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Giovanna Storie 
LA FATA 
DI FERRO 
Racconto Erotico 
Un grazie affettuoso alla mia amica " Principessa" 
che ha voluto donarci questa storia 
e grazie anche al maestro Mishima 
e alla sua infinita pazienza. 
Questa è una storia vera, interpretata con un pizzico di fantasia.
Una ragazza è sempre un mistero: 
non c'è che affidarsi al suo viso e all'ispirazione del proprio cuore. 
E. De Amicis 
C’era una volta una giovane principessa, il suo nome era Alba. 
Un giorno il re e la regina, suoi genitori, decisero che il piccolo reame che il buon Dio 
aveva riservato loro, era troppo angusto e il denaro, a una coppia reale, non basta 
mai. Oltre il bosco, lontano lontano, esistevano altri reami… tutti più ricchi e più 
sontuosi. 
In quei luoghi, di sicuro, avrebbero potuto valorizzare la loro nobile schiatta, 
intrattenere rapporti e amicizie con famiglie importanti, accrescendo il proprio 
prestigio e per finire, magari, avrebbero potuto trovare quella fonte, che tutti 
cerchiamo ma che nessuno riesce a trovare: la Fonte dell’eterna giovinezza. 
Come si sa, dall’altra parte di un bosco tenebroso, si può trovare di tutto, forse è per 
questo che ognuno intraprende lo stesso viaggio. 
E così fecero i bagagli e partirono, insieme alle persone care e alla principessa Alba, la 
loro diletta figliola. 
Il viaggio si dimostrò faticoso e pieno di insidie. 
I boschi sono sempre misteriosi e intricati: di giorno pieni d’illusioni, ma di notte 
popolati da fantasmi e spettri. 
Le illusioni spingono i coraggiosi viandanti a superare le ardue prove che li aspettano, 
mentre i fantasmi li spaventano, facendogli così perdere l’orientamento e la sicurezza. 
Impressionata da tante peripezie inattese, la regina si preoccupò per la giovane 
principessa. Allora ricordò che, tanto tempo prima, aveva conosciuto una fata, molto 
speciale, che abitava nel bosco della vita. 
Non che si fidasse ciecamente di lei ma, in fondo, le fate, come i satiri e le sirene, 
sono frutto delle nostre speranze e della nostra fantasia. Il bosco è insidioso, confonde 
il viandante e la paura, spesso, fa compiere scelte frettolose. 
Allora la regina chiamò a sé la piccola Alba e le disse: 
«Tesoro mio, il nostro viaggio è più complicato di quanto ci augurassimo. Ormai, lo 
vedi tu stessa, tutt’intorno a noi le piante si sono trasformate in un groviglio 
inestricabile e i sentieri sono sempre più pericolosi. Siamo partiti dai declivi e ora 
siamo circondati da orridi e burroni. La luce, non filtra più gioiosa dalle alte fronde 
verdeggianti, ma lascia il posto al buio, umido e freddo. Non voglio che tu soffra per le 
nostre difficoltà; ci sono mille sentieri, molti sono sbagliati e altri non portano da 
nessuna parte… uno solo conduce alla strada maestra e attraversandolo rivedremo la 
luce del sole». 
La principessa pendeva dalle labbra della sua mamma, giovane com’era, non si 
rendeva conto dei pericoli e delle insidie a cui poteva andare incontro. 
La felicità era stare insieme ai suoi genitori; il suo mondo finiva lì. Quella era l’unica 
misura della sua gioia. 
La regina continuò il suo discorso: 
«Faremo così! Mentre noi cerchiamo di uscire da questa situazione, tu ci attenderai a 
casa di una fata che ho conosciuto tanto tempo fa, una vecchia amica. Ricordo ancora 
dove inizia la stradina che porta a casa sua, vieni!» e prendendola per mano la 
condusse in una radura, non troppo lontana. «Ecco» disse la regina e indicò col dito 
un vialetto incantevole «Guarda attentamente! Quello è il sentiero che porta alla sua 
casa. Non ti puoi sbagliare, perché all’ingresso c’è quell’insegna affissa sul palo, la 
vedi?»
Alba aguzzò la vista ed effettivamente vide un paletto sul bordo della via, con un 
piccolo cartello fatto con la corteccia di un albero secolare. 
La principessina annuì e la regina proseguì: 
«Ecco va’ da lei e affidati alla sua ospitalità. Ogni tanto ci incontreremo qui, fino a 
quando non avremo trovato la nostra strada». 
Si baciarono e si abbracciarono e Alba, non senza un’ombra di paura, vide la sua 
mamma perdersi tra le fronde. 
Il suo sconforto durò solo un attimo, poi, con la curiosità tipica dei ragazzi, si affrettò 
lungo il sentiero indicato dall’antico cartello. 
Sul legno si leggeva a stento un epigramma che il tempo aveva scolorito: 
“Qui abita la Fata di Ferro. 
Lei ama tutti e nessuno. 
Lei sfida la vita, ma la teme. 
Quando gioisce… poi fa male. 
Non è una vera Fata, 
ma neppure sa essere una Strega” 
Le lettere, sbiadite, vergate con il colore del sangue arrugginito, fecero un certo 
effetto sulla piccola principessa ma decise di incamminarsi per quel viottolo che, a 
ogni passo, si arricchiva di fiori, colori e profumi di Guerlain. 
1 
«E questa è Nicòle! Visto? Te l’avevo detto che non era più una bambina. Il tempo 
passa in fretta, accidenti!» la mamma della ragazza sorrise a Flora, la vecchia amica. 
«Su Nicòle, stringi la mano a Flora, presentati come si deve. Dai!» la donna ci teneva 
a far bella figura, a ostentare la figliola come un trofeo, per rimarcare quanto era in 
gamba e fortunata. 
Nicòle sbuffò sbarazzina e mimò un inchino teatrale, poi stemperò tutta la scena con 
un sorriso: 
«Piacere!» disse rapidamente «Scusa ma, mia mamma, mi farebbe sfilare come al 
circo, se potesse». 
«Certo!» disse sua madre prendendola in giro «Perché solo in un circo sfilano le 
scimmie come te!» 
Flora rise divertita: 
«Non c’è che dire» cominciò «non potevate essere più “diversamente” uguali». 
Strinse la piccola mano della ragazza, squadrandola dalla testa ai piedi: 
«Ha ragione la tua mamma. Sei veramente bellissima… come scimmietta, intendo!» e 
risero di gusto tutt’e tre. 
Poi Nicòle e sua madre seguirono Flora all’interno della villetta, in periferia, ma 
collegata benissimo al centro città. 
«Vi preparo un bel tè: lo gradite? Oppure una cioccolata, non fate complimenti». 
La cucina faceva parte di una sala ricavata da un unico grande ambiente, che 
ospitava una serie di divani e un grande tavolo da pranzo. Sul fondo, davanti a 
un’ampia vetrata, una lunga banchina di legno di noce, faceva da separé alla zona 
cottura, che era bellissima. Tutta rivestita in tozzetti di ceramica. Una sequenza 
infinita di calde sfumature di colore che andava dal giallo al marroncino. 
La casa di Flora era molto accogliente e pulita. 
Erano anni che non s’incontravano e la madre di Nicòle si gustò quei momenti.
«Se me lo avesse predetto un’indovina, non ci avrei creduto… così lontane da casa per 
poi ritrovarci qui. Sono proprio contenta!» 
Mentre Franca, la madre di Nicòle era vivace, a volte quasi aggressiva, Flora aveva un 
carattere allegro, ma parlava meno. 
Era una di quelle persone che ti danno sicurezza: un sorriso quieto accompagnava 
ogni suo gesto, e guardarla preparare il tè era rilassante, come tutto l’ambiente che si 
era creata intorno. 
A Nicòle piacque subito quella figura di donna matura e prosperosa, con i seni 
generosi che premevano sotto il camice sottile, che indossava in casa. 
«Nicòle, preferisci la cioccolata calda?» chiese Flora con la sua voce carezzevole e la 
ragazza non seppe resistere: 
«Oh, sì, per favore! La ringrazio» rispose, mentre ispezionava la casa con lo sguardo. 
«Dammi pure del tu, Nicòle: non sono mica vecchierella come la tua mamma !» rise, 
sgranando quei suoi denti piccoli e bianchi che sembravano perline. Franca protestò, 
bonariamente. 
«Vieni Nicòle, forse ho qualcosa per te. Dovrebbe piacerti più delle nostre chiacchiere» 
e le fece strada verso la zona living dove un grosso televisore troneggiava su un 
tavolino, zeppo di film in DVD. 
«Qui dovresti trovare qualcosa di adatto a te, la figlia di mio fratello lascia in giro un 
sacco di questi film». 
«Uaho!» esclamò estasiata, lei, scartabellando tra le custodie di plastica «ma questo è 
l’ultimo di Brad Pitt. Per favore!!!» - proseguì cercando di fare la migliore 
interpretazione di “occhi da cerbiatto” mai eseguita «Posso guardarlo?» 
Flora dovette fare uno sforzo, per non restare immobile e godersi quegli stupendi 
occhioni languidi. Sbrigativamente replicò: «Ah, cara mia, per me Brad Pitt te lo puoi 
anche sposare, non guardo mai film moderni». 
«Nicòle! Tra breve torniamo a casa!» urlò Franca in direzione del salotto, dove la figlia 
si era già impossessata della TV. Con la maestria tipica dei giovani, aveva già fatto 
tutte le manovre per far partire il film sul grande schermo piatto. 
«Dobbiamo rientrare di corsa». – Poi rivolta a Flora «Sai cara, non stavo nella pelle 
dalla voglia di rivederti, ma siamo appena arrivati… figurati che a casa ho ancora gli 
operai che montano i mobili, e lunedì dobbiamo già prendere servizio». 
- 
Intanto, Flora, incurante del tornado che scatenava sempre Franca, continuò con 
metodo le sue operazioni: servì un buon tè per entrambe sul tavolo della cucina e poi 
raggiunse Nicòle, con una tazza di cioccolata fumante e un piatto di biscotti fatti in 
casa, che sparirono rapidamente, dal vassoio. 
Franca intanto era già in piedi, scattata come una molla: 
«Dai, sono curiosa di vedere la tua casa!» disse mentre col mento indicava la figlia 
che, ignara, si era lasciata rapire dalle immagini. 
Flora capì e, con la sua tazza di tè tra le mani, fece strada all’amica per le scale che 
portavano al piano superiore. 
Di sopra c’erano due camere e un bagno molto comodo e spazioso. 
«Ma è carinissima: che bella! E queste mattonelle: deliziose. Ti spiace se approfitto?» 
«Ma scherzi?» rispose l’ospite guardando l’amica che, rapidamente, si abbassò 
pantaloni e collant, per urinare. 
«Vengono dall’Italia» - continuò Flora, indicando le mattonelle «Vietri sul Mare, per la 
precisione. I listoni sono decorati a mano, uno per uno. Piacciono tanto anche a me. 
Hanno i colori forti che si vedono solo nei posti in cui il sole è splendente». 
Mentre si dava una controllata davanti al grande specchio ovale, incassato 
nell’intonaco e circondato da una cornice in ceramica, Franca divenne più confidenziale 
nei toni e raccontò rapidamente le sue ultime peripezie.
Era un momento di sbandamento totale. Suo marito, il padre di Nicòle, era stato 
trasferito in fretta da una città all'altra. 
Lei, per fortuna, aveva trovato impiego grazie a un collega di lui. 
Un lavoro da cassiera, e spesso le sarebbe toccato svolgere il turno serale. Ma non si 
lamentava, dopotutto l'importante era avere un lavoro. 
Lui aveva altri due figli, frutto del primo matrimonio, ma erano grandi; si erano 
trasferiti per necessità, ma presto si sarebbero organizzati per andare a vivere a 
Parigi, dove frequentavano l'università. 
Flora, la seguiva quieta, sorbendo il tè e cercando di non perdersi in quelle descrizioni 
frettolose . L’amica le aveva accennato qualcosa riguardo a un certo “aiuto” su cui 
contava, stava ad ascoltare attentamente, per capire dove sarebbe andata a parare. 
Il problema di Franca non era solo pratico: tutta la famiglia stava attraversando un 
momento di confusione e lei cercava di fare del suo meglio. 
I figli maggiori erano frastornati dal trasferimento ed erano diventanti intrattabili. 
Il suo matrimonio si stava sgretolando per colpa di una relazione del marito con una 
collega di lavoro. 
Era depressa e cercava, a sua volta, qualcosa di diverso dall’amore coniugale, che 
ormai le veniva rifiutato. 
Vecchi problemi irrisolti si erano insinuati nella famiglia e ora stavano minando i 
rapporti. 
«La piccola è agitata e nervosa» continuò Franca «e la nostra famiglia è talmente 
scombinata… Siamo incerti sulle scelte da compiere» la fissò: «Ecco: vorrei affidarti 
Nicòle, per il doposcuola, affinché tu possa insegnarle la lingua e aiutarla a passare 
questo momento, piuttosto turbolento. Naturalmente sarai adeguatamente retribuita. 
È ovvio! Non me la sento di affidarla a un’estranea in un paese che non conosce. Per 
lei sarebbe solo un ulteriore trauma e francamente vorrei evitarlo». 
Flora la interruppe, alzando decisa una mano: 
«Alt, tesoro mio!» intervenne «Non è una questione di soldi. Figurati. Ma ciò che mi 
chiedi è una grande responsabilità. Cosa ti fa credere, poi, che le maioliche italiane e 
la cucina in veranda rappresentino il paradiso?» la squadrò quasi offesa: - «Anch’io ho 
una mia vita, sai? Vivo da sola ma non vuol dire che non abbia qualcuno e, 
soprattutto, anch’io ho i miei problemi, purtroppo». E il suo viso si ammantò di una 
delicata tristezza. 
I loro occhi s’incrociarono. Flora sorrise, vedendo lo sguardo sparuto di Franca; 
sembrava lei la bambina confusa, adesso. 
«Oh, insomma» disse infine risoluta «E va bene!» «Facciamo una settimana di prova, 
ok?» Franca annuì, aveva la stessa aria di un cane che scodinzola. 
«Però voglio sapere con precisione i giorni in cui la ragazza verrà da me. Posso 
riceverla dalle tre. Non prima. Sono impegnata col lavoro e altro… la sera, a casa alle 
venti!» 
Quella sera, da sola nel lettone, Flora, a occhi chiusi, tornò con la mente alle 
impressioni che le aveva suscitato l’incontro con la giovane Nicòle. 
Le forme acerbe, i seni piccoli e, di certo, duri come il marmo... A questo punto, i suoi 
pensieri si illanguidirono, immaginando il fiore acerbo, che la giovane custodiva. 
Avrebbe pagato per poterlo almeno ammirare, ma non poteva che restare un sogno. 
I suoi pensieri, però, diventavano sempre più lascivi, nonostante gli sforzi per 
distogliere la mente. 
Allora, le immagini che in quel momento creava con la fantasia, si confusero con i 
ricordi del passato. 
Il volto della giovane si confuse con quello della madre, quando era giovane e fresca. 
La rivide, mentre abbassava la testa dai capelli fluenti e si tuffava sul suo corpo, 
odoroso di puro piacere. 
La lingua di Franca la cercava, allora, insaziabile.
Ricordò tutte le volte in cui aveva ricambiato quell’esasperante frugare, con la bocca, 
negli spazi segreti dell’altra. 
Il corpo, sognato, di Franca giovane, nell’eccitazione che si era impadronita di lei, si 
confondeva con quella di un’altra. Una donna sconosciuta dai contorni indefiniti, 
illuminata da una luce dietro le spalle, che ne occultava i lineamenti. 
Poco dopo, però, fresca come fosse rorida di rugiada, appariva l'innocente visione di 
Nicòle. 
Ansando e grondando la donna raggiunse un piacere languido e intenso che, invece di 
appagarla, la turbò e la lasciò sul letto, piena di rinnovata sete. 
2 
La Fata di Ferro aveva una casa che solo nel mondo delle fiabe, era possibile 
immaginare. 
La giovane principessa si era presentata a lei, armata solo della sua innocenza, della 
sua voglia di vivere e dei suoi timori. 
Aveva vissuto tra gli echi del bosco con la forza della paura. 
Aveva sentito su di sé, il peso dell’indifferenza. Ora, tutto questo, si contrapponeva 
all’ambiente fantastico che l’attendeva. 
Era stata accolta come la più bella delle principesse. 
Le miscele di cacao più esclusive, arrivavano da ogni parte del mondo per 
confezionare le sue cioccolate, mentre biscotti, marzapane e miele non mancavano 
mai, all’ora della merenda. 
La Fata di Ferro era intransigente: prima di tutto i compiti. 
Ma, come per incanto, anche quelle ore, passavano spensierate: era bello studiare se 
il premio era un sorriso della fata. Faceva del suo meglio per collezionare buoni voti, 
per non interrompere quel connubio felice. 
La Fata di Ferro si dimostrò, per lei, la migliore delle amiche. 
Bellissima, grande, prosperosa. Indossava sempre vestiti colorati e sgargianti: un vero 
e proprio inno alla gioia. 
Aveva mille abiti, tutti troppo corti per nascondere le sue grosse gambe, burrose; tutti 
troppo stretti per contenere i seni gonfi o le natiche tonde. 
Nella casa della Fata tutto era a sua disposizione e non doveva far altro che essere 
felice. 
La padrona di casa l’aiutava nelle scelte, condivideva le sue idee, la consigliava con 
l’esperienza che aveva accumulato negli anni. Alba non trovava mai da obiettare ai 
suoi pareri sussurrati. Anzi. Pendeva dalle sue labbra. 
Ma la cosa più importante è che le donava tutta la sua attenzione, 
incondizionatamente. Nulla contava di più della principessa. 
Il centro dell’universo per la Fata di Ferro era Alba e tutto ciò che lei diceva era 
importante, unico e prezioso. 
Stava in famiglia con piacere ma il mondo delle fiabe l’attendeva, quotidianamente, e 
non vedeva l'ora di poter ritornare in quella casa, alla fine del sentiero, tra le 
buganvillee e gli oleandri: colorati e velenosi. 
Ogni giorno la principessina si sentiva più grande e più forte, ogni giorno correva 
verso nuove esperienze. Celato nel suo cuore di piccola peccatrice, aveva un segreto, 
inconfessabile ma sublime. Una delle cose che l’attraeva era il corpo della fata; 
sarebbe rimasta ore a rimirarlo. 
Già quell’unico incantamento sarebbe bastato a rendere le visite improcrastinabili. 
Lei era bellissima e, per la gioia di Alba, molto distratta.
Quando sedevano al tavolino delle ghiottonerie, spesso accavallava le lunghe e 
opulente gambe, senza curarsi del camice che si alzava e , salendo, a ogni 
movimento, metteva in mostra le calze; sempre diverse, sempre di nuovi colori. 
Quelle che le piacevano di più erano nere. 
Le calze nere sembravano sempre di una misura più piccola, la seta era tesa sulla 
pelle, rendendola appetitosa, mentre lo sguardo, ipnotizzato da quella visione, cercava 
il punto dove il nero deciso dell’orlo merlettato, liberava, con uno sbuffo lievissimo, la 
carne rosea e chiara. 
Anche quando si sedeva su un basso pouf, sgranocchiando cannellini e lacrime 
d’amore, era facile che Alba riuscisse a carpire un’immagine delle sue mutandine, 
schiacciate tra le cosce. 
La fata si sedeva lì, per non rubare spazio ad Alba a cui, da principessa qual’era, 
aveva riservato il posto d’onore sul divano. 
Spesso gironzolava per casa, alla ricerca di un granello di polvere vigliacco, o di uno 
dei tanti oggetti che, in quella casa fatata, avevano la strana tendenza a cadere negli 
angoli più nascosti. 
Da quando aveva scoperto che, per ritrovarli, la fata si metteva carponi mostrandole 
il fondoschiena oppure le poppe gloriose, Alba, pur essendo affettuosa e servizievole, 
non si offriva mai spontaneamente come volontaria per le ricerche. 
La fata aveva infinita pazienza e nulla chiedeva alla sua preziosa ospite. 
Per fortuna, tutti i rossori e le vampate peccaminose della giovanetta passavano 
inosservati, tant’è che una volta, fattasi coraggio, Alba dal gabinetto chiamò la sua 
madrina con una scusa e si fece trovare seduta sul vaso, con le sottili gambe 
dischiuse. 
Ma lei non disse niente e niente notò, chiusa nella sua “casta” indifferenza. 
Al contrario la principessa, per la vergogna sopravvenuta dopo l’eccitazione, non volle 
tornare da lei per due giorni. 
Ma il terzo giorno la fata chiamò, e tutto riprese come prima. 
*** 
Flora credeva di impazzire, tanto la situazione era diventata insostenibile. 
Nonostante le promesse fatte a se stessa e alla madre di Nicòle, la presenza della 
ragazza era diventata troppo intrigante e opprimente per lei. 
Il piacere che provava a sentirsi osservata di nascosto da quella piccola troia le 
rimescolava il sangue nelle vene e, appena la vedeva o la pensava, si ritrovava 
eccitata. 
Dal primo istante in cui Nicòle giungeva a casa, la parte più recondita di lei, iniziava a 
grondare di piacere. 
Desiderava l’orgasmo per ore, mentre le sue guance avvampavano e i suoi seni 
sudavano. 
La voleva! 
Voleva sfogare sul suo corpo delicato quell’infinito desiderio . 
Il primo giorno che Nicòle disertò le lezioni, Flora respirò e, dopo settimane di stress, 
riprese il controllo della sua vita e della sua casa. 
Era una piccola despota. Una piccola canaglia, quella sua principessa! 
Il secondo giorno s’immalinconì. Le mancava. Voleva essere tiranneggiata ancora da 
quell’impertinente spiona. Le mancavano i suoi occhioni che le fissavano le cosce. 
E sì che Nicòle aveva davvero esagerato; farsi trovare nuda sul gabinetto, ancora 
bagnata. 
Pensieri deliziosi l’avevano attraversata, come correnti galvaniche. 
Ma doveva comportarsi da adulta responsabile. Doveva resistere!
Quella sera si decise e chiamò un suo amico, per dare sfogo al vulcano della sua 
libidine. Ma l'uomo era già impegnato; il fatto che lui non potesse raggiungerla, la 
rese ancora più furiosa. 
Si frugò nell’intimo, meccanicamente, sul suo letto, ma il piacere la rese ancora più 
eccitata e incapace di vincere il desiderio di Nicòle. 
La sera del terzo giorno la fece finita. Telefonò. 
«Ero certa che ti avesse avvisato» rispose Franca, perplessa «i giovani di oggi non 
hanno più nessun rispetto». 
«No, lasciala stare, sono ragazzi, magari qui da me si annoia. Purtroppo non ho vicini 
con ragazzi della sua età. La capisco poverina» la giustificò Flora. 
«Aspetta adesso te la chiamo, vediamo come si sente».- Poi Flora, trepidante e 
impacciata, udì le voci lontane di Nicòle e della madre: 
“Ma che ti salta in mente? Perché non hai avvertito Flora che stavi male?” “Uffa, ma io 
non stavo bene, pensavo che glielo avessi detto tu.” 
“Sei una gran maleducata. Adesso vai al telefono e scusati …” seguirono altre parole 
che non fu in grado di sentire. 
Dopo poco arrivò Nicòle: «Scusa!» esordì. 
«E di cosa, tesoro mio? Mi dispiace se sei stata poco bene» disse raggiante Flora «ma 
adesso come stai?» 
«Sto bene» continuò laconica Nicòle. Poi si sentì confabulare «Dice mamma: se non 
disturbo, posso continuare a venire da te?» 
Flora non seppe dissimulare la gioia che le procurarono quelle parole, così con la voce 
rotta dalla trepidazione rispose: 
«Lo sai, Nicòle, ormai questa è casa tua. Devi decidere tu, se vuoi… vedermi ancora». 
«Sì. Voglio venirci ancora» disse la giovane. 
Il giorno dopo, quando entrò nella casa, un profumo fragrante di torta di mele e di 
cannella la pervase. 
Flora le andò incontro e si abbracciarono senza parlare. 
Da allora però, non si sedette più sul pouf, ma sul divano, di fianco a Nicòle. 
3 
Ormai il ghiaccio era rotto e la Fata di Ferro non teneva più per sé i suoi segreti. 
Anzi, burrosa e languida, aveva deciso di darsi alla principessa Alba, anima e corpo. 
Ad Alba non sembrava vero. 
Il pomeriggio facevano una merendina e chiacchieravano come due amiche del cuore. 
Poi si dedicavano ai compiti, perché una vera principessa deve essere in gamba, la 
fata glielo ricordava tutti i giorni. 
Poi arrivava il premio. 
Il premio era la confidenza, l'intimità. 
La fata, rassegnata, si donava completamente, perché soddisfacesse la sua lussuria e 
i suoi sentimenti lascivi di giovane curiosa e impertinente. 
Allora la screanzata si sedeva accanto a lei. 
Spesso si servivano di un piccolo plaid con una fantasia scozzese, in quei casi Alba 
gioiva ancora di più. 
Guardavano la televisione, nelle lunghe serate invernali: la Fata si piazzava sul divano 
e seguiva con finta attenzione qualsiasi programma, pur di starle vicino. Altre volte 
leggeva delle storie oppure le parlava della sua gioventù. Le loro gambe, celate sotto 
la coperta, iniziavano a strusciarsi. Il rumore del tessuto che frusciava, eccitava 
entrambe. 
Ad Alba non mancava mai la scusa adatta: ora per lo spasso, ora per la paura, ogni 
pretesto era buono per stringersi alla Fata di Ferro.
Allora, specialmente se protette dal plaid di lana, le piccole mani sottili cominciavano a 
frugare. 
La ragazza abbracciava la donna, in cerca d’affetto e ne esplorava ogni rotondità, ogni 
curva. 
Le dita affusolate vagavano sul cotone del camice, a volte perdendosi tra le roselline 
sul fondo nero, altre, cogliendo le margherite, prepotentemente sparse; e più la Fata 
taceva, più quelle mani si prendevano delle confidenze. 
Dapprima voleva accarezzarla con delicatezza e disinteresse: carezze distratte, 
occasionali, come se nascessero spontanee e senza scopo. 
Ma poi l’eccitazione aumentava, i movimenti diventavano sempre più rabbiosi, 
sconnessi, convulsi- Quelle mani “possedevano”, letteralmente, il corpo della grossa 
fata. 
Alba le toccava i fianchi abbondanti, poi strisciava serpeggiando fino alla pancia di lei, 
che era generosa e morbida, allora di piatto si infilava sotto la carne e carezzava 
l’inguine. 
Poi tornava su, cercava le mammelle e tirava, e premeva, e giocava con il seno 
abbondante. 
I capezzoli si sentivano al tatto, gonfi e costipati sotto la veste, pressati nel 
reggipetto. 
Poi le dita esploravano il collo, la nuca, titillavano i lobi… 
La fata moriva lentamente di languore. 
Il cuore impazziva e piccole gocce di perla le cingevano la fronte. 
Il plaid faceva da complice. 
Allora la ragazza diceva di aver caldo. Da sotto la coltre, faceva scivolare via dalle 
gambe di gazzella, la gonna, e restava solo in mutandine e calzettoni. 
La carne nuda cercava di nuovo il contatto, scostava il cotone, strusciava sulla seta e 
trovava infine la pelle dell’altra. 
E quando la carne s’incontrava, per entrambe era il tripudio. 
Quel desiderio era tanto più grande quanto più era proibito e sofferto. 
Il silenzio falso della fata faceva fremere la giovane principessa. Ogni attimo temeva 
di essere scoperta e quindi allontanata, scacciata. 
Sapeva che stava approfittando di tutte le magie della Fata di Ferro, ma non riusciva a 
trattenersi! 
Doveva bere a quella fonte. 
Ogni sera si riprometteva di resistere a quella sete ma, il pomeriggio successivo, i suoi 
buoni propositi capitolavano e si rituffava in quel corpo arrendevole, morbido, 
materno. Che gioie provava e quanto si bagnava il suo fiore nascosto.! 
Tornava a casa con le mutandine in fiamme per la lussuria. 
4 
Il pomeriggio era freddo, nonostante la primavera fosse appena arrivata. 
Nicòle arrivò con le guance e le ginocchia arrossate e il piccolo naso ghiacciato. 
La sua figura slanciata emerse superbamente, tra i giochi di luce degli specchi della 
porta. 
Flora restò abbagliata, ancora una volta, dalla sua leggiadria. 
Era martedì. La ragazza era mancata due giorni, anzi quasi tre, e la donna si rese 
conto di quanto la amava. 
Padrona del mondo, Nicòle si spogliò del soprabito e della sciarpa bianca. 
Poi tolse il cappello di lana, lasciando scorrere sulle spalle i capelli d’oro. 
Inondò, poi, la casa di sorrisi e parole senza senso.
Niente scuola per domani, niente compiti oggi. Stabilì, spadroneggiando, che era il 
pomeriggio adatto per guardare “Il dottor Zivago”. 
Flora avrebbe voluto piangere, ma non lo fece, né si oppose alle richieste della 
giovane. L’attendeva da troppo, per non esaudire i desideri della sua piccola “tiranna”. 
Iniziò a sentire le farfalle nello stomaco, mentre con la mente pregustava le carezze 
che bramava da tanto. Le loro mani avrebbero danzato con le dita, intrecciandosi e 
respingendosi, come ballerine su un palco. 
Non riusciva a porre freno al suo desiderio, né a quello della ragazza. 
Ma erano in stallo; non poteva continuare così. Flora decise di rompere gli indugi: 
«Vai a fare pipì allora, altrimenti dopo ti seccherà alzarti» le sorrise «Io intanto vado a 
preparare il tè». 
«Sì, Badrona!» la prese in giro Nicòle. 
Mentre Flora armeggiava in cucina, la giovane che si attardava nel bagno, gridò: 
«Ho una sorpresa, la vuoi vedere?» 
«Oh, ohhh!» rilanciò Flora «le “tue” sorprese non promettono niente di buono per il 
mio destino». 
«E invece sì, guardami!» uscì dal bagno e si mise in mostra. 
Aveva indosso solo lo spesso maglione a coste. Sotto, invece dei calzettoni, indossava 
collant neri e velati. 
Flora ebbe un sobbalzo, nonostante la ragazza tenesse le cosce serrate, era evidente 
che non indossava le mutandine. 
«E guarda, ora». disse Nicòle, con un sorriso che sapeva di giovanile impertinenza. 
Divaricò i piedi allargando le gambe. Aveva squarciato grossolanamente i collant con 
le dita, proprio tra le gambe, così le calze facevano da cornice a quello spettacolo 
mozzafiato. 
«È una mia invenzione! Ti piace?» 
Non attese risposta; tanto sapeva che non sarebbe arrivata. 
La bocca di Flora si era spalancata per lo stupore, non riusciva a proferire una sola 
parola. 
«Queste sono più calde, starò comodissima. E senza le mutandine, posso fare la pipì 
più facilmente». Alzò gli occhi e fissò Flora con aria spavalda, gli occhi di cerbiatta la 
sfidarono senza pudore. 
Flora riuscì a distrarre la sua attenzione da quello spettacolo. Col respiro affannoso 
finse di borbottare qualcosa sui giovani, voltandosi per nascondere il rossore, eccitata. 
Si dedicò tenacemente a filtrare il tè e lo versò caldo nelle due tazze preferite, poi 
senza una parola si ritirò di sopra in camera. 
Nicòle si era già sistemata sul divano, accogliente come un'alcova. 
Il film era appena partito. Dalle scale spiò Flora che tornava in salotto. Si era 
cambiata: ora indossava una lunga camicia da notte stretta ai seni, in stile impero, 
sotto si svasava leggermente e, sul davanti, era chiusa dai bottoni. 
La ragazza notò che la donna non aveva più le calze. Avrà caldo, pensò tra sé e provò 
piacere a quella vista. 
*** 
Quel pomeriggio la Fata di Ferro aveva indossato una veste leggera con i bottoni sul 
davanti. 
Come sempre, in silenzio, si sedette accanto ad Alba. Dopo pochi minuti la principessa 
si raggomitolò al suo fianco; iniziò ad assaporare l'atmosfera voluttuosa che si creava 
tra loro. Chiuse gli occhi e aspirò il profumo fresco sulla sua carne delicata. 
Tirò sul divano le due gambe fasciate dai collant, mentre abbandonava la testa sul 
braccio della fata. Pochi istanti dopo, con la mano libera, scivolò dalle sue gambe 
sottili a quelle deliziosamente piene della donna matura.
Spingendo sul cotone leggero, sentì che scivolava facilmente sulla pelle nuda delle 
cosce. La principessa ebbe uno dei mille brividi, che ormai facevano parte della sua 
precoce sessualità. 
Curiosa, col cuore che batteva, la mano trasgressiva scivolò verso l’alto; scavalcò la 
pancia, si soffermò sull’ombelico teso, per poi risalire il lieve pendio che arrancava 
sotto i seni generosi. 
Avrebbe voluto lanciare un piccolo grido di vittoria, ma si trattenne mordendosi le 
labbra: si era appena resa conto che la donna aveva tolto anche il reggiseno. Le sue 
poppe, deliziose e calde, poggiavano solo sul corpetto della vestaglia ed erano 
trattenute solo dai bottoni. 
La voglia divenne violenta. 
La fata taceva, come se nulla stesse accadendo tra loro. 
Il volto sembrava quello della Sfinge. 
Guardava, senza vedere, in direzione della televisione, le labbra serrate 
enigmaticamente; non un briciolo di emozione faceva capolino sul suo viso. 
I suoi occhi penetranti, evitavano accuratamente di incrociare quelli di Alba. 
Sembrava lievemente annoiata e del tutto indifferente alle passioni contrastanti che 
agitavano la giovanetta. 
Alba voleva toccare la pelle nuda di lei, ma non voleva sembrare troppo insistente. 
Alla fine si fece coraggio. Doveva tentare. Non poteva restare per sempre 
nell’insicurezza e col petto in fiamme. 
Le dita sottili della sua mano, acquistarono coraggio e, come artificieri che manipolano 
una bomba inesplosa, uno dopo l’altro liberarono i tre bottoni, che scendevano dal 
decolleté della Fata di Ferro. 
I seni tracimarono come un fiume in piena, privi oramai di ogni difesa. Non più 
trattenuti, si allargavano mollemente, allontanandosi l’uno dall’altro. Nel mezzo 
apparve, allora, come una vallata rorida di sudore. Come provenisse dal sottobosco 
nel mese di agosto: una zaffata di profumo di donna invase le nari della principessa 
impertinente. 
Alba era insicura nel leggere i segnali del piacere, ma di certo non evitò di cercare la 
voluttà tra quelle due montagne calde e tenere. Sulla sommità, sorgendo come un 
tempio tibetano, i seni, turgidi e torniti, con la punta grossa come un dito, svettavano, 
allettando all’osare. 
Il contatto della pelle nuda con i luoghi più intimi della sua “madrina” resero la 
principessa euforica, come ubriaca. Abbandonò ogni freno inibitore e si avventò con le 
mani su quei seni e sulla pancia che li sosteneva con le mani bramose di toccare. 
Quel silenzio indifferente e annoiato che spesso era stato causa di dolori d’amore nella 
giovane principessa, ora, era benedetto. 
La donna, immobile, si lasciava sballottare, tastare, annusare, senza dare segno di 
fastidio. 
Alba aveva perso la testa. Adesso era quasi pronta al passo decisivo: la vicinanza del 
suo viso e della bocca a quel seno generoso la invitava a prenderlo tra le labbra con 
passione. 
La voce della Fata di Ferro arrivò, pacata ma decisa, del tutto inaspettata. Come uno 
schiaffo sulle mani. 
La matrona uscì, all’improvviso, dal suo torpore sibillino. 
Risorse e, voltandosi verso Alba, la fissò con gli occhi scuri, ardenti come braci: 
«Ma ti piace veramente quello che stai facendo?» 
Alba sussultò. Ritirò la mano. Si irrigidì come se fosse stata colpita da un ceffone. 
Nonostante la donna continuasse a rimanere immobile sul divano, con i seni fuori 
dall’abito stretto. Nonostante l’orlo sottostante, sollecitato dai moti inarrestabili, fosse 
salito fino a scoprire del tutto le grandi cosce e perfino la mutandina bianca di cotone, 
fu la ragazza a sentirsi messa a nudo.
Si sentì scoperta, in un gioco che, follemente, aveva pensato di poter occultare. 
Si vergognò di avere approfittato, esagerato, usurpato. 
Aveva invaso l’amicizia bonaria della fata, frugando sempre il suo corpo. 
Quel giorno aveva di certo esagerato e, all’improvviso, provò su di se tutta la violenza 
della colpa della sua trasgressione. 
Rimase impietrita mentre, completamente sobria dopo la sbornia di piacere, 
desiderava sprofondare, pur di non dover ammettere la sua insana passione. 
Il tempo si era fermato nel soggiorno. Tutto sembrava tacere. 
La Fata di Ferro, impassibile come un’aguzzina, scrutava l’anima di Alba, passandole 
attraverso gli occhi, chiari come l’acqua. 
Poi finalmente sul suo viso si disegnò un leggero sorriso che odorava di panna 
montata. 
Riprese la sua posizione comoda sul divano e, lentamente, cercò la mano di Alba, 
accogliendola sui seni cedevoli. 
Appena la ragazza si sciolse dalla morsa della paura, poggiò la testa. Allora lei l’attirò 
a sé fino a quando la bocca non si posò sul suo seno voglioso. 
«Tu lo sai che tutto questo è proibito. Saprai mantenere il segreto?» 
Liberandosi la bocca dal bacio, Alba promise con tutta l’anima: 
«Non dirò mai niente a nessuno di quello che accade tra noi... qui. Te lo giuro!» 
La fata abbassò lo sguardo e le loro labbra si incontrarono. Le sue erano carnose e 
pronunciate e si schiusero alla curiosità della fanciulla. 
Lei non sapeva bene come fare, ma il contatto fu inebriante. Un attimo dopo si ritrovò 
sulla lingua un succo oleoso e trasparente: era la saliva della sua amante. Passando 
da una bocca all’altra il liquido si abbassava di temperatura, portando una freschezza 
sconosciuta e nuova. 
Non credeva di resistere a quel sapore senza svenire, ma si fece forza. 
«Nooo!» non riusciva a credere che tutto stesse veramente succedendo. 
Quella penetrazione tra le labbra era la cosa più intima e segreta che le fosse mai 
capitata. 
Quando le due lingue si catturarono, Alba voleva piangere per l’emozione. Non poteva 
sapere che quello era solo l’inizio. 
5 
«Sto tanto bene con te, mi piace toccarti tutta e desidero da tanto che anche tu mi 
accarezzi». disse Nicòle. 
«Sei certa di volerlo? Desideri un contatto più intimo? » disse Flora, mentre erano 
abbracciate con le guance che si sfioravano. 
«Sì. Lo desidero da mesi: voglio che mi tocchi anche tu! » poi aggiunse sussurrando 
«Lo so bene che mia madre non accetterebbe tutto questo, ma io non dirò mai niente. 
Io voglio essere solamente tua». 
Flora sorrise e si lasciò finalmente andare, come finalmente sciolta da un legaccio che 
ne inibiva le emozioni. Era ora di raccogliere i frutti dei suoi maneggi e della sua 
tenacia. 
La baciò ancora sulle labbra con complicità, e le sue mani iniziarono a muoversi. 
Scivolarono sotto il grosso maglione e le cercarono le spalle, e si saziarono di tutto il 
corpo della giovane. Dalle spalle scesero sui fianchi, poi, da sopra le calze scese alle 
natiche. Conobbe le sue gambe, per poi risalire, strisciando il polso sul pube, ma 
senza soggiornarvi... almeno per il momento. 
Le carezze proseguirono di nuovo verso l'alto, rientrando sotto la maglia e 
raggiungendo i piccoli seni appuntiti e durissimi. Arrivate all’aureola rosa si fermarono 
e Flora la fissò con un sorriso di sfida; aspettava un permesso che non le fu negato.
Allora sapientemente seppe pressare e tirare quei seni acerbi. Li circondava e li 
massaggiava; dopo averla baciata ancora si diresse, con la bocca, sulla maglia, 
sottoponendoli alla voracità delle sue labbra. 
L’alito tiepido oltrepassava la lana, inondando la ragazza di un calore del tutto nuovo e 
inebriante. 
Poi l’eccitazione della fanciulla divenne sogno . Quando, con movimenti voluttuosi, 
Flora fece scivolare verso l’alto sia la maglia che la canottiera leggera, il contatto delle 
sue labbra direttamente sui piccoli bottoncini rosa, diventanti duri come madreperla. 
La ragazza aveva il ventre infuocato. Il desiderio la rimescolava tutta, non sapeva 
come, ma voleva da quella donna tutto ciò che l’erotismo poteva offrire. 
Nicòle non poteva sapere che quella danza, era solo l’insieme dei preliminari. 
Infatti qualche minuto dopo, Flora chiuse la porta a doppia mandata e le prese una 
mano. Scalze, come ninfe dei boschi, salirono al piano superiore dove c’era la camera 
da letto. 
Flora la fece distendere, delicatamente, e poi si accovacciò sulla giovane, mettendosi a 
quattro zampe, mentre i seni sconfinati, precipitavano sul collo e sul petto di Nicòle. 
«Tesoro, adesso puoi guardare e toccare… tutto. Non ti devi più trattenere. È da tanto 
che lo desideravo, piccola mia». Si scostò una ciocca con le dita «Finalmente…» 
Allora Nicòle, con un gesto liberatorio, le aprì tutti i bottoni e lasciò che la veste 
scorresse dal suo corpo verso il pavimento, lasciandola finalmente nuda, nell’opulenza 
delle sue morbide forme: si mostrava tutta davanti ai suoi occhi vogliosi. 
La ragazza cominciò a godere già con gli occhi. La possedette con lo sguardo, come un 
bambino che diventa padrone del giocattolo che desidera da tempo. 
Ora, libera, Nicòle cominciò ad accarezzare la donna, scrutandone prima i seni, poi la 
pancia e i fianchi. 
Flora indossava ancora le mutandine bianche. 
Curiose di provare, le dita di Nicòle frugarono sotto l’elastico, voleva scoprire fin dove 
si poteva spingere in quella nuova frontiera della sensualità; con le dita cercò l’orlo e 
iniziò a sfilarle. 
La donna si abbandonò a quel piacere, così la giovane, seguendo il suo corpo con le 
dita, ebbe l’occasione di esplorare tutta la sua carne, fino ai piedi, nudi e caldi, che 
tante volte aveva desiderato baciare. 
Ora, la grande dama, era tutta nuda e tutta sua: che piacere inatteso! 
Come un dono d’amore Nicòle si offrì: 
«Prendimi anche tu, Flora, scoprimi, guardami e tocca tutto ciò che desideri di me, il 
mio corpo ti appartiene». 
Lei fu bravissima: le sue mani le sfilarono i vestiti scorrendo sulla pelle e facendola 
vibrare. Languidamente le tolse le calze strappate, facendole scivolare sulle lunghe 
gambe da gazzella. Poi toccò alla maglietta: anche quello fu un atto delizioso, lento, 
eccitante. 
Le dita leggere sfioravano i piccoli seni, che reagivano, autonomamente, a ogni sua 
carezza. Con fare materno sistemò la biancheria su un cuscino. 
In poco tempo, anche la ragazza venne completamente spogliata. 
Per Nicòle, starle di fronte, era come volare: vedere il corpo di lei, tanto desiderato, la 
faceva sentire sospesa in uno stato conturbante, mai provato prima. 
Essere del tutto nude, fece sì che si fondessero in un abbraccio totale, dove ogni 
centimetro di pelle veniva a contatto, combaciando. 
Distese sul letto, le mani di Flora, immediatamente seguite dalle sue labbra, iniziarono 
quel viaggio passionale che mai più si sarebbe cancellato dai ricordi di Nicòle. 
Le sue mani addosso, erano come scintille di lava incandescente.
Scivolavano sulla pelle e, appena dopo le dita, arrivavano le labbra che, umide di fiato 
e di saliva, sembravano fumare come lava ardente che lasciava, su quel corpo acerbo, 
sensazioni mai provate. 
Quella scia umida, che evaporava per la febbre dell’amore, le procurava brividi 
eccitanti e incontrollabili. 
Nicòle era come in trance. 
Viveva tutto questo, come in un’altra dimensione. Le sensazioni indescrivibili erano 
intense, violente, eppure ovattate: come se la sua mente le vivesse sotto l’effetto 
della più inebriante delle droghe. 
Finalmente, dopo il lungo peregrinare, le dita raggiunsero la piccola farfalla che, come 
appena sorta dal bozzolo, se ne stava immobile e contrita, in attesa che la natura le 
insegnasse a schiudersi al piacere. 
Ciò che sembrava l’apice insostenibile della goduria, si rivelò solo l’inizio del sentiero 
proibito, durante quell’accoppiamento innaturale. 
La mano di Flora si dedicò al gioiellino della giovane Nicòle: la carezzava, la 
confortava… l’avvisava di tenersi forte, perché l’affondo stava per giungere. 
Infatti, pochi momenti dopo, la bocca carnosa discese implacabile, affamata di quel 
fiore. 
La ghermì, violentandone le ali piene di rugiada, spaccandola fino al vertice con la 
lingua possente e dura. 
La bocca premeva. 
La lingua penetrava inarrestabile: come quella di un vampiro assetato di miele. 
Flora penetrò nel sacello bagnato e, al tempo stesso, infuocato dalla passione. 
Un suono osceno si sprigionava da quella scena erotica. 
La dolcezza aveva lasciato il posto all’ingordigia. 
Un fulmine elettrico, squarciante, luminoso, partì dal ventre di Nicòle e percorrendo 
ogni suo muscolo più recondito, raggiunse il cervello, facendola sobbalzare per 
l’emozione. 
Un piacere mai provato, sconosciuto perfino nelle notti solitarie in cui si martoriava il 
sesso. 
Flora le stette addosso con la stessa forza di un maschio che vuol possedere la preda 
conquistata. Pur senza deflorarla, la fece sua ripetutamente, forse in maniera ancora 
più veemente, marchiandola per sempre col suo peso e con le lettere infuocate del 
suo desiderio incontenibile. 
Gli orgasmi di Nicòle iniziarono pochi minuti dopo quelle ondate di carne che si 
squassavano sulla sua riva, con la forza di una burrasca. 
Non fu possibile contarli, così come poi non sarebbe stato possibile contare i giorni di 
amore e di piacere che avrebbero vissuto in seguito. Tutte quelle ore passate insieme, 
le avrebbero trasformate in amanti indivisibili. 
Quando Nicòle cercò di ricambiare dirigendo la bocca verso i luoghi segreti della 
donna, Flora non le permise di raggiungerli. 
La ragazza si dovette accontentare di poggiarle la guancia sul ventre, cercando di 
aspirare, vicinissima all’intimità della donna, tutto l’odore che sprigionava. 
Poi le accarezzò la mano e, delicatamente, le permise di avventurarsi dentro di lei. 
Nicòle cominciò a scavare e a rovistare, come fosse la padrona. 
Dopo poco, anche Flora esplose, senza più controllo. 
Appena Nicòle capì che la sua istitutrice stava raggiungendo l’acme, cercò, con l’altra 
mano, la sua natura e si associò a lei nel novello piacere che, liquido e sonoro, la fece 
sciogliere… come se svenisse in un lago peccaminoso. Godere insieme fu 
inconcepibile, iniziandole subito a una comunione che mai più si sarebbe potuta 
sciogliere. 
Per la giovane Nicòle, questa fu la prima, vera esperienza sessuale, e fu tutta al 
femminile.
Andava oltre il semplice sesso; sfociava nell’emozione: un'emozione che mai, nella 
sua vita, sarebbe stata eguagliata. 
Per quanto piacere avrebbe mai assaporato, nessuna relazione avrebbe retto il 
paragone con quella prima, indelebile, avventura. 
Quel paio d’ore intense e travolgenti restarono impresse nei suoi ricordi a un livello di 
estasi ineguagliabile. 
Spossata, si accucciò sotto il corpo della sua fata, dopo il sesso sfrenato, adesso, 
cercava l’amore incondizionato. 
E si addormentò. 
6 
L’estate torrida scaldava i sensi, mentre i corpi seminudi delle due amanti, la giovane 
principessa e la fata matura, si mostravano e si avvinghiavano, schiavi dello stesso 
desiderio. 
Anche l’autunno, con la sua dolce pacatezza, le invitava a scrutarsi e a possedersi, 
approfittando di ogni occasione. 
L’inverno freddo le teneva vicine, pelle contro pelle, sotto un’unica coperta, profumata 
di piacere. 
A primavera le loro farfalle fiorivano ed erano eccitate più che mai: il momento 
migliore, per affondare le bocche nell’altra, manipolandola fino a quando dalla corolla, 
intensamente profumata e dolce come il miele, si decideva a sgorgare l’acqua di rose 
dell’amore. 
E così, mescolandosi l’una nell’altra, in un amalgama di sesso e passione, le donne 
passarono le stagioni di quell’amore avvincente e perverso. 
Alba cresceva e imparava. 
La Fata di Ferro provava un intenso languore, lasciandole una parte dominante sul 
possesso del suo corpo maturo. 
La principessa, oltre ad amarla, si divertiva a giocare con lei e a tiranneggiarla. 
Spesso la fata si accontentava di inginocchiarsi ai piedi del grosso divano, facendole 
da serva, da schiava. 
Il suo omaggio servile partiva dai piedi di Alba. 
Poi la massaggiava, la baciava fino all’estremo, lasciandola, alla fine, riposare sotto il 
suo abbraccio materno. 
Pian piano le faceva scoprire il piacere in tutte le sue possibili sfumature. 
Prima concedette tutto di sé, poi iniziò anche a cercare il gusto del possesso. 
Le insegnò tutti i giochi e le furbizie, le permise di usare oggetti erotici, per imparare 
a dare virilmente piacere a una donna. 
La principessa giocava e sperimentava. Amava prendere la fata, da ogni parte, godeva 
a vederla ricevere le sue spinte penetranti, in ogni suo meandro. 
La donna godeva dell’ingenuità di Alba, ogni giorno più provata, più curiosa, più 
smaliziata, nella ricerca sfrenata della passione. La fata, adesso, prendeva piacere 
dalla sua discepola. 
Di notte, poi, la fata, più matura e scaltra, sola nel letto, mentre ascoltava il frinire 
delle cicale, si arrovellava cercando nuove perversioni per poterne godere l'indomani. 
Non le sembrava vero di poter coronare i suoi sogni più inconfessabili, servendosi di 
quel corpo, tenero e giovane, e di quella mente fertile e incantata. 
L’aveva tenuta vergine fino ad allora, ma un giorno decise di sferrare il suo 
incantesimo erotico più potente. 
Nel frattempo i genitori della principessa, ignari di quanto accadeva, si concentravano 
sulle loro vite complicate. La regina si fidava ciecamente dell'amicizia che la legava
alla fata. Nonostante avesse intuito che, in quella casa di marzapane, avveniva 
qualcosa di più che il solo sorbire del tè con i biscotti. 
Ma tutto era tranquillo, grazie a quel rapporto tanto speciale. L’amica era dolce e 
paziente, la principessa veniva su felice e robusta, e lei era più libera e spensierata 
che mai. 
Andava bene così. Indagare sarebbe stato inutile e anche impegnativo. 
7 
Nicole la stava accogliendo, soffrendo, ma decisa. 
Le braccia incrociate sotto la testa che veniva schiacciata contro la spalliera ad ogni 
pressione. 
Le ginocchia a terra, poggiate su un plaid, erano divaricate. 
Aveva fatto tanto per convincere Flora a farle provare la passività più segreta, dopo 
che lei, la piccola Nicòle, le martoriava, da anni, ogni parte. 
L’oggetto con cui si aiutavano era grosso, molto spesso ma non troppo lungo. E 
quando lo indossava, Nicòle non dava tregua alla sua amica. 
Flora riceveva tutto da lei, senza battere ciglio, ma diventava attenta e severa quando 
si trattava di usare il corpo di Nicòle per il suo piacere. 
Così aveva impiegato del tempo per permetterle di esprimersi fisicamente su di lei. 
Ecco perché Nicòle subiva senza lamentarsi gli attacchi, costanti e feroci, della sua 
matrona. Aveva chiesto e, finalmente, aveva ottenuto. 
La ragazza aspettava che la furia sbollisse, perchè dopo averla attaccata da dietro, 
Flora, come fosse pentita di avere abusato di quel forellino roseo, la curava. 
Si metteva alle sue spalle con una delicatezza la ristorava dopo la carica che lei stessa 
aveva portato a segno. 
Quando finirono, abbracciate sul divano e sfinite dalle emozioni, Nicòle manifestò tutto 
il suo disappunto: 
"Ma insomma… è bellissimo farlo, ma perché non posso far l’amore secondo natura? 
Sono una donna ormai. – 
Flora sogghignava, divertita, ma le rimostranze della ragazza divenivano sempre più 
accese. 
«Piccola mia, ma tu ti senti pronta? Sei decisa? » le chiese inutilmente «Lo sai che la 
verginità è qualcosa che una volta perduta non potrà mai tornare». continuò materna 
«Se la perdi non puoi più riacquistarla, ci hai pensato bene? Lo vuoi davvero? » 
«Uff. Ancora con queste sciocche storie? » sbottò Nicòle «io ti amo e voglio farlo con 
te. Cosa dici sempre? Va fatto con amore! » alzò la voce «Ecco io lo voglio fare, con 
amore, e con te. Punto!» 
Flora le accarezzò i capelli e la fissò negli occhi intensamente; in quei momenti 
sembrava volesse scavare dentro la giovane, per capire davvero cosa provasse. 
Poi con tono scaltro : «E va bene, ma ci vuole un uomo: un ragazzo! Non esiste 
perdere la verginità con un coso artificiale. Dovrà essere un evento, un piacere 
indimenticabile». Poi rivolta a Nicòle «Ma pensaci bene, non ce l’hai un bel ragazzo 
che ti corteggia? Fallo con lui, no? » disse con malcelata furbizia. Sapeva 
perfettamente che la giovane dipendeva totalmente da lei, anima e corpo. 
«No, non mi interessano. Non li voglio. Voglio essere tua e basta!» 
«Vai a fare la doccia, amore. Dopo ti faccio vedere una cosa». 
Ma poi telefonò la madre di Nicòle per portarla con sé a fare compere e il discorso 
rimase in sospeso.
Pochi giorni dopo, una domenica, Flora invitò Nicòle a sedersi sul divano per farle 
vedere qualcosa alla TV. Fece partire un filmato e poi si sedette al suo fianco senza 
dire altro. 
Dopo poche, inutili inquadrature, la ragazza si rese conto che stava guardando un film 
porno. 
Tutte le scene si svolgevano in tre: due donne e un uomo; non sembravano attori 
professionisti, ma forse era solo un trucco. 
Flora cercò di mantenere un atteggiamento rilassato e distante, mentre cercava di 
attirare l’interesse della ragazza sulle varianti possibili tra i partecipanti. 
Nicòle guardava estasiata, attratta soprattutto dalla vista del membro maschile. 
A un certo punto la ragazza le chiese se aveva esperienza di rapporti orali. 
«Ma certo». – 
«E com’è?» chiese Nicòle curiosa. 
«Com’è, com’è? E’ particolare. Non ha un sapore speciale, però è particolare. È caldo 
e odoroso. Lo senti, è… piacere liquido». 
Mentre conversavano e guardavano, ognuna per sé, iniziarono a toccarsi, come un 
gioco simmetrico da praticare contemporaneamente. 
«Il prossimo week end» disse Flora con la voce ormai provata dall’emozione «chiedi a 
tua madre il permesso di stare con me. Inventa una scusa. Ti farò conoscere un mio 
amico. Che ne dici?» 
«Sì, sarebbe meraviglioso; voglio provare» la guardò complice e dolce «ti prego!» 
8 
Il sabato si incontrarono al centro commerciale. 
Non era raro che Nicòle passasse qualche giorno insieme a Flora. Qualche volta erano 
anche state in viaggio insieme. 
La madre della ragazza fu felice della proposta. Ne avrebbe approfittato per un breve 
viaggio al sud, per controllare la casa al mare, abbandonata da mesi. 
Tra le chiacchiere e i saluti, Flora già pregustava ciò che sarebbe accaduto, mentre 
una sensazione di calda eccitazione si impadroniva di lei; stava vivendo il periodo più 
entusiasmante della sua esistenza. 
Quella posizione di istitutrice, la totale disponibilità della giovanetta e la sua versatilità 
sessuale la rendevano costantemente desiderabile. 
La fortuna le aveva fatto incontrare in quel periodo anche un ragazzo, quasi dieci anni 
più giovane, leggermente tonto, però a letto era un toro instancabile. 
Era uno studente e abitava in una stanza in affitto presso una famiglia di anziani, a 
pochi isolati dalla sua villetta. 
Una volta gli aveva dato un passaggio e, successivamente, gli aveva chiesto qualche 
favore: lavoretti in casa di poco conto per i quali gli riconosceva una piccola paga e 
qualche regalo. 
Una sera lo aveva invitato a restare per vedere un film con lei sul divano. 
Da allora tra lei e Marco, così si chiamava il giovane, si era instaurato un bel clima per 
i rapporti occasionali, senza coinvolgimenti sentimentali. 
Ogni tanto, specialmente all’inizio del lungo rapporto con Nicòle, dopo gli estenuanti 
pomeriggi di toccamenti e di eccitazione trattenuta nella pancia, chiamava il ragazzo 
non appena la fanciulla era andata via. Poi lo aggrediva, letteralmente, soffocandolo 
con la sua voglia e le sue esigenze di donna, trattenute nelle lunghe ore di “tortura”. 
Si sfogava sul giovane, che certo non si tirava indietro. 
Il giovane non provava particolari sentimenti per quella donna più grande e molto 
maliziosa; era la prima, vera, avventura, dopo le classiche esperienze da adolescente.
Si riteneva molto fortunato: aver trovato un‘amante di quel calibro, gli permetteva 
una vita felice e spensierata. 
Non era un superfigo e le ragazze all’università non facevano la fila per lui; trovarsi 
una donna avrebbe richiesto molto impegno. 
Poi magari si sarebbe ritrovato innamorato e disarmato dinnanzi a quel sentimento, 
perdendo di vista la sua carriera universitaria. 
Invece quel rapporto, appagante e piacevole, gli consentiva di avere libertà e sesso e, 
magari, anche qualche soldino in più. 
Ecco perché Marco, a Flora, non diceva mai di no. 
A mezzogiorno, come d’accordo, il ragazzo si recò all’appuntamento, davanti al 
McDonald’s. Anche quello era un grande vantaggio; la donna era sempre generosa con 
lui. Ricambiava tutti i suoi favori, invitandolo spesso a colazione o a cena, altre volte 
al cinema e, puntualmente, pagava sempre lei. 
Intanto, nel parcheggio poco distante, le donne si salutavano. 
La madre di Nicòle partì con l’auto, mentre lei e Flora si incamminarono verso il 
McDonald’s. 
Avanzavano decise senza parlare, l’una accanto all’altra. Le espressioni del viso non 
tradivano l’emozione che faceva battere il cuore di entrambe, per motivi diversi. 
Quando incontrarono Marco, poco dopo, la ragazza ricordò di averlo incrociato, mentre 
andava o veniva dalla casa di Flora. 
Mentre si salutava e scambiavano qualche parola, Nicòle cercò di valutare chi si 
trovava di fronte: il prescelto di Flora, sulla cui verga immolare la propria verginità. 
In effetti il ragazzo non era quello che si potrebbe definire il classico principe azzurro: 
lievemente molle nei modi, aveva un fisico tarchiato e le mani forti di chi ha lavorato, 
nella vita. 
Non era simpatico, né brillante, nonostante questo una strana sensazione cominciò a 
farsi largo nel plesso solare di Nicòle. 
Mentre sceglievano il menù per mangiare rapidamente qualcosa e poi andare a casa, 
la ragazza era completamente assente e fantasticava su quella situazione incredibile. 
Stava parlando con uno sconosciuto, che di lì a qualche ora, sarebbe penetrato nel 
suo corpo, più intimamente di chiunque altro. 
Mentre fissava Marco in modo distaccato, immaginava quello stesso viso, a pochi 
centimetri dal suo. Gli guardò la bocca: probabilmente poco dopo avrebbe succhiato la 
sua lingua. Contorcendosi sulla panca, pensò a come doveva essere, da nudo, 
perché, ne era certa, fra non molto lo avrebbe saputo . 
Si erano fatte le due quando tutti insieme entrarono nell’appartamento di Flora. Si 
misero rapidamente in libertà. 
Mentre si rilassavano in salotto, Flora offrì ai ragazzi dei cioccolatini al liquore, poi 
sedendosi in mezzo a loro iniziò a parlare per rompere il ghiaccio. 
«Allora, avete simpatizzato? Voi che siete giovani dovreste avere molte cose in 
comune, no? » Poi rivolta a Nicòle «Ti va di mettere un po’ di musica?» 
La ragazza scelse un CD dei Queen ma, prima di inserirlo, chiese a Marco se gli 
piaceva. Lui approvò senza riserve: pochi istanti dopo la musica, a basso volume, 
invase l’atmosfera. 
«Vieni Nicòle» la chiamò Flora dal divano «Vuoi provare a baciare Marco? È molto 
bravo sai?» 
Nicòle arrossì ma, passiva, obbedì, sedendosi vicino al ragazzo. Anche lui era 
abbastanza impacciato; per non deludere Flora si avvicinò a Nicòle in modo 
meccanico. 
Si sollevò col busto di quel tanto che gli permetteva di circondare con il braccio i 
fianchi di lei, mentre accostava la guancia ben rasata al volto di Nicòle.
La giovane intanto era tesa e rigida come uno stoccafisso. La disinvoltura erotica e 
sessuale raggiunta con Flora era completamente scomparsa; ora che si trovava in una 
situazione del tutto nuova e in presenza di un estraneo, si sentiva come una scolaretta 
al primo giorno di scuola. 
Nonostante questo, accettò che le labbra di Marco si posassero sulle sue: erano 
completamente nuove, diverse da quelle di una donna. Spesse e dure cercavano la 
sua bocca con meno dolcezza e più decisione. 
Trascorsero pochi attimi e Marco le apriva le labbra con la lingua grossa e bagnata. 
Non era spiacevole, ma Nicòle si irrigidì ancora di più. 
A stemperare la tensione pensò la bella Flora, che andò a piazzarsi in ginocchio tra i 
due ragazzi, rivolta verso entrambi. 
Accostandosi sussurrò: 
«Ho capito, se non interviene la “zia” non riuscite a lasciarvi andare del tutto». 
Sorrise dolcemente e li abbracciò tenendoli entrambi per le spalle. Poi con delicata 
sapienza accostò la sua bocca alle loro, che se ne stavano immobili, non sapendo bene 
come comportarsi. Con una delicatezza perversa, che mai Nicòle aveva riscontrato, 
Flora si abbandonò alla danza del piacere, piroettando, tra le due bocche fresche di 
rugiada, con delle lascive spennellate di lingua. 
Poggiare la sua bocca viziosa sulle tenere labbra e, con tanto vigore, le insidiava la 
mente come un sonetto perverso dell'Aretino. 
Le labbra dei due ragazzi, sopraffatte dalla confidenza che avevano con le sue, si 
schiusero come petali e riconobbero subito la loro amante appassionata. 
Il bacio a tre durò un tempo infinitamente lungo. La loro saliva si fuse stemperando 
ogni tensione e facendo deporre ogni indugio. 
Nelle pause musicali, lo schioccare delle lingue, impazzite, si sentiva chiaramente nella 
stanza. 
Marcò si eccito, trattenuto solo dai suoi Jeans. Mentre Nicòle, provò i primi accenni di 
calore e si sciolse, nell’abbraccio delizioso della sua istitutrice. 
Poi Flora si spostò di lato per sedersi al fianco di Marco, mentre Nicòle guardava 
curiosa, la donna adulta iniziò ad armeggiare, esperta, con la cintura e la lampo del 
giovane amico. 
Le dita di Flora erano curatissime e lo smalto rosso scuro, scelto per quel giorno, 
spiccava sul chiarore del suo incarnato. 
Scavava lenta e decisa in quel pantalone, rendendo la caccia eccitante e passionale. 
Alla fine vinse, ed ebbe la meglio sui boxer di lui. 
Nicòle trattenne il fiato; aveva già visto qualcosa, nei filmini proiettati da Flora . Però, 
avere Marco, virile e presente, a portata di mano, le diede una sensazione nuova. 
Flora fingeva di dedicarsi all’uomo , come se ignorasse la sua amante, ma non era 
così: in realtà ogni mossa, ogni ostentazione di quella virilità, era volta al piacere di 
Nicòle. 
Con quello stesso spirito, aiutò il giovane a mettersi in piedi. 
Marco era troppo eccitato per provare una qualsiasi vergogna a esibirsi anche davanti 
a Nicòle, al contrario, la ragazzina che poche ore prima lo aveva interessato ben poco, 
per le forme acerbe e la timidezza, adesso lo eccitava. 
Si sentì un maschio dominante, mentre quegli occhi di cerbiatta, grandi e profondi, 
non riuscivano a staccarsi dai suoi genitali. 
A buttare legna sul fuoco pensò Flora che, con voce roca e sensuale, sussurrò, rivolta 
alla ragazza: «Liberalo tu stessa dai pantaloni... dai». 
Nicòle non si rifiutò. 
Avvicinandosi a Marco, non poté fare a meno di prendersi delle confidenze e fu 
pervasa dall’odore umido che sprigionava dalla pelle e dai peli delle sue zone erogene.
Per non perdere il controllo si dedicò, non senza impaccio, ad abbassare i jeans. Per 
tirarli via dovette togliergli le scarpe e poi sfilare le gambe strette del pantalone, 
passando con le mani sulle cosce robuste e muscolose, coperte dai peli. 
Lui rimase con le sole calze bianche di cotone. 
Intanto Flora si era sbottonata la camicetta, e si offrì senza remore alla bocca di lui. 
Marco, sempre più su di giri, cominciò a stringere e a baciare le sue carni bollenti. 
Con la mano libera Flora trascinò con volitiva decisione Nicòle sul divano, la tirava per 
il braccio per vincere ogni sua riluttanza. Ora si trovava con il volto a pochi millimetri 
dal maschio, la guancia poggiava sull’inguine bollente di Marco e le narici erano 
impregnate di un profumo nuovo e sconosciuto. 
Nicòle studiò attentamente quell’immagine prima di trovare il coraggio e la forza di 
saggiarne la consistenza al tatto. 
Ma la sua contemplazione platonica venne spezzata dalla crudezza dei gesti che 
seguirono. 
Marco, incapace di resistere oltre, aveva abbassato la mano virile dietro la nuca della 
povera Nicòle e, senza cerimonie, l’aveva attratta a sé. 
Incredibilmente, lei non obbedì all’intelligenza ma all’istinto sessuale e, senza volerlo, 
schiuse le labbra. 
I movimenti e le scelte non erano più i suoi. Si rese conto di quanto le risultasse 
naturale iniziarsi a quella pratica. 
Marco, con fermezza, premette ancora le dita tra i suoi capelli e la spinse. 
Poco dopo, fu lei stessa a studiare, a tentare fino a trovare il giusto tempo e la giusta 
pressione, per proseguire nell’atto. 
Dopo una ventina di affondi, per prendere confidenza e dimestichezza, la ragazza 
diventò più padrona della situazione. 
Schiuse gli occhi e si accorse che Flora si era abbassata, arrivando col viso alla sua 
altezza. La ragazza capì che era di nuovo affamata di maschio e cedette. 
Marcò era già in visibilio, distribuiva, felice, il suo piacere alle due beltà. 
Non aveva mai fatto sesso con due donne e cominciò a capire quanto sublime fosse 
stata l’offerta di Flora. 
Essere conteso tra due stupende creature, oltre alla sensualità del rapporto, 
sprigionava tutta una serie di sensazioni uniche: delicate e rare. 
Le donne si ritrovarono entrambe sedute ai sui fianchi, mentre lui, in piedi, teneva il 
sesso all’altezza dei loro volti. 
Ormai era una gara a chi lo facesse sussultare di più con la propria, lussuriosa, 
profferta. 
Rivoli di saliva trasparente, scorrevano sul pavimento, dalle gole provate fino alle 
soglie del vomito. 
Le mani delle donne viaggiavano sul corpo seminudo di Marco, cercandogli ogni parte 
per prodigarsi in carezze eccitate. 
Guardare la scena era da svenire, per il ragazzo. Le due bocche erano diverse, le 
vedeva e le sentiva. Le labbra di Flora erano grosse e carnose, quelle della ragazza 
sottili e delicate, così come era diverso il ben di dio che si offriva alle mani di Marco, 
mentre, languido, carezzava quei due corpi stupendi. 
Le donne non erano spogliate, ma discinte, e lui trovava facile, rinvenire le loro zone 
erogene per farle sue. 
«Vieni, amore mio» disse Flora prendendo Nicòle per mano «fai sentire a Marco come 
sei buona». La giovinetta salì in piedi sul divano, tenendosi con le mani sulle spalle di 
lei. 
Ora aveva indosso solo le calze, chiare. 
Marco si spostò in avanti col viso e si avventò sul frutto proibito dell’amore. 
Nicòle si sentiva esposta e profanata, nella stanza illuminata dalla luce potente del 
meriggio, sapeva di essere completamente in vista, scoperta.
Flora intanto cercava di farla rilassare tra le sue braccia e la stringeva al petto e la 
baciava in bocca con passione, mentre Marco cercava di farle raggiungere il primo, 
intenso, piacere. 
Poi la donna fece un movimento che la ragazza non si aspettava, ma probabilmente in 
quei momenti era troppo avida per pensare a lei. 
Anche Flora indossava solo calze nere autoreggenti che le superavano di poco le 
ginocchia, si tirò su la gonna e con mossa decisa e rapida, quasi alla cieca, prese 
Marco dentro di sé in un istante. 
Nicòle non voleva sottrarsi a quel rito orgiastico, egoisticamente non voleva cedere, 
tanto facilmente, l’uomo alla sua maestra. 
Quindi non smontò dal divano, costringendo Marco a prodigarsi per lei con la sua 
bocca, nonostante fosse anche impegnato a dare piacere a Flora. 
Per simpatia alchemica, le due donne raggiunsero l’acme contemporaneamente: in 
quel momento si ricordarono dell’amore che le legava, allora Nicòle si affacciò su 
Flora, che volse il viso a lei. Si scambiarono un bacio saffico davanti a Marco. Poco 
dopo ritornarono, sfinite, accanto a lui sul divano. 
Il tempo di riprendersi e rifiatare, poi Marco fu addosso a Nicòle per baciarla tutta e 
tentarla nuovamente. 
La ragazza lo lasciò fare, mentre Flora, approfittando del fatto che il ragazzo era 
ancora seduto, si impossessò della sua virilità con le mani. 
Appena anche lui apparve sazio, si adagiò con le spalle sul divano, rilassandosi 
totalmente. La donna adulta voleva insegnare ancora qualcosa alla sua ancella e la 
chiamò a sé: 
«Vieni amore, vieni a vedere come uso le mani». – Nicòle non se lo fece ripetere due 
volte e curiosa si avvicinò, per osservare liberamente. 
«Guarda bene: questo movimento è per farlo eccitare» e intanto con la mano andava 
su e giù. Per mantenere i suoi gesti lisci e scorrevoli, Flora sputava, ogni tanto sulle 
sue dita. 
La ragazza osservava attenta, mentre le dita di Flora disegnavano carezze perverse. 
L’altra mano armeggiava sotto il ragazzo: 
«Ecco con questa carezza gli dai calore» La voce, roca e libidinosa, della donna si 
scontrava con la finta professionalità con cui descriveva le sue azioni. 
Nicòle guardava estatica e senza volerlo iniziò a lasciarsi andare di nuovo. 
La scena continuò finché Flora, impazzita dall’attesa del piacere, disse alla giovane: 
«Ecco avvicinati adesso, preparati a vedere». la fissò complice «non ritrarti, questo è 
il tuo battesimo del sesso. Va bene? » 
Nicòle fece cenno di sì, e accettò tutto ciò che le veniva donato. 
«Toccalo tu stessa, così imparerai a dosare la pressione della mano» 
Il cambio di mano fece perdere la testa a Marco: aveva fatto di tutto per resistere. 
Era in gioco quasi da un’ora ma, adesso, la mano piccola e inesperta di Nicòle con i 
suoi movimenti stizzosi e irregolari lo trascinò in un tunnel senza ritorno. 
Come un fiume in piena che, non potendo più trattenersi, straripa e inonda tutto ciò 
che incontra. 
L’obbedienza della ragazza era incredibile. Eseguiva militarmente gli ordini della sua 
padrona. 
Con un salto e un grido inarrestabile, Marco si lasciò andare, felice, affondando le dita 
nel divano. 
Nicòle venne bloccata da Flora. Un senso di soffocamento la fece tossire forte. 
Lei non capì nemmeno se le piaceva o no, tanta era la sorpresa di quell’assalto. 
Una volta calmati, si rilassarono e si distrassero, aspettando la sera.
9 
Flora sfornò degli stuzzichini di pasta sfoglia e un’insalatona con i gamberetti, i 
preferiti della sua figlioccia. 
Senza essersi detti nulla i due ragazzi avevano continuato a indossare solo la parte 
superiore dei vestiti: camicia a quadroni, sportiva, per Marco, maglietta aperta 
davanti e senza reggiseno per Nicòle. La ragazza inoltre si era lasciata le sue calze 
nonostante fossero rimaste sfilate, nello scontro precedente. 
Aveva cambiato le mutandine, indossandone un paio nere, a perizoma, che le aveva 
regalato Flora. 
La donna invece indossava uno dei suoi camici pieni di colore, completamente 
sbottonato sul davanti, si vedeva perfettamente che indossava l’intimo nero, ma 
senza mutandine. 
Con una disinvoltura quasi grottesca, verso le dieci di sera si ritirarono tutti nella 
camera di Flora. 
La donna fece accomodare nel bagno prima l’una poi l’altro, ad entrambi fece 
personalmente il bidet con l’acqua tiepida, indugiando, forse pregustando, la notte 
d’amore che li attendeva. 
Una volta a letto riposarono. Flora si sistemò in mezzo ai due, ma sotto le lenzuola, 
pur sonnecchiando, si toccarono. 
Molte volte si baciarono in bocca, ogni tanto qualcuno scompariva alla vista sotto le 
lenzuola. 
Dormirono nudi, abbracciati, gustandosi il rapporto, carnale e profondo. 
L’atmosfera si riempiva di ora in ora di tensione sempre crescente. 
Tra veglia e sonno, Nicòle, non riusciva a togliersi dalla testa l'idea di Marco nudo, 
troppo presente per dimenticarsene. Nel pomeriggio, mentre Flora si era impadronita 
di lui, la giovane non vedeva l’ora di donare la sua verginità a quell’uomo, estraneo, 
ma eccitante. 
Verso le cinque, Marco si svegliò completamente per andare in bagno. 
Voleva la ragazza: ora! 
Aveva perduto il distacco iniziale. Ora era deciso e aveva voglia di deflorare la 
giovane, come gli aveva prospettato la sua amante. 
Quando tornò al lettone, Flora dormiva ancora. 
Lui si accostò a Nicòle. Poi la scosse lievemente sulla spalla: «Vieni» le disse senza 
vergogna «ti voglio!» 
Come una schiava consenziente, che accetta il suo destino, la ragazza scese dal letto 
e seguì lui che la teneva per mano. 
La portò nella camera di fianco, lo studiolo di Flora. 
Marco accese un’abatjour coperta di damasco rosso e dorato. 
La condusse al centro della stanzetta, facendole cenno di inginocchiarsi. 
Volle cominciare così quel nuovo accoppiamento; segno che ci stava pensando già da 
un po’. 
Nicòle non lo rifiutò, anzi, fu felice di trovarlo eccitato per poter poi provare la 
sensazione di portarlo all’estremo , grazie alla sua nuova abilità. 
Quando il giovane cominciò ad accusare la forza del piacere si fermò. 
Con le mani la prese per le spalle e cominciò a baciarla con passione: 
«Ti voglio ora! » le sussurrò semplicemente. 
Ma la giovane si irrigidì: «No. Voglio anche Flora con me». 
«Va bene» Marco si allontanò e, sicuro di quello che sarebbe accaduto, chiamò: 
«Flora? Puoi venire?» la risposta fu immediata, dato che la donna non dormiva, anzi 
stava attendendo, fremente. 
Arrivò, furtiva ed eccitante, come una grossa pantera nera nelle sue calze provocanti.
«La voglio, adesso!» disse Marco, con una veemenza che la donna non gli conosceva. 
«E tu mio piccolo fiore, te la senti?» disse la donna mettendosi di fronte a Nicòle e 
fissandola negli occhi. 
«Io… io credo di sì, se tu mi stai vicino». Nicòle era pronta ed eccitata, ma un po’ 
tesa, per la paura e la tensione che si era prodotta. 
Non era un atto spontaneo, non era l’evoluzione di un amore. Nessun coinvolgimento 
sentimentale e nessuna spontanea donazione di sé, ma solo una calda, potente, 
eccitazione. 
Trovò in sé la nota giusta per far vibrare il suo diapason all’unisono con l’eccitazione 
mentale degli altri due. 
Avrebbero proceduto alla deflorazione di Nicòle meccanicamente, come un atto dovuto 
e necessario, eppure, questa fredda determinazione, era talmente inebriante da far 
girare la testa a tutti e tre. 
«Andiamo in camera» propose Flora «staremo meglio». 
Accese la luce e fece partire una piccola videocamera posta sul comò di fronte ai piedi 
del letto: «Vale la pena di immortalare il momento, vi pare?» 
Totalmente fiduciosi, i giovani risposero affermativamente. Lo stesso Marco aveva 
fatto altre volte l’amore con Flora lasciandosi filmare. Ora sapeva che, rivedere quelle 
scene, aggiungeva ulteriore piacere ai rapporti successivi e l’emozione non lo inibì, 
anzi. 
Flora fece si che Nicòle si stendesse sul letto, comoda, ginocchia alzate e gambe 
divaricate: 
«Appaga prima me Marco» disse Flora, mettendosi a quattro zampe, come una 
cagnolina. Rivolgeva la faccia verso la natura di Nicòle, era un gesto ben 
programmato. 
Un minuto dopo, Nicòle, sentiva tutte le attenzioni che Marco dedicava alla donna, 
nonostante fosse dietro di lei, nascosto alla vista, e tutte le bordate che le infliggeva. 
Ogni sussulto, trasmesso dal grande corpo lascivo di Flora, si trasmetteva fino a lei, 
facendole girare la testa. 
Dopo un tempo interminabile, in cui le oscillazioni dei loro corpi avevano cambiato 
ritmo più volte, Flora lo bloccò e si allontanò da lui. 
«Ecco vieni, Marco, Nicòle è pronta per te, adesso» disse seria. Spostandosi di lato, si 
mise col busto a fianco della pancia piatta dell’altra. 
Marco era al settimo cielo: era stato interrotto sul più bello e ora cercava con 
parossismo una donna, per perpetrare il suo piacere. Fu la stessa Flora a indirizzarlo, 
con la giusta inclinazione, dentro quel nuovo, virginale, bersaglio. 
Il giovane tenendosi con le ginocchia e con le palme delle mani, poteva gestire la 
discesa nella ragazza, che gli veniva offerta, quasi in sacrificio. 
Flora gli impose piccole oscillazioni, e lui, estasiato la lasciò fare senza ribellarsi. 
Quando i mugolii di Nicòle divennero sconnessi e parossistici e Flora, saggiandola con 
le dita, fu certa che fosse al giusto grado di lubrificazione, la matrona divenne 
un’ossessa. 
Sgattaiolò agile alle spalle del maschio e si abbatté su di lui. I grossi seni si 
appiattirono molli e pesanti sulla sua schiena, con tutto il corpo gli premette sulle 
natiche virili. 
Quella pressione, esercitata all’improvviso, prese Marco alla sprovvista, e cedette al 
peso notevole di lei. Crollò su Nicòle con violenza inaudita, invadendole il corpo sottile 
con il suo, di maschio maturo, trivellandola. 
A poco valse la resistenza passiva del imene virginale. 
Cedette in un solo istante. Lasciando che Marco si impossessasse di lei. 
Nicòle urlò per la sorpresa e il dolore; non poteva credere al gesto selvaggio di Flora. 
Ora annaspava in cerca di aria, ma la pressione su di lei non tendeva a diminuire.
Marco fece del suo meglio per non schiacciarle i polmoni e permetterle almeno di 
respirare, ma di certo non sarebbe mai uscito da quel paradiso di voluttà che gli era 
stato offerto. 
Flora al massimo della goduria, per aggiungere parossismo al piacere già intenso, 
controllò con le dita che tutto fosse avvenuto. 
Un attimo dopo, si alzò controvoglia da quel monte di membra avvinghiate, 
estraniandosi dolorosamente. 
Era squassata, anima e corpo, come se fosse stata lei a essere profanata, senza pietà. 
«Approfittane pure, Marco; è tutta tua, adesso. Arriva fino in fondo, senza timori». 
disse con una voce strana, eccitata ma rabbiosa. 
Stava soffrendo come non mai, gelosa: la sua natura di femmina, non le avrebbe mai 
permesso di godere di Nicòle in quel modo. 
Si accasciò ai piedi del letto. 
Sedette per terra e, senza enfasi, seguì da vicino tutte le fasi di quell’atto, da lei 
stessa reso possibile. 
Vedere Marco e Nicòle, uniti, stretti in un’intimità a lei proibita, la fece sentire sola e 
inutile. 
Tre anni d’amore, di abnegazione, di servitù, distrutti dalla natura delle cose. Poteva 
baciarla fino a farsi sanguinare le labbra ma mai avrebbe potuto farla godere tanto 
intensamente, come solo un maschio poteva fare. 
Aveva gli occhi umidi e, improvvisa, in lei salì la rabbia contro quello sconosciuto che 
adesso stava montando la sua pupilla. 
Si pasceva di lei, come un bruto profitta di una vestale. 
Ogni tanto si fermava, allora era la piccola Nicòle che si agitava, scalciando 
lentamente e ruotando il bacino, per andare incontro al suo aguzzino. 
I due ragazzi erano soli, nel piacere, lontani da lei, entrambi. 
Ora Nicòle, dimentica del dolore provato da poco, si spingeva a favore dell’uomo, 
emettendo quei suoni che Flora tanto bene conosceva e adorava, quando era vicina al 
momento decisivo. 
Dopo una lunga serie di spasmi incontrollati, Marco si calmò. 
Flora aspettava, spiando da dietro, gli ultimi movimenti inconsulti. 
Dopo parecchi minuti tutto finì e i due si ricomposero, prendendo di nuovo 
consapevolezza della realtà che li circondava. 
Flora ritrovò tutta la sua libidine in quell’attimo e volle tutto il piacere per sé. 
- Alzati! – ordinò a Nicòle. 
E mentre ancora la giovinetta cercava di raccapezzarsi, si precipitò col busto sotto le 
sue gambe divaricate. Voleva per sé almeno questo. 
10 
Quel giorno la Fata di Ferro beveva alla fonte della sua piccola Principessa: un amore 
liquido, fatto di umori caldi. 
Con grande maestria, aveva dosato gli ingredienti, nella coppa sacra della sua ancella. 
Ora raccoglieva il frutto delle sue alchimie, bevendo dal calice il suggello di un patto 
scabroso. 
Incapace di amare col cuore, preferiva accontentarsi di sostituirlo con la voluttà 
estrema e berne l’erotico liquore. 
La domenica fecero festa: più volte danzarono i balli dell’amore e il satiro, invitato alla 
tregenda, sparse ancora il suo seme virile nelle due sacerdotesse d’Afrodite.
Tre mesi dopo la fata, ritornò donna e si accorse, con raccapriccio, che le premure e i 
calcoli astrali, estrapolati per Alba dalle stelle, avevano agito a discapito della dovuta 
attenzione per sé stessa. 
La Fata di Ferro era incinta. 
Dalla sua casa nel bosco mugghiò e sbuffò disperata e infuriata, scacciò la principessa 
dalla sua vita, per sempre, e nessuno ne sentì mai più parlare. 
Epilogo 
Senza l'amore, si sa, tutte le cose stridono e alla fine producono attrito. 
L'attrito ha la pessima abitudine di attirare l'attenzione, perché produce sforzo, calore 
e rumore. 
L'unico sistema per attutire il rumore è usare il brodo di lacrime, ma produrlo non è 
sempre facile: spesso sono in tanti a cercare di attenuare gli effetti dell'attrito, 
versando tante lacrime, talvolta all'insaputa l'uno dell'altra. 
Sono passati tanti anni, il tempo ha cancellato e sbiadito tanti ricordi. Anche il vecchio 
cartello sul sentiero che porta a una casa abbandonata. 
Nonostante gli anni, però, ancora si può leggere l’antica scritta, all’inizio del viale: 
“Qui abita la Fata di Ferro. 
Lei ama tutti e nessuno. 
Lei sfida la vita, ma la teme. 
Quando gioisce … fa male. 
Non è una vera Fata, 
ma neppure sa essere una vera Strega.” 
FINE

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La fata di ferro

  • 1.
  • 2. Giovanna Storie LA FATA DI FERRO Racconto Erotico Un grazie affettuoso alla mia amica " Principessa" che ha voluto donarci questa storia e grazie anche al maestro Mishima e alla sua infinita pazienza. Questa è una storia vera, interpretata con un pizzico di fantasia.
  • 3.
  • 4. Una ragazza è sempre un mistero: non c'è che affidarsi al suo viso e all'ispirazione del proprio cuore. E. De Amicis C’era una volta una giovane principessa, il suo nome era Alba. Un giorno il re e la regina, suoi genitori, decisero che il piccolo reame che il buon Dio aveva riservato loro, era troppo angusto e il denaro, a una coppia reale, non basta mai. Oltre il bosco, lontano lontano, esistevano altri reami… tutti più ricchi e più sontuosi. In quei luoghi, di sicuro, avrebbero potuto valorizzare la loro nobile schiatta, intrattenere rapporti e amicizie con famiglie importanti, accrescendo il proprio prestigio e per finire, magari, avrebbero potuto trovare quella fonte, che tutti cerchiamo ma che nessuno riesce a trovare: la Fonte dell’eterna giovinezza. Come si sa, dall’altra parte di un bosco tenebroso, si può trovare di tutto, forse è per questo che ognuno intraprende lo stesso viaggio. E così fecero i bagagli e partirono, insieme alle persone care e alla principessa Alba, la loro diletta figliola. Il viaggio si dimostrò faticoso e pieno di insidie. I boschi sono sempre misteriosi e intricati: di giorno pieni d’illusioni, ma di notte popolati da fantasmi e spettri. Le illusioni spingono i coraggiosi viandanti a superare le ardue prove che li aspettano, mentre i fantasmi li spaventano, facendogli così perdere l’orientamento e la sicurezza. Impressionata da tante peripezie inattese, la regina si preoccupò per la giovane principessa. Allora ricordò che, tanto tempo prima, aveva conosciuto una fata, molto speciale, che abitava nel bosco della vita. Non che si fidasse ciecamente di lei ma, in fondo, le fate, come i satiri e le sirene, sono frutto delle nostre speranze e della nostra fantasia. Il bosco è insidioso, confonde il viandante e la paura, spesso, fa compiere scelte frettolose. Allora la regina chiamò a sé la piccola Alba e le disse: «Tesoro mio, il nostro viaggio è più complicato di quanto ci augurassimo. Ormai, lo vedi tu stessa, tutt’intorno a noi le piante si sono trasformate in un groviglio inestricabile e i sentieri sono sempre più pericolosi. Siamo partiti dai declivi e ora siamo circondati da orridi e burroni. La luce, non filtra più gioiosa dalle alte fronde verdeggianti, ma lascia il posto al buio, umido e freddo. Non voglio che tu soffra per le nostre difficoltà; ci sono mille sentieri, molti sono sbagliati e altri non portano da nessuna parte… uno solo conduce alla strada maestra e attraversandolo rivedremo la luce del sole». La principessa pendeva dalle labbra della sua mamma, giovane com’era, non si rendeva conto dei pericoli e delle insidie a cui poteva andare incontro. La felicità era stare insieme ai suoi genitori; il suo mondo finiva lì. Quella era l’unica misura della sua gioia. La regina continuò il suo discorso: «Faremo così! Mentre noi cerchiamo di uscire da questa situazione, tu ci attenderai a casa di una fata che ho conosciuto tanto tempo fa, una vecchia amica. Ricordo ancora dove inizia la stradina che porta a casa sua, vieni!» e prendendola per mano la condusse in una radura, non troppo lontana. «Ecco» disse la regina e indicò col dito un vialetto incantevole «Guarda attentamente! Quello è il sentiero che porta alla sua casa. Non ti puoi sbagliare, perché all’ingresso c’è quell’insegna affissa sul palo, la vedi?»
  • 5. Alba aguzzò la vista ed effettivamente vide un paletto sul bordo della via, con un piccolo cartello fatto con la corteccia di un albero secolare. La principessina annuì e la regina proseguì: «Ecco va’ da lei e affidati alla sua ospitalità. Ogni tanto ci incontreremo qui, fino a quando non avremo trovato la nostra strada». Si baciarono e si abbracciarono e Alba, non senza un’ombra di paura, vide la sua mamma perdersi tra le fronde. Il suo sconforto durò solo un attimo, poi, con la curiosità tipica dei ragazzi, si affrettò lungo il sentiero indicato dall’antico cartello. Sul legno si leggeva a stento un epigramma che il tempo aveva scolorito: “Qui abita la Fata di Ferro. Lei ama tutti e nessuno. Lei sfida la vita, ma la teme. Quando gioisce… poi fa male. Non è una vera Fata, ma neppure sa essere una Strega” Le lettere, sbiadite, vergate con il colore del sangue arrugginito, fecero un certo effetto sulla piccola principessa ma decise di incamminarsi per quel viottolo che, a ogni passo, si arricchiva di fiori, colori e profumi di Guerlain. 1 «E questa è Nicòle! Visto? Te l’avevo detto che non era più una bambina. Il tempo passa in fretta, accidenti!» la mamma della ragazza sorrise a Flora, la vecchia amica. «Su Nicòle, stringi la mano a Flora, presentati come si deve. Dai!» la donna ci teneva a far bella figura, a ostentare la figliola come un trofeo, per rimarcare quanto era in gamba e fortunata. Nicòle sbuffò sbarazzina e mimò un inchino teatrale, poi stemperò tutta la scena con un sorriso: «Piacere!» disse rapidamente «Scusa ma, mia mamma, mi farebbe sfilare come al circo, se potesse». «Certo!» disse sua madre prendendola in giro «Perché solo in un circo sfilano le scimmie come te!» Flora rise divertita: «Non c’è che dire» cominciò «non potevate essere più “diversamente” uguali». Strinse la piccola mano della ragazza, squadrandola dalla testa ai piedi: «Ha ragione la tua mamma. Sei veramente bellissima… come scimmietta, intendo!» e risero di gusto tutt’e tre. Poi Nicòle e sua madre seguirono Flora all’interno della villetta, in periferia, ma collegata benissimo al centro città. «Vi preparo un bel tè: lo gradite? Oppure una cioccolata, non fate complimenti». La cucina faceva parte di una sala ricavata da un unico grande ambiente, che ospitava una serie di divani e un grande tavolo da pranzo. Sul fondo, davanti a un’ampia vetrata, una lunga banchina di legno di noce, faceva da separé alla zona cottura, che era bellissima. Tutta rivestita in tozzetti di ceramica. Una sequenza infinita di calde sfumature di colore che andava dal giallo al marroncino. La casa di Flora era molto accogliente e pulita. Erano anni che non s’incontravano e la madre di Nicòle si gustò quei momenti.
  • 6. «Se me lo avesse predetto un’indovina, non ci avrei creduto… così lontane da casa per poi ritrovarci qui. Sono proprio contenta!» Mentre Franca, la madre di Nicòle era vivace, a volte quasi aggressiva, Flora aveva un carattere allegro, ma parlava meno. Era una di quelle persone che ti danno sicurezza: un sorriso quieto accompagnava ogni suo gesto, e guardarla preparare il tè era rilassante, come tutto l’ambiente che si era creata intorno. A Nicòle piacque subito quella figura di donna matura e prosperosa, con i seni generosi che premevano sotto il camice sottile, che indossava in casa. «Nicòle, preferisci la cioccolata calda?» chiese Flora con la sua voce carezzevole e la ragazza non seppe resistere: «Oh, sì, per favore! La ringrazio» rispose, mentre ispezionava la casa con lo sguardo. «Dammi pure del tu, Nicòle: non sono mica vecchierella come la tua mamma !» rise, sgranando quei suoi denti piccoli e bianchi che sembravano perline. Franca protestò, bonariamente. «Vieni Nicòle, forse ho qualcosa per te. Dovrebbe piacerti più delle nostre chiacchiere» e le fece strada verso la zona living dove un grosso televisore troneggiava su un tavolino, zeppo di film in DVD. «Qui dovresti trovare qualcosa di adatto a te, la figlia di mio fratello lascia in giro un sacco di questi film». «Uaho!» esclamò estasiata, lei, scartabellando tra le custodie di plastica «ma questo è l’ultimo di Brad Pitt. Per favore!!!» - proseguì cercando di fare la migliore interpretazione di “occhi da cerbiatto” mai eseguita «Posso guardarlo?» Flora dovette fare uno sforzo, per non restare immobile e godersi quegli stupendi occhioni languidi. Sbrigativamente replicò: «Ah, cara mia, per me Brad Pitt te lo puoi anche sposare, non guardo mai film moderni». «Nicòle! Tra breve torniamo a casa!» urlò Franca in direzione del salotto, dove la figlia si era già impossessata della TV. Con la maestria tipica dei giovani, aveva già fatto tutte le manovre per far partire il film sul grande schermo piatto. «Dobbiamo rientrare di corsa». – Poi rivolta a Flora «Sai cara, non stavo nella pelle dalla voglia di rivederti, ma siamo appena arrivati… figurati che a casa ho ancora gli operai che montano i mobili, e lunedì dobbiamo già prendere servizio». - Intanto, Flora, incurante del tornado che scatenava sempre Franca, continuò con metodo le sue operazioni: servì un buon tè per entrambe sul tavolo della cucina e poi raggiunse Nicòle, con una tazza di cioccolata fumante e un piatto di biscotti fatti in casa, che sparirono rapidamente, dal vassoio. Franca intanto era già in piedi, scattata come una molla: «Dai, sono curiosa di vedere la tua casa!» disse mentre col mento indicava la figlia che, ignara, si era lasciata rapire dalle immagini. Flora capì e, con la sua tazza di tè tra le mani, fece strada all’amica per le scale che portavano al piano superiore. Di sopra c’erano due camere e un bagno molto comodo e spazioso. «Ma è carinissima: che bella! E queste mattonelle: deliziose. Ti spiace se approfitto?» «Ma scherzi?» rispose l’ospite guardando l’amica che, rapidamente, si abbassò pantaloni e collant, per urinare. «Vengono dall’Italia» - continuò Flora, indicando le mattonelle «Vietri sul Mare, per la precisione. I listoni sono decorati a mano, uno per uno. Piacciono tanto anche a me. Hanno i colori forti che si vedono solo nei posti in cui il sole è splendente». Mentre si dava una controllata davanti al grande specchio ovale, incassato nell’intonaco e circondato da una cornice in ceramica, Franca divenne più confidenziale nei toni e raccontò rapidamente le sue ultime peripezie.
  • 7. Era un momento di sbandamento totale. Suo marito, il padre di Nicòle, era stato trasferito in fretta da una città all'altra. Lei, per fortuna, aveva trovato impiego grazie a un collega di lui. Un lavoro da cassiera, e spesso le sarebbe toccato svolgere il turno serale. Ma non si lamentava, dopotutto l'importante era avere un lavoro. Lui aveva altri due figli, frutto del primo matrimonio, ma erano grandi; si erano trasferiti per necessità, ma presto si sarebbero organizzati per andare a vivere a Parigi, dove frequentavano l'università. Flora, la seguiva quieta, sorbendo il tè e cercando di non perdersi in quelle descrizioni frettolose . L’amica le aveva accennato qualcosa riguardo a un certo “aiuto” su cui contava, stava ad ascoltare attentamente, per capire dove sarebbe andata a parare. Il problema di Franca non era solo pratico: tutta la famiglia stava attraversando un momento di confusione e lei cercava di fare del suo meglio. I figli maggiori erano frastornati dal trasferimento ed erano diventanti intrattabili. Il suo matrimonio si stava sgretolando per colpa di una relazione del marito con una collega di lavoro. Era depressa e cercava, a sua volta, qualcosa di diverso dall’amore coniugale, che ormai le veniva rifiutato. Vecchi problemi irrisolti si erano insinuati nella famiglia e ora stavano minando i rapporti. «La piccola è agitata e nervosa» continuò Franca «e la nostra famiglia è talmente scombinata… Siamo incerti sulle scelte da compiere» la fissò: «Ecco: vorrei affidarti Nicòle, per il doposcuola, affinché tu possa insegnarle la lingua e aiutarla a passare questo momento, piuttosto turbolento. Naturalmente sarai adeguatamente retribuita. È ovvio! Non me la sento di affidarla a un’estranea in un paese che non conosce. Per lei sarebbe solo un ulteriore trauma e francamente vorrei evitarlo». Flora la interruppe, alzando decisa una mano: «Alt, tesoro mio!» intervenne «Non è una questione di soldi. Figurati. Ma ciò che mi chiedi è una grande responsabilità. Cosa ti fa credere, poi, che le maioliche italiane e la cucina in veranda rappresentino il paradiso?» la squadrò quasi offesa: - «Anch’io ho una mia vita, sai? Vivo da sola ma non vuol dire che non abbia qualcuno e, soprattutto, anch’io ho i miei problemi, purtroppo». E il suo viso si ammantò di una delicata tristezza. I loro occhi s’incrociarono. Flora sorrise, vedendo lo sguardo sparuto di Franca; sembrava lei la bambina confusa, adesso. «Oh, insomma» disse infine risoluta «E va bene!» «Facciamo una settimana di prova, ok?» Franca annuì, aveva la stessa aria di un cane che scodinzola. «Però voglio sapere con precisione i giorni in cui la ragazza verrà da me. Posso riceverla dalle tre. Non prima. Sono impegnata col lavoro e altro… la sera, a casa alle venti!» Quella sera, da sola nel lettone, Flora, a occhi chiusi, tornò con la mente alle impressioni che le aveva suscitato l’incontro con la giovane Nicòle. Le forme acerbe, i seni piccoli e, di certo, duri come il marmo... A questo punto, i suoi pensieri si illanguidirono, immaginando il fiore acerbo, che la giovane custodiva. Avrebbe pagato per poterlo almeno ammirare, ma non poteva che restare un sogno. I suoi pensieri, però, diventavano sempre più lascivi, nonostante gli sforzi per distogliere la mente. Allora, le immagini che in quel momento creava con la fantasia, si confusero con i ricordi del passato. Il volto della giovane si confuse con quello della madre, quando era giovane e fresca. La rivide, mentre abbassava la testa dai capelli fluenti e si tuffava sul suo corpo, odoroso di puro piacere. La lingua di Franca la cercava, allora, insaziabile.
  • 8. Ricordò tutte le volte in cui aveva ricambiato quell’esasperante frugare, con la bocca, negli spazi segreti dell’altra. Il corpo, sognato, di Franca giovane, nell’eccitazione che si era impadronita di lei, si confondeva con quella di un’altra. Una donna sconosciuta dai contorni indefiniti, illuminata da una luce dietro le spalle, che ne occultava i lineamenti. Poco dopo, però, fresca come fosse rorida di rugiada, appariva l'innocente visione di Nicòle. Ansando e grondando la donna raggiunse un piacere languido e intenso che, invece di appagarla, la turbò e la lasciò sul letto, piena di rinnovata sete. 2 La Fata di Ferro aveva una casa che solo nel mondo delle fiabe, era possibile immaginare. La giovane principessa si era presentata a lei, armata solo della sua innocenza, della sua voglia di vivere e dei suoi timori. Aveva vissuto tra gli echi del bosco con la forza della paura. Aveva sentito su di sé, il peso dell’indifferenza. Ora, tutto questo, si contrapponeva all’ambiente fantastico che l’attendeva. Era stata accolta come la più bella delle principesse. Le miscele di cacao più esclusive, arrivavano da ogni parte del mondo per confezionare le sue cioccolate, mentre biscotti, marzapane e miele non mancavano mai, all’ora della merenda. La Fata di Ferro era intransigente: prima di tutto i compiti. Ma, come per incanto, anche quelle ore, passavano spensierate: era bello studiare se il premio era un sorriso della fata. Faceva del suo meglio per collezionare buoni voti, per non interrompere quel connubio felice. La Fata di Ferro si dimostrò, per lei, la migliore delle amiche. Bellissima, grande, prosperosa. Indossava sempre vestiti colorati e sgargianti: un vero e proprio inno alla gioia. Aveva mille abiti, tutti troppo corti per nascondere le sue grosse gambe, burrose; tutti troppo stretti per contenere i seni gonfi o le natiche tonde. Nella casa della Fata tutto era a sua disposizione e non doveva far altro che essere felice. La padrona di casa l’aiutava nelle scelte, condivideva le sue idee, la consigliava con l’esperienza che aveva accumulato negli anni. Alba non trovava mai da obiettare ai suoi pareri sussurrati. Anzi. Pendeva dalle sue labbra. Ma la cosa più importante è che le donava tutta la sua attenzione, incondizionatamente. Nulla contava di più della principessa. Il centro dell’universo per la Fata di Ferro era Alba e tutto ciò che lei diceva era importante, unico e prezioso. Stava in famiglia con piacere ma il mondo delle fiabe l’attendeva, quotidianamente, e non vedeva l'ora di poter ritornare in quella casa, alla fine del sentiero, tra le buganvillee e gli oleandri: colorati e velenosi. Ogni giorno la principessina si sentiva più grande e più forte, ogni giorno correva verso nuove esperienze. Celato nel suo cuore di piccola peccatrice, aveva un segreto, inconfessabile ma sublime. Una delle cose che l’attraeva era il corpo della fata; sarebbe rimasta ore a rimirarlo. Già quell’unico incantamento sarebbe bastato a rendere le visite improcrastinabili. Lei era bellissima e, per la gioia di Alba, molto distratta.
  • 9. Quando sedevano al tavolino delle ghiottonerie, spesso accavallava le lunghe e opulente gambe, senza curarsi del camice che si alzava e , salendo, a ogni movimento, metteva in mostra le calze; sempre diverse, sempre di nuovi colori. Quelle che le piacevano di più erano nere. Le calze nere sembravano sempre di una misura più piccola, la seta era tesa sulla pelle, rendendola appetitosa, mentre lo sguardo, ipnotizzato da quella visione, cercava il punto dove il nero deciso dell’orlo merlettato, liberava, con uno sbuffo lievissimo, la carne rosea e chiara. Anche quando si sedeva su un basso pouf, sgranocchiando cannellini e lacrime d’amore, era facile che Alba riuscisse a carpire un’immagine delle sue mutandine, schiacciate tra le cosce. La fata si sedeva lì, per non rubare spazio ad Alba a cui, da principessa qual’era, aveva riservato il posto d’onore sul divano. Spesso gironzolava per casa, alla ricerca di un granello di polvere vigliacco, o di uno dei tanti oggetti che, in quella casa fatata, avevano la strana tendenza a cadere negli angoli più nascosti. Da quando aveva scoperto che, per ritrovarli, la fata si metteva carponi mostrandole il fondoschiena oppure le poppe gloriose, Alba, pur essendo affettuosa e servizievole, non si offriva mai spontaneamente come volontaria per le ricerche. La fata aveva infinita pazienza e nulla chiedeva alla sua preziosa ospite. Per fortuna, tutti i rossori e le vampate peccaminose della giovanetta passavano inosservati, tant’è che una volta, fattasi coraggio, Alba dal gabinetto chiamò la sua madrina con una scusa e si fece trovare seduta sul vaso, con le sottili gambe dischiuse. Ma lei non disse niente e niente notò, chiusa nella sua “casta” indifferenza. Al contrario la principessa, per la vergogna sopravvenuta dopo l’eccitazione, non volle tornare da lei per due giorni. Ma il terzo giorno la fata chiamò, e tutto riprese come prima. *** Flora credeva di impazzire, tanto la situazione era diventata insostenibile. Nonostante le promesse fatte a se stessa e alla madre di Nicòle, la presenza della ragazza era diventata troppo intrigante e opprimente per lei. Il piacere che provava a sentirsi osservata di nascosto da quella piccola troia le rimescolava il sangue nelle vene e, appena la vedeva o la pensava, si ritrovava eccitata. Dal primo istante in cui Nicòle giungeva a casa, la parte più recondita di lei, iniziava a grondare di piacere. Desiderava l’orgasmo per ore, mentre le sue guance avvampavano e i suoi seni sudavano. La voleva! Voleva sfogare sul suo corpo delicato quell’infinito desiderio . Il primo giorno che Nicòle disertò le lezioni, Flora respirò e, dopo settimane di stress, riprese il controllo della sua vita e della sua casa. Era una piccola despota. Una piccola canaglia, quella sua principessa! Il secondo giorno s’immalinconì. Le mancava. Voleva essere tiranneggiata ancora da quell’impertinente spiona. Le mancavano i suoi occhioni che le fissavano le cosce. E sì che Nicòle aveva davvero esagerato; farsi trovare nuda sul gabinetto, ancora bagnata. Pensieri deliziosi l’avevano attraversata, come correnti galvaniche. Ma doveva comportarsi da adulta responsabile. Doveva resistere!
  • 10. Quella sera si decise e chiamò un suo amico, per dare sfogo al vulcano della sua libidine. Ma l'uomo era già impegnato; il fatto che lui non potesse raggiungerla, la rese ancora più furiosa. Si frugò nell’intimo, meccanicamente, sul suo letto, ma il piacere la rese ancora più eccitata e incapace di vincere il desiderio di Nicòle. La sera del terzo giorno la fece finita. Telefonò. «Ero certa che ti avesse avvisato» rispose Franca, perplessa «i giovani di oggi non hanno più nessun rispetto». «No, lasciala stare, sono ragazzi, magari qui da me si annoia. Purtroppo non ho vicini con ragazzi della sua età. La capisco poverina» la giustificò Flora. «Aspetta adesso te la chiamo, vediamo come si sente».- Poi Flora, trepidante e impacciata, udì le voci lontane di Nicòle e della madre: “Ma che ti salta in mente? Perché non hai avvertito Flora che stavi male?” “Uffa, ma io non stavo bene, pensavo che glielo avessi detto tu.” “Sei una gran maleducata. Adesso vai al telefono e scusati …” seguirono altre parole che non fu in grado di sentire. Dopo poco arrivò Nicòle: «Scusa!» esordì. «E di cosa, tesoro mio? Mi dispiace se sei stata poco bene» disse raggiante Flora «ma adesso come stai?» «Sto bene» continuò laconica Nicòle. Poi si sentì confabulare «Dice mamma: se non disturbo, posso continuare a venire da te?» Flora non seppe dissimulare la gioia che le procurarono quelle parole, così con la voce rotta dalla trepidazione rispose: «Lo sai, Nicòle, ormai questa è casa tua. Devi decidere tu, se vuoi… vedermi ancora». «Sì. Voglio venirci ancora» disse la giovane. Il giorno dopo, quando entrò nella casa, un profumo fragrante di torta di mele e di cannella la pervase. Flora le andò incontro e si abbracciarono senza parlare. Da allora però, non si sedette più sul pouf, ma sul divano, di fianco a Nicòle. 3 Ormai il ghiaccio era rotto e la Fata di Ferro non teneva più per sé i suoi segreti. Anzi, burrosa e languida, aveva deciso di darsi alla principessa Alba, anima e corpo. Ad Alba non sembrava vero. Il pomeriggio facevano una merendina e chiacchieravano come due amiche del cuore. Poi si dedicavano ai compiti, perché una vera principessa deve essere in gamba, la fata glielo ricordava tutti i giorni. Poi arrivava il premio. Il premio era la confidenza, l'intimità. La fata, rassegnata, si donava completamente, perché soddisfacesse la sua lussuria e i suoi sentimenti lascivi di giovane curiosa e impertinente. Allora la screanzata si sedeva accanto a lei. Spesso si servivano di un piccolo plaid con una fantasia scozzese, in quei casi Alba gioiva ancora di più. Guardavano la televisione, nelle lunghe serate invernali: la Fata si piazzava sul divano e seguiva con finta attenzione qualsiasi programma, pur di starle vicino. Altre volte leggeva delle storie oppure le parlava della sua gioventù. Le loro gambe, celate sotto la coperta, iniziavano a strusciarsi. Il rumore del tessuto che frusciava, eccitava entrambe. Ad Alba non mancava mai la scusa adatta: ora per lo spasso, ora per la paura, ogni pretesto era buono per stringersi alla Fata di Ferro.
  • 11. Allora, specialmente se protette dal plaid di lana, le piccole mani sottili cominciavano a frugare. La ragazza abbracciava la donna, in cerca d’affetto e ne esplorava ogni rotondità, ogni curva. Le dita affusolate vagavano sul cotone del camice, a volte perdendosi tra le roselline sul fondo nero, altre, cogliendo le margherite, prepotentemente sparse; e più la Fata taceva, più quelle mani si prendevano delle confidenze. Dapprima voleva accarezzarla con delicatezza e disinteresse: carezze distratte, occasionali, come se nascessero spontanee e senza scopo. Ma poi l’eccitazione aumentava, i movimenti diventavano sempre più rabbiosi, sconnessi, convulsi- Quelle mani “possedevano”, letteralmente, il corpo della grossa fata. Alba le toccava i fianchi abbondanti, poi strisciava serpeggiando fino alla pancia di lei, che era generosa e morbida, allora di piatto si infilava sotto la carne e carezzava l’inguine. Poi tornava su, cercava le mammelle e tirava, e premeva, e giocava con il seno abbondante. I capezzoli si sentivano al tatto, gonfi e costipati sotto la veste, pressati nel reggipetto. Poi le dita esploravano il collo, la nuca, titillavano i lobi… La fata moriva lentamente di languore. Il cuore impazziva e piccole gocce di perla le cingevano la fronte. Il plaid faceva da complice. Allora la ragazza diceva di aver caldo. Da sotto la coltre, faceva scivolare via dalle gambe di gazzella, la gonna, e restava solo in mutandine e calzettoni. La carne nuda cercava di nuovo il contatto, scostava il cotone, strusciava sulla seta e trovava infine la pelle dell’altra. E quando la carne s’incontrava, per entrambe era il tripudio. Quel desiderio era tanto più grande quanto più era proibito e sofferto. Il silenzio falso della fata faceva fremere la giovane principessa. Ogni attimo temeva di essere scoperta e quindi allontanata, scacciata. Sapeva che stava approfittando di tutte le magie della Fata di Ferro, ma non riusciva a trattenersi! Doveva bere a quella fonte. Ogni sera si riprometteva di resistere a quella sete ma, il pomeriggio successivo, i suoi buoni propositi capitolavano e si rituffava in quel corpo arrendevole, morbido, materno. Che gioie provava e quanto si bagnava il suo fiore nascosto.! Tornava a casa con le mutandine in fiamme per la lussuria. 4 Il pomeriggio era freddo, nonostante la primavera fosse appena arrivata. Nicòle arrivò con le guance e le ginocchia arrossate e il piccolo naso ghiacciato. La sua figura slanciata emerse superbamente, tra i giochi di luce degli specchi della porta. Flora restò abbagliata, ancora una volta, dalla sua leggiadria. Era martedì. La ragazza era mancata due giorni, anzi quasi tre, e la donna si rese conto di quanto la amava. Padrona del mondo, Nicòle si spogliò del soprabito e della sciarpa bianca. Poi tolse il cappello di lana, lasciando scorrere sulle spalle i capelli d’oro. Inondò, poi, la casa di sorrisi e parole senza senso.
  • 12. Niente scuola per domani, niente compiti oggi. Stabilì, spadroneggiando, che era il pomeriggio adatto per guardare “Il dottor Zivago”. Flora avrebbe voluto piangere, ma non lo fece, né si oppose alle richieste della giovane. L’attendeva da troppo, per non esaudire i desideri della sua piccola “tiranna”. Iniziò a sentire le farfalle nello stomaco, mentre con la mente pregustava le carezze che bramava da tanto. Le loro mani avrebbero danzato con le dita, intrecciandosi e respingendosi, come ballerine su un palco. Non riusciva a porre freno al suo desiderio, né a quello della ragazza. Ma erano in stallo; non poteva continuare così. Flora decise di rompere gli indugi: «Vai a fare pipì allora, altrimenti dopo ti seccherà alzarti» le sorrise «Io intanto vado a preparare il tè». «Sì, Badrona!» la prese in giro Nicòle. Mentre Flora armeggiava in cucina, la giovane che si attardava nel bagno, gridò: «Ho una sorpresa, la vuoi vedere?» «Oh, ohhh!» rilanciò Flora «le “tue” sorprese non promettono niente di buono per il mio destino». «E invece sì, guardami!» uscì dal bagno e si mise in mostra. Aveva indosso solo lo spesso maglione a coste. Sotto, invece dei calzettoni, indossava collant neri e velati. Flora ebbe un sobbalzo, nonostante la ragazza tenesse le cosce serrate, era evidente che non indossava le mutandine. «E guarda, ora». disse Nicòle, con un sorriso che sapeva di giovanile impertinenza. Divaricò i piedi allargando le gambe. Aveva squarciato grossolanamente i collant con le dita, proprio tra le gambe, così le calze facevano da cornice a quello spettacolo mozzafiato. «È una mia invenzione! Ti piace?» Non attese risposta; tanto sapeva che non sarebbe arrivata. La bocca di Flora si era spalancata per lo stupore, non riusciva a proferire una sola parola. «Queste sono più calde, starò comodissima. E senza le mutandine, posso fare la pipì più facilmente». Alzò gli occhi e fissò Flora con aria spavalda, gli occhi di cerbiatta la sfidarono senza pudore. Flora riuscì a distrarre la sua attenzione da quello spettacolo. Col respiro affannoso finse di borbottare qualcosa sui giovani, voltandosi per nascondere il rossore, eccitata. Si dedicò tenacemente a filtrare il tè e lo versò caldo nelle due tazze preferite, poi senza una parola si ritirò di sopra in camera. Nicòle si era già sistemata sul divano, accogliente come un'alcova. Il film era appena partito. Dalle scale spiò Flora che tornava in salotto. Si era cambiata: ora indossava una lunga camicia da notte stretta ai seni, in stile impero, sotto si svasava leggermente e, sul davanti, era chiusa dai bottoni. La ragazza notò che la donna non aveva più le calze. Avrà caldo, pensò tra sé e provò piacere a quella vista. *** Quel pomeriggio la Fata di Ferro aveva indossato una veste leggera con i bottoni sul davanti. Come sempre, in silenzio, si sedette accanto ad Alba. Dopo pochi minuti la principessa si raggomitolò al suo fianco; iniziò ad assaporare l'atmosfera voluttuosa che si creava tra loro. Chiuse gli occhi e aspirò il profumo fresco sulla sua carne delicata. Tirò sul divano le due gambe fasciate dai collant, mentre abbandonava la testa sul braccio della fata. Pochi istanti dopo, con la mano libera, scivolò dalle sue gambe sottili a quelle deliziosamente piene della donna matura.
  • 13. Spingendo sul cotone leggero, sentì che scivolava facilmente sulla pelle nuda delle cosce. La principessa ebbe uno dei mille brividi, che ormai facevano parte della sua precoce sessualità. Curiosa, col cuore che batteva, la mano trasgressiva scivolò verso l’alto; scavalcò la pancia, si soffermò sull’ombelico teso, per poi risalire il lieve pendio che arrancava sotto i seni generosi. Avrebbe voluto lanciare un piccolo grido di vittoria, ma si trattenne mordendosi le labbra: si era appena resa conto che la donna aveva tolto anche il reggiseno. Le sue poppe, deliziose e calde, poggiavano solo sul corpetto della vestaglia ed erano trattenute solo dai bottoni. La voglia divenne violenta. La fata taceva, come se nulla stesse accadendo tra loro. Il volto sembrava quello della Sfinge. Guardava, senza vedere, in direzione della televisione, le labbra serrate enigmaticamente; non un briciolo di emozione faceva capolino sul suo viso. I suoi occhi penetranti, evitavano accuratamente di incrociare quelli di Alba. Sembrava lievemente annoiata e del tutto indifferente alle passioni contrastanti che agitavano la giovanetta. Alba voleva toccare la pelle nuda di lei, ma non voleva sembrare troppo insistente. Alla fine si fece coraggio. Doveva tentare. Non poteva restare per sempre nell’insicurezza e col petto in fiamme. Le dita sottili della sua mano, acquistarono coraggio e, come artificieri che manipolano una bomba inesplosa, uno dopo l’altro liberarono i tre bottoni, che scendevano dal decolleté della Fata di Ferro. I seni tracimarono come un fiume in piena, privi oramai di ogni difesa. Non più trattenuti, si allargavano mollemente, allontanandosi l’uno dall’altro. Nel mezzo apparve, allora, come una vallata rorida di sudore. Come provenisse dal sottobosco nel mese di agosto: una zaffata di profumo di donna invase le nari della principessa impertinente. Alba era insicura nel leggere i segnali del piacere, ma di certo non evitò di cercare la voluttà tra quelle due montagne calde e tenere. Sulla sommità, sorgendo come un tempio tibetano, i seni, turgidi e torniti, con la punta grossa come un dito, svettavano, allettando all’osare. Il contatto della pelle nuda con i luoghi più intimi della sua “madrina” resero la principessa euforica, come ubriaca. Abbandonò ogni freno inibitore e si avventò con le mani su quei seni e sulla pancia che li sosteneva con le mani bramose di toccare. Quel silenzio indifferente e annoiato che spesso era stato causa di dolori d’amore nella giovane principessa, ora, era benedetto. La donna, immobile, si lasciava sballottare, tastare, annusare, senza dare segno di fastidio. Alba aveva perso la testa. Adesso era quasi pronta al passo decisivo: la vicinanza del suo viso e della bocca a quel seno generoso la invitava a prenderlo tra le labbra con passione. La voce della Fata di Ferro arrivò, pacata ma decisa, del tutto inaspettata. Come uno schiaffo sulle mani. La matrona uscì, all’improvviso, dal suo torpore sibillino. Risorse e, voltandosi verso Alba, la fissò con gli occhi scuri, ardenti come braci: «Ma ti piace veramente quello che stai facendo?» Alba sussultò. Ritirò la mano. Si irrigidì come se fosse stata colpita da un ceffone. Nonostante la donna continuasse a rimanere immobile sul divano, con i seni fuori dall’abito stretto. Nonostante l’orlo sottostante, sollecitato dai moti inarrestabili, fosse salito fino a scoprire del tutto le grandi cosce e perfino la mutandina bianca di cotone, fu la ragazza a sentirsi messa a nudo.
  • 14. Si sentì scoperta, in un gioco che, follemente, aveva pensato di poter occultare. Si vergognò di avere approfittato, esagerato, usurpato. Aveva invaso l’amicizia bonaria della fata, frugando sempre il suo corpo. Quel giorno aveva di certo esagerato e, all’improvviso, provò su di se tutta la violenza della colpa della sua trasgressione. Rimase impietrita mentre, completamente sobria dopo la sbornia di piacere, desiderava sprofondare, pur di non dover ammettere la sua insana passione. Il tempo si era fermato nel soggiorno. Tutto sembrava tacere. La Fata di Ferro, impassibile come un’aguzzina, scrutava l’anima di Alba, passandole attraverso gli occhi, chiari come l’acqua. Poi finalmente sul suo viso si disegnò un leggero sorriso che odorava di panna montata. Riprese la sua posizione comoda sul divano e, lentamente, cercò la mano di Alba, accogliendola sui seni cedevoli. Appena la ragazza si sciolse dalla morsa della paura, poggiò la testa. Allora lei l’attirò a sé fino a quando la bocca non si posò sul suo seno voglioso. «Tu lo sai che tutto questo è proibito. Saprai mantenere il segreto?» Liberandosi la bocca dal bacio, Alba promise con tutta l’anima: «Non dirò mai niente a nessuno di quello che accade tra noi... qui. Te lo giuro!» La fata abbassò lo sguardo e le loro labbra si incontrarono. Le sue erano carnose e pronunciate e si schiusero alla curiosità della fanciulla. Lei non sapeva bene come fare, ma il contatto fu inebriante. Un attimo dopo si ritrovò sulla lingua un succo oleoso e trasparente: era la saliva della sua amante. Passando da una bocca all’altra il liquido si abbassava di temperatura, portando una freschezza sconosciuta e nuova. Non credeva di resistere a quel sapore senza svenire, ma si fece forza. «Nooo!» non riusciva a credere che tutto stesse veramente succedendo. Quella penetrazione tra le labbra era la cosa più intima e segreta che le fosse mai capitata. Quando le due lingue si catturarono, Alba voleva piangere per l’emozione. Non poteva sapere che quello era solo l’inizio. 5 «Sto tanto bene con te, mi piace toccarti tutta e desidero da tanto che anche tu mi accarezzi». disse Nicòle. «Sei certa di volerlo? Desideri un contatto più intimo? » disse Flora, mentre erano abbracciate con le guance che si sfioravano. «Sì. Lo desidero da mesi: voglio che mi tocchi anche tu! » poi aggiunse sussurrando «Lo so bene che mia madre non accetterebbe tutto questo, ma io non dirò mai niente. Io voglio essere solamente tua». Flora sorrise e si lasciò finalmente andare, come finalmente sciolta da un legaccio che ne inibiva le emozioni. Era ora di raccogliere i frutti dei suoi maneggi e della sua tenacia. La baciò ancora sulle labbra con complicità, e le sue mani iniziarono a muoversi. Scivolarono sotto il grosso maglione e le cercarono le spalle, e si saziarono di tutto il corpo della giovane. Dalle spalle scesero sui fianchi, poi, da sopra le calze scese alle natiche. Conobbe le sue gambe, per poi risalire, strisciando il polso sul pube, ma senza soggiornarvi... almeno per il momento. Le carezze proseguirono di nuovo verso l'alto, rientrando sotto la maglia e raggiungendo i piccoli seni appuntiti e durissimi. Arrivate all’aureola rosa si fermarono e Flora la fissò con un sorriso di sfida; aspettava un permesso che non le fu negato.
  • 15. Allora sapientemente seppe pressare e tirare quei seni acerbi. Li circondava e li massaggiava; dopo averla baciata ancora si diresse, con la bocca, sulla maglia, sottoponendoli alla voracità delle sue labbra. L’alito tiepido oltrepassava la lana, inondando la ragazza di un calore del tutto nuovo e inebriante. Poi l’eccitazione della fanciulla divenne sogno . Quando, con movimenti voluttuosi, Flora fece scivolare verso l’alto sia la maglia che la canottiera leggera, il contatto delle sue labbra direttamente sui piccoli bottoncini rosa, diventanti duri come madreperla. La ragazza aveva il ventre infuocato. Il desiderio la rimescolava tutta, non sapeva come, ma voleva da quella donna tutto ciò che l’erotismo poteva offrire. Nicòle non poteva sapere che quella danza, era solo l’insieme dei preliminari. Infatti qualche minuto dopo, Flora chiuse la porta a doppia mandata e le prese una mano. Scalze, come ninfe dei boschi, salirono al piano superiore dove c’era la camera da letto. Flora la fece distendere, delicatamente, e poi si accovacciò sulla giovane, mettendosi a quattro zampe, mentre i seni sconfinati, precipitavano sul collo e sul petto di Nicòle. «Tesoro, adesso puoi guardare e toccare… tutto. Non ti devi più trattenere. È da tanto che lo desideravo, piccola mia». Si scostò una ciocca con le dita «Finalmente…» Allora Nicòle, con un gesto liberatorio, le aprì tutti i bottoni e lasciò che la veste scorresse dal suo corpo verso il pavimento, lasciandola finalmente nuda, nell’opulenza delle sue morbide forme: si mostrava tutta davanti ai suoi occhi vogliosi. La ragazza cominciò a godere già con gli occhi. La possedette con lo sguardo, come un bambino che diventa padrone del giocattolo che desidera da tempo. Ora, libera, Nicòle cominciò ad accarezzare la donna, scrutandone prima i seni, poi la pancia e i fianchi. Flora indossava ancora le mutandine bianche. Curiose di provare, le dita di Nicòle frugarono sotto l’elastico, voleva scoprire fin dove si poteva spingere in quella nuova frontiera della sensualità; con le dita cercò l’orlo e iniziò a sfilarle. La donna si abbandonò a quel piacere, così la giovane, seguendo il suo corpo con le dita, ebbe l’occasione di esplorare tutta la sua carne, fino ai piedi, nudi e caldi, che tante volte aveva desiderato baciare. Ora, la grande dama, era tutta nuda e tutta sua: che piacere inatteso! Come un dono d’amore Nicòle si offrì: «Prendimi anche tu, Flora, scoprimi, guardami e tocca tutto ciò che desideri di me, il mio corpo ti appartiene». Lei fu bravissima: le sue mani le sfilarono i vestiti scorrendo sulla pelle e facendola vibrare. Languidamente le tolse le calze strappate, facendole scivolare sulle lunghe gambe da gazzella. Poi toccò alla maglietta: anche quello fu un atto delizioso, lento, eccitante. Le dita leggere sfioravano i piccoli seni, che reagivano, autonomamente, a ogni sua carezza. Con fare materno sistemò la biancheria su un cuscino. In poco tempo, anche la ragazza venne completamente spogliata. Per Nicòle, starle di fronte, era come volare: vedere il corpo di lei, tanto desiderato, la faceva sentire sospesa in uno stato conturbante, mai provato prima. Essere del tutto nude, fece sì che si fondessero in un abbraccio totale, dove ogni centimetro di pelle veniva a contatto, combaciando. Distese sul letto, le mani di Flora, immediatamente seguite dalle sue labbra, iniziarono quel viaggio passionale che mai più si sarebbe cancellato dai ricordi di Nicòle. Le sue mani addosso, erano come scintille di lava incandescente.
  • 16. Scivolavano sulla pelle e, appena dopo le dita, arrivavano le labbra che, umide di fiato e di saliva, sembravano fumare come lava ardente che lasciava, su quel corpo acerbo, sensazioni mai provate. Quella scia umida, che evaporava per la febbre dell’amore, le procurava brividi eccitanti e incontrollabili. Nicòle era come in trance. Viveva tutto questo, come in un’altra dimensione. Le sensazioni indescrivibili erano intense, violente, eppure ovattate: come se la sua mente le vivesse sotto l’effetto della più inebriante delle droghe. Finalmente, dopo il lungo peregrinare, le dita raggiunsero la piccola farfalla che, come appena sorta dal bozzolo, se ne stava immobile e contrita, in attesa che la natura le insegnasse a schiudersi al piacere. Ciò che sembrava l’apice insostenibile della goduria, si rivelò solo l’inizio del sentiero proibito, durante quell’accoppiamento innaturale. La mano di Flora si dedicò al gioiellino della giovane Nicòle: la carezzava, la confortava… l’avvisava di tenersi forte, perché l’affondo stava per giungere. Infatti, pochi momenti dopo, la bocca carnosa discese implacabile, affamata di quel fiore. La ghermì, violentandone le ali piene di rugiada, spaccandola fino al vertice con la lingua possente e dura. La bocca premeva. La lingua penetrava inarrestabile: come quella di un vampiro assetato di miele. Flora penetrò nel sacello bagnato e, al tempo stesso, infuocato dalla passione. Un suono osceno si sprigionava da quella scena erotica. La dolcezza aveva lasciato il posto all’ingordigia. Un fulmine elettrico, squarciante, luminoso, partì dal ventre di Nicòle e percorrendo ogni suo muscolo più recondito, raggiunse il cervello, facendola sobbalzare per l’emozione. Un piacere mai provato, sconosciuto perfino nelle notti solitarie in cui si martoriava il sesso. Flora le stette addosso con la stessa forza di un maschio che vuol possedere la preda conquistata. Pur senza deflorarla, la fece sua ripetutamente, forse in maniera ancora più veemente, marchiandola per sempre col suo peso e con le lettere infuocate del suo desiderio incontenibile. Gli orgasmi di Nicòle iniziarono pochi minuti dopo quelle ondate di carne che si squassavano sulla sua riva, con la forza di una burrasca. Non fu possibile contarli, così come poi non sarebbe stato possibile contare i giorni di amore e di piacere che avrebbero vissuto in seguito. Tutte quelle ore passate insieme, le avrebbero trasformate in amanti indivisibili. Quando Nicòle cercò di ricambiare dirigendo la bocca verso i luoghi segreti della donna, Flora non le permise di raggiungerli. La ragazza si dovette accontentare di poggiarle la guancia sul ventre, cercando di aspirare, vicinissima all’intimità della donna, tutto l’odore che sprigionava. Poi le accarezzò la mano e, delicatamente, le permise di avventurarsi dentro di lei. Nicòle cominciò a scavare e a rovistare, come fosse la padrona. Dopo poco, anche Flora esplose, senza più controllo. Appena Nicòle capì che la sua istitutrice stava raggiungendo l’acme, cercò, con l’altra mano, la sua natura e si associò a lei nel novello piacere che, liquido e sonoro, la fece sciogliere… come se svenisse in un lago peccaminoso. Godere insieme fu inconcepibile, iniziandole subito a una comunione che mai più si sarebbe potuta sciogliere. Per la giovane Nicòle, questa fu la prima, vera esperienza sessuale, e fu tutta al femminile.
  • 17. Andava oltre il semplice sesso; sfociava nell’emozione: un'emozione che mai, nella sua vita, sarebbe stata eguagliata. Per quanto piacere avrebbe mai assaporato, nessuna relazione avrebbe retto il paragone con quella prima, indelebile, avventura. Quel paio d’ore intense e travolgenti restarono impresse nei suoi ricordi a un livello di estasi ineguagliabile. Spossata, si accucciò sotto il corpo della sua fata, dopo il sesso sfrenato, adesso, cercava l’amore incondizionato. E si addormentò. 6 L’estate torrida scaldava i sensi, mentre i corpi seminudi delle due amanti, la giovane principessa e la fata matura, si mostravano e si avvinghiavano, schiavi dello stesso desiderio. Anche l’autunno, con la sua dolce pacatezza, le invitava a scrutarsi e a possedersi, approfittando di ogni occasione. L’inverno freddo le teneva vicine, pelle contro pelle, sotto un’unica coperta, profumata di piacere. A primavera le loro farfalle fiorivano ed erano eccitate più che mai: il momento migliore, per affondare le bocche nell’altra, manipolandola fino a quando dalla corolla, intensamente profumata e dolce come il miele, si decideva a sgorgare l’acqua di rose dell’amore. E così, mescolandosi l’una nell’altra, in un amalgama di sesso e passione, le donne passarono le stagioni di quell’amore avvincente e perverso. Alba cresceva e imparava. La Fata di Ferro provava un intenso languore, lasciandole una parte dominante sul possesso del suo corpo maturo. La principessa, oltre ad amarla, si divertiva a giocare con lei e a tiranneggiarla. Spesso la fata si accontentava di inginocchiarsi ai piedi del grosso divano, facendole da serva, da schiava. Il suo omaggio servile partiva dai piedi di Alba. Poi la massaggiava, la baciava fino all’estremo, lasciandola, alla fine, riposare sotto il suo abbraccio materno. Pian piano le faceva scoprire il piacere in tutte le sue possibili sfumature. Prima concedette tutto di sé, poi iniziò anche a cercare il gusto del possesso. Le insegnò tutti i giochi e le furbizie, le permise di usare oggetti erotici, per imparare a dare virilmente piacere a una donna. La principessa giocava e sperimentava. Amava prendere la fata, da ogni parte, godeva a vederla ricevere le sue spinte penetranti, in ogni suo meandro. La donna godeva dell’ingenuità di Alba, ogni giorno più provata, più curiosa, più smaliziata, nella ricerca sfrenata della passione. La fata, adesso, prendeva piacere dalla sua discepola. Di notte, poi, la fata, più matura e scaltra, sola nel letto, mentre ascoltava il frinire delle cicale, si arrovellava cercando nuove perversioni per poterne godere l'indomani. Non le sembrava vero di poter coronare i suoi sogni più inconfessabili, servendosi di quel corpo, tenero e giovane, e di quella mente fertile e incantata. L’aveva tenuta vergine fino ad allora, ma un giorno decise di sferrare il suo incantesimo erotico più potente. Nel frattempo i genitori della principessa, ignari di quanto accadeva, si concentravano sulle loro vite complicate. La regina si fidava ciecamente dell'amicizia che la legava
  • 18. alla fata. Nonostante avesse intuito che, in quella casa di marzapane, avveniva qualcosa di più che il solo sorbire del tè con i biscotti. Ma tutto era tranquillo, grazie a quel rapporto tanto speciale. L’amica era dolce e paziente, la principessa veniva su felice e robusta, e lei era più libera e spensierata che mai. Andava bene così. Indagare sarebbe stato inutile e anche impegnativo. 7 Nicole la stava accogliendo, soffrendo, ma decisa. Le braccia incrociate sotto la testa che veniva schiacciata contro la spalliera ad ogni pressione. Le ginocchia a terra, poggiate su un plaid, erano divaricate. Aveva fatto tanto per convincere Flora a farle provare la passività più segreta, dopo che lei, la piccola Nicòle, le martoriava, da anni, ogni parte. L’oggetto con cui si aiutavano era grosso, molto spesso ma non troppo lungo. E quando lo indossava, Nicòle non dava tregua alla sua amica. Flora riceveva tutto da lei, senza battere ciglio, ma diventava attenta e severa quando si trattava di usare il corpo di Nicòle per il suo piacere. Così aveva impiegato del tempo per permetterle di esprimersi fisicamente su di lei. Ecco perché Nicòle subiva senza lamentarsi gli attacchi, costanti e feroci, della sua matrona. Aveva chiesto e, finalmente, aveva ottenuto. La ragazza aspettava che la furia sbollisse, perchè dopo averla attaccata da dietro, Flora, come fosse pentita di avere abusato di quel forellino roseo, la curava. Si metteva alle sue spalle con una delicatezza la ristorava dopo la carica che lei stessa aveva portato a segno. Quando finirono, abbracciate sul divano e sfinite dalle emozioni, Nicòle manifestò tutto il suo disappunto: "Ma insomma… è bellissimo farlo, ma perché non posso far l’amore secondo natura? Sono una donna ormai. – Flora sogghignava, divertita, ma le rimostranze della ragazza divenivano sempre più accese. «Piccola mia, ma tu ti senti pronta? Sei decisa? » le chiese inutilmente «Lo sai che la verginità è qualcosa che una volta perduta non potrà mai tornare». continuò materna «Se la perdi non puoi più riacquistarla, ci hai pensato bene? Lo vuoi davvero? » «Uff. Ancora con queste sciocche storie? » sbottò Nicòle «io ti amo e voglio farlo con te. Cosa dici sempre? Va fatto con amore! » alzò la voce «Ecco io lo voglio fare, con amore, e con te. Punto!» Flora le accarezzò i capelli e la fissò negli occhi intensamente; in quei momenti sembrava volesse scavare dentro la giovane, per capire davvero cosa provasse. Poi con tono scaltro : «E va bene, ma ci vuole un uomo: un ragazzo! Non esiste perdere la verginità con un coso artificiale. Dovrà essere un evento, un piacere indimenticabile». Poi rivolta a Nicòle «Ma pensaci bene, non ce l’hai un bel ragazzo che ti corteggia? Fallo con lui, no? » disse con malcelata furbizia. Sapeva perfettamente che la giovane dipendeva totalmente da lei, anima e corpo. «No, non mi interessano. Non li voglio. Voglio essere tua e basta!» «Vai a fare la doccia, amore. Dopo ti faccio vedere una cosa». Ma poi telefonò la madre di Nicòle per portarla con sé a fare compere e il discorso rimase in sospeso.
  • 19. Pochi giorni dopo, una domenica, Flora invitò Nicòle a sedersi sul divano per farle vedere qualcosa alla TV. Fece partire un filmato e poi si sedette al suo fianco senza dire altro. Dopo poche, inutili inquadrature, la ragazza si rese conto che stava guardando un film porno. Tutte le scene si svolgevano in tre: due donne e un uomo; non sembravano attori professionisti, ma forse era solo un trucco. Flora cercò di mantenere un atteggiamento rilassato e distante, mentre cercava di attirare l’interesse della ragazza sulle varianti possibili tra i partecipanti. Nicòle guardava estasiata, attratta soprattutto dalla vista del membro maschile. A un certo punto la ragazza le chiese se aveva esperienza di rapporti orali. «Ma certo». – «E com’è?» chiese Nicòle curiosa. «Com’è, com’è? E’ particolare. Non ha un sapore speciale, però è particolare. È caldo e odoroso. Lo senti, è… piacere liquido». Mentre conversavano e guardavano, ognuna per sé, iniziarono a toccarsi, come un gioco simmetrico da praticare contemporaneamente. «Il prossimo week end» disse Flora con la voce ormai provata dall’emozione «chiedi a tua madre il permesso di stare con me. Inventa una scusa. Ti farò conoscere un mio amico. Che ne dici?» «Sì, sarebbe meraviglioso; voglio provare» la guardò complice e dolce «ti prego!» 8 Il sabato si incontrarono al centro commerciale. Non era raro che Nicòle passasse qualche giorno insieme a Flora. Qualche volta erano anche state in viaggio insieme. La madre della ragazza fu felice della proposta. Ne avrebbe approfittato per un breve viaggio al sud, per controllare la casa al mare, abbandonata da mesi. Tra le chiacchiere e i saluti, Flora già pregustava ciò che sarebbe accaduto, mentre una sensazione di calda eccitazione si impadroniva di lei; stava vivendo il periodo più entusiasmante della sua esistenza. Quella posizione di istitutrice, la totale disponibilità della giovanetta e la sua versatilità sessuale la rendevano costantemente desiderabile. La fortuna le aveva fatto incontrare in quel periodo anche un ragazzo, quasi dieci anni più giovane, leggermente tonto, però a letto era un toro instancabile. Era uno studente e abitava in una stanza in affitto presso una famiglia di anziani, a pochi isolati dalla sua villetta. Una volta gli aveva dato un passaggio e, successivamente, gli aveva chiesto qualche favore: lavoretti in casa di poco conto per i quali gli riconosceva una piccola paga e qualche regalo. Una sera lo aveva invitato a restare per vedere un film con lei sul divano. Da allora tra lei e Marco, così si chiamava il giovane, si era instaurato un bel clima per i rapporti occasionali, senza coinvolgimenti sentimentali. Ogni tanto, specialmente all’inizio del lungo rapporto con Nicòle, dopo gli estenuanti pomeriggi di toccamenti e di eccitazione trattenuta nella pancia, chiamava il ragazzo non appena la fanciulla era andata via. Poi lo aggrediva, letteralmente, soffocandolo con la sua voglia e le sue esigenze di donna, trattenute nelle lunghe ore di “tortura”. Si sfogava sul giovane, che certo non si tirava indietro. Il giovane non provava particolari sentimenti per quella donna più grande e molto maliziosa; era la prima, vera, avventura, dopo le classiche esperienze da adolescente.
  • 20. Si riteneva molto fortunato: aver trovato un‘amante di quel calibro, gli permetteva una vita felice e spensierata. Non era un superfigo e le ragazze all’università non facevano la fila per lui; trovarsi una donna avrebbe richiesto molto impegno. Poi magari si sarebbe ritrovato innamorato e disarmato dinnanzi a quel sentimento, perdendo di vista la sua carriera universitaria. Invece quel rapporto, appagante e piacevole, gli consentiva di avere libertà e sesso e, magari, anche qualche soldino in più. Ecco perché Marco, a Flora, non diceva mai di no. A mezzogiorno, come d’accordo, il ragazzo si recò all’appuntamento, davanti al McDonald’s. Anche quello era un grande vantaggio; la donna era sempre generosa con lui. Ricambiava tutti i suoi favori, invitandolo spesso a colazione o a cena, altre volte al cinema e, puntualmente, pagava sempre lei. Intanto, nel parcheggio poco distante, le donne si salutavano. La madre di Nicòle partì con l’auto, mentre lei e Flora si incamminarono verso il McDonald’s. Avanzavano decise senza parlare, l’una accanto all’altra. Le espressioni del viso non tradivano l’emozione che faceva battere il cuore di entrambe, per motivi diversi. Quando incontrarono Marco, poco dopo, la ragazza ricordò di averlo incrociato, mentre andava o veniva dalla casa di Flora. Mentre si salutava e scambiavano qualche parola, Nicòle cercò di valutare chi si trovava di fronte: il prescelto di Flora, sulla cui verga immolare la propria verginità. In effetti il ragazzo non era quello che si potrebbe definire il classico principe azzurro: lievemente molle nei modi, aveva un fisico tarchiato e le mani forti di chi ha lavorato, nella vita. Non era simpatico, né brillante, nonostante questo una strana sensazione cominciò a farsi largo nel plesso solare di Nicòle. Mentre sceglievano il menù per mangiare rapidamente qualcosa e poi andare a casa, la ragazza era completamente assente e fantasticava su quella situazione incredibile. Stava parlando con uno sconosciuto, che di lì a qualche ora, sarebbe penetrato nel suo corpo, più intimamente di chiunque altro. Mentre fissava Marco in modo distaccato, immaginava quello stesso viso, a pochi centimetri dal suo. Gli guardò la bocca: probabilmente poco dopo avrebbe succhiato la sua lingua. Contorcendosi sulla panca, pensò a come doveva essere, da nudo, perché, ne era certa, fra non molto lo avrebbe saputo . Si erano fatte le due quando tutti insieme entrarono nell’appartamento di Flora. Si misero rapidamente in libertà. Mentre si rilassavano in salotto, Flora offrì ai ragazzi dei cioccolatini al liquore, poi sedendosi in mezzo a loro iniziò a parlare per rompere il ghiaccio. «Allora, avete simpatizzato? Voi che siete giovani dovreste avere molte cose in comune, no? » Poi rivolta a Nicòle «Ti va di mettere un po’ di musica?» La ragazza scelse un CD dei Queen ma, prima di inserirlo, chiese a Marco se gli piaceva. Lui approvò senza riserve: pochi istanti dopo la musica, a basso volume, invase l’atmosfera. «Vieni Nicòle» la chiamò Flora dal divano «Vuoi provare a baciare Marco? È molto bravo sai?» Nicòle arrossì ma, passiva, obbedì, sedendosi vicino al ragazzo. Anche lui era abbastanza impacciato; per non deludere Flora si avvicinò a Nicòle in modo meccanico. Si sollevò col busto di quel tanto che gli permetteva di circondare con il braccio i fianchi di lei, mentre accostava la guancia ben rasata al volto di Nicòle.
  • 21. La giovane intanto era tesa e rigida come uno stoccafisso. La disinvoltura erotica e sessuale raggiunta con Flora era completamente scomparsa; ora che si trovava in una situazione del tutto nuova e in presenza di un estraneo, si sentiva come una scolaretta al primo giorno di scuola. Nonostante questo, accettò che le labbra di Marco si posassero sulle sue: erano completamente nuove, diverse da quelle di una donna. Spesse e dure cercavano la sua bocca con meno dolcezza e più decisione. Trascorsero pochi attimi e Marco le apriva le labbra con la lingua grossa e bagnata. Non era spiacevole, ma Nicòle si irrigidì ancora di più. A stemperare la tensione pensò la bella Flora, che andò a piazzarsi in ginocchio tra i due ragazzi, rivolta verso entrambi. Accostandosi sussurrò: «Ho capito, se non interviene la “zia” non riuscite a lasciarvi andare del tutto». Sorrise dolcemente e li abbracciò tenendoli entrambi per le spalle. Poi con delicata sapienza accostò la sua bocca alle loro, che se ne stavano immobili, non sapendo bene come comportarsi. Con una delicatezza perversa, che mai Nicòle aveva riscontrato, Flora si abbandonò alla danza del piacere, piroettando, tra le due bocche fresche di rugiada, con delle lascive spennellate di lingua. Poggiare la sua bocca viziosa sulle tenere labbra e, con tanto vigore, le insidiava la mente come un sonetto perverso dell'Aretino. Le labbra dei due ragazzi, sopraffatte dalla confidenza che avevano con le sue, si schiusero come petali e riconobbero subito la loro amante appassionata. Il bacio a tre durò un tempo infinitamente lungo. La loro saliva si fuse stemperando ogni tensione e facendo deporre ogni indugio. Nelle pause musicali, lo schioccare delle lingue, impazzite, si sentiva chiaramente nella stanza. Marcò si eccito, trattenuto solo dai suoi Jeans. Mentre Nicòle, provò i primi accenni di calore e si sciolse, nell’abbraccio delizioso della sua istitutrice. Poi Flora si spostò di lato per sedersi al fianco di Marco, mentre Nicòle guardava curiosa, la donna adulta iniziò ad armeggiare, esperta, con la cintura e la lampo del giovane amico. Le dita di Flora erano curatissime e lo smalto rosso scuro, scelto per quel giorno, spiccava sul chiarore del suo incarnato. Scavava lenta e decisa in quel pantalone, rendendo la caccia eccitante e passionale. Alla fine vinse, ed ebbe la meglio sui boxer di lui. Nicòle trattenne il fiato; aveva già visto qualcosa, nei filmini proiettati da Flora . Però, avere Marco, virile e presente, a portata di mano, le diede una sensazione nuova. Flora fingeva di dedicarsi all’uomo , come se ignorasse la sua amante, ma non era così: in realtà ogni mossa, ogni ostentazione di quella virilità, era volta al piacere di Nicòle. Con quello stesso spirito, aiutò il giovane a mettersi in piedi. Marco era troppo eccitato per provare una qualsiasi vergogna a esibirsi anche davanti a Nicòle, al contrario, la ragazzina che poche ore prima lo aveva interessato ben poco, per le forme acerbe e la timidezza, adesso lo eccitava. Si sentì un maschio dominante, mentre quegli occhi di cerbiatta, grandi e profondi, non riuscivano a staccarsi dai suoi genitali. A buttare legna sul fuoco pensò Flora che, con voce roca e sensuale, sussurrò, rivolta alla ragazza: «Liberalo tu stessa dai pantaloni... dai». Nicòle non si rifiutò. Avvicinandosi a Marco, non poté fare a meno di prendersi delle confidenze e fu pervasa dall’odore umido che sprigionava dalla pelle e dai peli delle sue zone erogene.
  • 22. Per non perdere il controllo si dedicò, non senza impaccio, ad abbassare i jeans. Per tirarli via dovette togliergli le scarpe e poi sfilare le gambe strette del pantalone, passando con le mani sulle cosce robuste e muscolose, coperte dai peli. Lui rimase con le sole calze bianche di cotone. Intanto Flora si era sbottonata la camicetta, e si offrì senza remore alla bocca di lui. Marco, sempre più su di giri, cominciò a stringere e a baciare le sue carni bollenti. Con la mano libera Flora trascinò con volitiva decisione Nicòle sul divano, la tirava per il braccio per vincere ogni sua riluttanza. Ora si trovava con il volto a pochi millimetri dal maschio, la guancia poggiava sull’inguine bollente di Marco e le narici erano impregnate di un profumo nuovo e sconosciuto. Nicòle studiò attentamente quell’immagine prima di trovare il coraggio e la forza di saggiarne la consistenza al tatto. Ma la sua contemplazione platonica venne spezzata dalla crudezza dei gesti che seguirono. Marco, incapace di resistere oltre, aveva abbassato la mano virile dietro la nuca della povera Nicòle e, senza cerimonie, l’aveva attratta a sé. Incredibilmente, lei non obbedì all’intelligenza ma all’istinto sessuale e, senza volerlo, schiuse le labbra. I movimenti e le scelte non erano più i suoi. Si rese conto di quanto le risultasse naturale iniziarsi a quella pratica. Marco, con fermezza, premette ancora le dita tra i suoi capelli e la spinse. Poco dopo, fu lei stessa a studiare, a tentare fino a trovare il giusto tempo e la giusta pressione, per proseguire nell’atto. Dopo una ventina di affondi, per prendere confidenza e dimestichezza, la ragazza diventò più padrona della situazione. Schiuse gli occhi e si accorse che Flora si era abbassata, arrivando col viso alla sua altezza. La ragazza capì che era di nuovo affamata di maschio e cedette. Marcò era già in visibilio, distribuiva, felice, il suo piacere alle due beltà. Non aveva mai fatto sesso con due donne e cominciò a capire quanto sublime fosse stata l’offerta di Flora. Essere conteso tra due stupende creature, oltre alla sensualità del rapporto, sprigionava tutta una serie di sensazioni uniche: delicate e rare. Le donne si ritrovarono entrambe sedute ai sui fianchi, mentre lui, in piedi, teneva il sesso all’altezza dei loro volti. Ormai era una gara a chi lo facesse sussultare di più con la propria, lussuriosa, profferta. Rivoli di saliva trasparente, scorrevano sul pavimento, dalle gole provate fino alle soglie del vomito. Le mani delle donne viaggiavano sul corpo seminudo di Marco, cercandogli ogni parte per prodigarsi in carezze eccitate. Guardare la scena era da svenire, per il ragazzo. Le due bocche erano diverse, le vedeva e le sentiva. Le labbra di Flora erano grosse e carnose, quelle della ragazza sottili e delicate, così come era diverso il ben di dio che si offriva alle mani di Marco, mentre, languido, carezzava quei due corpi stupendi. Le donne non erano spogliate, ma discinte, e lui trovava facile, rinvenire le loro zone erogene per farle sue. «Vieni, amore mio» disse Flora prendendo Nicòle per mano «fai sentire a Marco come sei buona». La giovinetta salì in piedi sul divano, tenendosi con le mani sulle spalle di lei. Ora aveva indosso solo le calze, chiare. Marco si spostò in avanti col viso e si avventò sul frutto proibito dell’amore. Nicòle si sentiva esposta e profanata, nella stanza illuminata dalla luce potente del meriggio, sapeva di essere completamente in vista, scoperta.
  • 23. Flora intanto cercava di farla rilassare tra le sue braccia e la stringeva al petto e la baciava in bocca con passione, mentre Marco cercava di farle raggiungere il primo, intenso, piacere. Poi la donna fece un movimento che la ragazza non si aspettava, ma probabilmente in quei momenti era troppo avida per pensare a lei. Anche Flora indossava solo calze nere autoreggenti che le superavano di poco le ginocchia, si tirò su la gonna e con mossa decisa e rapida, quasi alla cieca, prese Marco dentro di sé in un istante. Nicòle non voleva sottrarsi a quel rito orgiastico, egoisticamente non voleva cedere, tanto facilmente, l’uomo alla sua maestra. Quindi non smontò dal divano, costringendo Marco a prodigarsi per lei con la sua bocca, nonostante fosse anche impegnato a dare piacere a Flora. Per simpatia alchemica, le due donne raggiunsero l’acme contemporaneamente: in quel momento si ricordarono dell’amore che le legava, allora Nicòle si affacciò su Flora, che volse il viso a lei. Si scambiarono un bacio saffico davanti a Marco. Poco dopo ritornarono, sfinite, accanto a lui sul divano. Il tempo di riprendersi e rifiatare, poi Marco fu addosso a Nicòle per baciarla tutta e tentarla nuovamente. La ragazza lo lasciò fare, mentre Flora, approfittando del fatto che il ragazzo era ancora seduto, si impossessò della sua virilità con le mani. Appena anche lui apparve sazio, si adagiò con le spalle sul divano, rilassandosi totalmente. La donna adulta voleva insegnare ancora qualcosa alla sua ancella e la chiamò a sé: «Vieni amore, vieni a vedere come uso le mani». – Nicòle non se lo fece ripetere due volte e curiosa si avvicinò, per osservare liberamente. «Guarda bene: questo movimento è per farlo eccitare» e intanto con la mano andava su e giù. Per mantenere i suoi gesti lisci e scorrevoli, Flora sputava, ogni tanto sulle sue dita. La ragazza osservava attenta, mentre le dita di Flora disegnavano carezze perverse. L’altra mano armeggiava sotto il ragazzo: «Ecco con questa carezza gli dai calore» La voce, roca e libidinosa, della donna si scontrava con la finta professionalità con cui descriveva le sue azioni. Nicòle guardava estatica e senza volerlo iniziò a lasciarsi andare di nuovo. La scena continuò finché Flora, impazzita dall’attesa del piacere, disse alla giovane: «Ecco avvicinati adesso, preparati a vedere». la fissò complice «non ritrarti, questo è il tuo battesimo del sesso. Va bene? » Nicòle fece cenno di sì, e accettò tutto ciò che le veniva donato. «Toccalo tu stessa, così imparerai a dosare la pressione della mano» Il cambio di mano fece perdere la testa a Marco: aveva fatto di tutto per resistere. Era in gioco quasi da un’ora ma, adesso, la mano piccola e inesperta di Nicòle con i suoi movimenti stizzosi e irregolari lo trascinò in un tunnel senza ritorno. Come un fiume in piena che, non potendo più trattenersi, straripa e inonda tutto ciò che incontra. L’obbedienza della ragazza era incredibile. Eseguiva militarmente gli ordini della sua padrona. Con un salto e un grido inarrestabile, Marco si lasciò andare, felice, affondando le dita nel divano. Nicòle venne bloccata da Flora. Un senso di soffocamento la fece tossire forte. Lei non capì nemmeno se le piaceva o no, tanta era la sorpresa di quell’assalto. Una volta calmati, si rilassarono e si distrassero, aspettando la sera.
  • 24. 9 Flora sfornò degli stuzzichini di pasta sfoglia e un’insalatona con i gamberetti, i preferiti della sua figlioccia. Senza essersi detti nulla i due ragazzi avevano continuato a indossare solo la parte superiore dei vestiti: camicia a quadroni, sportiva, per Marco, maglietta aperta davanti e senza reggiseno per Nicòle. La ragazza inoltre si era lasciata le sue calze nonostante fossero rimaste sfilate, nello scontro precedente. Aveva cambiato le mutandine, indossandone un paio nere, a perizoma, che le aveva regalato Flora. La donna invece indossava uno dei suoi camici pieni di colore, completamente sbottonato sul davanti, si vedeva perfettamente che indossava l’intimo nero, ma senza mutandine. Con una disinvoltura quasi grottesca, verso le dieci di sera si ritirarono tutti nella camera di Flora. La donna fece accomodare nel bagno prima l’una poi l’altro, ad entrambi fece personalmente il bidet con l’acqua tiepida, indugiando, forse pregustando, la notte d’amore che li attendeva. Una volta a letto riposarono. Flora si sistemò in mezzo ai due, ma sotto le lenzuola, pur sonnecchiando, si toccarono. Molte volte si baciarono in bocca, ogni tanto qualcuno scompariva alla vista sotto le lenzuola. Dormirono nudi, abbracciati, gustandosi il rapporto, carnale e profondo. L’atmosfera si riempiva di ora in ora di tensione sempre crescente. Tra veglia e sonno, Nicòle, non riusciva a togliersi dalla testa l'idea di Marco nudo, troppo presente per dimenticarsene. Nel pomeriggio, mentre Flora si era impadronita di lui, la giovane non vedeva l’ora di donare la sua verginità a quell’uomo, estraneo, ma eccitante. Verso le cinque, Marco si svegliò completamente per andare in bagno. Voleva la ragazza: ora! Aveva perduto il distacco iniziale. Ora era deciso e aveva voglia di deflorare la giovane, come gli aveva prospettato la sua amante. Quando tornò al lettone, Flora dormiva ancora. Lui si accostò a Nicòle. Poi la scosse lievemente sulla spalla: «Vieni» le disse senza vergogna «ti voglio!» Come una schiava consenziente, che accetta il suo destino, la ragazza scese dal letto e seguì lui che la teneva per mano. La portò nella camera di fianco, lo studiolo di Flora. Marco accese un’abatjour coperta di damasco rosso e dorato. La condusse al centro della stanzetta, facendole cenno di inginocchiarsi. Volle cominciare così quel nuovo accoppiamento; segno che ci stava pensando già da un po’. Nicòle non lo rifiutò, anzi, fu felice di trovarlo eccitato per poter poi provare la sensazione di portarlo all’estremo , grazie alla sua nuova abilità. Quando il giovane cominciò ad accusare la forza del piacere si fermò. Con le mani la prese per le spalle e cominciò a baciarla con passione: «Ti voglio ora! » le sussurrò semplicemente. Ma la giovane si irrigidì: «No. Voglio anche Flora con me». «Va bene» Marco si allontanò e, sicuro di quello che sarebbe accaduto, chiamò: «Flora? Puoi venire?» la risposta fu immediata, dato che la donna non dormiva, anzi stava attendendo, fremente. Arrivò, furtiva ed eccitante, come una grossa pantera nera nelle sue calze provocanti.
  • 25. «La voglio, adesso!» disse Marco, con una veemenza che la donna non gli conosceva. «E tu mio piccolo fiore, te la senti?» disse la donna mettendosi di fronte a Nicòle e fissandola negli occhi. «Io… io credo di sì, se tu mi stai vicino». Nicòle era pronta ed eccitata, ma un po’ tesa, per la paura e la tensione che si era prodotta. Non era un atto spontaneo, non era l’evoluzione di un amore. Nessun coinvolgimento sentimentale e nessuna spontanea donazione di sé, ma solo una calda, potente, eccitazione. Trovò in sé la nota giusta per far vibrare il suo diapason all’unisono con l’eccitazione mentale degli altri due. Avrebbero proceduto alla deflorazione di Nicòle meccanicamente, come un atto dovuto e necessario, eppure, questa fredda determinazione, era talmente inebriante da far girare la testa a tutti e tre. «Andiamo in camera» propose Flora «staremo meglio». Accese la luce e fece partire una piccola videocamera posta sul comò di fronte ai piedi del letto: «Vale la pena di immortalare il momento, vi pare?» Totalmente fiduciosi, i giovani risposero affermativamente. Lo stesso Marco aveva fatto altre volte l’amore con Flora lasciandosi filmare. Ora sapeva che, rivedere quelle scene, aggiungeva ulteriore piacere ai rapporti successivi e l’emozione non lo inibì, anzi. Flora fece si che Nicòle si stendesse sul letto, comoda, ginocchia alzate e gambe divaricate: «Appaga prima me Marco» disse Flora, mettendosi a quattro zampe, come una cagnolina. Rivolgeva la faccia verso la natura di Nicòle, era un gesto ben programmato. Un minuto dopo, Nicòle, sentiva tutte le attenzioni che Marco dedicava alla donna, nonostante fosse dietro di lei, nascosto alla vista, e tutte le bordate che le infliggeva. Ogni sussulto, trasmesso dal grande corpo lascivo di Flora, si trasmetteva fino a lei, facendole girare la testa. Dopo un tempo interminabile, in cui le oscillazioni dei loro corpi avevano cambiato ritmo più volte, Flora lo bloccò e si allontanò da lui. «Ecco vieni, Marco, Nicòle è pronta per te, adesso» disse seria. Spostandosi di lato, si mise col busto a fianco della pancia piatta dell’altra. Marco era al settimo cielo: era stato interrotto sul più bello e ora cercava con parossismo una donna, per perpetrare il suo piacere. Fu la stessa Flora a indirizzarlo, con la giusta inclinazione, dentro quel nuovo, virginale, bersaglio. Il giovane tenendosi con le ginocchia e con le palme delle mani, poteva gestire la discesa nella ragazza, che gli veniva offerta, quasi in sacrificio. Flora gli impose piccole oscillazioni, e lui, estasiato la lasciò fare senza ribellarsi. Quando i mugolii di Nicòle divennero sconnessi e parossistici e Flora, saggiandola con le dita, fu certa che fosse al giusto grado di lubrificazione, la matrona divenne un’ossessa. Sgattaiolò agile alle spalle del maschio e si abbatté su di lui. I grossi seni si appiattirono molli e pesanti sulla sua schiena, con tutto il corpo gli premette sulle natiche virili. Quella pressione, esercitata all’improvviso, prese Marco alla sprovvista, e cedette al peso notevole di lei. Crollò su Nicòle con violenza inaudita, invadendole il corpo sottile con il suo, di maschio maturo, trivellandola. A poco valse la resistenza passiva del imene virginale. Cedette in un solo istante. Lasciando che Marco si impossessasse di lei. Nicòle urlò per la sorpresa e il dolore; non poteva credere al gesto selvaggio di Flora. Ora annaspava in cerca di aria, ma la pressione su di lei non tendeva a diminuire.
  • 26. Marco fece del suo meglio per non schiacciarle i polmoni e permetterle almeno di respirare, ma di certo non sarebbe mai uscito da quel paradiso di voluttà che gli era stato offerto. Flora al massimo della goduria, per aggiungere parossismo al piacere già intenso, controllò con le dita che tutto fosse avvenuto. Un attimo dopo, si alzò controvoglia da quel monte di membra avvinghiate, estraniandosi dolorosamente. Era squassata, anima e corpo, come se fosse stata lei a essere profanata, senza pietà. «Approfittane pure, Marco; è tutta tua, adesso. Arriva fino in fondo, senza timori». disse con una voce strana, eccitata ma rabbiosa. Stava soffrendo come non mai, gelosa: la sua natura di femmina, non le avrebbe mai permesso di godere di Nicòle in quel modo. Si accasciò ai piedi del letto. Sedette per terra e, senza enfasi, seguì da vicino tutte le fasi di quell’atto, da lei stessa reso possibile. Vedere Marco e Nicòle, uniti, stretti in un’intimità a lei proibita, la fece sentire sola e inutile. Tre anni d’amore, di abnegazione, di servitù, distrutti dalla natura delle cose. Poteva baciarla fino a farsi sanguinare le labbra ma mai avrebbe potuto farla godere tanto intensamente, come solo un maschio poteva fare. Aveva gli occhi umidi e, improvvisa, in lei salì la rabbia contro quello sconosciuto che adesso stava montando la sua pupilla. Si pasceva di lei, come un bruto profitta di una vestale. Ogni tanto si fermava, allora era la piccola Nicòle che si agitava, scalciando lentamente e ruotando il bacino, per andare incontro al suo aguzzino. I due ragazzi erano soli, nel piacere, lontani da lei, entrambi. Ora Nicòle, dimentica del dolore provato da poco, si spingeva a favore dell’uomo, emettendo quei suoni che Flora tanto bene conosceva e adorava, quando era vicina al momento decisivo. Dopo una lunga serie di spasmi incontrollati, Marco si calmò. Flora aspettava, spiando da dietro, gli ultimi movimenti inconsulti. Dopo parecchi minuti tutto finì e i due si ricomposero, prendendo di nuovo consapevolezza della realtà che li circondava. Flora ritrovò tutta la sua libidine in quell’attimo e volle tutto il piacere per sé. - Alzati! – ordinò a Nicòle. E mentre ancora la giovinetta cercava di raccapezzarsi, si precipitò col busto sotto le sue gambe divaricate. Voleva per sé almeno questo. 10 Quel giorno la Fata di Ferro beveva alla fonte della sua piccola Principessa: un amore liquido, fatto di umori caldi. Con grande maestria, aveva dosato gli ingredienti, nella coppa sacra della sua ancella. Ora raccoglieva il frutto delle sue alchimie, bevendo dal calice il suggello di un patto scabroso. Incapace di amare col cuore, preferiva accontentarsi di sostituirlo con la voluttà estrema e berne l’erotico liquore. La domenica fecero festa: più volte danzarono i balli dell’amore e il satiro, invitato alla tregenda, sparse ancora il suo seme virile nelle due sacerdotesse d’Afrodite.
  • 27. Tre mesi dopo la fata, ritornò donna e si accorse, con raccapriccio, che le premure e i calcoli astrali, estrapolati per Alba dalle stelle, avevano agito a discapito della dovuta attenzione per sé stessa. La Fata di Ferro era incinta. Dalla sua casa nel bosco mugghiò e sbuffò disperata e infuriata, scacciò la principessa dalla sua vita, per sempre, e nessuno ne sentì mai più parlare. Epilogo Senza l'amore, si sa, tutte le cose stridono e alla fine producono attrito. L'attrito ha la pessima abitudine di attirare l'attenzione, perché produce sforzo, calore e rumore. L'unico sistema per attutire il rumore è usare il brodo di lacrime, ma produrlo non è sempre facile: spesso sono in tanti a cercare di attenuare gli effetti dell'attrito, versando tante lacrime, talvolta all'insaputa l'uno dell'altra. Sono passati tanti anni, il tempo ha cancellato e sbiadito tanti ricordi. Anche il vecchio cartello sul sentiero che porta a una casa abbandonata. Nonostante gli anni, però, ancora si può leggere l’antica scritta, all’inizio del viale: “Qui abita la Fata di Ferro. Lei ama tutti e nessuno. Lei sfida la vita, ma la teme. Quando gioisce … fa male. Non è una vera Fata, ma neppure sa essere una vera Strega.” FINE