Un mio intervento sulla realtà imprenditoriale italiana e le eccellenze del sistema economico toscano, in relazione agli scenari internazionali e ai trend del commercio mondiale. Ci attendiamo grandi opportunità, per le nostre imprese, soprattutto dai trattati internazionali di libero scambio...
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È un piacere essere qui a Firenze per dialogare con un pubblico così
autorevole di un tema vitale per l'economia del nostro Paese, e per
quella della Toscana. Sono particolarmente grato al Presidente Guidi e a
Voi tutti per questa opportunità.
Siamo alla vigilia delle elezioni europee, dove si confrontano, e certo
non solo a Sud delle Alpi, visioni molto diverse: più che su un
complessivo processo di integrazione europea che dovrebbe dare all'EU
più mezzi nell'affrontare le sfide globali della sicurezza e della pace, il
dibattito riguarda la "governance" dell'economia europea, le politiche di
crescita, la gestione e il futuro dell'Euro.
È un dibattito nel quale la vostra voce è importante e influente perchè
Firenze e la Toscana sono una forza traente in Italia e in Europa per il
percorso di internazionalizzazione dei comparti produttivi, sostenuti
dall'innovazione, dalla ricerca e dalla formazione dei giovani.
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Statistiche pubblicate nelle scorse settimane indicano, ad esempio, un
andamento più positivo in Toscana che nelle altre regioni delle iscrizioni
universitarie; il Rapporto 2014 sulla situazione occupazionale dei
laureati presentato recentemente a Bologna segnala che, su 14.553
laureati dell'Università di Firenze, dopo un anno dalla laurea il 49% ha
trovato lavoro, rispetto a una media nazionale del solo 41%; il dato è
ancor più significativo se a quel 49% si aggiunge il 35% di coloro che non
lavorano perchè impegnati a tempo pieno nei corsi di laurea magistrale;
altri dati segnalano per la Toscana una crescente natalità di
impresa, nonostante perduranti difficoltà per quanto riguarda aziende
in via di liquidazione; e ottimi sono i dati sull’imprenditorialità
femminile, ambito nel quale la vostra regione è tra le tre più dinamiche.
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Se guardiamo poi all'andamento dell'export toscano nel "quinquennio
di crisi" 2009/2013, notiamo una buona ripresa dell'export riferita
all'ultimo quadriennio nel suo insieme, dopo la flessione all' inizio della
crisi; c'è stato un aumento medio annuo dell'export attorno al
10%, superiore all'indice nazionale.
Proprio questa "eccellenza della Toscana" ci porta oggi ad approfondire
il quadro complessivo nel quale le imprese si trovano ad esportare e ad
investire all'estero, soprattutto nelle realtà più dinamiche. Realtà nelle
quali ho avuto modo di impegnarmi a fondo insieme a molti nostri
imprenditori, durante il mio mandato di ministro degli Esteri, con decine
di missioni, e altrettante iniziative in Italia destinate ai mercati più
promettenti in Asia, Africa, Mediterraneo e Medio Oriente, America
Latina. Tra queste, sono particolarmente lieto di aver, in un certo
senso, fatto da battistrada in
Birmania, Vietnam, Indonesia, Singapore, Brunei, Kuwait, Mozambico, A
ngola, Etiopia, Somalia; abbiamo intensificato anche in quell'anno e
mezzo le iniziative nei BRICS (Brasile, Russia, Cina, Sud Africa), e nelle
nuove situazioni emerse nel Mediterraneo con le primavere Arabe. In
questo senso, sono stato, e continuo a essere, partecipe e testimone
della grande vitalità delle nostre aziende nei mercati emergenti.
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Toccherò principalmente i seguenti aspetti:
• A. internazionalizzazione delle nostre imprese durante questi anni di
crisi;
• B. opportunità e cautele nell'operare sui mercati emergenti;
• C. impulso ai negoziati "macroregionali" per i quali l'orientamento
dei nostri imprenditori è essenziale per le Autorità di Governo.
Soprattutto per quanto riguarda il TTIP, UE/Cina; UE/Asean; UE/
America Latina.
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A. INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE NOSTRE IMPRESE
Circa un mese fa la Banca d'Italia ha organizzato un'importante
conferenza in argomento, con la presentazione di studi che hanno
alimentato la discussione.
Si è partiti dalla premessa, necessaria ma non scontata tra gli
economisti, che internazionalizzazione significa non solo l'insediamento
di attività commerciali e produttive oltre confine, ma anche
l'esportazione,e gli investimenti esteri nel nostro Paese.
Una precisazione importante per la realtà italiana, perchè le strategie di
"internazionalizzazione" devono certamente comprendere la miriade di
PMI che esportano senza localizzare investimenti produttivi o
commerciali all'estero, così come le imprese che sono sempre più
inserite nelle cosiddette Global Value Chains (GVC).
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A. INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE NOSTRE IMPRESE
Se ciò riflette le difficoltà che hanno caratterizzato negli ultimi anni il
sistema bancario e il credito alle imprese di minore dimensione e
finanziariamente più fragili, vi sono indubbiamente concause strutturali
che influiscono sulla minor capitalizzazione.
Recenti ricerche basate su campioni di aziende manifatturiere
interpellate da Bankitalia, evidenziano le diversità strutturali tra le
nostre aziende multinazionali e quelle che producono esclusivamente
per il mercato interno o che esportano ma senza produrre all'estero.
Le multinazionali hanno maggior dimensione, sono più
innovative, hanno una più elevata produttività anche in termini di valore
aggiunto per addetto, rispetto ai puri esportatori.
Tra le motivazioni a investire all'estero, prevale la ricerca dei mercati più
dinamici, ed è qui che rileva il discorso sui mercati emergenti e il
sostegno fornito dalle istituzioni pubbliche.
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A. INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE NOSTRE IMPRESE
Circa gli effetti della crisi sui comportamenti delle aziende, le
multinazionali hanno avuto migliori "performances" di quelle che
esportano solamente, sia in termini di utili, che di fatturato, di
occupazione e di produttività.
Si è, di conseguenza, consolidata la propensione a spostarsi verso livelli
più evoluti di internazionalizzazione, con una migliore tenuta nel
fatturato e nell'occupazione. Vi si è associato un maggior impiego di
capitale e di lavoro specializzato, con accresciute quote di investimenti
in ricerca e sviluppo, e produttività più elevate.
Un discorso a parte merita la presenza della imprese italiane nella
globalizzazione dei mercati dei prodotti intermedi, le cosiddette Global
Value Chains. Se oggi i prodotti sono il risultato di una catena globale
del valore, frutto di intermediazioni che travalicano frontiere e
continenti, allora si deve constatare quanto si sia trasformato -con
l'offshoring, l'outsourcing, il robotsourcing- il modo di fare impresa.
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A. INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE NOSTRE IMPRESE
Secondo l'OMC più della metà del commercio mondiale di manufatti e
tre quarti del commercio di servizi sono prodotti intermedi. Sono perciò
necessarie strategie innovative che attraggano le catene del valore nel
territorio italiano. Perchè nella competizione risulterà vincente non il
Paese che esporta di più,ma il sistema che immette nel prodotto la
miglior combinazione di valore e di elementi immateriali. Le imprese
fornitrici di beni intermedi sono parse maggiormente coinvolte dalla
crisi. Secondo alcune ricerche,sarebbe proprio il nostro diverso
posizionamento all'interno delle Global Value Chains a spiegare,in
buona misura,il divario di crescita tra Italia e Germania in questi ultimi
anni.
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A. INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE NOSTRE IMPRESE
Possiamo tuttavia contare su alcuni punti di forza.
Anzitutto sul "capitalismo di territorio": un mix di risorse concrete e
immateriali, eccellenze produttive, patrimoni culturali, qualità e tipicità.
Contiamo anche sui distretti industriali dove la produzione è organizzata
su ampia scala geografica;pensiamo per esempio al cluster
meccatronica e automotive tra Lombardia, Piemonte, Baviera e Baden
Wuerttemberg.
Possiamo inoltre contare, nel campo delle grandi opere infrastrutturali
nei paesi emergenti, sul miglioramento della nostra capacità ad
aggiudicarci appalti finanziati dalla Banca Mondiale, a entrare in
partnership con imprese locali, superando criticità che continuano a
esistere nei sette più interessanti Paesi per grandi opere infrastrutturali:
Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia.
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B) OPPORTUNITÀ E CAUTELE NELL'OPERARE SUI MERCATI EMERGENTI.
Il trascorso decennio, inclusi gli anni seguiti al fallimento della Lehman
Brothers nel settembre 2008, è stato un periodo di affermazioni
considerevoli per gli investimenti e l'esportazione italiana nelle
economie emergenti.
Il proliferare di acronimi ha dato il polso di un fenomeno che, come
avviene da tempo, risponde sì a strategie molto serie, ma anche al
diffondersi di aspettative dettate da mode e tendenze non sempre
convincenti. All'acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa)
lanciato da un analista di Goldman Sachs si è aggiunto più di recente
quello CIVETS (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia, Sud
Africa) e il metaforico MIST (Messico, Indonesia, Sud Corea, Turchia).
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B) OPPORTUNITÀ E CAUTELE NELL'OPERARE SUI MERCATI EMERGENTI.
Una vera corsa ad aggregare mercati che solo parzialmente rivelano
omogeneità macroeconomiche,di sviluppo, e di affidabilità politica.
Nonostante i successi di molte nostre aziende, con dinamiche
esportative ben al disopra delle due cifre di crescita in diversi Paesi
BRICS,CIVETS e MIST, l'euforia diffusa sino al 2008 ha ceduto il passo a
considerazioni più caute e realistiche.
C'è stata, anzitutto, una contrazione della crescita complessiva nel
"mondo emergente", tornata nel 2013 al 4%.
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B) OPPORTUNITÀ E CAUTELE NELL'OPERARE SUI MERCATI EMERGENTI.
In secondo luogo, l'annuncio da parte della Federal Reserve circa il
progressivo ridimensionamento dell'immissione di liquidità
monetaria, ha contribuito al ridimensionamento di alcune
monete, come quelle turca, indiana,russa, brasiliana e indonesiana
(quest'ultima peraltro in netta ripresa da inizio anno), costringendo
quelle Autorità monetarie a immediate manovre sui tassi e sui cambi.
In terzo luogo, sono emerse: fragilità interne (Turchia); tensioni sul
piano internazionale (Russia); paralisi nelle riforme (India);
rallentamenti nel ciclo e problematicità nel sistema finanziario
(Cina, Brasile); generalizzate difficoltà nell'accesso ai finanziamenti
internazionali nel momento in cui la marea monetaria innalzata dalla
FED ritornava ad abbassarsi, provocando un deflusso soprattutto dai
"cinque fragili" come li ha etichettati, esagerando, Morgan Stanley:
Brasile, India, Indonesia, Sud Africa, e Turchia.
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B) OPPORTUNITÀ E CAUTELE NELL'OPERARE SUI MERCATI EMERGENTI.
Tutto questo significa che siamo dinanzi al rischio di una crisi
generalizzata nei mercati emergenti simile a quella del 1997/98, quando
i problemi, sostanzialmente isolati, in Thailandia si tramutarono in un
disinvestimento massiccio dai mercati emergenti, nel collasso di alcune
valute, in recessione e insolvenza nel debito estero?
La domanda è allarmista e provocatoria. Parliamo di mercati che sono
oggi assai meno vulnerabili di quindici anni fa, con governi più
consapevoli e stabili, anche se non mancano neanche oggi politici
compiacenti, corruzione diffusa, indebitamenti d'impresa elevati,
sistemi bancari opachi e sovraesposti.
Il Fondo Monetario si schiera dalla parte dei moderatamente
ottimisti,notando come,diversamente dalla fine degli anni '90, questi
paesi dispongano di: cambi flessibili; riserve valutarie enormi,
complessivamente pari a circa 8 trilioni di dollari; deficit al disotto del
5% (solo due sui primi 25 sarebbero sopra); debito nettamente più
contenuto che negli anni '90 e, in genere, in valuta locale.
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B) OPPORTUNITÀ E CAUTELE NELL'OPERARE SUI MERCATI EMERGENTI.
Vero è che la posta in gioco della globalizzazione richiede un livello di
attenzione, una capacità di analisi e di "Governance" estremamente
elevati.
Secondo Morgan Stanley, le grandi aziende europee realizzano ben un
terzo delle loro vendite nei mercati emergenti. Il rapporto tende a
crescere in ragione della dimensione aziendale. Come ha osservato
recentemente l'Economist, con la crisi dei "subprime" e dell'euro
l'urgenza di trovare alternative nei paesi emergenti è stata irrefrenabile.
Gli IDE in Cina nel 2010 sono raddoppiati rispetto al '98. Le acquisizioni
si sono generalizzate. In dieci anni si sono quintuplicate le acquisizioni
nei paesi emergenti, mentre il prezzo che gli acquirenti occidentali sono
stati disposti a pagare è balzato a più di diciassette volte i profitti
operativi, a fronte di un multiplo della metà dieci anni prima. Come
conseguenza di tutto ciò l'investimento "equity" delle imprese
occidentali nei paesi emergenti e aumentato in poco più di dieci anni è
di almeno 3trilioni di dollari, e le acquisizioni di ulteriori 1,6 trilioni.
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B) OPPORTUNITÀ E CAUTELE NELL'OPERARE SUI MERCATI EMERGENTI.
La dimensione e il grado di integrazione che caratterizza il rapporto tra
economie post industriali e economie emergenti richiede una radicale
rimessa in discussione degli strumenti previsionali del passato. Un po'
come sosteniamo in molti per quanto riguarda la Governance dell'Euro.
Come ha scritto Ruchir Sharma su Foreign Affairs, gli analisti hanno
commesso "legioni di errori", al momento del boom degli emergenti: li
hanno valutati nel loro insieme, anzichè individualmente; hanno
creduto al credito vantato dai Governi nel motivare eccezionali ritmi di
crescita, che in buona misura dipendevano anche da fattori esogeni;
hanno esagerato l'impatto di singoli "drivers"
(demografia, globalizzazione), anzichè privilegiare quelli più complessi;
ma soprattutto si sono affidati a estrapolazioni mutuate da una crescita
lineare, anzichè ciclica, per di più relativamente breve, di 3/5 anni.
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B) OPPORTUNITÀ E CAUTELE NELL'OPERARE SUI MERCATI EMERGENTI.
Ragionare su periodi medio brevi, ma con una visione ampia della
complessità, rappresenta il "must" nell'approccio ai mercati emergenti.
La chiave della buona politica e dell'affidabilità, risiede nell'equilibrio
complessivo: una crescita che non sia troppo dipendente
dall'indebitamento; una ricchezza non concentrata esclusivamente tra
poche famiglie o settori produttivi, in particolare quelli delle risorse
naturali più esposti alla corruzione; una spesa sociale
appropriata, perciò nè troppo bassa, ne troppo alta, rispetto ai redditi
medi.
Queste, in buona sostanza, le ricette che gli analisti più accreditati
propongono per i Paesi emergenti ai quali dovremmo guardare con
maggior interesse.
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C) IMPULSO AI NEGOZIATI "MACROREGIONALI"
La stagione della liberalizzazione globale degli scambi commerciali, degli
investimenti e dei servizi sembra aver ceduto il passo ai negoziati di
liberalizzazione regionale, nonostante qualche inatteso segno di vita
dato dal "Doha round" globale e ai primi risultati ottenuti dal nuovo
Direttore Generale brasiliano dell'OMC.
La crisi del 2008 ha infatti accentuato l'urgenza di politiche commerciali
mirate alla crescita economica. Se tali politiche si pongono anzitutto
l'obiettivo di aumentare l'interscambio tra i paesi coinvolti, vi è un altro
aspetto ugualmente importante. Quello di far leva sulla liberalizzazione
degli scambi per stabilire o rafforzare le regole in materia di protezione
degli investimenti, della proprietà intellettuale e dell'innovazione, di
tutela dell'ambiente, di sicurezza del lavoro e di lavoro minorile: in altre
parole, i negoziati di liberalizzazione a livello regionale puntano al
radicamento dello "Stato di diritto" nell'economia globale.
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C) IMPULSO AI NEGOZIATI "MACROREGIONALI"
La crescente assertività delle economie emergenti richiede un forte
impegno per la convergenza di standard tra "vecchi" Paesi
industrializzati e "nuovi attori" dell'economia globale. Si avverte da
tempo la necessità di un più equo "playing field", un più equo "terreno
di gioco" nella competizione tra imprese e tra i diversi "Sistemi Paese".
La diplomazia delle regole è quindi componente essenziale del sostegno
al sistema produttivo.
Sensibilità per i diritti umani, le condizioni di lavoro e la sicurezza dei
lavoratori, attenzione alla condizione femminile e
dell'infanzia, contrasto alle pratiche corruttive costituiscono
"comportamenti virtuosi" che molte imprese attuano nei mercati
emergenti indipendentemente dall'entrata in vigore di accordi
internazionali o di norme interne che ne statuiscano l'obbligatorietà. La
Corporate Social Responsibility si è notevolmente diffusa. Iniziative nella
formazione, educazione, assistenza, sviluppo sostenibile sono diventate
sempre più patrimonio dell'esperienza imprenditoriale italiana nel
mondo.
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C) IMPULSO AI NEGOZIATI "MACROREGIONALI"
Prendersi cura della società in cui si fa impresa, contribuire alla corretta
amministrazione della cosa pubblica, a creare una coscienza della
legalità,si dimostrano carte vincenti anche se si considerano questi
comportamenti esclusivamente da un mero punto di vista economico e
di redditività dell'impresa. Robert Eccles, della Harvard Business
School, ha confrontato, nel lungo periodo, due diversi campione di
aziende: da un lato quelle ad "alta sostenibilita", con strategie
strutturate in senso "virtuoso; dall'altro quelle a "bassa
sostenibilità", perchè indifferenti a tali preoccupazioni nei territori in cui
operano. Ebbene, Eccles ha potuto quantificare un ritorno economico
nettamente superiore, tra il 25% e il 35%, per le aziende ad "alta
sostenibilità", rispetto alle altre. Correttamente l'Unione Europea ha
fatto propria questo modello di business, inserendolo quale elemento
preferenziale negli appalti pubblici, oltre che come fattore di
competitività.
21. 21
C) IMPULSO AI NEGOZIATI "MACROREGIONALI"
Per giungere al rilancio degli scambi commerciali e degli
investimenti, da un lato, e per ottenere standard comuni che integrino
veramente i mercati europei, americani, asiatici e latinoamericani
stanno negoziando una serie nutrita di accordi di libero scambio, ampi
nella loro "estensione" geografica e tematica, e tuttavia non a
riferimento globale. I negoziati di maggior significato sono il TTIP
(commercio, investimenti e partenariato) tra Ue e Usa; il TTP
(commercio e partenariato) tra Usa e Paesi asiatici, esclusa la Cina, il
FTA (libero scambio) tra Ue e Celac (America Latina e Caraibi), e quelli
che Usa e Ue hanno recentemente concluso con Corea del
Sud, Colombia e Perù.
22. 22
C) IMPULSO AI NEGOZIATI "MACROREGIONALI"
Per giungere a standard comuni dobbiamo promuovere alleanze con i
Paesi con cui condividiamo valori e interessi. Anche e soprattutto per
questo la Transatlantic Trade and Investment Partnershi tra Europa e
Stati Uniti è così importante: non solo per integrare ulteriormente
l'economia euroatlantica, quasi la metà del Pil mondiale, generando una
crescita aggiuntiva stimata in almeno 100 miliardi di Euro annui; il TTIP
è altrettanto importante per consolidare regole di comportamento e
principi -in altre parole la Governance- dell'economia e della finanza
globale.
In questo senso, la TTIP costituirà, se giungerà al traguardo, un "polo
gravitazionale" per l' affermazione di regole condivise con le economie
emergenti.
A tale obiettivo mirano più direttamente un po' tutti gli altri negoziati
dell' Ue e degli Usa che ho ricordato.
23. 23
C) IMPULSO AI NEGOZIATI "MACROREGIONALI"
Quelli in corso con la Cina, in particolare, possono avere riflessi profondi
-come ha recentemente notato l'ex Presidente della Banca
Mondiale, Zoellick- sullo stesso processo di riforme all'interno del
Paese.
Trattati che prevedano parità condizioni agli investimenti
esteri, trasparenza, lotta alla corruzione, con regole che impediscano
discriminazioni, nazionalizzazioni o espropri arbitrari, e liberalizzino i
movimenti di capitale per un ampio spettro di investimenti
produttivi, stimolerebbero le riforme interne in Cina. Infatti sarebbe
irrealistico immaginare la sopravvivenza di pratiche discriminatorie tra
imprese cinesi, in presenza di meccanismi che garantiscano invece
parità di trattamento tra le imprese nazionali e quelle estere. E Zoellick
stima che i benefici si avvertirebbero soprattutto per le PMI.
24. 24
C) IMPULSO AI NEGOZIATI "MACROREGIONALI"
La "rete di negoziati" che si sta cercando di tessere tra Atlantico e
Pacifico costituisce, per i motivi che ho cercato di delineare, una
straordinaria opportunità da cogliere. Credo che sia essenziale il
sostegno convinto e l'indirizzo di tutte le realtà produttive del nostro
Paese.
Negli ultimi cinque anni la globalizzazione ha proseguito la sua
corsa, nonostante la crisi, e ha accelerato ulteriormente gli scambi. Le
flotte portacontainers sono aumentate del 50%. Gli utenti di Internet
sono passati da 1,5 a 3 miliardi. La popolazione delle città è aumentata
di altri 380 milioni. Soltanto nei mercati asiatici la "middle class“ -
corrispondente alla fascia di reddito che ha decisiva importanza per la
domanda aggregata - comprende oggi 525 milioni di consumatori. Tra
quindici anni questa stessa "middle class" sarà quadruplicata, con 2,7
miliardi di consumatori, sei volte di più di quella che dovrebbe essere la
"middle class" americana, sempre tra quindici anni.
25. 25
C) IMPULSO AI NEGOZIATI "MACROREGIONALI“
Sono proiezioni affidabili ed estremamente eloquenti per l'impegno che
dobbiamo riservare alla competitività del nostro sistema produttivo nei
mercati emergenti, e per l'impegno che dobbiamo riservare alla
costruzione di una Governance globale equa e affidabile.
Grazie per l’attenzione.