti spogliare e portati in una grande stanza. I soldati li rassicuravano dicendo che era soltanto una doccia. Non c’era cosa peggiore di questa. Cominciavano ad urlare, cercando di fuggire, ma i soldati gli puntavano contro il fucile, costringendoli ad entrare nella doccia. Era l’ultima volta che vidi mia madre. Mio padre lo vedevo lavorare, stanco non ce la faceva più. Doveva fingere di star bene, altrimenti sarebbe morto anche lui. Mia sorella ed io eravamo rinchiusi in una baracca insieme ad altri bambini. Avevo visto la morte. I bambini piccoli venivano fatti uccidere, perché non avrebbero avuto la forza per lavorare. Mia sorella piangeva, ma la rassicuravo dicendole che un giorno saremmo scappati, oppure che qualcuno ci avrebbe salvato. Avevamo dei vestiti puzzolenti, sporchi e rigati di bianco e di celeste. Sul braccio avevamo un numero strano, un tatuaggio. Alcuni soldati ci portavano del brodo. Uno per pranzo e uno per cena. Mia sorella ed io eravamo costretti lavorare come tutti gli adulti, presto ci avrebbero ucciso. Una sera uscii per andare a prendere dell’acqua. Dovevo stare attento. Se mi avrebbero preso, cosa sarebbe successo? Mi avrebbero ucciso con un colpo di fucile? Riuscii ad arrivare sano e salvo alla baracca. Mentre tornavo con il secchio pieno d’acqua sentii un odore alquanto strano. Una fossa piena di calce e con persone morte. Non avrei voluto vederlo. Il mio cuore mi usciva fuori dal petto, il
  • 26. mio respiro sempre più affannato. Ad un tratto vidi un qualcosa di strano, forse la libertà. Mi avvicinai sempre di più e vidi un buco nel filo spinato. Andava oltre il campo di lavoro. Il secchio cadde e mi bagnai i piedi, ma subito corsi da mia sorella. Con le lacrime negli occhi la portai con me e così riuscimmo ad essere liberi per sempre. Non so come sono riuscito a ricordare questo, eppure l’ho fatto. Non tornerò mai più in Italia, forse per un saluto a lei e ai miei compagni. Resterò ad abitare da mia zia, sperando che lei ci cresca come una madre. Spero che riuscirai ad avere questa lettera e a capire quanto dolore ho provato a perdere mia madre. La mia richiesta è: aiuta i miei compagni a diventare dei veri esseri umani. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere le persone più umane.
  • 27. “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ’sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”. Hannah Arendt (1906-1975), “La banalità del male”