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La Resistenza vista dal sud
                            di Gabriella Gribaudi – Università Federico II di Napoli



     1) Centralità della Resistenza/guerra di liberazione.
La centralità della Resistenza in quanto guerra di liberazione è stata certo cruciale nel definire gli
orizzonti dello stato repubblicano, ma, come tutte le narrative pubbliche nazionali, ha significato
semplificare duramente la complessa esperienza della guerra. Si tratta di un tema ampiamente
dibattuto nella comunità internazionale, poiché coinvolge tutti i paesi europei. Si vedano a questo
proposito le riflessioni di Tony Judt sulle categorie dicotomiche che hanno caratterizzato le
interpretazioni della guerra (“Bene contro Male, antifascisti contro fascisti, partigiani contro
collaborazionisti…), e sul loro mistificatorio utilizzo nel lungo dopoguerra europeo.
In Italia una narrazione omogenea era resa ancora più difficile dalla complessità della geografia e
della cronologia della guerra, per cui ampie zone del paese hanno vissuto discordanti e
contraddittorie esperienze, irriducibili in un discorso omogeneo.
Molte parti del territorio meridionale non hanno subito l’occupazione nazista. Per questo,
ovviamente, non si è potuta esprimere una resistenza in quanto guerra di liberazione, mentre si è
sofferta l’occupazione di quello che è stato definito da David Elwood con una efficace espressione,
l’alleato nemico. Un alleato liberatore intento a continuare una guerra che si protrae oltre ogni
previsione, e poco attento alle dolorosissime condizioni della popolazioni civile, come mostrano la
carestia di beni alimentari, gli incidenti mortali dovuti all’impazzare delle camionette militari nelle
strade delle città, le sciagure dovute alla presenza delle truppe e della macchina militare alleata
(l’esplosione di due navi nel porto di Bari, di 15 vagoni ferroviari carichi di bombe nella stazione di
Torre Annunziata ecc.) e, all’estremo, le violenze sessuali perpetrate dai soldati del corpo di
spedizione francese contro le donne dei paesi della linea Gustav.
E’ qui che la dissonanza dal discorso pubblico si fa massima. Faccio un brevissimo esempio dalle
mie ricerche.
Due piccoli paesi (Lenola e Campodimele) e alcune donne intervistate, che avevano subito lo stupro
dalle truppe del Corpo di Spedizione Francese. Fra di loro una aveva perso la madre sotto le bombe
degli alleati, un’altra aveva visto morire la figlioletta di pochi mesi per gli stenti e dopo pochi giorni
il marito partire per la guerra. Prima i bombardamenti, le cannonate, la fame, il freddo, le
deportazioni, poi lo stupro.
     “Dicevano che erano arrivati i liberatori, gli americani, ma al posto loro arrivarono i marocchini.
La liberazione non l’ho mai festeggiata, perché sono ricordi che non posso scorda’.. Che liberazione
era quella? Liberati a quel modo là! Si sono sfiziati come hanno voluto loro… che ti credi… Ci
stanno femmine che hanno perso la vita”. “Ricordo bene che arrivarono il 22, perché proprio quel
giorno vennero da noi, ma con precisione non so dirti quando andarono via… stettero 9-10 giorni ed
in questi lunghissimi giorni fecero quello che non hanno fatto i tedeschi in sei mesi”. “Ricordo
benissimo che vennero il mese di maggio e la loro non si deve chiamare liberazione, ma distruzione
vera e propria”. “Erano lazzaroni i marocchini, ma ugualmente gli americani erano lazzaroni perché
loro avevano permesso a quella gentaglia di fare tante cose. La liberazione si doveva chiamare
quella e invece…”
Parole analoghe si trovano in tutte le testimonianze. I vincitori, i portatori delle democrazia vestono
qui i panni dei criminali, prima con il bombardamento inaspettato e inspiegabile con le ragioni
militari agli occhi degli abitanti di un piccolo paese dell’Appennino, poi con gli stupratori
marocchini. Nulla di più lontano dal discorso nazionale sulla guerra. “Veramente noi ci
nascondevamo per paura della guerra, noi aspettavamo che erano liberatori e difatti la suocera mia
uscirono con una bandiera bianca… noi credevamo che erano i liberatori”. Sulla linea Gustav si
sommarono evacuazioni forzate, deportazioni, sfollamento sulle montagne in grotte e capanne,
freddo, fame, bombardamenti… Il ricordo del dopoguerra con il ritorno in cittadine e paesi distrutti
è il ricordo della catastrofe per cui non ci sono parole. Come in Germania, per un lungo periodo è la

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ricostruzione a coprire la memoria della catastrofe. La resistenza è in questo caso la lotta per
sopravvivere tra le macerie e le bombe che continuano a mietere morti per molti anni tra i contadini
che lavorano i campi.
L’esperienza dei territori della linea Gustav (Cassino-Minturno) rappresenta un caso estremo, ma
per molti altri la liberazione è semplicemente una categoria retorica che stride con l’esperienza
vissuta. Il Mezzogiorno è, tra il 1943 ed il ’46, governato con la repressione ma non amministrato,
protetto, organizzato. Partiti non legittimati e scarsamente radicati nel territorio meridionale
lavorano per cercare una legittimazione politica di fronte agli alleati e nella più generale vicenda
della guerra. Scarso è il confronto con i bisogni e le esigenze delle popolazioni, mentre emergono
fenomeni di vera e propria rivolta popolare mossa da esigenze primarie (le rivolte per il carovita),
da motivi politici (la violenza contro fascisti e collaborazionisti), dal rifiuto della guerra (il
movimento dei “Non si parte!”).


2) Il movimento dei “non si parte”. Il rifiuto della guerra.
Dopo la dichiarazione di cobelligeranza il governo Badoglio, come è noto, decide di formare un
nuovo esercito che deve combattere a fianco degli alleati. Si tratta di un’armata male equipaggiata e
male organizzata, voluta più dal re e da Badoglio per evidenziare la presenza dell’Italia tra gli
alleati e sfuggire alle condizioni di nazione sconfitta, che dagli alleati, che diffidano delle capacità
militari italiane. Sono gli stessi comandanti che avevano diretto l’esercito fascista a dirigere il
nuovo contingente con la stessa disciplina e gli stessi valori. Per tutti coloro che sono fuggiti l’8
settembre 1943, la guerra è finita. Essi giudicano di avere già sofferto molto e inutilmente in nome
della patria, non riconoscono l’esercito italiano come un esercito libero, differente da quello
fascista, anche se ha cambiato alleanza. Quindi, quando il governo decide la coscrizione
obbligatoria (settembre 1944) una gran parte delle possibili reclute fugge o si ribella alla decisione.
Cito qui alcune testimonianze da me raccolte con gli studenti nei corsi degli anni 1996-98.
    “Ricordo che dissero che la guerra era finita e si era firmato l’armistizio come resa
incondizionata, poi è subentrata la collaborazione e gli americani e gli inglesi da nemici sono
diventati amici... Io pensai che la guerra era finita e che ognuno poteva ritornare a casa, poi quando
capii che ci eravamo alleati con gli americani, questa cosa non mi fece piacere perché pensavo che
non si poteva cambiare idea da un giorno all’altro. Decisi così di non combattere più e da Taranto
dove ero, tramite treni e mezzi di fortuna tornai a casa. Tuttavia, dopo un certo periodo di
rilassamento fui richiamato. A quel punto mi presero a me con gli altri e fummo portati in prigione
e dichiarati disertori. Poi sono stato condannato in seguito a cinque anni e ho subito un processo”.
(marinaio, S.Giovanni a Teduccio, Napoli)
Il marinaio della Sirio era, prima di partire per la guerra, un operaio della zona industriale di Napoli,
S.Giovanni a Teduccio, ed esordisce dicendo che lui, le sue sorelle e i suoi fratelli sono sempre stati
socialisti. Non è dunque un nostalgico del regime fascista, si rifiuta piuttosto di trovare ancora
ragioni nella guerra, se non deve più combattere contro gli inglesi, non vuole d’altro canto
combattere insieme a loro. Le ragioni del marinaio ci introducono al tema importante della
diserzione.
In quel momento la diserzione era giudicata come un atto di vigliaccheria e una prova di fedeltà al
regime fascista, ma, considerando le cose con più attenzione, ci si accorge che il ragionamento del
disertore del sud è molto simile a quello del disertore del nord di cui parla nel suo libro Santo Peli:
si tratta del rifiuto della guerra in assoluto, del rifiuto di obbedire a qualsivoglia comandante.
    “Dopo tante tragedie, dopo sta vita il governo italiano ci chiama. Prima si combatteva contro gli
americani, contro gli inglesi, contro i francesi , dopo ci ha chiamati un’altra volta, ci ha chiamati
alle armi perché dovevamo combattere contro i tedeschi. Io per quante ne avevo passate non mi
presentai e quindi fui chiamato disertore e dovetti fare una causa al tribunale militare, perché fino
all’8 settembre ’43 tenevo il foglio matricolare apposta, dopo di che: dove sei stato, perché non ti

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sei presentato? Poi comunque feci una causa per poter andare a cercare pane all’estero, per poter
avere il nulla osta. E quindi queste sono le conseguenze della guerra”. (Giovanni D.)
Giovanni D., allora contadino di Gesualdo, piccolo paese della provincia di Avellino, partito nel
gennaio ’41 nel genio, decimo reggimento S.Maria Capua Vetere, era naufragato al suo primo
viaggio in mare per l’Africa.
   “Non avevo mai visto il mare e partii per l’Africa a combattere. (…) E sai quanti ne tornammo a
Napoli su 5000? Indovina! 200, di cui un napoletano che era impiegato alle poste mi diceva a me:
montagnaro, montagnaro, a te ti succede qualcosa! Scherzavamo così... Manco a farlo apposta a
Napoli ho visto il padre e la madre, io piangevo nel cuore, ma cosa gli potevo dire? Il nome non me
lo scordo mai più: Donadio Ugo si chiamava. (…) E quindi la guerra per me, ripeto, la cancellerei
da tutti i vocabolari e pure perché uno dei dieci comandamenti non dice non ammazzare?”
Dopo il naufragio era stato dirottato in Jugoslavia; l’8 settembre era a Roma e cominciava la fuga
verso casa, guidando lui, contadino della montagna irpina, una ventina di soldati “calabresi,
salernitani.... lungo ruscelli, terreni, scorciatoie, montagne...”. Arrivato a casa, dopo aver percorso a
piedi il tragitto da Roma in quindici giorni, aveva trovato i tedeschi sull’aia.
“Arrivai qua e dietro la casa c’era un’aia per i buoi che trasportavano i covoni... arrivai qua, la
famiglia era scappata, i tedeschi coi cannoni là in mezzo all’aia, mi ruppero la porta qua e
comandavano loro. Mo quando li vidi, stanco senza mangiare, svenni. Mi ricordo che là caddi a
terra. Ricordo che appena rinvenni me ne scappai e trovai la famiglia e abbandonai tutto...”
Anche nel caso di Giovanni D. non si può parlare di nostalgia del fascismo. Dice che suo padre era
stato arrestato durante il ventennio perché trovato in possesso di letteratura biblica. “Mussolini
arrestava mio padre solo perché leggeva le cose bibliche e restammo senza madre e senza padre”.
Condannato come disertore, aveva dovuto combattere non poco per riavere il passaporto e poter
emigrare in Australia.
Mario P. faceva già parte, prima della guerra, di un gruppo di antifascisti del quartiere di Ponticelli
(Napoli), era partito militare nell’aviazione 35° stormo, aveva combattuto per due anni in Africa. In
uno dei grandi bombardamenti che avevano colpito il quartiere erano morti i suoi genitori. Tornato
a Napoli, aveva partecipato all’insurrezione contro i tedeschi, ma non volle ripresentarsi a
combattere nelle file del Corpo italiano di liberazione. Lo esprime con poche parole scarne, ma
significative.
“Erano cadute le bombe a Santa Croce e sotto le pietre c’erano mamma e papà e arrivai a Napoli.
Dopo aver fatto la guerra, mi mandarono a fare la causa come disertore e poi subii la causa avendo
diciotto mesi di carcere che non ho fatto. La guerra la paga sempre il più fesso.”

Durante l’inverno 1944-45 grandi rivolte contro la coscrizione obbligatoria si verificano nel
Mezzogiorno a partire dalla Sicilia. Il governo invia l’esercito contro i manifestanti provocando
numerose vittime. Ed è il governo di unità nazionale che prende la decisione di sparare contro la
popolazione. I comunisti accettano senza riserve la linea del governo a cui partecipano. Le
corrispondenze dalla Sicilia per L’Unità, citate da Enzo Forcella nella sua introduzione al libro di
Maria Occhipinti, parlano di “rigurgiti fascisti”, di sabotaggio dei separatisti e dei grandi proprietari
terrieri, interpretazione che fu sottolineata nella risoluzione della direzione del PCI il 17 febbraio
1945. Al contrario, alla testa del movimento si trovavano spesso socialisti, anarchici, comunisti,
come mostra la storia delle lotte di Ragusa e in particolare quella di Maria Occhipinti, che è stata
considerata uno dei capi della rivolta e che ha raccontato la sua vicenda nel libro apparso nel 1956.
La storia dei “non si parte” fu dunque inquadrata nella categoria delle rivolte popolari reazionarie,
contribuendo a rafforzare l’immagine di un Mezzogiorno arretrato e nostalgico del fascismo, contro
il nord progressista e antifascista.
Gli uomini che non risposero all’appello furono migliaia: nel dicembre 1944, 80.000 uomini non
risposero all’appello, due mesi dopo erano 200.000. L’amnistia del 22 giugno 1946 avrebbe assolto
i militari della Repubblica di Salò, ma non i disertori del Centro-Sud. Con il decreto del 19 marzo
1946 le condanne a morte o a parecchi anni di carcere furono ridotte a cinque anni di reclusione

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militare e al trattamento condizionale. I tribunali si ingolfarono e per molti anni migliaia e migliaia
di cittadini furono privati dei diritti civili: non potevano ottenere il certificato di buona condotta,
non potevano votare, non potevano ottenere il passaporto, come successe a Giovanni D., il
testimone irpino citato poc’anzi

3) La resistenza meridionale.
Nelle zone dove si è verificata un’occupazione nazista breve ma violentissima, come in Campania,
una resistenza c’è stata, ma, per vari motivi, è stata sottovalutata, non è entrata nella memoria
nazionale e, molto spesso, anche in quella locale. Riporto qui alcune riflessioni che già ho
sviluppato in varie occasioni e scritti. Faccio l’esempio più importante, quello dell’insurrezione
napoletana.
Da un canto, poiché le quattro giornate di Napoli non hanno avuto un’organizzazione politica chiara
e centralizzata, alcuni le hanno presentate come un episodio di rivolta apolitico, la solita ribellione
meridionale senza ideali nobili, ma guidata dalla pancia. D’altro canto, quando altri studiosi o
opinionisti di sinistra hanno voluto salvare l’episodio riportandolo nel panteon della memoria
nazionale, hanno cercato di enfatizzarne gli aspetti d organizzazione politica per renderlo leggibile
secondo gli schemi della resistenza “politica” del centro nord, cioè politico militare del CLN. Il
film di Nanni Loy venne stigmatizzato da questi autori (addirittura gli sceneggiatori disconobbero il
lavoro del regista) perché evidenziava gli aspetti popolari e spontanei della rivolta e non metteva
abbastanza in luce il ruolo degli antifascisti. In realtà anche questa versione era dettata da una
visione ideologica e costringeva i fatti in una cornice retorica poco credibile.
Le interpretazioni. Già nel libro di Battaglia si costruiva una gerarchia di insurrezioni, la migliore
insurrezione è quella di Genova poi viene quella di Firenze… La gerarchia era creata a partire dal
livello di preparazione politica, di centralizzazione del comando ecc. Il caso napoletano veniva
trattato invece come una lotta, in un certo senso, prepolitica. A questo proposito conta molto
l’immagine di Napoli all’interno dell’iconografia nazionale: risuonano nelle descrizioni le
rappresentazioni mitiche della città. “E’ veramente impossibile descrivere l’incendio quando esso si
propaga in una materia così infiammabile nei suoi guizzi, nelle sue vampate, nella sua furia di
distruzione…”. “Definire le quattro giornate come un’insurrezione vera e propria è già dire
qualcosa di troppo preciso di fronte a un fenomeno che ha tutte le caratteristiche grandiose e
indefinibili di un fenomeno della natura: poiché il termine insurrezione nei tempi moderni
presuppone un piano da parte degli insorti, degli obiettivi precisi da raggiungere e già prestabiliti
sulla carta; presuppone un Comando – con la C maiuscola – una prospettiva di lotta, un successo o
una sconfitta. Mentre a Napoli mancano tutti questi elementi che saranno evidenti nell’insurrezione
di Parigi o di Praga o di Genova: ed è ancor oggi difficile dire che cosa si proponessero gli insorti di
Napoli, se cacciare i tedeschi ormai ridotti ad un presidio di scarsa entità, se sbarrare la città alle
colonne…ecc. oppure impedire le ultime distruzioni. In realtà questi obiettivi che sono gli obiettivi
logici di qualsiasi insurrezione, balenarono qua e là nel corso delle quattro giornate…..”.
L’insurrezione napoletana viene letta secondo i modelli della folla premoderna, come lo scoppio
inarrestabile di una rabbia repressa, quindi non politica. Vediamo ancora alcuni brani da Percy
Allum.
“E’ da notare che proprio il gran numero di disordini e di jacqueries è un indice del loro limite
come arma di lotta, un’arma che non ha mai potuto cambiare le fondamentali condizioni di vita
della popolazione. Le rivolte e le jacqueries del popolo napoletano sono sempre state di breve
durata per ottenere degli obiettivi immediati o hanno avuto luogo in situazioni assolutamente
disperate. Sono state sommosse per l’occupazione, per la cessazione di un particolare abuso, oppure
rivolte contro il ‘destino’. I napoletani, chiusi negli angusti limiti della Gemeinschaft, non sono mai
arrivati a capire che una rivoluzione è finita, quando raggiunge i suoi scopi immediati solo a prezzo
di sacrificarne i vantaggi; e ciò perché ad essi è sempre mancata la struttura intellettuale che li
mettesse in grado di acquisire piena coscienza della loro situazione globale. Ciò è stato dimostrato
più volte: per esempio dalle Quattro Giornate di Napoli che molti considerano come l’inizio della

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Resistenza in Italia. I napoletani, dopo aver costretto alla ritirata i tedeschi, ricaddero nella loro
antica condizione, tanto che Napoli fu la città meno toccata dagli ideali della Resistenza, come
testimonia ampiamente la sua storia del dopoguerra”. In una nota di commento, Percy Allum faceva
propria anche la tesi negazionista: assumeva come vera ed esaustiva l’interpretazione di un unico
napoletano intervistato in una ricerca sulla città di Palermo e comparsa in un libro edito in Francia,
in cui si dice, appunto, che l’insurrezione fu opera di due o tre scugnizzi.
Vediamo ancora le parole di Bocca nel ’66.
“L’insurrezione non è stata organizzata da un centro militare politico, è la somma di tante iniziative
individuali e di gruppo, vuol dire che ci sono dei cittadini i quali si preparano da giorni a cogliere il
momento opportuno … non è ancora e non sarà una ribellione unitaria e neppure di elite
rivoluzionarie consapevoli e coordinate però è insurrezione di popolo, è popolo che combatte come
nessuno avrebbe osato sperare conoscendo la disgregazione sociale della città (….) la rivolta resterà
anarchica, ciascun gruppo avrà la sua battaglia in una città così abituata alle sofferenze e alle
privazioni che tollera anche questi giorni di fuoco…” Notare frasi e termini utilizzati: “Il termitaio
fetido continua a vivere senza luce e senza acqua imponendo ai tedeschi impauriti e furenti la sua
vastità, il suo corpo massiccio e inamovibile”.
Sono, queste, immagini che bene rendono le costruzioni ideologiche e interpretative a proposito
degli episodi di resistenza meridionali.
Come faceva la rivolta ad avere una testa politica organizzata se in nessuna parte d’Italia tale testa
esisteva in quel momento? Le interpretazioni sono slegate da un’analisi dei fatti e del contesto
storico.
Oltre a riflettere sulla forza dei paradigmi ideologici e degli stereotipi, che pervadono anche la
comunità scientifica, è interessante notare come tutto il dibattito e tutte le valutazioni siano state
fatte senza alcuna base di ricerca documentaria. Vediamo, ad esempio, i dati più semplici e bruti: il
numero dei morti. La prima cifra che compare e a cui molti studiosi successivi si attengono è quella
fornita da Tarsia in Curia, uno dei comandanti dell’insurrezione, che poi presiedette la commissione
che dava la patente di partigiano o di combattente patriota: questi parla di 318 morti, e si riferisce ai
caduti “combattenti”. Prendiamo poi un altro libro sulla Resistenza, quello di Giorgio Bocca: 60
morti. Un altro ancora: 50. Nei registri dei morti del Comune di Napoli si trovano ben 663 vittime
“mitragliate dai tedeschi”, “uccise dai tedeschi”. Ovviamente non sono tutti combattenti, ma la
cifra indica che si è svolta una battaglia di notevole portata e confuta in maniera abbastanza netta le
tesi svalutative o addirittura negazioniste, quelle che rappresentano l’insurrezione come una
ribellione di “scugnizzi”. Oltre al numero si può rilevare ancora la composizione per età: troviamo il
picco delle morti nella fascia di età fra i 17 e i 45 anni, proprio quegli uomini adulti di cui viene
negata la presenza. Le vittime, poi, sono in grande maggioranza nei quartieri storici della città, nei
rioni popolari, e la loro configurazione sociale conferma la composizione popolare
dell’insurrezione: troviamo operai, ambulanti, artigiani, impiegati; non compare un solo
professionista, un laureato… c’è solo un medico. Dalle fonti orali possiamo poi ricostruire il legame
stretto delle bande con il territorio: il vicolo, il quartiere, il rione. E’ all’ingresso del quartiere che si
fanno le barricate e poi ci si muove insieme nelle zone circostanti.
L’idea che mi sono fatta è proprio l’esatto contrario dell’immagine stereotipata: non è la presunta
disgregazione sociale della città a produrre lo “scoppio” della rivolta, ma è invece una particolare
coesione del quartiere a rendere possibile l’insurrezione e a fornirle la struttura di relazioni su cui
costruire l’organizzazione militare. Ovviamente nei passi citati troviamo invece un accostamento
meccanico tra la geografia barocca e la rivolta come jacquerie plebea. In conclusione l’insurrezione
napoletana può essere definita, senza scadere nella retorica che distrugge ogni ricordo autentico, un
episodio di resistenza “autonoma”, un caso molto interessante di ribellione all’occupazione nazista,
attuata attraverso le strutture informali della società e non le organizzazioni politiche o istituzionali,
che, come ho detto, in quel momento non erano ancora organizzate. Che anzi, per il caso
napoletano, l’accusa di attendismo si può rovesciare sui comunisti, che aspettarono e scelsero di
preservare i militanti per la lotta politica successiva. Forse anche per questo le élite colte della città

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non ne hanno parlato o hanno rappresentato l’insurrezione attraverso le immagini di un
insopportabile folklore.
E’ interessante notare come ancora oggi, quando si vuole commemorare la prima resistenza ai
nazisti si commemora Porta San Paolo a Roma e mai Napoli, la prima insurrezione di una città in
Europa.
Ovviamente la responsabilità non è unica: oltre alle interpretazioni ideologiche di cui ho parlato,
hanno contribuito in maniera decisiva i gruppi dirigenti locali post-fascisti, che avevano interesse a
presentare le popolazioni meridionali come fedeli al vecchio regime.

4) La visione dicotomica della comunità nazionale.
Le due interpretazioni fondamentali della guerra e della Resistenza ricalcarono anche una storica
divisione geografica: l’Italia divisa in due dalla linea Gustav corrispondeva pure, fatalmente, alla
divisione storica fra il centro-nord, diviso in innumerevoli stati fino al 1861, e il grande regno di
Napoli, poi regno delle due Sicilie, conquistato dalle truppe garibaldine con la spedizione dei Mille.
Le narrazioni nazionali poterono ripercorrere antiche immagini, scegliendo ciò che si doveva
ricordare e ciò che si doveva mandare all’oblio.
A livello della memoria nazionale tutto ciò riprodusse la visione dicotomica della “comunità
immaginata”: al nord una comunità che aveva lottato contro il fascismo, civile, moderna,
democratica, coraggiosa; al sud una comunità che aveva passivamente seguito gli eventi, arretrata,
antidemocratica, plebea, ribelle, vile. Napoli divenne l’immagine simbolo della disgregazione
prodotta dalla guerra sul tessuto sociale e civile della nazione. Ciò condusse a un vero e proprio
travisamento della storia: negazione della sofferenza della popolazione, oblio nazionale e locale
dell’occupazione tedesca, delle rappresaglie, delle stragi. Tutto coperto dall’epopea “americana” del
contrabbando, degli sciuscià, delle signorine. Immagini molto resistenti e introiettate dalla stessa
popolazione meridionale. Il mezzogiorno e insieme la sua più grande città si trovarono all’indomani
della guerra più emarginati che mai.
L’oblio dell’occupazione tedesca e della resistenza civile e popolare che vi si oppose si
accompagnava d’altro canto ai processi di rimozione delle violenze di guerra operate dai vincitori: i
bombardamenti negati come crimini di guerra che divennero un risultato naturale dei conflitti, gli
stupri a proposito dei quali la diplomazia italiana barattò il silenzio sui crimini fascisti nei territori
occupati dal regime fra il 39 e il 40.
La retorica della resistenza e l’impossibilità di riconoscere i propri atti nei suoi simboli, la
dissonanza degli eventi vissuti rispetto al discorso nazionale (i bombardamenti, gli stupri),
l’incrociarsi di discorsi pubblici tendenti a negare le violenze hanno dunque impedito di costruire un
discorso pubblico serio sulla guerra nel mezzogiorno. La catena di mediazione fra memoria
individuale, locale e nazionale non si è messa in moto. Non c’è rappresentazione unitaria, ognuno
ha quindi cercato di capire da solo quello che gli è successo, di trovare le spiegazioni degli
avvenimenti che gli sono caduti addosso. Lo iato con la narrazione ufficiale è enorme. Grandissima
pure è la differenza fra i colti e gli illetterati. Fra uomini e donne. I giudizi sono estremamente
variabili e sono legati all’esperienza, è come se le idee di ognuno fossero state in un certo senso
impermeabili al discorso pubblico. O non avessero trovato il vocabolario adatto a rappresentare la
propria esperienza.
Gli atti di resistenza civile che nel centro nord trovano una cornice ideologica antifascista in cui
inserirsi, nel nostro caso sono considerati azioni ordinarie: ad esempio l’aiuto ai soldati sbandati, la
resistenza alle evacuazioni e alle requisizioni. Ho potuto constatare questa differenza in numerosi
contesti commemorativi, ultimo il caso di Carrara dove ho partecipato alla commemorazione della
resistenza delle donne della città all’evacuazione imposta dai tedeschi, resistenza che è stata
ricordata in innumerevoli occasioni e ha dato origine a un discorso pubblico di una certa
importanza. La resistenza alle evacuazioni è una delle cause maggiori di rappresaglia sul fronte
meridionale (200 abitanti di Pietranseri in Abruzzo furono sterminati perché si rifiutarono di
evacuare) ma nessuno ha mai rivendicato a questa forma di lotta la veste di resistenza antifascista.

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Significative a questo proposito le testimonianze sulla violenza tedesca. Chi l’ha vissuta o vista, e
sono molti, la ricorda con forza, ne ha interpretato a pieno il senso più profondo. Chi, per casi
individuali o per congiunture geografiche, è riuscito a evitare l’incontro con i soldati teutonici, e ha,
invece, conosciuto la violenza delle bombe o degli stupri o anche semplicemente la iattanza del
vincitore in giro per i miserevoli quartieri delle città meridionali del dopoguerra, ricorda il soldato
tedesco come un soldato duro ma leale e onorevole, e interpreta le rappresaglie come una
inesorabile legge di guerra o una comprensibile vendetta contro il comportamento sleale degli
italiani, secondo la versione che gli stessi tedeschi offrirono agli italiani e che ancora oggi ha una
eco a livello nazionale.
Mentre in altri luoghi le contraddizioni sono state sopite o perlomeno nascoste dietro un discorso
pubblico, non avendo nel sud trovato una narrazione comune che le ricomponesse, esse sono
rimaste intatte nel ricordo a testimoniare della natura ambigua della guerra, della difficoltà di
distinguere sempre e nettamente il bene e il male… Questo tipo di percezione è stata attribuita in
genere al qualunquismo e alla rassegnazione atavica delle genti meridionali, io suggerirei invece
che essa nasca da una percezione della guerra in quel contesto storico e territoriale. E’ la coscienza
che la popolazione civile è la prima ad essere travolta dalla guerra, che i valori quotidiani vengono
aboliti e che gli uomini che combattono stravolgono le certezze morali cui si è profondamente
legati, quei valori consuetudinari che le donne e gli uomini comuni cercarono di difendere con i loro
atti di resistenza ordinaria.




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La Resistenza vista dal mezzogiorno

  • 1. La Resistenza vista dal sud di Gabriella Gribaudi – Università Federico II di Napoli 1) Centralità della Resistenza/guerra di liberazione. La centralità della Resistenza in quanto guerra di liberazione è stata certo cruciale nel definire gli orizzonti dello stato repubblicano, ma, come tutte le narrative pubbliche nazionali, ha significato semplificare duramente la complessa esperienza della guerra. Si tratta di un tema ampiamente dibattuto nella comunità internazionale, poiché coinvolge tutti i paesi europei. Si vedano a questo proposito le riflessioni di Tony Judt sulle categorie dicotomiche che hanno caratterizzato le interpretazioni della guerra (“Bene contro Male, antifascisti contro fascisti, partigiani contro collaborazionisti…), e sul loro mistificatorio utilizzo nel lungo dopoguerra europeo. In Italia una narrazione omogenea era resa ancora più difficile dalla complessità della geografia e della cronologia della guerra, per cui ampie zone del paese hanno vissuto discordanti e contraddittorie esperienze, irriducibili in un discorso omogeneo. Molte parti del territorio meridionale non hanno subito l’occupazione nazista. Per questo, ovviamente, non si è potuta esprimere una resistenza in quanto guerra di liberazione, mentre si è sofferta l’occupazione di quello che è stato definito da David Elwood con una efficace espressione, l’alleato nemico. Un alleato liberatore intento a continuare una guerra che si protrae oltre ogni previsione, e poco attento alle dolorosissime condizioni della popolazioni civile, come mostrano la carestia di beni alimentari, gli incidenti mortali dovuti all’impazzare delle camionette militari nelle strade delle città, le sciagure dovute alla presenza delle truppe e della macchina militare alleata (l’esplosione di due navi nel porto di Bari, di 15 vagoni ferroviari carichi di bombe nella stazione di Torre Annunziata ecc.) e, all’estremo, le violenze sessuali perpetrate dai soldati del corpo di spedizione francese contro le donne dei paesi della linea Gustav. E’ qui che la dissonanza dal discorso pubblico si fa massima. Faccio un brevissimo esempio dalle mie ricerche. Due piccoli paesi (Lenola e Campodimele) e alcune donne intervistate, che avevano subito lo stupro dalle truppe del Corpo di Spedizione Francese. Fra di loro una aveva perso la madre sotto le bombe degli alleati, un’altra aveva visto morire la figlioletta di pochi mesi per gli stenti e dopo pochi giorni il marito partire per la guerra. Prima i bombardamenti, le cannonate, la fame, il freddo, le deportazioni, poi lo stupro. “Dicevano che erano arrivati i liberatori, gli americani, ma al posto loro arrivarono i marocchini. La liberazione non l’ho mai festeggiata, perché sono ricordi che non posso scorda’.. Che liberazione era quella? Liberati a quel modo là! Si sono sfiziati come hanno voluto loro… che ti credi… Ci stanno femmine che hanno perso la vita”. “Ricordo bene che arrivarono il 22, perché proprio quel giorno vennero da noi, ma con precisione non so dirti quando andarono via… stettero 9-10 giorni ed in questi lunghissimi giorni fecero quello che non hanno fatto i tedeschi in sei mesi”. “Ricordo benissimo che vennero il mese di maggio e la loro non si deve chiamare liberazione, ma distruzione vera e propria”. “Erano lazzaroni i marocchini, ma ugualmente gli americani erano lazzaroni perché loro avevano permesso a quella gentaglia di fare tante cose. La liberazione si doveva chiamare quella e invece…” Parole analoghe si trovano in tutte le testimonianze. I vincitori, i portatori delle democrazia vestono qui i panni dei criminali, prima con il bombardamento inaspettato e inspiegabile con le ragioni militari agli occhi degli abitanti di un piccolo paese dell’Appennino, poi con gli stupratori marocchini. Nulla di più lontano dal discorso nazionale sulla guerra. “Veramente noi ci nascondevamo per paura della guerra, noi aspettavamo che erano liberatori e difatti la suocera mia uscirono con una bandiera bianca… noi credevamo che erano i liberatori”. Sulla linea Gustav si sommarono evacuazioni forzate, deportazioni, sfollamento sulle montagne in grotte e capanne, freddo, fame, bombardamenti… Il ricordo del dopoguerra con il ritorno in cittadine e paesi distrutti è il ricordo della catastrofe per cui non ci sono parole. Come in Germania, per un lungo periodo è la 1
  • 2. ricostruzione a coprire la memoria della catastrofe. La resistenza è in questo caso la lotta per sopravvivere tra le macerie e le bombe che continuano a mietere morti per molti anni tra i contadini che lavorano i campi. L’esperienza dei territori della linea Gustav (Cassino-Minturno) rappresenta un caso estremo, ma per molti altri la liberazione è semplicemente una categoria retorica che stride con l’esperienza vissuta. Il Mezzogiorno è, tra il 1943 ed il ’46, governato con la repressione ma non amministrato, protetto, organizzato. Partiti non legittimati e scarsamente radicati nel territorio meridionale lavorano per cercare una legittimazione politica di fronte agli alleati e nella più generale vicenda della guerra. Scarso è il confronto con i bisogni e le esigenze delle popolazioni, mentre emergono fenomeni di vera e propria rivolta popolare mossa da esigenze primarie (le rivolte per il carovita), da motivi politici (la violenza contro fascisti e collaborazionisti), dal rifiuto della guerra (il movimento dei “Non si parte!”). 2) Il movimento dei “non si parte”. Il rifiuto della guerra. Dopo la dichiarazione di cobelligeranza il governo Badoglio, come è noto, decide di formare un nuovo esercito che deve combattere a fianco degli alleati. Si tratta di un’armata male equipaggiata e male organizzata, voluta più dal re e da Badoglio per evidenziare la presenza dell’Italia tra gli alleati e sfuggire alle condizioni di nazione sconfitta, che dagli alleati, che diffidano delle capacità militari italiane. Sono gli stessi comandanti che avevano diretto l’esercito fascista a dirigere il nuovo contingente con la stessa disciplina e gli stessi valori. Per tutti coloro che sono fuggiti l’8 settembre 1943, la guerra è finita. Essi giudicano di avere già sofferto molto e inutilmente in nome della patria, non riconoscono l’esercito italiano come un esercito libero, differente da quello fascista, anche se ha cambiato alleanza. Quindi, quando il governo decide la coscrizione obbligatoria (settembre 1944) una gran parte delle possibili reclute fugge o si ribella alla decisione. Cito qui alcune testimonianze da me raccolte con gli studenti nei corsi degli anni 1996-98. “Ricordo che dissero che la guerra era finita e si era firmato l’armistizio come resa incondizionata, poi è subentrata la collaborazione e gli americani e gli inglesi da nemici sono diventati amici... Io pensai che la guerra era finita e che ognuno poteva ritornare a casa, poi quando capii che ci eravamo alleati con gli americani, questa cosa non mi fece piacere perché pensavo che non si poteva cambiare idea da un giorno all’altro. Decisi così di non combattere più e da Taranto dove ero, tramite treni e mezzi di fortuna tornai a casa. Tuttavia, dopo un certo periodo di rilassamento fui richiamato. A quel punto mi presero a me con gli altri e fummo portati in prigione e dichiarati disertori. Poi sono stato condannato in seguito a cinque anni e ho subito un processo”. (marinaio, S.Giovanni a Teduccio, Napoli) Il marinaio della Sirio era, prima di partire per la guerra, un operaio della zona industriale di Napoli, S.Giovanni a Teduccio, ed esordisce dicendo che lui, le sue sorelle e i suoi fratelli sono sempre stati socialisti. Non è dunque un nostalgico del regime fascista, si rifiuta piuttosto di trovare ancora ragioni nella guerra, se non deve più combattere contro gli inglesi, non vuole d’altro canto combattere insieme a loro. Le ragioni del marinaio ci introducono al tema importante della diserzione. In quel momento la diserzione era giudicata come un atto di vigliaccheria e una prova di fedeltà al regime fascista, ma, considerando le cose con più attenzione, ci si accorge che il ragionamento del disertore del sud è molto simile a quello del disertore del nord di cui parla nel suo libro Santo Peli: si tratta del rifiuto della guerra in assoluto, del rifiuto di obbedire a qualsivoglia comandante. “Dopo tante tragedie, dopo sta vita il governo italiano ci chiama. Prima si combatteva contro gli americani, contro gli inglesi, contro i francesi , dopo ci ha chiamati un’altra volta, ci ha chiamati alle armi perché dovevamo combattere contro i tedeschi. Io per quante ne avevo passate non mi presentai e quindi fui chiamato disertore e dovetti fare una causa al tribunale militare, perché fino all’8 settembre ’43 tenevo il foglio matricolare apposta, dopo di che: dove sei stato, perché non ti 2
  • 3. sei presentato? Poi comunque feci una causa per poter andare a cercare pane all’estero, per poter avere il nulla osta. E quindi queste sono le conseguenze della guerra”. (Giovanni D.) Giovanni D., allora contadino di Gesualdo, piccolo paese della provincia di Avellino, partito nel gennaio ’41 nel genio, decimo reggimento S.Maria Capua Vetere, era naufragato al suo primo viaggio in mare per l’Africa. “Non avevo mai visto il mare e partii per l’Africa a combattere. (…) E sai quanti ne tornammo a Napoli su 5000? Indovina! 200, di cui un napoletano che era impiegato alle poste mi diceva a me: montagnaro, montagnaro, a te ti succede qualcosa! Scherzavamo così... Manco a farlo apposta a Napoli ho visto il padre e la madre, io piangevo nel cuore, ma cosa gli potevo dire? Il nome non me lo scordo mai più: Donadio Ugo si chiamava. (…) E quindi la guerra per me, ripeto, la cancellerei da tutti i vocabolari e pure perché uno dei dieci comandamenti non dice non ammazzare?” Dopo il naufragio era stato dirottato in Jugoslavia; l’8 settembre era a Roma e cominciava la fuga verso casa, guidando lui, contadino della montagna irpina, una ventina di soldati “calabresi, salernitani.... lungo ruscelli, terreni, scorciatoie, montagne...”. Arrivato a casa, dopo aver percorso a piedi il tragitto da Roma in quindici giorni, aveva trovato i tedeschi sull’aia. “Arrivai qua e dietro la casa c’era un’aia per i buoi che trasportavano i covoni... arrivai qua, la famiglia era scappata, i tedeschi coi cannoni là in mezzo all’aia, mi ruppero la porta qua e comandavano loro. Mo quando li vidi, stanco senza mangiare, svenni. Mi ricordo che là caddi a terra. Ricordo che appena rinvenni me ne scappai e trovai la famiglia e abbandonai tutto...” Anche nel caso di Giovanni D. non si può parlare di nostalgia del fascismo. Dice che suo padre era stato arrestato durante il ventennio perché trovato in possesso di letteratura biblica. “Mussolini arrestava mio padre solo perché leggeva le cose bibliche e restammo senza madre e senza padre”. Condannato come disertore, aveva dovuto combattere non poco per riavere il passaporto e poter emigrare in Australia. Mario P. faceva già parte, prima della guerra, di un gruppo di antifascisti del quartiere di Ponticelli (Napoli), era partito militare nell’aviazione 35° stormo, aveva combattuto per due anni in Africa. In uno dei grandi bombardamenti che avevano colpito il quartiere erano morti i suoi genitori. Tornato a Napoli, aveva partecipato all’insurrezione contro i tedeschi, ma non volle ripresentarsi a combattere nelle file del Corpo italiano di liberazione. Lo esprime con poche parole scarne, ma significative. “Erano cadute le bombe a Santa Croce e sotto le pietre c’erano mamma e papà e arrivai a Napoli. Dopo aver fatto la guerra, mi mandarono a fare la causa come disertore e poi subii la causa avendo diciotto mesi di carcere che non ho fatto. La guerra la paga sempre il più fesso.” Durante l’inverno 1944-45 grandi rivolte contro la coscrizione obbligatoria si verificano nel Mezzogiorno a partire dalla Sicilia. Il governo invia l’esercito contro i manifestanti provocando numerose vittime. Ed è il governo di unità nazionale che prende la decisione di sparare contro la popolazione. I comunisti accettano senza riserve la linea del governo a cui partecipano. Le corrispondenze dalla Sicilia per L’Unità, citate da Enzo Forcella nella sua introduzione al libro di Maria Occhipinti, parlano di “rigurgiti fascisti”, di sabotaggio dei separatisti e dei grandi proprietari terrieri, interpretazione che fu sottolineata nella risoluzione della direzione del PCI il 17 febbraio 1945. Al contrario, alla testa del movimento si trovavano spesso socialisti, anarchici, comunisti, come mostra la storia delle lotte di Ragusa e in particolare quella di Maria Occhipinti, che è stata considerata uno dei capi della rivolta e che ha raccontato la sua vicenda nel libro apparso nel 1956. La storia dei “non si parte” fu dunque inquadrata nella categoria delle rivolte popolari reazionarie, contribuendo a rafforzare l’immagine di un Mezzogiorno arretrato e nostalgico del fascismo, contro il nord progressista e antifascista. Gli uomini che non risposero all’appello furono migliaia: nel dicembre 1944, 80.000 uomini non risposero all’appello, due mesi dopo erano 200.000. L’amnistia del 22 giugno 1946 avrebbe assolto i militari della Repubblica di Salò, ma non i disertori del Centro-Sud. Con il decreto del 19 marzo 1946 le condanne a morte o a parecchi anni di carcere furono ridotte a cinque anni di reclusione 3
  • 4. militare e al trattamento condizionale. I tribunali si ingolfarono e per molti anni migliaia e migliaia di cittadini furono privati dei diritti civili: non potevano ottenere il certificato di buona condotta, non potevano votare, non potevano ottenere il passaporto, come successe a Giovanni D., il testimone irpino citato poc’anzi 3) La resistenza meridionale. Nelle zone dove si è verificata un’occupazione nazista breve ma violentissima, come in Campania, una resistenza c’è stata, ma, per vari motivi, è stata sottovalutata, non è entrata nella memoria nazionale e, molto spesso, anche in quella locale. Riporto qui alcune riflessioni che già ho sviluppato in varie occasioni e scritti. Faccio l’esempio più importante, quello dell’insurrezione napoletana. Da un canto, poiché le quattro giornate di Napoli non hanno avuto un’organizzazione politica chiara e centralizzata, alcuni le hanno presentate come un episodio di rivolta apolitico, la solita ribellione meridionale senza ideali nobili, ma guidata dalla pancia. D’altro canto, quando altri studiosi o opinionisti di sinistra hanno voluto salvare l’episodio riportandolo nel panteon della memoria nazionale, hanno cercato di enfatizzarne gli aspetti d organizzazione politica per renderlo leggibile secondo gli schemi della resistenza “politica” del centro nord, cioè politico militare del CLN. Il film di Nanni Loy venne stigmatizzato da questi autori (addirittura gli sceneggiatori disconobbero il lavoro del regista) perché evidenziava gli aspetti popolari e spontanei della rivolta e non metteva abbastanza in luce il ruolo degli antifascisti. In realtà anche questa versione era dettata da una visione ideologica e costringeva i fatti in una cornice retorica poco credibile. Le interpretazioni. Già nel libro di Battaglia si costruiva una gerarchia di insurrezioni, la migliore insurrezione è quella di Genova poi viene quella di Firenze… La gerarchia era creata a partire dal livello di preparazione politica, di centralizzazione del comando ecc. Il caso napoletano veniva trattato invece come una lotta, in un certo senso, prepolitica. A questo proposito conta molto l’immagine di Napoli all’interno dell’iconografia nazionale: risuonano nelle descrizioni le rappresentazioni mitiche della città. “E’ veramente impossibile descrivere l’incendio quando esso si propaga in una materia così infiammabile nei suoi guizzi, nelle sue vampate, nella sua furia di distruzione…”. “Definire le quattro giornate come un’insurrezione vera e propria è già dire qualcosa di troppo preciso di fronte a un fenomeno che ha tutte le caratteristiche grandiose e indefinibili di un fenomeno della natura: poiché il termine insurrezione nei tempi moderni presuppone un piano da parte degli insorti, degli obiettivi precisi da raggiungere e già prestabiliti sulla carta; presuppone un Comando – con la C maiuscola – una prospettiva di lotta, un successo o una sconfitta. Mentre a Napoli mancano tutti questi elementi che saranno evidenti nell’insurrezione di Parigi o di Praga o di Genova: ed è ancor oggi difficile dire che cosa si proponessero gli insorti di Napoli, se cacciare i tedeschi ormai ridotti ad un presidio di scarsa entità, se sbarrare la città alle colonne…ecc. oppure impedire le ultime distruzioni. In realtà questi obiettivi che sono gli obiettivi logici di qualsiasi insurrezione, balenarono qua e là nel corso delle quattro giornate…..”. L’insurrezione napoletana viene letta secondo i modelli della folla premoderna, come lo scoppio inarrestabile di una rabbia repressa, quindi non politica. Vediamo ancora alcuni brani da Percy Allum. “E’ da notare che proprio il gran numero di disordini e di jacqueries è un indice del loro limite come arma di lotta, un’arma che non ha mai potuto cambiare le fondamentali condizioni di vita della popolazione. Le rivolte e le jacqueries del popolo napoletano sono sempre state di breve durata per ottenere degli obiettivi immediati o hanno avuto luogo in situazioni assolutamente disperate. Sono state sommosse per l’occupazione, per la cessazione di un particolare abuso, oppure rivolte contro il ‘destino’. I napoletani, chiusi negli angusti limiti della Gemeinschaft, non sono mai arrivati a capire che una rivoluzione è finita, quando raggiunge i suoi scopi immediati solo a prezzo di sacrificarne i vantaggi; e ciò perché ad essi è sempre mancata la struttura intellettuale che li mettesse in grado di acquisire piena coscienza della loro situazione globale. Ciò è stato dimostrato più volte: per esempio dalle Quattro Giornate di Napoli che molti considerano come l’inizio della 4
  • 5. Resistenza in Italia. I napoletani, dopo aver costretto alla ritirata i tedeschi, ricaddero nella loro antica condizione, tanto che Napoli fu la città meno toccata dagli ideali della Resistenza, come testimonia ampiamente la sua storia del dopoguerra”. In una nota di commento, Percy Allum faceva propria anche la tesi negazionista: assumeva come vera ed esaustiva l’interpretazione di un unico napoletano intervistato in una ricerca sulla città di Palermo e comparsa in un libro edito in Francia, in cui si dice, appunto, che l’insurrezione fu opera di due o tre scugnizzi. Vediamo ancora le parole di Bocca nel ’66. “L’insurrezione non è stata organizzata da un centro militare politico, è la somma di tante iniziative individuali e di gruppo, vuol dire che ci sono dei cittadini i quali si preparano da giorni a cogliere il momento opportuno … non è ancora e non sarà una ribellione unitaria e neppure di elite rivoluzionarie consapevoli e coordinate però è insurrezione di popolo, è popolo che combatte come nessuno avrebbe osato sperare conoscendo la disgregazione sociale della città (….) la rivolta resterà anarchica, ciascun gruppo avrà la sua battaglia in una città così abituata alle sofferenze e alle privazioni che tollera anche questi giorni di fuoco…” Notare frasi e termini utilizzati: “Il termitaio fetido continua a vivere senza luce e senza acqua imponendo ai tedeschi impauriti e furenti la sua vastità, il suo corpo massiccio e inamovibile”. Sono, queste, immagini che bene rendono le costruzioni ideologiche e interpretative a proposito degli episodi di resistenza meridionali. Come faceva la rivolta ad avere una testa politica organizzata se in nessuna parte d’Italia tale testa esisteva in quel momento? Le interpretazioni sono slegate da un’analisi dei fatti e del contesto storico. Oltre a riflettere sulla forza dei paradigmi ideologici e degli stereotipi, che pervadono anche la comunità scientifica, è interessante notare come tutto il dibattito e tutte le valutazioni siano state fatte senza alcuna base di ricerca documentaria. Vediamo, ad esempio, i dati più semplici e bruti: il numero dei morti. La prima cifra che compare e a cui molti studiosi successivi si attengono è quella fornita da Tarsia in Curia, uno dei comandanti dell’insurrezione, che poi presiedette la commissione che dava la patente di partigiano o di combattente patriota: questi parla di 318 morti, e si riferisce ai caduti “combattenti”. Prendiamo poi un altro libro sulla Resistenza, quello di Giorgio Bocca: 60 morti. Un altro ancora: 50. Nei registri dei morti del Comune di Napoli si trovano ben 663 vittime “mitragliate dai tedeschi”, “uccise dai tedeschi”. Ovviamente non sono tutti combattenti, ma la cifra indica che si è svolta una battaglia di notevole portata e confuta in maniera abbastanza netta le tesi svalutative o addirittura negazioniste, quelle che rappresentano l’insurrezione come una ribellione di “scugnizzi”. Oltre al numero si può rilevare ancora la composizione per età: troviamo il picco delle morti nella fascia di età fra i 17 e i 45 anni, proprio quegli uomini adulti di cui viene negata la presenza. Le vittime, poi, sono in grande maggioranza nei quartieri storici della città, nei rioni popolari, e la loro configurazione sociale conferma la composizione popolare dell’insurrezione: troviamo operai, ambulanti, artigiani, impiegati; non compare un solo professionista, un laureato… c’è solo un medico. Dalle fonti orali possiamo poi ricostruire il legame stretto delle bande con il territorio: il vicolo, il quartiere, il rione. E’ all’ingresso del quartiere che si fanno le barricate e poi ci si muove insieme nelle zone circostanti. L’idea che mi sono fatta è proprio l’esatto contrario dell’immagine stereotipata: non è la presunta disgregazione sociale della città a produrre lo “scoppio” della rivolta, ma è invece una particolare coesione del quartiere a rendere possibile l’insurrezione e a fornirle la struttura di relazioni su cui costruire l’organizzazione militare. Ovviamente nei passi citati troviamo invece un accostamento meccanico tra la geografia barocca e la rivolta come jacquerie plebea. In conclusione l’insurrezione napoletana può essere definita, senza scadere nella retorica che distrugge ogni ricordo autentico, un episodio di resistenza “autonoma”, un caso molto interessante di ribellione all’occupazione nazista, attuata attraverso le strutture informali della società e non le organizzazioni politiche o istituzionali, che, come ho detto, in quel momento non erano ancora organizzate. Che anzi, per il caso napoletano, l’accusa di attendismo si può rovesciare sui comunisti, che aspettarono e scelsero di preservare i militanti per la lotta politica successiva. Forse anche per questo le élite colte della città 5
  • 6. non ne hanno parlato o hanno rappresentato l’insurrezione attraverso le immagini di un insopportabile folklore. E’ interessante notare come ancora oggi, quando si vuole commemorare la prima resistenza ai nazisti si commemora Porta San Paolo a Roma e mai Napoli, la prima insurrezione di una città in Europa. Ovviamente la responsabilità non è unica: oltre alle interpretazioni ideologiche di cui ho parlato, hanno contribuito in maniera decisiva i gruppi dirigenti locali post-fascisti, che avevano interesse a presentare le popolazioni meridionali come fedeli al vecchio regime. 4) La visione dicotomica della comunità nazionale. Le due interpretazioni fondamentali della guerra e della Resistenza ricalcarono anche una storica divisione geografica: l’Italia divisa in due dalla linea Gustav corrispondeva pure, fatalmente, alla divisione storica fra il centro-nord, diviso in innumerevoli stati fino al 1861, e il grande regno di Napoli, poi regno delle due Sicilie, conquistato dalle truppe garibaldine con la spedizione dei Mille. Le narrazioni nazionali poterono ripercorrere antiche immagini, scegliendo ciò che si doveva ricordare e ciò che si doveva mandare all’oblio. A livello della memoria nazionale tutto ciò riprodusse la visione dicotomica della “comunità immaginata”: al nord una comunità che aveva lottato contro il fascismo, civile, moderna, democratica, coraggiosa; al sud una comunità che aveva passivamente seguito gli eventi, arretrata, antidemocratica, plebea, ribelle, vile. Napoli divenne l’immagine simbolo della disgregazione prodotta dalla guerra sul tessuto sociale e civile della nazione. Ciò condusse a un vero e proprio travisamento della storia: negazione della sofferenza della popolazione, oblio nazionale e locale dell’occupazione tedesca, delle rappresaglie, delle stragi. Tutto coperto dall’epopea “americana” del contrabbando, degli sciuscià, delle signorine. Immagini molto resistenti e introiettate dalla stessa popolazione meridionale. Il mezzogiorno e insieme la sua più grande città si trovarono all’indomani della guerra più emarginati che mai. L’oblio dell’occupazione tedesca e della resistenza civile e popolare che vi si oppose si accompagnava d’altro canto ai processi di rimozione delle violenze di guerra operate dai vincitori: i bombardamenti negati come crimini di guerra che divennero un risultato naturale dei conflitti, gli stupri a proposito dei quali la diplomazia italiana barattò il silenzio sui crimini fascisti nei territori occupati dal regime fra il 39 e il 40. La retorica della resistenza e l’impossibilità di riconoscere i propri atti nei suoi simboli, la dissonanza degli eventi vissuti rispetto al discorso nazionale (i bombardamenti, gli stupri), l’incrociarsi di discorsi pubblici tendenti a negare le violenze hanno dunque impedito di costruire un discorso pubblico serio sulla guerra nel mezzogiorno. La catena di mediazione fra memoria individuale, locale e nazionale non si è messa in moto. Non c’è rappresentazione unitaria, ognuno ha quindi cercato di capire da solo quello che gli è successo, di trovare le spiegazioni degli avvenimenti che gli sono caduti addosso. Lo iato con la narrazione ufficiale è enorme. Grandissima pure è la differenza fra i colti e gli illetterati. Fra uomini e donne. I giudizi sono estremamente variabili e sono legati all’esperienza, è come se le idee di ognuno fossero state in un certo senso impermeabili al discorso pubblico. O non avessero trovato il vocabolario adatto a rappresentare la propria esperienza. Gli atti di resistenza civile che nel centro nord trovano una cornice ideologica antifascista in cui inserirsi, nel nostro caso sono considerati azioni ordinarie: ad esempio l’aiuto ai soldati sbandati, la resistenza alle evacuazioni e alle requisizioni. Ho potuto constatare questa differenza in numerosi contesti commemorativi, ultimo il caso di Carrara dove ho partecipato alla commemorazione della resistenza delle donne della città all’evacuazione imposta dai tedeschi, resistenza che è stata ricordata in innumerevoli occasioni e ha dato origine a un discorso pubblico di una certa importanza. La resistenza alle evacuazioni è una delle cause maggiori di rappresaglia sul fronte meridionale (200 abitanti di Pietranseri in Abruzzo furono sterminati perché si rifiutarono di evacuare) ma nessuno ha mai rivendicato a questa forma di lotta la veste di resistenza antifascista. 6
  • 7. Significative a questo proposito le testimonianze sulla violenza tedesca. Chi l’ha vissuta o vista, e sono molti, la ricorda con forza, ne ha interpretato a pieno il senso più profondo. Chi, per casi individuali o per congiunture geografiche, è riuscito a evitare l’incontro con i soldati teutonici, e ha, invece, conosciuto la violenza delle bombe o degli stupri o anche semplicemente la iattanza del vincitore in giro per i miserevoli quartieri delle città meridionali del dopoguerra, ricorda il soldato tedesco come un soldato duro ma leale e onorevole, e interpreta le rappresaglie come una inesorabile legge di guerra o una comprensibile vendetta contro il comportamento sleale degli italiani, secondo la versione che gli stessi tedeschi offrirono agli italiani e che ancora oggi ha una eco a livello nazionale. Mentre in altri luoghi le contraddizioni sono state sopite o perlomeno nascoste dietro un discorso pubblico, non avendo nel sud trovato una narrazione comune che le ricomponesse, esse sono rimaste intatte nel ricordo a testimoniare della natura ambigua della guerra, della difficoltà di distinguere sempre e nettamente il bene e il male… Questo tipo di percezione è stata attribuita in genere al qualunquismo e alla rassegnazione atavica delle genti meridionali, io suggerirei invece che essa nasca da una percezione della guerra in quel contesto storico e territoriale. E’ la coscienza che la popolazione civile è la prima ad essere travolta dalla guerra, che i valori quotidiani vengono aboliti e che gli uomini che combattono stravolgono le certezze morali cui si è profondamente legati, quei valori consuetudinari che le donne e gli uomini comuni cercarono di difendere con i loro atti di resistenza ordinaria. 7