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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TRIESTE
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN DISCIPLINE DELLO SPETTACOLO
Tesi di laurea in
FILMOLOGIA
IL CORPO EROTICO
L’evoluzione dei canoni estetici nelle icone femminili
Laureanda: Relatore:
MARTA DE ZOLT Prof. ROBERTO NEPOTI
Correlatore:
Prof. GIANLUCA GUERRA
Anno Accademico 2008 - 2009
1
INTRODUZIONE
Questa tesi si pone l’obiettivo di analizzare come la seduzione della figura femminile
al cinema viene attuata, partendo dalle teorie psicologiche di Lacan e Freud e dagli
studi di psicoanalisi applicati al cinema di Metz. Con l’analisi del voyeurismo e del
feticismo si possono comprendere i processi attraverso i quali lo spettatore
percepisce la donna erotica. Lo spettatore diventa voyeur quando si pone in relazione
ad un film e fra lui e la pellicola si instaura un rapporto di esibizionismo/voyeurismo.
Questa relazione ha delle implicazioni psicologiche inconsce che contribuiscono alla
percezione del corpo erotico da parte dello spettatore voyeur. Il feticismo, altra
perversione ampiamente trattata da Freud, è un aspetto molto complesso se applicato
al cinema soprattutto se si parla del corpo erotico. Quest’ultimo infatti viene costruito
all’interno delle pellicole e percepito dallo spettatore proprio attraverso i meccanismi
inconsci relativi ai processi psicologici legati al feticismo. Il corpo nudo, il corpo
vestito, il concetto di corpo teatralizzato sono tutti legati al complesso meccanismo di
questa perversione che ha radici molto profonde nel nostro inconscio. La musica con
il canto, la danza e lo streap-tease, è presente in molte scene dove le dive del cinema
mettono in atto la loro seduzione e carica sessuale. Anche questa disciplina affonda
le proprie radici nel nostro inconscio e nei nostri primi anni di vita soprattutto nella
percezione di essa come un tramite della seduzione.
Questa prima parte della tesi analizza quindi la stretta relazione fra le teorie
psicanalitiche e il cinema in particolare come viene costruito e percepito il corpo
erotico delle dive.
La seconda parte della tesi si pone l’obiettivo di analizzare lungo tutto il corso della
storia del cinema, quali sono state le figure femminili che più si sono imposte
nell’immaginario collettivo, analizzandone anche il contesto storico e culturale. In
particolare per ogni attrice prenderò ad esempio un film che ha creato
nell’immaginario collettivo l’immagine erotica dell’attrice. Nei primi decenni del
Novecento la fanno da padrone la femme fatale Marlene Dietrich grazie al film
L’angelo azzurro, diretto da Josef von Sternberg (1930) e Louise Brooks con Lulù, il
vaso di Pandora (1928) di Georg Wilhelm Pabst .
2
La tappa successiva sarà negli anni d’oro dello star system hollywoodiano dove
emergono a livello internazionale i corpi fallici di Rita Hayworth, la rossa Gilda
fasciata nel lungo abito da sera nero, e della bionda Marilyn Monroe che con la
gonna bianca sulla grata della metropolitana, si assicura un posto come immagine
simbolo del XX secolo. Un capitolo a parte viene dedicato al fenomeno delle
maggiorate italiane, figlie del Neorealismo italiano che con la loro bellezza
spontanea ed esuberante arriveranno fino a Hollywood. Dalla mondina Silvana
Mangano si passa alla Bersagliera Gina Lollobrigida che vedrà come sua rivale
Sophia Loren fino alla più moderna Claudia Cardinale. Gli anni Sessanta e Settanta
sono importanti perché molti dogmi sessuali dei decenni precedenti cadono e la
nuova generazione si libera di tante restrizioni, soprattutto al cinema dove il corpo
diventa libero di esprimersi e di essere rappresentato. Figura cardine ed emblematica
di questo periodo è Brigitte Bardot che con il film Piace a troppi – e Dio creò la
donna diretto da suo marito Roger Vadim nel 1956, si impone come sex symbol
internazionale ma anche come figura ribelle e ambasciatrice delle nuove libertà. Il
regista Luis Buñuel invece rappresenta la moderna società sotto l’aspetto sessuale
con due film importanti: Bella di giorno (1967) dove troviamo Chaterine Deneuve e
Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977). Il primo mette in scena le fantasie
proibite di una borghese repressa dal suo stato sociale che le impedisce di esprimersi,
mentre il secondo è interessante per la rappresentazione della donna: caratteristica
particolare è l’utilizzo di due attrici per interpretare lo stesso personaggio in cui si
materializzano i due aspetti della seduzione femminile: il diabolico e l’angelico.
L’ultimo capitolo descrive le ultime due icone degli anni Ottanta e Novanta
riferendosi a Kim Basinger in 9 settimane e ½ Sharon Stone in Basic Insinct. Si apre
qui una riflessione su come è mutata la donna erotica rispetto ai primi decenni del
Novecento e sull’evoluzione del corpo prendendo ad esempio la cantante Madonna
contemporaneamente icona sexy e corpo tecnologico.
Lo scopo dell’opera è di dare un’immagine complessiva, anche se non molto
approfondita del fenomeno essendo molto vasto, delle icone sessuali figlie del
sistema cinematografico con una lunga premessa sui processi psicologici relativi alla
percezione del corpo erotico nella mente dello spettatore.
3
CAPITOLO 1.
IL LATO OSCURO DELLO SPETTATORE: IL VOYEURISMO
“L’istinto, la pulsione di guardare è una delle componenti
primarie della nostra libido e può divenire, in certi casi un
sostituto, come se lo sguardo rimpiazzasse l’atto di toccare.”1
Sigmund Freud
1.1 Chi è lo spettatore?
Che cosa significa essere spettatori di fronte ad un film?
Numerose sono le motivazioni consce ma soprattutto inconsce, che ci fanno sedere al
buio in una sala a condividere con altri spettatori dei fasci di luce intermittenti.
Lo spettatore si reca di sua volontà al cinema per condividere emozioni, per farsi
emozionare e forse per cercare sé stesso al buio di una proiezione. Il rapporto che si
instaura fra il film e spettatore è alquanto complicato dato che alla base di tutto c’è il
fatto che il film viene creato nella mente dello spettatore che lo percepisce. È lo
spettatore, che con la sua capacità di percezione, farà in modo che la serie di
fotografie in movimento assumano un senso grazie alla rielaborazione che avviene
nella sua mente. La stessa struttura della sala cinematografica favorisce la fusione fra
spettatore e film: il buio, l’immobilità fisica e soprattutto i sensi completamente
coinvolti e attratti dal dispositivo filmico. Seguire un film comporta un
coinvolgimento non soltanto emozionale ma anche fisico, il nostro corpo risponde
agli stimoli che percepiamo attraverso il film (se una scena ci fa paura partecipiamo
con una tensione muscolare), dunque l’immagine filmica interagisce con il corpo
dello spettatore. Al contempo però si sperimentano delle assenze come gli odori, il
gusto e il tatto compensabili con l’attività sinestesica. Lo spettatore, attraverso i
1
Freud, Sessualità e vita amorosa, Newton, Roma, 2006, pag 23
4
sensi, accede ad un’ altra dimensione e nel caso della fruizione di un film la vista e
l’udito prendono il sopravvento aiutandolo a partecipare alla diversa dimensione
filmica. La partecipazione psicologica dello spettatore è una condizione necessaria
per attivare l’impressione di realtà e la croyance che è lo stato di sospensione fra il
“credere” e “non credere” a ciò che si sta vedendo. Tale attivazione avviene
attraverso il processo d’identificazione. L’identificazione si realizza trasferendo le
nostre emozioni sui personaggi del film (identificazione cinematografica
secondaria). È un’attività inconscia, noi viviamo le emozioni attraverso i personaggi
con i quali ci identifichiamo. Ma anche ci proiettiamo su essi, infatti lo spettatore
arricchisce i personaggi con i propri elementi psicologici. Così il cinema ci offre la
possibilità di vivere una vita non nostra e di soddisfare quei nostri impulsi che mai
potremmo o vorremmo soddisfare nella realtà2
.
Per questo possiamo parlare di più film nel film, ogni spettatore percepisce a modo
suo e quindi interpreta il film a seconda delle sue capacità e delle sue esperienze.
1.2 Le pulsioni al cinema: vista e udito
La psicofisiologia distingue classicamente i “sensi a distanza” (la vista e l’udito)
dagli altri sensi che si esercitano più da vicino che vengono chiamati “sensi a
contatto” (tatto, gusto, olfatto).
La visione e la percezione di un film è possibile soltanto attraverso due pulsioni
percettive: il desiderio di vedere, il solo presente nel cinema muto e il desiderio di
ascoltare, apparso con il cinema parlato. Nella psicanalisi la pulsione è un insieme di
tendenze istintive volte a soddisfare bisogni primitivi, mentre la percezione è
l’attività di raccolta delle informazione provenienti dall’ambiente attorno a noi. Si
deduce quindi che per la fruizione di un film ci avvaliamo dei nostri sensi (vista e
udito) per percepire e soprattutto soddisfare il nostro bisogno e la nostra curiosità di
conoscere ciò che ci sta attorno.
Queste due pulsioni si distinguono dagli impulsi organici (denominati così da
Lancan, mentre Freud li chiama pulsioni di autoconservazione) in base al rapporto
2
Cesare Musatti, Psicologia degli spettatori al cinema, “Quaderni di Ikon”
5
che si instaura fra loro e l’oggetto che li soddisfa. Se la fame e la sete sono dei
bisogni che vengono soddisfatti con l’assunzione di cibo e acqua, quindi con beni
materiali non sostituibili con altri; il desiderio di vedere e di sentire instaurano con
l’oggetto che li soddisfa una rapporto alquanto complesso. Queste due pulsioni
sessuali (vista e udito) trovano soddisfazione fino ad un certo punto con l’oggetto
perché si nutrono del loro stesso desiderio di essere insoddisfatte. In parole più
semplici, la vista e l’udito si soddisfano con beni immateriali che placano le pulsioni
soltanto per poco, appena l’oggetto sparisce il bisogno di soddisfazione riaffiora e si
nutre di sé stesso; la mancanza dell’oggetto è sia un vuoto da colmare ma anche un
vuoto da preservare per mantenere vivo il desiderio. Ogni oggetto che soddisfa
queste pulsioni non è altro che la proiezione di un oggetto immaginario desiderato
che tiene vivo il desiderio stesso. Queste due pulsioni vivono inseguendo l’oggetto,
assaporando il breve momento in cui vengono soddisfatte per poi ritornare
all’inseguimento.
Il cinema si presta bene per le scene erotiche per il fatto che mantiene vive le
pulsioni con l’offerta di oggetti ricchi ma al contempo assenti materialmente.
1.3 Lo spettatore voyeur
“Il voyeurismo sarebbe all’origine di gran parte della narrativa e, ovviamente, del
cinema. Non ci sarebbe invece scopofilia nella pittura e nella scultura perché in
queste arti mancherebbe il movimento: il voyeur non spia tanto l’oggetto quanto il
suo movimento cioè il suo comportamento. […] La scopofilia comincia a partire
dall’osservazione del movimento dell’oggetto spiato. […] Lo scopofilo non spia
soltanto ciò che è proibito ma anche ciò che è sconosciuto; in altri termini, la
scopofilia ha bisogno di scoprire l’ignoto”3
.
Il termine perversione deriva etimologicamente da “per-vertere” (termine che sta per
“tendere”, “volgere oltre”) e fu introdotto da Magnan nel 1885 per differenziare dalle
3
Tratto da L’uomo che guarda di Alberto Moravia
6
anomalie e dalle aberrazioni sessuali. Fino al 1952 le deviazioni sessuali erano
classificate insieme ai disturbi della personalità psicopatica e considerate come reati
commessi da individui con tendenze antisociali e criminali. Nel 1983 le perversioni
sessuali furono incasellate in una categoria a sé stante e definite “parafilie” (da para
“deviante” e filia “attrazione). Esse comprendono: l’esibizionismo, il feticismo, il
frotteurismo, la pedofilia, il masochismo sessuale, il sadismo sessuale, il feticismo di
travestimento e il voyeurismo. Inoltre si aggiungono altre perversioni come la
necrofilia, la zoofilia, la scatologia telefonica, il parzialismo, la coprofilia e la
clismafilia.
Il voyeurismo è quindi una forma di deviazione sessuale ma anche la condizione
dello spettatore di fronte al film. Freud osserva che il voyeurismo, simile in questo al
sadismo, mantiene sempre una distanza fra l’oggetto (in questo caso l’oggetto
osservato) e la fonte pulsionale (l’occhio). La distanza viene mantenuta perché in
caso contrario il soggetto si appagherebbe consumando l’oggetto. Il voyeur eviterà di
colmare la distanza per non soddisfare il suo desiderio ma è la stessa insoddisfazione
ad essere fonte di soddisfazione (ricordiamoci che il voyeurismo è una forma da
sadismo). Avvicinandosi all’oggetto rischierebbe di placare il desiderio e di
consumare quindi l’oggetto, di portarlo all’orgasmo e al piacere del corpo mettendo
fine al dispositivo scopico. Il voyeur vive di illusioni e immagini che
necessariamente devono rimanere tali per evitare la fine del gioco.
Il cinema nella sua natura mantiene la distanza fra il soggetto (spettatore) e l’oggetto
(film), cosicché la fantasia rimane viva e la pulsione visiva può continuare a nutrirsi
del suo stesso desiderio di soddisfarsi. Lo spettatore è un voyeur “naturale”, la
struttura stessa del cinema lo obbliga ad esserlo. Un film non può esistere senza uno
spettatore che lo guardi. Ma ciò che distingue il cinema da una qualunque altra
situazione voyeuristica (basti pensare al teatro), è il raddoppiamento della distanza
fra il voyeur (spettatore) e l’oggetto (immagini del film). L’oggetto è materialmente
assente dalla scena, ciò che il voyeur-spettatore vede non è altro che una dimensione
spazio-temporale esistita in un momento in cui lui non c’era (durante le riprese lo
spettatore non era presente).
Il voyeurismo che non sia troppo sadico, si avvale di una sorta di finzione, più o
meno giustificata o anche istituzionalizzata (come in uno spogliarello), che stabilisce
7
che l’oggetto è “d’accordo” di sottoporsi all’attività dei voyeur e quindi è
esibizionista. Il voyeur si difende e si giustifica pensando inconsciamente che “se
l’oggetto è là, è perché lo vuole”. Il rapporto fra spettatore e film in questo senso è
compromesso. Se l’attore era presente quando non lo era lo spettatore (riprese), e lo
spettatore è presente quando l’attore non lo è più (proiezione), l’appuntamento fra
voyeur e oggetto è mancato. Il voyeurismo cinematografico deve fare a meno di ogni
segno esplicito di consenso da parte dell’oggetto. Lo scopofilo si trova da solo nella
sala buia a guardare il film ovvero qualcosa che si lascia vedere senza farsi vedere;
lo spettatore si trova privato dell’accordo abilitante e si parla quindi di una scopofilia
non autorizzata. Il paradosso sta nel fatto che la scopofilia cinematografica è “non
autorizzata” ma si trova ad essere nello stesso tempo “autorizzata” dal semplice fatto
della sua istituzionalizzazione (è accettato socialmente che io mi rechi in un cinema).
Il cinema conserva in sé qualcosa del divieto della visione della scena primaria
freudiana ma al contempo legalizza la pratica dell’esercizio vietato.
L’oscurità della sala, la finestrella dello schermo tanto simile al famoso buco della
serratura e soprattutto la solitudine del voyeur-spettatore, favoriscono il rapporto
voyeuristico che si instaura fra spettatore e film. Il film ignora la presenza dello
spettatore perché si trova in un'altra dimensione, inoltre lo spazio filmico è fittizio
mentre quello dello spettatore è reale.
Il film è una riproduzione della scena primaria dove il bambino vede i genitori intenti
in un atto sessuale, ma al contempo sa di non poter essere presente nella loro
dimensione, e analogamente al cinema lo spettatore vede il film ma è solo un
osservatore la cui partecipazione è inconcepibile. A questo punto il significante
cinematografico non è solo psicoanalitico, è più precisamente edipico; inoltre il
cinema è un atto lecito che al contempo apre una dimensione inconfessabile perché
abilita alla visione della suddetta scena primaria.
1.4 Esibizionismo ambiguo
Lo spettatore è al cinema e assiste al film. Uso il termine assistere perché è sia
testimone che aiutante nei suoi confronti: lo spettatore guardando il film lo aiuta a
nascere e a vivere dentro alla mente.
8
Il film è esibizionista, e allo stesso tempo non lo è. L’esibito sa di essere guardato,
desidera che sia così, si identifica con il voyeur di cui è l’oggetto.
Il film non è esibizionista. Lo guardo, ma lui non mi guarda mentre lo guardo.
Tuttavia sa che io lo guardo. Ma non vuole saperlo. Precisamente colui che sa e colui
che non sa non si confondono del tutto. Colui che sa, è il cinema, l’istituzione (cioè il
discorso che sta dietro la storia); quello che non vuole sapere è il film, il testo: la
storia.
Lo spettatore vede un oggetto (il film) che sa e si è predisposto per essere visto, ma
al contempo lo spettatore ignora di essere un voyeur perché si identifica con la
macchina da presa che è un voyeur a sua volta.
Semplificando, un bambino che si vede riflesso nello specchio sa di essere lui, si
identifica con l’immagine (identificazione primaria). Nel cinema lo spettatore si
identifica con la macchina da presa (occhio del regista) e i personaggi nel film
“ignorano” di essere vittime del voyeur e fanno ignorare quindi allo stesso voyeur-
spettatore di essere tale.
1.5 Il cinema erotico fra spettatori, attori e registi voyeur
Il voyeurismo legato all’esistenza stessa del cinema è uno dei primi elementi messi in
discussione dalla censura e genera, sin dalla nascita del cinema stesso, il dibattito su
cosa sia lecito o meno mostrare. Lo spettatore, di fronte a uno spettacolo di tipo
erotico diviene forzatamente una sorta di voyeur costretto ad assistere, senza essere
visto, a situazioni scabrose.
È importante riflettere sulle parole di Jean-Luc Douin tratte dal libro Les ècrans du
dèsir4
: “Al cinema, c’è desiderio all’interno della sala, desiderio sull’immagine, e
desiderio nel momento in cui viene girato il film, desiderio grazie al quale il film
esiste. È infatti essenzialmente a partire da quest’ultimo desiderio che nascono gli
altri due.”. Secondo Douin il regista ha un doppio potere nel realizzare un film:
dirigere ciò che filma, ovvero imporre un suo desiderio e immortalarlo sulla
pellicola, quindi imprimere per l’eternità sul corpo di una donna quello che egli
4
J.-L. Douin, Les ècrans du dèsir ,tradotto da Daniela Pecchioni, pag.11
9
stesso desidera. Il film traduce una tensione erotica fra regista e attrice: il desiderio
del regista di “possederla” viene tradotto tramite la macchina da presa. Molte scene
che suscitano desiderio nello spettatore, altro non sarebbero che lo specchio di un
desiderio originario che il regista proverebbe nei confronti di ciò che sta filmando.
Gli occhi del voyeur-spettatore si sovrappongono a quelli del regista, voyeur prima di
lui.
Il voyeurismo, perversione sottile ma anche sublime, ben si appresta ad essere
rappresentata ed utilizzata nei film erotici. Binocoli, obiettivi fotografici, cineprese
amplificano l’effetto voyeuristico grazie alla possibilità che offrono di ingigantire le
immagini e di offrire così, all’occhio indiscreto, l’opportunità di restare lontano
dall’oggetto spiato. Lo spettacolo proibito che possiamo assaporare guardando
attraverso il classico buco della serratura o il foro del muro, si potenzia grazie al
cinema: la cinepresa, ovvero l’occhio del regista è una protesi che ne accresce
l’efficacia, che amplia la possibilità di osservare.
Romàn Gubern5
nel suo libro scrive che il voyeurismo è congenito al sistema scopico
del cinema e ciò è dimostrato dal fatto che dal 1900, apparvero in Europa e negli
Stati Uniti una gran numero di film che potremmo definire film-voyeurs, in cui si
mostrava ciò che si poteva vedere attraverso un buco di serratura, opportunamente
sagomata in nero nell’inquadratura. In questi primi film-voyeurs, lo stesso Gubern
sottolinea quanto fossero comunque “casti”, mostrando non quello che si poteva
vedere in realtà attraverso una serratura, bensì ciò che la morale pubblica di quel
tempo permetteva che si vedesse in uno spettacolo pubblico. Lo scandalo, in effetti,
consisteva già nel fatto di “guardare” senza essere visti, ma ciò che realmente si
sarebbe potuto vedere dal buco di una serratura rimaneva irrappresentabile e non
ammesso sia dalla censura che dalla morale.
Facendo riferimento solo ad alcune pellicole del genere erotico, si può mettere in
luce quanta importanza abbia la perversione voyeuristica, non solo al cinema ma
anche nella vita reale.
Bolw-up, girato da Michelangelo Antonioni nel 1966, significa ingrandimento e
allude alla scoperta che il protagonista fotografo fa ingrandendo una fotografia
scattata di nascosto ad una coppia in un parco. La figura del fotografo è emblematica,
5
Romàn Gubern, L’eros nel cinema muto,Lindau, Torino, 1997, pag. 31
10
esso è già per sua natura voyeur perché impugna un obiettivo che gli consente di
“rubare” le immagini dalla realtà per il suo piacere ma anche di “ingrandirla”. La
scena della seduta fotografica con la modella che destò scalpore soprattutto per la sua
nudità, rappresenta al meglio come la macchina fotografica del protagonista sia uno
strumento di seduzione. Attraverso l’obiettivo il fotografo “violenta” il corpo delle
modelle, le possiede con l’occhio divoratore alla ricerca dell’immagine più sensuale.
Nell’ultima scena del film, Antonioni ci fa riflettere sulla figura del fotografo che
anche attraverso l’uso dell’obiettivo e degli ingrandimenti, non sa cogliere il senso
nascosto della realtà. Forse Antonioni ci stava anticipando quello che oggi si è
realizzato: la nostra società è fin troppo legata alle immagini figlie dei nostri stessi
obiettivi cinematografici, televisivi e fotografici e stiamo inesorabilmente cadendo
vittime delle illusioni che produciamo. Soprattutto se si parla della figura della
donna, costruita e progettata secondo schemi ben precisi ma assai poco reali. Nella
foga del voyeurismo cinematografico, fotografico e televisivo forse ci siamo fatti
prendere troppo dall’eccitazione di poter costruire una realtà artificiosamente bella,
ma sempre più fittizia.
Altro regista italiano che del voyeurismo ne ha fatto uno stile, è Tino Brass.
La chiave, girato a Venezia nel 1983, parla di come il voyeurismo possa diventare
un’ossessione, inoltre è un film importante perché il sesso diviene fulcro centrale
della storia. I due protagonisti, per ritrovare lo slancio sessuale di un tempo, iniziano
a “spiare” i propri desideri l’uno nel diario dell’altro compiendo dapprima un
voyeurismo “letterario”. In seguito il film sarà giocato tutto in relazione allo sguardo,
all’esibizione, e all’essere visti: dal pranzare seduti nella vetrina del loro ristorante
per essere guardati da tutti i passanti, fino alle azioni più esplicitamente erotiche (lui
che spia lei che fa pipì in un canale, che la fotografa nuda mentre dorme…). Il
voyeurismo diventa la “cura” per risollevare la vita di coppia, non più visto come una
pratica perversa e peccaminosa, ma come un gioco terapeutico.
Un altro film dello stesso regista è L’uomo che guarda. Il titolo è già di per sé
voyeuristico e assai ambiguo perché non chiarisce chi sia in realtà il voyeur della
situazione. Il protagonista del film, Dodo, ha dei complessi nei confronti del padre
perché in perenne competizione sessuale con lui e perché da bambino era stato
traumatizzato dalla visione (voyeuristica) della famosa scena primaria. In questo film
11
assistiamo ad alcuni sofisticati giochi voyeuristici: Dodo osserva il padre in
atteggiamenti ambigui con la cameriera e in un'altra scena spia una ragazza nuda alla
finestra di fronte (la sua futura moglie). La cosa interessante sta nel fatto che
entrambe le ragazze sanno di essere osservate da Dodo e quindi si esibiscono per lui,
godono anche loro di questo doppio voyeurismo dove “lui guarda lei che si esibisce
per lui” in un continuo gioco di riflessi. Emblematico poi lo scambio di battute fra
Dodo e sua moglie:
Silvia: Facciamo l’amore Dodo, qui, adesso […] con gli occhi come la prima volta
(allude alla scena della finestra sopra riportata)…guardami...[…] toccala…vuoi?
Dodo: Preferisco guardare…
Nell’ultima scena si vedono Dodo e Silvia allontanarsi lungo un corridoio e dietro di
loro una porta aprirsi dove appare il regista. Si può quindi supporre che il famoso
“uomo che guarda” non sia in realtà Dodo ma lo stesso Tinto Brass? Come ho detto
prima il regista è il primo voyeur in un film.
Altro voyeurismo “terapeutico” lo possiamo trovare nel film del 1989 di Steven
Soderbergh Sesso, bugie e videotape. Qui un uomo cura la sua impotenza ascoltando
le donne che parlano di sesso nelle cassette che realizza con la sua videocamera.
Attraverso lo strumento l’uomo costruisce un mondo parallelo dove le donne sono
libere di confessarsi perché le loro fantasie rimangono “chiuse” nella videocamera.
Il tema del voyeurismo nel cinema, soprattutto quello erotico, fece scalpore fino agli
anni ottanta, oggi invece non fa più alcuna impressione dato che lo spettatore è
abituato a ben altro. Forse siamo entrati nell’epoca dell’voyeurismo forzato dove si
mette in scena qualunque aspetto anche più intimo della nostra vita solo per attirare
l’attenzione e nulla ci scandalizza più. Resta il fatto che l’attività voyeuristica è
fondamentale al cinema e ancor di più quando sullo schermo appare il corpo erotico
di una donna che si esibisce per lo spettatore. È grazie allo sguardo del voyeur che il
corpo prende vita, diventa oggetto del desiderio e seduce l’ignaro uomo che lo
osserva. La donna quindi ci seduce per quello che appare o per come la percepiamo
noi?
L’attrazione non è solo figlia del voyeurismo, ma anche di un’altra pratica più
radicata nell’inconscio: il feticismo.
12
CAPITOLO 2.
LA PERVERSIONE DELLO SPETTATORE: IL FETICISMO
2.1 Il feticismo nella psicanalisi
Soltanto attraverso alcuni percorsi inconsci lo spettatore può consumare il film,
questi sono l’identificazione primaria, il voyeurismo in rapporto con l’esibizionismo
e infine il feticismo.
Il feticismo e il feticcio, in psicanalisi, sono legati al concetto della castrazione e al
timore che essa ispira. La castrazione, per Freud e ancora più per Lacan, è quella
della madre: il bambino (ma anche la bambina) che vede il corpo della madre si
rende conto che esistono soggetti sprovvisti di pene. Il bambino arriva a questa
conclusione dopo molto tempo e qualcosa nel suo inconscio non gli farà mai
accettare questa situazione. Il bambino è portato a credere che originariamente gli
esseri umani possiedano tutti il pene, e interpreta quindi il corpo della madre come
l’effetto di una mutilazione che fa nascere in lui la paura di subire una sorte simile
(oppure, nella bambina, a partire da una certa età, la paura di averla già subita). Di
fronte a questa rivelazione di mancanza6
(ecco la prima analogia con il cinema), il
bambino arriverà alle seguenti conclusioni contraddittorie: tutti gli esseri umani sono
provvisti di pene ma alcuni ne sono sprovvisti. Il bambino, terrorizzato da ciò che ha
visto sul corpo della madre, fermerà il suo sguardo su ciò che diverrà poi il feticcio:
ad esempio su un abito che maschera la terribile scoperta o che la preceda (la
biancheria intima femminile, le calze, le scarpe..). Questo attaccamento per il feticcio
può essere più o meno pronunciato a seconda dei casi ma resta sempre una forma di
rinnegamento della scoperta della castrazione. L’idealizzazione è un mezzo per
mascherare l’incapacità di accettare e il feticcio aiuta in questo senso e diverrà infine
una condizione più o meno necessaria per il raggiungimento del godimento (anche
qui la situazione varia da individuo a individuo). Il feticcio rappresenta sempre il
pene, è sempre il suo sostituto, sia per metafora (maschera la sua assenza) che per
metonimia (è contiguo al suo posto vuoto). Significa quindi il pene quanto assente,
6
Christian Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, 2002, pag. 85
13
colma il vuoto della sua mancanza ma in tal modo conferma anche la consapevolezza
di quella mancanza. Attraverso il feticcio si tenta di rinnegare la scoperta e si instaura
perché il bambino sa bene che sua madre non ha pene e quindi il feticcio non ha solo
una funzione di rinnegamento ma anche di una presa d’atto dell’avvenuta
castrazione.
Il feticismo come patologia psicologica è la sostituzione del normale oggetto sessuale
con un altro non avente alcuna apparente relazione con lo scopo sessuale. L’oggetto
equivalente consiste in qualche parte del corpo o qualche oggetto in stretta relazione
con la persona che sostituisce e preferibilmente con la sessualità di quella persona. Il
feticcio per eccellenza è il piede della donna e le scarpe ad esso correlate. Secondo
Freud due sono le motivazioni inconsce che portano a questa idolatria del piede . La
prima è che il piede rappresenta il pene mancante della donna, ovvero il bambino
traumatizzato dalla scoperta della castrazione si sarebbe soffermato sui piedi perché
elemento in comune fra uomo e donna. La seconda motivazione è di origine
sensoriale: essendo piedi e capelli oggetti che emanano forti odori, sono stati
idealizzati in feticci dopo che la sensazione olfattiva è divenuta sgradevole ed è stata
abbandonata. In questo modo vengono spiegate le motivazioni inconsce che portano
l’uomo ad essere stimolato alla vista di un paio di scarpe femminili quali i tacchi.
2.2 Il cinema feticcio
Analizzando la croyance, che è lo stato di sospensione fra il “credere” e “non
credere” a ciò che si sta vedendo necessario nella fruizione di un film, non si può non
notare l’assomiglianza con il “credo, non credo” inconscio che ha aiutato il bambino
a superare il trauma della castrazione. Il film rimanda ad una cosa che non esiste ma
che è esistita, lo spettatore accetta la finzione del film e la percepisce come reale ma
in fondo sa che è finzione.
A questo punto è chiaro che tutto l’apparato filmico è un feticcio: il cinema è
un’esibizione che accusa e sottolinea la mancanza su cui si fonda tutto il dispositivo,
ma al contempo cerca di far dimenticare quell’assenza. Lo spettatore feticista gode
nel perdersi in questo gioco di negazione intinto di perversione voyeuristica.
14
A questo proposito Lacan dice che quello che il voyeur cerca e trova al cinema è
un’ombra dietro la tenda: non cerca un fallo ma la sua assenza7
.
Grazie al feticcio che ricopre la ferita, che diventa esso stesso erogeno, l’intero
oggetto torna ad essere desiderabile senza troppe paure. In modo simile l’intera
istituzione cinematografica è come ricoperta da un velo sottile onnipresente che la
rende desiderabile allo sguardo voyeuristico dello spettatore.
Il feticismo non interviene solo nella costituzione del significante ma anche nel
linguaggio cinematografico, basti pensare alle inquadrature e a certi movimenti di
macchina. Soprattutto nel cinema erotico si gioca sui limiti dell’inquadratura e sullo
svelamento progressivo, eventualmente incompleto, grazie al movimento della
macchina da presa. Come il bambino e il rapporto con il feticcio il quale nasconde
ciò che sta dietro. Lo scopo è quello di eccitare il desiderio e contemporaneamente di
impedirlo (e quindi di alimentarlo) facendo scorrere lo sguardo sulla linea di un
confine labile e incerto. Il linguaggio cinematografico con i suoi rinvii e i suoi rilanci
non riguarda solo il cinema erotico ma anche la semplice rappresentazione della
suspense. Il cinema attua in continuazione uno streap-tease di sé stesso svelando e
nascondendo l’immagine fonte di desiderio.
2.3 Il feticcio nel cinema erotico
Il linguaggio cinematografico nel cinema erotico si caratterizza per l’uso del piano
medio (si consideri, al contrario, che nel genere pornografico viene prediletto il
primo piano). Questa scelta stilistica viene impiegata con l’unico effetto di
sottolineare il desiderio, l’organo sessuale fonte di eccitazione viene celato, suggerito
(teniamo presente che ci sono sempre le eccezioni). L’occhio vaga nell’inquadratura
stimolato dalla presenza nascosta della sua fonte d’eccitazione, ma non viene
soddisfatto e per questo continua a nutrirsi del suo stesso desidero di appagarsi. A
tenere alta la tensione di questo desiderio che consuma l’occhio voyeurista dello
spettatore, ci sono i feticci (in questa tesi verranno prese in esame le donne del
cinema, ma ciò non toglie che anche per gli uomini si possa fare un discorso
7
J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, pag. 769
15
analogo). Il corpo di una donna mostrato solo parzialmente, l’ostacolo di una coscia
chiusa, la biancheria intima, l’angolazione di un’inquadratura sono solo alcuni degli
stratagemmi per celare l’organo sessuale femminile. In tal modo l’organo del piacere
è estromesso e contemporaneamente suggerito come fulcro del piacere. Il feticcio nel
cinema erotico esclude lo spettatore dalla scena, a differenza del film pornografico
dove tutto viene mostrato, nel film erotico lo spettatore è alla costante attesa di
soddisfarsi e il film fa di tutto per nascondergli l’oggetto del desiderio.
A questo punto è necessario esplicitare il principio lacaniano del manque. Le
immagini sono cariche di simboli e l’organo maschile riveste un ruolo simbolico: è
un significante, il significante fondamentale dell’inconscio. Quindi ogni immagine è
un feticcio riconducibile ad un simbolismo fallico e nel cinema erotico la pratica del
mascherare il fallo è assai più sofisticata che nel cinema pornografico dove tutto
viene mostrato senza filtri simbolici.
Il desiderio è difficile se non impossibile da rappresentare al cinema e quindi non
può essere messo in scena come tale. Il desiderio viene filtrato attraverso il
linguaggio cinematografico, la pulsione libidica viene adattata al discorso filmico e
tradotta in una nuova lingua. Il cinema erotico non libera le pulsioni, bensì le
simbolizza, non vengono rappresentati direttamente gli oggetti del desiderio ma si
cerca di stimolare lo spettatore e questo desiderio si basa sulla privazione dello stesso
perché altrimenti, soddisfandolo, lo uccideremmo. La fruizione del desiderio nello
spettatore avviene attraverso il suo occhio voyeurista e feticista che si appropria del
godimento in forme sostitutive simboliche offerte dal film. La libido passa attraverso
gli occhi e lo spettatore viene proiettato in uno stato di immobilità e impotenza alla
pari della scena primaria esplicitata da Freud.
In conclusione è proprio chi guarda a restare spiazzato rispetto a ciò che guarda, a
trovarsi tagliato fuori, ma al contempo l’illusione filmica fa in modo che lo spettatore
si illuda di far parte di ciò che accade all’interno dello schermo.
Come afferma Baudrillard8
“ciò che ci affascina non è la nostra inclusione in
un’opera, bensì l’esclusione da essa”.
2.4 Il corpo nel film erotico
8
Jean Baudrillard, Della seduzione, SE, Milano, 1997, pag.34
16
Corpo e desiderio sono due entità inscindibili, una fisica e l’altra emozionale. È
impossibile come ho detto prima rappresentare il desiderio allo stato puro senza una
fisicità e quindi è impensabile rappresentare il corpo come “innocente”. Il corpo
filmico diventa il messaggero attraverso il quale il film trasmette le emozioni allo
spettatore che le elaborerà nella sua mente. Jan Kott afferma che “determinate
esperienze sessuali si ricordano a distanza di anni. Tuttavia esse ritornano come
memoria nei polpastrelli, come tatto, non come discorso. Questo è sperimentabile
attraverso la fisicità dell’immagine filmica. Un corpo ricorda un altro corpo che gli
ha procurato un intenso piacere fisico. La conoscenza carnale si riduce al corpo, ma è
anche qualcosa di più del corpo” 9
. La memoria, nel ricordare le emozioni fisiche, fa
ricorso non solo ai ricordi ma anche ad associazioni fisiche, si comprende allora che
non sarà mai possibile rappresentare il desiderio erotico in un’immagine pura, se per
pura intendiamo l’assenza di fisicità.
Il corpo è protagonista e messaggero del desiderio sessuale e della sua
consumazione. Nel cinema pornografico il corpo viene frammentato e ridotto ad un
”corpo-lavoro”10
, si estremizza l’aspetto fisico enfatizzando la corporeità,
scomponendo l’essere umano in una molteplicità di dettagli anatomici nudi e crudi
impegnati a consumare un atto sessuale più fisico che emozionale. Totalmente
assente poi è la psicologia del personaggio, fattore importante invece nella
costruzione del desiderio nel film erotico. Nel genere erotico il corpo è sempre
importante ma costruito con un linguaggio diverso più attento alla psicologia e volto
a suggerire piuttosto che mostrare.
Secondo le teorie di Lacan il corpo della donna nel cinema è investito come corpo
fallico ed è alienazione/proiezione del desiderio maschile. Il corpo della donna è
iscritto nei meccanismi della esibizione fallica e soprattutto nel film erotico si cerca
di “esorcizzare” la fisicità nascondendola con diverse pratiche.
È giusto ricordare che questa teoria è stata motivo di tante polemiche soprattutto in
ambito femminista.
Il corpo della donna erotica è quindi un corpo fallico e feticcio. Nei film si ha la
tendenza a caricare ogni singola parte del corpo femminile di simbolismi fino a
9
Jan Kott, Eros e thanatos, Milano, 1982, pag.17
10
Roberto Nepoti, Cinema porno erotico: le pratiche del dispiacere, BN, Roma, 1978, pag. 42
17
rendere questo pezzo di corpo un totem. Basti pensare all’ossessione per le gambe e
le giarrettiere di Laura Antonelli nel film Malizia. Non esiste parte del corpo
femminile che non sia erotico, dai capelli ai piedi tutto può diventare feticcio
compresi anche aspetti immateriali quali la voce e il profumo. Da qui nascono i
dibattiti sulla visione maschilista della donna concepita come un collage di pezzi tutti
volti al soddisfacimento del desiderio maschile.
2.5 Il corpo vestito: l’abito feticcio
Perché le bretelle di Charlotte Rampling, le calze di Laura Antonelli, gli occhiali e il
lecca lecca della ragazzina/femme fatal Lolita, i guanti di Gilda e i capelli biondi di
Marilyn, sono delle immagini così cariche di erotismo? La donna nel cinema erotico
è un corpo feticcio non solo fisicamente ma anche negli abiti e negli accessori che
indossa.
Le motivazioni fondamentali che stanno alla base dell’abbigliamento sono tre: la
decorazione, il pudore e la protezione. Il conflitto fra decorazione e pudore
costituiscono il punto chiave della psicologia del vestire: anche l’abito è un
compromesso tra impulsi inconsci in conflitto. Le vesti accrescono l’attrazione
sessuale e lo spostamento dell’erotismo dal corpo all’abbigliamento fa di questo un
simbolo sessuale. La teoria delle zone erogene mutevoli analizza i cambiamenti
culturali delle focalizzazioni erotiche sul corpo. Il fatto, ad esempio, che a volte sia la
schiena, a volte le gambe, la scollatura, la nuca o il piede a provocare il desiderio
erotico maschile per il corpo femminile, dimostrerebbe come le forme dell’abito
nelle diverse culture e periodi storici abbiano questa valenza fondamentalmente
sessuale, e come i cambiamenti delle zone erogene del corpo femminile servirebbero
a mantenere vivo il desiderio maschile che altrimenti si esaurirebbe. Per Flügel11
l’aspetto erotico e sessuale nel vestire è molto evidente soprattutto nella moda. La
donna usa la moda per attrarre a sé l’uomo e per competere con le altre donne. Molti
capi sono dei feticci perché rappresentano gli organi sessuali: la cravatta, il cappello,
il colletto, il cappotto e i pantaloni sono simboli fallici mentre la scarpa, la
11
Flügel, Psicologia dell’abbigliamento, F. Angeli, 2000, pag. 98
18
giarrettiera e i gioielli sono simboli femminili. La donna è sempre mascherata, si
serve della maschera per mostrare ciò che non ha (il pene) e l’abito è suo alleato.
Per Lemoine-Luccioni12
la funzione del vestito è quella di essere “la bandiera del
sesso”. L’abito quindi è visto come pelle simbolica nella vita reale, e ancora di più
nel film erotico dove tutto viene accentuato per raccontare il desiderio. Non esiste
immagine erotica della donna che non indossi o assuma posizioni strategiche per
coprire le parti di sé più intime (anche se prendiamo ad esempio un nudo che copre le
zone erogene con la mano, questa stessa mano possiamo considerarla una specie di
abito che nasconde). La donna che non si copre casca irrimediabilmente nel
pornografico, quindi l’abito o l’accessorio sono elementi fondamentali per la donna
erotica. Giocare con gli abiti come Gilda con il guanto o Kim Basinger nel famoso
spogliarello in 9 settimane e ½, è una costante nella figura erotica femminile, la
donna sa di essere desiderabile e desiderata sia nel film che nel buio della sala e i
vestiti o gli accessori feticci sono complici di questa maschera. Basti pensare alla
sigaretta, accessorio spesso visto fra le dita di bellissime donne provocanti: dalle dita
di Gilda, di Marlene Dietrich e di Sharon Stone che nella famosissima scena di Basic
Instinct accavalla le gambe con una sigaretta accesa in mano.
2.6 Il corpo teatralizzato
Secondo Roland Barthes “la passione è fatta per essere vista” 13
. Il film quindi è il
miglior mezzo per rappresentare le emozioni. Attraverso la struttura dei generi lo
spettatore viene orientato nella comprensione del film e soprattutto delle emozioni. Il
linguaggio cinematografico avvicina lo spettatore al film e favorisce il sorgere delle
emozioni (i primi piani per esempio) ed anche l’aspetto sonoro fa la sua parte.
La nascita delle emozioni e della passione nel film erotico sono frutto di dispositivi
stereotipati mediante i quali lo spettatore riesce a leggere e a condividere
emotivamente il film.
La passione viene percepita attraverso il visivo e ciò è possibile perché esistono delle
pre-condizioni che permettono al discorso di essere compreso. Esiste quindi un
12
Lemoine-Luccioni, Psicoanalisi della moda, Mondadori, 2002, pag. 56
13
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2002, pag 23
19
archivio visuale dal quale lo spettatore attinge le immagini e le associa a situazioni
emozionali. Mettere in scena la passione, il desiderio e la seduzione, vorrebbe dire
praticare una sorta di “archeologia del visivo”14
: è attraverso questo archivio
preesistente che associamo l’immagine alle emozioni.
Maurizio Regosa parla del procedimento del corpo teatralizzato in contrapposizione
a quello quotidiano. Un corpo teatralizzato e cerimoniale è un corpo non quotidiano,
è un’ombra sulla quale si proiettano simbolismi: “il corpo teatralizzato può assumere
valore in quanto oggetto investito semanticamente dalla passione” 15
.
Il corpo quindi rappresenta l’oggetto dal quale tutti gli uomini si sentono attratti, cui
tutti vorrebbero essere congiunti: ma è soltanto un oggetto, ed è lo spettatore che da
vita alla sua aura di passione guardandolo. La seduzione dell’oggetto del desiderio
nasce dagli occhi e dalla mente di chi lo guarda.
2.7 La seduzione fra musica, ballo e canto
Il rapporto fra musica e narrazione è molto stretto e importante soprattutto nei film
dove i sentimenti, il pathos, e talvolta lo svolgimento dell’azione stessa è determinato
da questa componente. La musica è un elemento presente praticamente in tutti i film
e aiuta lo spettatore ad orientarsi nelle emozioni che vengono raccontate sullo
schermo e a farlo sentire ancora più partecipe. Molte scene sarebbero impensabili
senza la colonna sonora in sottofondo, la musica è ovviamente un elemento irreale
che però è presente anche nei film che mettono in scena storie reali. “Il materiale
sonoro è in grado di esprimere un significato, cioè di conferire alla scena una
dimensione semantica”16
. Se la situazione rappresentata viene investita di significato
semantico grazie alla musica, è vero anche il discorso inverso ovvero che è anche la
scena stessa a conferire un significato alla musica in sottofondo. La musica è un
linguaggio metaforico che ha un potere superiore di quello parlato e che presenta
delle forme logiche e delle somiglianze con la nostra vita emotiva: “la musica è una
14
Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1999, pag 173
15
Maurizio Regosa, Una rappresentazione della passione: L’angelo azzurro in Il sorriso di Dionisio,
Alinea, Milano, 2002, pag. 50
16
Mauro Mancia, Riflessioni psicoanalitiche sul linguaggio musicale, in Il sorriso di Dionisio, Alinea,
Milano, 2002, pag. 126
20
forma che riflette la forma dei nostri sentimenti con un significato che può essere
colto solo intuitivamente. La musica fonda il suo potere poietico sulla
interpretazione, che è anche lo strumento principe della psicoanalisi: ambedue le
interpretazioni (quella musicale e quella analitica) consentono di rivelare quello che a
prima vista non sta scritto nello spartito o nella narrazione del paziente.”17
Sin dall’infanzia il bambino inizia ad orientarsi nella comprensione dei suoni e della
musica; complessi sono inoltre i processi che portano il bambino a comprendere il
ritmo degli stimoli esterni e a riconoscerli, ma saranno proprio questi processi
psichici che iniziano già durante la gestazione, che gli premetteranno di associare la
musica ad una situazione emotiva. “In particolare, l’esperienza ritmica uditiva sarà
essenziale per lo sviluppo delle funzioni psichiche che parteciperanno alla
formazione della categoria mentale deputata alla definizione del bello. La ritmicità è
uno degli elementi essenziali del concetto del bello in ogni forma d’arte.”18
. La
musica è una forma di comunicazione che va dal mentale verso il sensoriale, dalla
mente viene percepita e associata a un’emozione ed è per questo che possiamo
intendere la musica come un’interpretazione dei sentimenti, che attraverso il suo
linguaggio interpreta le emozioni e mette ordine nel caos delle sensazioni. Quindi la
musica viene percepita dall’esterno per essere elaborata nell’inconscio ed associata a
situazioni a noi conosciute ed emozionali. È attraverso questo complesso processo
psichico e psicologico che si forma nei primi anni di vita, che la musica nei film ha
un ruolo importante. “La musica implica un’esperienza proiettiva che si collega allo
stato in cui si trovano i nostri oggetti interni: dei e demoni del nostro universo
mentale”.
La musica nelle scene erotiche ha molta importanza perché aiuta a mettere in scena
qualcosa che solo con le immagini è difficile da trasmettere allo spettatore, la musica
sa esprimere nella sua impalpabilità proprio quei sentimenti e quelle sensazioni che
sfuggono alle definizioni razionali e verbali. Le scene in cui le dive del sex-appeal
mettono in atto tutto il loro fascino sono molto spesso associate ad esibizioni canore,
danze o streap-tease al suono di qualche melodia divenuta poi famosa e spesso
associata alla stessa scena, basti pensare allo spogliarello di Kim Basinger con “You
Can Leave Your Hat On” di Joe Cocker. Le canzoni in questi casi svolgono il
17
Ibidem
18
Ibidem
21
compito di ammaliare lo spettatore e di accrescere la carica erotica della donna.
Molte altre donne fatali dello schermo, che fanno impazzire gli uomini e li seducono,
affidano ad una canzone le definizione del loro personaggio. Da Marlene Dietrich
cantando ne L’angelo azzurro, passando per Rita Hayworth con “Put the Blame on
Me” e “Amado mio”, le innumerevoli esibizioni canore di Marilyn Monroe, i balli
delle dive italiane del Neorealismo, gli spogliarelli della già citata Kim Basinger e di
Sophia Loren al suono di “Abat-jour” e altre innumerevoli scene si potrebbero citare
e l’elenco sarebbe pressoché infinito.
Anche nell’ambito dei cartoon molte sono le figure erotiche disegnate sulla carta che
ballano e seducono con danze e canzoncine: da Betty Boop figlia della scuderia
Fleischer che negli anni Trenta con i suoi grandi occhi, la piccola bocca tirabaci e
l’abito succinto ballava e canticchiava facendo scandalo fino ad essere censurata e
ridisegnata come una casalinga modello. Poi negli anni Quaranta/Cinquanta arrivò,
grazie alla matita di Tex Avery, un’altra pupa dai capelli rossi il cui compito era
quello di sconvolgere la vita di un lupo erotomane con danze e canzoni conturbanti.
Fino alla fine degli anni Ottanta dove una nipote di Rita Hayworth ispirata a Gilda,
fece il suo ingesso cantando “Why don't you do right”: la rossissima Jessica Rabbit.
La seduzione quindi non arriva allo spettatore soltanto attraverso l’immagine ma
anche grazie attraverso “l’incantesimo” della musica (“l’in-canto dal latino in-
cantare, ossia ammaliare, affascinare, sedurre e consacrare per mezzo di
incantesimi”19
).che si insinua nella nostra mente ed anche nella nostra psiche più
inconscia.
La danza, disciplina antichissima eseguita a ritmo di musica, è un insieme di
movimenti del corpo umano eseguiti a fini espressivi o di comunicazione, talvolta
secondo schemi prefissati. Ha numerosissime funzioni da quelle rituali a quelle di
svago ma soprattutto può anche essere utilizzata come rituale del corteggiamento. I
movimenti del corpo a ritmo di musica, lanciano segnali non verbali comprensibili in
ogni Paese, esempio emblematico è il tango per l’evidente allusione all’atto sessuale:
la coppia danza infatti abbracciata, solitamente guancia a guancia, molto unita nella
parte superiore del corpo, mentre la parte inferiore esegue una serie di passi e figure
in cui sovente le gambe e i bacini finiscono con l’essere a stretto contatto. Nel regno
19
Ermanno Comuzio, La musica nel film erotico, in Il sorriso di Dionisio, Alinea, Milano, 2002, pag.
136
22
animale il corteggiamento viene eseguito attraverso l’esibizione della propria
prestanza fisica attraverso una serie di segnali e movimenti che vengono percepiti dal
partner come una disponibilità all’accoppiamento. L’uomo non è sicuramente da
meno e ovviamente i modi per comunicare il proprio desiderio sono diversi. Al
cinema la danza viene usata per trasmettere messaggi di corteggiamento e spesso è
accompagnata anche da esibizioni canore. Molta importanza hanno quindi quelle
scene in cui le dive si cimentano in balli o canti perché è anche grazie a quelle che
riescono a sedurre lo spettatore.
CAPITOLO 3.
LA SEDUZIONE NEI PRIMI DECENNI DEL NOVECENTO
23
3.1 La nascita dello star system
Il corpo dell’attrice è al centro dell’erotismo cinematografico sin dai tempi del muto
ma la figura femminile (intesa come attrice) resta anonima fino quasi agli anni Dieci.
Poca importanza viene conferita alle personalità delle interpreti i cui nomi spesso
restano sconosciuti al pubblico in sala. È a partire dagli anni Dieci e soprattutto
Venti, che prende forma il fenomeno del divismo attraverso il quale si possono
trasformare le donne sullo schermo in esseri misteriosi, erotici e attraenti grazie alle
potenzialità del cinema. Il divismo nasce grazie all'intensa collaborazione tra cinema
e gli altri mass media (giornali, riviste, radio). La diffusione capillare di un film di
successo rendeva gli attori popolari davanti a un pubblico straordinariamente vasto.
Il fenomeno del divismo prende forma soprattutto dalla serializzazione dei
personaggi e dall'identità tra immagine sullo schermo e immagine reale: ciò permette
la riconoscibilità da parte del pubblico che si sente legato e riversa affetto e
ammirazione sul personaggio. Un divo è qualcosa di diverso dall'attore: l'attore può
recitare molte parti diverse, mentre un divo è essenzialmente un prodotto legato alla
propria immagine, che quindi ripete sempre un medesimo modello nelle varie
pellicole. Negli anni Venti l'industria hollywoodiana decise di puntare con forza sul
divismo che divenne il cardine del sistema produttivo. Un film veniva di solito ideato
espressamente per un volto o per un personaggio e le case di produzione tenevano
sotto contratto molti giovani attori fisicamente attraenti che venivano fatti diventare
famosi e poi se ne sfruttava l'immagine in una serie di film appositamente creati. I
divi degli anni Venti e dei primi anni Trenta erano molto conturbanti e trasgressivi,
spesso dai tratti esotici, come l’italiano Rodolfo Valentino, la svedese Greta Garbo o
la tedesca Marlene Dietrich. I divi suscitavano deliri di folla feticista: il divo sullo
schermo, etereo e soprannaturale, era ormai un'immagine del tutto separata dalla
persona in carne ed ossa che recitava e lavorava come le persone nomali. Il primo
piano è il momento cruciale della costruzione del divo: il suo volto è lo specchio dei
valori psicologici del personaggio e genera nello spettatore una vicinanza mentale,
24
investendolo di pulsioni e significati affettivi, in una sorta di identificazione
gratificante.
3.2 Femmes fatale e “femme fragile”
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’immagine femminile era
largamente usata per diversi fini estetici, dall’arte alla pubblicità. Stava iniziando ad
affermarsi un concetto moderno di femminilità legato al consumismo e alla vita
urbana. Le attrici e le cortigiane rappresentavano questo nuovo tipo di femminilità e
figure come la danzatrice Bella Otero divennero ben presto immagine di eleganza e
sensualità. Se fino all’Ottocento la figura erotica della donna era associata a
signorine di una certa classe sociale, in questo periodo il fascino erotico delle attrici e
delle ballerine stava iniziando ad avere più successo. Le interpreti teatrali dei cafè
chantants e dei cabaret erano viste come donne libere, moderne e soprattutto
disponibili sessualmente. Vestite in modo appariscente e provocante, lasciando
scoperte spalle, braccia e collo, suggerivano ciò che non si poteva far vedere: il corpo
nudo. Durante i primi decenni del Novecento i mass media, soprattutto il cinema e la
stampa, proponevano ideali di bellezza come il fenomeno della ragazza sbarazzina o
garçonne, moderna e consumista. Inizia a farsi largo soprattutto al cinema lo
stereotipo della femme fatale, la donna che considera l’uomo nemico e che mira al
potere rifiutando ogni convenzione usando la sua forte attrattiva erotica nei confronti
dell’altro sesso. Nascono in questo periodo le prime star dell’erotismo fra cui Mae
West e per i cartoni animati Betty Boop. Il fenomeno si evolse fino a sfociare nel
cosiddetto star system in cui sesso e divismo erano spesso associati e spogliarsi era
diventato un valido sistema per promuovere i film. Nike Wagner scrive che la donna
come figura erotica di inizio secolo “appare distinta in due categorie abbastanza
costanti: la “femme fragile” e la femme fatale”20
. L’esorcizzazione del sesso
attraverso la rappresentazione di una “femme fragile” o attraverso l’aggressività della
femme fatale serve a sdrammatizzare la carica erotica che la donna porta con sé. La
donna ricondotta all’età infantile non può suscitare alcuna paura e, d’altra parte,
20
Nike Wagner, Spirito e sesso. La donna e l’erotismo nella Vienna fin dè siècle, Torino, Einaudi,
1990, pag. 40
25
lasciarsi sopraffare da una donna erotica forte giustifica l’uomo perché è la donna
che lo seduce, lo spettatore ne è soltanto l’ignara vittima. Possiamo quindi introdurre
due grandi figure erotiche del periodo: la “femme fragile” Louise Brooks e la femme
fatale Marlene Dietrich.
3.3 Louise Brooks
26
“Chi di fronte a queste labbra piene e fiorenti,
a questi grandi occhi innocenti di bambina,
allo splendore di questo corpo bianco e rosato,
non si sente scosso nella sua sicurezza borghese,
scagli la prima pietra.”
Frank Wedekind21
Louise Brooks interpretò il film di Georg Wilhelm Pabst Lulù, il vaso di Pandora nel
1928. È una giovane femme fatale dei bassifondi che desidera lavorare nei cabaret e
che usa gli uomini per raggiungere i suoi scopi senza scrupoli. Un viso dolce e
apparentemente innocente, incorniciato dal famosissimo caschetto nero, nasconde in
realtà una donna perversa capace di sedurre e uccidere. L’attrice americana in questo
film muto dà il meglio di sé interpretano l’erotismo attraverso il linguaggio del corpo
ma soprattutto grazie all’espressività del suo sguardo intenso.
La figura erotica di Lulù si basa sulla contrapposizione di situazioni quotidiane e
ludiche e posture da femme fatale. Lulù gioca a fare la bambina sedendosi sulle
ginocchia del suo protettore facendo l’ingenua ragazzina, ma al contempo è cosciente
del suo potere sugli uomini e si atteggia da donna sofisticata. Il fascino del
personaggio sta proprio in questo alternarsi di atteggiamenti che grazie
21
Frank Wedekind, Il vaso di Pandora, Adlephi, Milano, 1992, pag.189
27
all’espressività facciale rendono Lulù una delle donne più eroticamente controverse
del cinema. La mancanza della parola (il film è muto) fa si che Louise Brooks dia il
meglio del suo fascino giocando con il corpo dando vita ad un personaggio che riesce
ad essere talvolta meschino (uccide il marito dopo averlo tradito e umiliato), ma al
contempo lo spettatore non riuscirà ad odiarla e forse si commuoverà di fronte alla
sua tragica morte. Lulù è una ballerina ma in realtà sembra danzare anche quando
semplicemente si alza da una sedia. Il suo camminare è un ballo ammaliatore in ogni
movimento, compreso l’ondeggiamento del caschetto.
Il momento in cui Lulù dà il meglio della propria capacità di sedurre è quando si
rifiuta di andare in scena perché fra gli spettatori c’è la fidanzata del suo amante
Schön che è anche il produttore dello spettacolo. Lulù alla vista della donna in sala si
arrabbia, protesta con Schön, il suo caschetto nero si agita con i movimenti della
testa e alla fine la protagonista si fa accompagnare dall’amato in una stanzetta nel
retroscena. Lì Schön cerca di farla ragionare, intanto fuori della porta un
collaboratore incita la ballerina ad entrare in scena. Spazientito apre la porta e trova i
due amanti in una situazione compromettente anche se in realtà Schön ha messo le
mani addosso a Lulù per convincerla ad esibirsi. Il collaboratore richiude la porta e il
aspetta ansioso. Intanto Lulù non cambia idea e l’uomo le stringe gli avambracci e la
scuote. Una breve in quadratura riprendere i seni della ragazza che attraverso la
scollatura si muovono scossi dalla presa dell’amante. Lulù cerca di divincolarsi, la
mimica facciale ma soprattutto i neri capelli che si muovono sparpagliati
nell’inquadratura la fanno sembrare una sensualissima bambina ribelle. Lulù si getta
al suolo prona e inizia a piangere, probabilmente sta fingendo per corrompere Schön
e con i tacchi dà dei piccoli calcetti ai polpacci dell’amato che, abbattuto, si siede
accanto a lei ridendo e, arresosi alla tenace ragazza, si lascia percuotere. Nel bel
mezzo della scherzosa colluttazione, il figlio di Schön, accompagnato dalla fidanzata
di Schön, sorprendono Lulù e l’uomo abbracciati e Schön, per evitare lo scandalo,
sarà costretto a sposare la protagonista. Lulù a questo punto si scoglie dalla morsa di
Schön, si alza sorridendo maliziosamente e si sistema il costume. Lulù ha avuto ciò
che voleva, la femme fatale può correre raggiante sul palcoscenico per il balletto.
Il regista descrive il corpo di Lulù come un insieme di atteggiamenti tutti mirati a far
cadere Schön nella rete della giovane ballerina. Lulù sa di essere provocante quando
28
si arrabbia e si ribella alle percosse dell’uomo e infatti appena ne ha l’occasione si
lascia cadere a terra e istiga l’amato calciando i suoi polpacci con i lunghi tacchi.
Schön non può proprio resistere ai capricci di Lulù e alla tentazione di toccare quella
pelle chiara che brilla incorniciata dal frizzante caschetto nero. E alla fine Lulù avrà
più di quanto sperava: Schön incastrato dalla situazione compromettente la dovrà
sposare.
Lulù ha ispirato Sternberg nella costruzione del corpo erotico di Marlene Dietrich nel
film L’angelo azzurro. Lola, la protagonista del film di Sternberg, si chiama così
proprio in omaggio a Lulù. Elemento che accomuna la bionda Marlene alla nerissima
Louise, è che in entrambe il film si gioca sulla rappresentazione del corpo quotidiano
e di quello teatralizzato.
A Louise Brooks si ispirerà inoltre Guido Crepax per la sua celebre Valentina,
protagonista di una serie di fumetti erotici.
3.4 Marlene Dietrich
29
“Chiunque sia stato sedotto voleva esserlo”
Marlene Dietrich22
Marlene Dietrich venne lanciata come figura erotica dal film L’angelo azzurro,
diretto da Josef von Sternberg nel 1930.
Abbigliata sulla scena con un boa di piume, capello a cilindro, calze e giarrettiere
nere, Marlene porta l’immagine della femme fatale all’apice della sua crudeltà. Nel
film un insegnate della piccola borghesia, pieno di sani principi, si lascerà sedurre da
lei fino al punto di seguirla nei suoi tour e farle da schiavo sopportando umiliazioni
di ogni genere. La vicenda si concluderà con la sua morte e con un tacito
ammonimento a prestare attenzione a non farsi sedurre troppo da queste donne senza
scrupoli.
Marlene Dietrich si ricorda per quella scena in cui canta la canzone di Friedrich
Hollaender che recita: "Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt, denn das ist
meine Welt, und sonst get nichts”23
guardando il professore seduto nel palchetto
degli ospiti d’onore. È in questo momento che Lola si siede su un barile e solleva la
gamba destra che cinge con le braccia prendendo quella postura che tutti
22
Marlene Dietrich, Dizionario di buone maniere e cattivi pensieri, a cura di F. Di Giammatteo,
Editori Riuniti, Roma, 1996, pag. 147
23
“Sono dalla testa ai piedi infusa d’amore, poiché questo è il mio mondo, e all’infuori di questo non
c’è altro"
30
rammentano. Il volto è tutto rivolto a sinistra, con sguardo provocante guarda il
professore e gli dedica il ritornello della canzone. Lui la guarda dall’alto del palco
d’onore compiaciuto e inizialmente imbarazzato per l’esplicita dedica. Tutta la platea
osserva lo spettacolo mangiando con gli occhi la ballerina. L’esibizione continua con
Lola sempre seduta sul barile che gioca con le gambe e le braccia divaricandole e
rivolgendole verso l’uomo il quale si emoziona sempre di più. Per tutta la canzone si
alternano inquadrature di Lola e del professore impegnati in una sorta di
conversazione non verbale tutta basata su sguardi e movenze, con la voce magica e
dura di Marlene. Alla fine l’uomo si ritroverà completamente rapito da Lola. La
scena dell’esibizione si chiude e nell’inquadratura successiva si vede il professore
steso a letto. Una breve inquadratura di un uccello in gabbia ci fa capire la situazione
(il professore è in gabbia, Lola l’ha sedotto e rinchiuso nel suo harem). Poco dopo
appare la donna in vestaglia: Lola è riuscito a conquistarlo ed hanno passato la notte
assieme.
I due si sposeranno e dopo il fatidico “Sì”, Lola inizierà ad essere scontrosa ed
approfittatrice con il marito il quale arriverà a dichiarare che “È meglio crepare che
continuare con questa vita”. La terribile donna lo sfrutta, inizia ad essere
rappresentata come una volgare ballerina senza un minimo di classe o sensibilità e
questa immagine continuerà a peggiorare fino alla fine del film.
Marlene vestirà quasi sempre costumi di scena provocanti, reggicalze, body, scarpe
col tacco e lunghe vestaglie aperte con pizzi e lustrini.
Il regista costruisce le varie scene e i corpi creando un’atmosfera di costante
insoddisfazione, la fisicità della Dietrich viene esaltata al massimo come lei stessa
dichiarerà: “Sul set giravano contemporaneamente quattro macchine da presa, tutte
puntate (almeno così mi pareva) sull’inforcatura delle mie gambe (e lo dico con il più
profondo disgusto). Ed era davvero così. Ogni volta che toccava a me, dovevo alzare
una gamba, la sinistra o la destra, e le macchine da presa non cessavano di
concentrarsi sul mio corpo.”24
Un’attenzione maniacale è riposta nella
rappresentazione del corpo di Lola, soprattutto nelle posture che fa assumere al
personaggio di cui la più famosa che ho già citato, dove la protagonista, durante
l’esibizione, è seduta su un barile con le gambe accavallate e lo sguardo provocante.
24
Gian Enrico Rusconi, Donne e moderno. Mode, immagini, strategie femminili in Germania
dall’inizio del secolo agli anni Trenta, Electa, Milano, 1991, pag.72
31
È attraverso questo modo di rappresentare il personaggio che il regista cerca di
trasmettere nello spettatore la carica erotica di Lola; Marlene Dietrich appare quindi
come un corpo teatralizzato, non quotidiano, un corpo cerimoniale. Le sue posture
sono del tutto innaturali: Lola ha l’atteggiamento di sfida e al contempo di esibizione
orgogliosa della bellezza. Questa postura cozza con l’idea di una postura quotidiana
ovvero di un atteggiamento normale di una donna comune e la scelta di forgiare Lola
così sta a significare proprio la sua invincibilità come femme fatale. Lola è desiderio,
il suo corpo, le sue battute fanno di lei una donna seducente, cinica, sicura di essere
superiore al genere maschile ma soprattutto cosciente di questo suo potere.
Se Lulù aveva un’anima dolce, Lola è l’essenza della terribile femme fatale.
CAPITOLO 4.
GLI ANNI DELLA SEDUZIONE HOLLYWOODIANA
4.1 Gli anni d’oro dello star system
32
Tra il 1927 e il 1929 l'industria cinematografica subì due cambiamenti epocali che
l'avrebbero profondamente modificata: uno tecnologico ovvero l'avvento del sonoro
e la crisi del 1929 che cambiò completamente la società. Avvenne in questo periodo
un rinnovamento nella scelta dei nuovi divi: mentre quelli del periodo muto
andavano lentamente scomparendo, il New Deal impose una visione ottimistica alla
produzione cinematografica e i nuovi attori incarnavano figure più realistiche, non
così diverse dalla gente comune e, dopo l'introduzione del Codice Hays, meno
trasgressive e più disciplinate. Il passaggio avvenne con il declino dei precedenti
attori corrotti e con il successo dei nuovi giovani provenienti dalla provincia che
conquistavano la celebrità grazie alla loro fortuna e rettitudine morale. Le diverse
case di produzione americane, le Major come RKO, Universal, Columbia, MGM, si
specializzarono ognuna in generi cinematografici differenti e proponevano prodotti
mirati per fasce di pubblico. Anche per la scelta degli attori il sistema era il
medesimo: i divi erano legati alle case di produzione da contratti a lungo termine che
li obbligavano ad interpretare solo un genere cinematografico o un ruolo con i quali
venivano poi subito identificati dal pubblico e inoltre erano tenuti a mantenere le
caratteristiche del personaggio anche nella vita reale. Tutto questo era organizzato
per gli spettatori che si affezionavano agli attori e si recavano al cinema soltanto per
vedere il divo o diva del momento prestando meno interesse per il film nel suo
complesso. Gli attori in questo periodo divennero veri e propri prodotti industriali
forgiati dalle case cinematografiche. Modelli di vita a cui ispirarsi e per le dive
cinematografiche anche modelli erotici, simboli e miti irraggiungibili quasi
immortali.
4.2 Il corpo fallico hollywoodiano
Negli anni Trenta e Quaranta i costumi erano cambiati soprattutto in America dove
aveva fatto capolino il codice Hays e togliersi i vestiti comportava spesso uno
33
scandalo. I produttori americani, con le ali tarpate dal codice, iniziarono a giocare
con le allusioni e le metafore per poter mettere in scena le situazioni più scabrose.
Dagli anni Cinquanta il nudo divenne un modo per attirare l’attenzione su di sé,
generando comunque scandalo, ma senza gravi conseguenze (basti pensare alle
fotografie in cui Marilyn Monroe posò nuda per un calendario che, ai tempi, non
fecero molto scalpore).
Il maggiore veicolo di diffusione della femminilità artificiale e standardizzata era il
cinema. Durante la Grande Guerra aveva prodotto una serie di nuove star che
avevano esercitato grande influenza come Greta Garbo, Jean Harlow e Joan
Crawford. Le star cinematografiche hollywoodiane proponevano un ideale di
femminilità scintillante e seducente nonché emancipato ed Hollywood si proponeva
come nuovo centro di produzione della bellezza. Molte star del cinema muto erano
donne perlopiù distanti e fantastiche, le star americane degli anni Trenta erano più
realistiche, fascinose e seducenti. Il cinema hollywoodiano non offriva
semplicemente una gamma variegata di tipi femminili, imponendosi come creatore
principale degli ideali di bellezza predominanti, ma forniva anche indicazioni alle
giovani donne comuni per imitare i suoi modelli e proiettarle verso il consumismo.
Intanto una nuova figura femminile si stava per imporre nell’immaginario erotico
comune: la pin-up. Schiettamente B. Paris giustificò con queste parole il successo di
questo nuovo tipo di donna: “il pubblico del tempo di guerra aveva più bisogno delle
lunghe gambe di Betty Grable, molto di più della grande arte di Greta Garbo.”25
Pin-up stava ad indicare una categoria di splendide ragazze, sensuali e affascinanti, e
prive di quell'alone di mistero che aveva caratterizzato le dive degli anni Trenta.
Erano tipiche bellezze americane, dalle gambe lunghe, seno prorompente e naso
all'insù, quindi prosperose ed attraenti ma dallo sguardo sereno, quasi fanciullesco,
ed armonioso. Erano delle dive private del classico "divismo": l'ampia diffusione
delle loro storie sulle riviste concorse a conferire loro un carattere comune agli occhi
del pubblico. Di lì a poco il fenomeno delle pin-up approdò anche al cinema e al
teatro attraverso le attrici-ballerine degli spettacoli di genere burlesque e l’immagine
della donna pin-up venne largamente usata nei cartelloni pubblicitari. In realtà le pin-
up non erano un fenomeno completamente nuovo negli anni Quaranta, ma erano
25
B. Paris, Garbo, Pan, London, 1995, pag. 365
34
comunque simbolo della prosperità e della spensieratezza americana. Il passaggio
dell’attenzione al cinema dal volto della donna al corpo, in America fu segnato
dall’eclissi di Greta Garbo e dall’affermazione della beniamina del periodo bellico,
Betty Grable. L’esuberanza fisica segnalava una rottura della rigida gerarchia che
contrassegnava il concetto americano di star system. Era ancora valida la regola
generale (identificata già alla fine degli anni Cinquanta dal sociologo Edgar Morin26
nel suo studio pionieristico sul divismo cinematografico) che le star mettessero a
nudo le proprie anime, mentre le figure di secondo piano dovessero mettere a nudo il
proprio corpo. Con le nuove star questa convenzione venne meno, la stessa Marilyn
Monroe, come ho già citato prima, si era spogliata e per le dive più anziane come
Joan Crawford, si trattava di un deplorevole svilimento degli elementi signorili della
star hollywoodiana. L’attenzione dal viso delle attrici (basti pensare all’importanza
che esso aveva per la figura erotica di Louise Brooks) si sposta al resto del corpo: è
in questo periodo che l’America inizia ad imporre un cinema corporeo, la star
diventa il centro attorno al quale ruotano le aspettative erotiche dello spettatore e il
corpo diventa merce sottoposto a regole di mercato per essere sempre desiderabile. Il
corpo viene costantemente mascherato e rappresentato in altri modi e si parla di
corpo fallico. La censura non permetteva di mettere in scena dialoghi o situazioni
troppo spinte e l’unico modo era caricare il corpo femminile di simbolismi fallici. Le
attrici del periodo fra cui Rita Hayworth e Marilyn Monroe, vestivano abiti
particolarmente significativi da questo punto di vista: lunghi guanti, lunghi tubini per
non parlare dei dialoghi, specialmente nel film Quando la moglie è in vacanza, dove
le allusioni sono così tante che in alcune occasioni è difficile capire cosa sia accaduto
realmente fra i due protagonisti. Il codice Hays fu in fondo uno stimolo per i registi a
inventare i sistemi più disparati per far arrivare ugualmente i messaggi
“sconvenienti” agli spettatori: tutto ciò avvenne attraverso giri di parole, battute e
messaggi subliminali, uno fra questi il corpo fallico della diva.
4.3 Rita Hayworth
26
E. Morin, I divi, Garzanti, Milano, 1977
35
“There never was a woman like Gilda!”27
La diva che più di ogni altra ha saputo emergere nel periodo dell'immediato
dopoguerra è stata Rita Hayworth. Giunta alla celebrità grazie al film Gilda di
Charles Vidor (1946), è divenuta nell'immaginario collettivo una figura
rappresentativa di un certo tipo di bellezza femminile. La Hayworth veniva definita
dal giornale Life come “la dea dell’amore del Ventesimo secolo”. “Ipnotizzava
l’attenzione del pubblico dello schermo con una sessualità ambigua astutamente
ostentata. Il pubblico era consapevole di non poter essere mai completamente certo
del momento in cui avrebbe usato la sua bellezza e la sua aura di desiderio sessuale –
in bene o in male – lasciandolo sempre nel dubbio a chiedersi se le sue grazie
sarebbero state un mezzo di autogratificazione oppure se le avrebbe donate all’uomo
di cui aveva conquistato il cuore.”28
I capelli rosso fiammante ricadenti sulle spalle
erano l’emblema della Hayworth e la facevano sembrare una donna disponibile per
quanto riservata che fosse. Fu la diva costruita per eccellenza, dotata di una bellezza
artefatta, di un’eleganza impeccabile, con un fisico prorompente e un comportamento
da vamp ingenua.
Pasolini la definì così: “la sua delicata libidine era come un urlo di gioia, un dolce
cataclisma che facesse crollare il cinema.”29
27
Slogan del film Gilda
28
G. Ringgold, The films of Rita Hayworth, Citadel, Secaucus, 1974, pag 13
29
P. Pasolini, Amado mio,Garzanti, Milano, 2000, pag. 192
36
Il film di Vidor concentra la sua energia erotica nella fatidica sequenza in cui la
statuaria Gilda, vestita con il famoso abito da sera, si toglie il lungo guanto nero
cantando “Put the Blame on Mame” e facendo sognare un ben più ardito steaptease.
La protagonista da il via al suo show nel locale dove lavora il marito, poco dopo
un’accesa discussione dove il consorte l’accusa di essere una compagna infedele.
Gilda, arrabbiata e delusa, non si perde d’animo e decide di regalarsi a tutto il
pubblico vendicandosi così delle accuse subite. La canzone che Gilda intonerà e
ballerà è “Put the Blame on Mame” ovvero “Date la colpa a Mame (Madre Natura)”.
Il ritornello dice “Put the Blame on Mame, boys! Put the Blame on Me!”30
e in
questo caso la protagonista si riferisce a sé stessa rispondendo così in modo
provocatorio agli insulti ricevuti dall’amato. Seguita da un occhio di bue, Gilda
interpreterà la canzone davanti ai clienti del locale mentre il marito si aggira fra essi
preoccupato e adirato. Ad attirare l’attenzione su di sé non c’è soltanto il bellissimo
abito nero aderente e i guanti ma anche la sua chioma fluente che fa ondeggiare a
ritmo di musica e che purtroppo non si può ammirare a colori, infatti molto famoso
era il rosso dei suoi capelli. Gilda sorride compiaciuta, ammicca e verso la fine della
canzone inizia a sfilarsi il lungo guanto destro sempre a ritmo di musica. Al suono
degli applausi, Gilda si sfila anche l’altro guanto e lo lancia fra il pubblico (è questo
uno dei capi d’abbigliamento più feticci del cinema). La platea si anima gridando
apprezzamenti ed è a questo punto, dopo aver lanciato anche la collana che portava al
collo, che Gilda, toccandosi l’abito, provoca la platea dicendo con un gran sorriso:
“Non so aprire la chiusura lampo…Nessuno è disposto ad aiutarmi?”. Due uomini
colgono l’occasione e in mezzo all’ilarità generale si lanciano sul corpo di Gilda la
quale si offre alle loro attenzioni guardando compiaciuta il marito interdetto che,
nella scena successiva, la schiaffeggerà per questo.
La Hayworth interpreterà una Gilda radiosa, ben lontana dalle femmes fatale d’inizio
secolo, icona di una femminilità solare, piena e moderna. Considerata la donna
fallica per eccellenza, non c’è dubbio che nel film le sue parti del corpo siano
un’ossessione simbolica, dai capelli al braccio senza guanto.
30
“Date la colpa a Mammina, ragazzi, date la colpa a me!”
37
“Gilda parla una lingua universale che varca tutte le frontiere ed è in comunicazione
diretta con lo spettatore per quel salvacondotto specialissimo che si chiama sex
appeal.”31
Ispirata alla figura di Gilda, nel 1988 viene creata un’altra figura femminile che
interpreterà una scena simile: Jessica Rabbit. Protagonista femminile del film Chi ha
incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis, questa donna è un cartone animato che
si ricorda per i capelli rosso fuoco e l’abito molto simile a quello di Gilda ma la
figura di Jessica viene soprattutto ricordata per la famosissima battuta “Non sono
cattiva, mi disegnano così”. È interessante notare come anche Jessica seduce con
un’interpretazione canora (come fecero in passato Marlene Dietrich, Rita Hayworth e
Marilyn Monroe). Cantando “Why don't you do right” in una scenografia molto
simile a quella di Gilda, Jessica stupisce la platea con le sue forme esageratamente
perfette da farla sembrare quasi grottesca, e nella stessa scena si può vedere un breve
siparietto dove la ex sex symbol dei cartoni animati, Betty Boop, malinconicamente
dichiara che i tempi del suo successo sono finiti, travolti dalla rossa esuberante
bomba sensuale (trionfo del corpo fallico hollywoodiano). Jessica Rabbit incarna il
prototipo della donna sessualmente attraente e apparentemente senza scrupoli e, in
una conversazione che intrattiene con il protagonista maschile umano, stupisce tutti
dichiarando “Lei non immagina quanto sia difficile essere una donna con l'aspetto
che ho” e lui, a nome di tutti gli uomini, le risponderà “E lei non immagina quanto
sia difficile essere un uomo che guarda una donna con l'aspetto che ha lei ” 32
.
31
Gion Guida, in Cinemoda ,6 aprile 1947
32
Jessica Rabbit e Bob Hoskins in Chi ha incastrato Roger Rabbit
38
4.4 Marilyn Monroe
“Divento intelligente, quando mi serve.
Ma al più degli uomini non piace.”33
È difficile poter riassumere in poche righe ciò che è stata, ma soprattutto ciò che è
ancora Norma Jean Mortensen conosciuta meglio come Marilyn Monroe. Un’icona
sexy degli anni Cinquanta che tuttora è ancora un mito preso a modello ma
soprattutto ineguagliabile. Sarà stato il suo fascino fresco, frizzante, i suoi
famosissimi capelli biondi, lo sguardo sognante che meglio di tante altre hanno
rappresentato tutta la prosperità americana dell’epoca, a fare di lei un simbolo.
Definita “l’artefice più importante dello stile biondo nella nostra cultura”34
, uno dei
suoi motivi di attrazione era il fatto che muoveva il corpo in modo provocante (il
famoso “ancheggiamento” con il quale entra in scena nel film A qualcuno piace
caldo) e aveva anche posato nuda come pin-up. Recitava sempre la parte
dell’adorabile ragazza spensierata apparentemente svampita e venne lanciata come
figura erotica dal regista Billy Wilder grazie ai film Quando la moglie è in vacanza
(1955) e A qualcuno piace caldo (1959). È ancora in vigore il codice Hays quando
33
Marilyn Monroe nel film Gli uomini preferiscono le bionde
34
G.McCracken, Big Hair, Indigo, London, 1997, pag. 97
39
Marilyn interpreta la vicina di casa smaliziata nel provocatorio film del 1955. Non è
concesso far vedere nulla di quello che accade fra i due protagonisti ma le allusioni e
le battute sono numerose. Ed è sempre di questo film la celebre scena della gonna di
Marilyn. Il film ci fa vedere la ragazza che uscita dal cinema con il protagonista,
cammina sopra una griglia di aerazione e con aria divertita si posiziona sopra ad essa
con le gambe divaricate. La metropolitana in arrivo provoca uno spostamento d’aria
che solleva la gonna del vestito bianco dell’attrice che esclama “Senta il vento della
sotterranea! Che delizia!”. L’inquadratura non va più su delle cosce della ragazza che
delicatamente trattiene la gonna, lasciandoci sperare in qualche centimetro in più e,
anche quando passa il secondo treno della metropolitana, l’inquadratura non ci fa
vedere molto di più rispetto alla precedente. Al suo accompagnatore maschile, che
per tutto il tempo l’ha guardata stupito e divertito mentre lei, con il viso rivolto dalla
parte opposta aspettava l’arrivo della brezza, alla vista della gonna che si solleva non
resta che dire, con sorriso malizioso, “Frescolino alle caviglie, vero?”.
Questa viene considerata una delle sequenze più importanti del cinema del XX
secolo, ricordata per la fortissima carica erotica e ripetuta successivamente da molte
altre donne dello spettacolo. “Quando girammo la sequenza sulla grata tutta
l’attenzione era rivolta su di lei. Si radunarono ventimila persone, il traffico impazzì,
ci fu una crisi coniugale.”35
Sempre dello stesso film, famosa è la scena dove il protagonista duetta al pianoforte
con Marilyn e ricorrente è l’immagine di lei che, dopo essere cascata dallo sgabello
assieme all’amante, se ne sta seduta a terra stretta nel suo tubino bianco fin troppo
aderente, con lo sguardo stupito e la mano sulla guancia: l’adorabile svampita ma
terribilmente sensuale Marilyn in tutto il suo candore.
Altra scena dove Marilyn dà il meglio di sé cantando è nel film Niagara di Henry
Hathaway. Vestita con un abito rosso fiamma profondamente scollato, canticchia
seguendo un disco durante un ballo improvvisato, facendo impazzire di gelosia il
marito che metterà fine all’esibizione spezzando il 78 giri.
Che dire poi di Marilyn quando canta “Good bye, baby”o che i diamanti sono i
migliori amici della donna nel film Gli uomini preferiscono le bionde di Howard
Hawks? Fasciata nel suo abito rosa e attorniata da un gruppo di ballerini, Marilyn è il
35
Billy Wilder, Un viennese a Hollywood, Mondadori, Milano 1993, pag 105
40
sogno americano e la ragazza che dal nulla è arrivata a conquistare John Kennedy per
il quale canterà “Happy Birthday Mr President” scatenando uno scandalo. Sempre in
ambito canoro nel film Niagara il personaggio di Marilyn trova lo spazio per una
frecciatina a Rita Hayworth dichiarando che la canzone “Kiss” del famoso disco che
manda in tilt il marito, “non è mica una lagna come “Amado mio”, alludendo alla
canzone che aveva lanciato la vamp dai capelli rossi in Sangue e arena (1941).
“Rivelando le parti più intime del suo corpo allo spettatore, non sembra preoccuparsi
delle fantasie in cui noi possiamo indulgere. È una divinità urbana, a gambe
divaricate sulla grata della metropolitana, mentre le masse di New York, mascherate
da folata di vento, guardano al di sotto del suo vestito. In alcune versioni
dell’immagine, la gonna si solleva come un paio d’ali. Sacro e profano: l’immagine
evoca Marilyn, l’angelo carnale.” 36
Prima di Marilyn le belle di Hollywood a cavallo dell’ultima guerra venivano
definite da un loro dettaglio anatomico. Così Lauren Bacall era “lo Sguardo”, Betty
Grable era “le Gambe”, Jane Russell era “il Seno”. Ma Marilyn non si può associare
ad una sola parte del suo corpo, non si può considerarla a frammenti, ma in tutto il
suo fisico prorompente. Pure i suoi capelli biondi non si possono isolare come si era
fatto negli anni Trenta con Jean Harlow, la Donna di platino. E la sua personalità non
si può imprigionare in un solo nome come succede negli anni Quaranta a Rita
Hayworth, che divenne Gilda. Marilyn non è solo Zucchero in A qualcuno piace
caldo. Sarà stata anche la sua misteriosa morte a creare tutto questo ma basterebbe
semplicemente dire Marilyn Monroe, un corpo che parla da sé e di un’epoca entrata
nel mito.
CAPITOLO 5.
36
Enrico Giacovelli, Tutto quello che avreste voluto sapere su Marilyn Monroe, Lindau, Torino, 2002
41
DIVA ALL’ITALIANA
5.1 Neorealismo e dive contadine
Fu proprio in Italia che nacque e si diffuse la parola "diva", durante la stagione che
vide la nascita dell'industria cinematografica italiana negli anni Dieci, fino alla
creazione di un vero e proprio genere chiamato “diva-film”. Le donne fatali italiane
si ispiravano alle Vamp (donne-vampiro) scandinave, in particolare ad Asta Nielsen
protagonista nel 1910 del film Abisso. Nel 1913 Lyda Borelli girò il primo “diva-
film” Ma l'amor mio non muore di Mario Caserini. Colpì soprattutto il suo ballo
sensuale e seduttivo che inaugurò una figura di donna dominatrice alla ricerca di un
nuovo ruolo sociale. Tra le grandi dive del cinema italiano vi furono oltre alla già
citata Borelli, anche Francesca Bertini Pina Menichelli, Italia Almirante Manzini e,
presa dal teatro, anche Eleonora Duse. Negli anni Trenta e Quaranta la bandiera della
sensualità venne impugnata da Elli Parvo, Doris Duranti e Luisa Ferida. Con la fine
della Seconda Guerra Mondiale, in tutto il mondo cinematografico si andò ricercando
uno stile più vero e diretto con la realtà. La vita reale che si voleva raccontare in tutta
la sua nuda verità, divenne la protagonista indiscussa del cosiddetto Neorealismo.
Grazie al Neorealismo nei film entrano le persone più comuni: attori non
professionisti e prestati dalla vita reale. Nasce così un'estetica della sofferenza, con
volti smagriti, abiti consunti, capelli arruffati. Ma in queste figure emerge comunque
un senso eroico e tragico, che avvicinava mai come prima gli attori agli spettatori,
mettendoli sullo stesso piano e rendendo di colpo le distanti figure patinate di
Hollywood lontane e artefatte. La grande differenza tra divismo hollywoodiano e
divismo neorealista è che l'immagine dell'attore non viene più costruita in funzione
dei personaggi dei film che interpreta ma, viceversa, è il temperamento reale
dell'attore che dà vita ai personaggi, sfocando il confine tra realtà e finzione. Figlie
del Neorealismo furono anche molte icone sexy che si imposero nell’immaginario
collettivo arrivando fino ad Hollywood: dalla mondina Silvana Mangano in Riso
amaro, all’esuberante Gina Lollobrigida soprannominata “la Bersagliera” nel film
Pane, amore e fantasia, passando poi per Sophia Loren e Claudia Cardinale, senza
42
dimenticare Anna Magnani che, se non era bella come le dive sopra citate, ebbe
comunque un ruolo importante nella creazione dello stereotipo della donna italica.
Gli stranieri che andavano al cinema fra gli anni Quaranta e Sessanta trovavano le
dive italiane esotiche, fiere, appassionate, belle e sagge. Le attrici italiane apparivano
soprattutto naturali: comunicavano un sex appeal privo di pose divistiche, una ruvida
sensualità terrena che sembrava genuina e incontaminata. Le dive rappresentavano
un Paese che aveva gettato dietro le spalle gli anni bui della guerra e della dittatura
per riproporsi al mondo con una nuova identità più autentica e affascinante. La gente
si poteva identificare nel modo in cui urlavano, parlavano con accenti dialettali,
mettevano le mani sui fianchi ed esibivano le loro prerogative femminili. Le dive
portavano sulle spalle il peso della responsabilità di essere le icone che
rappresentavano l’identità nazionale dentro e fuori dall’Italia. Anche se molte di loro
non erano figlie della classe popolare, quasi tutte si affermarono grazie a dei film in
ambientazione rurale che le travestivano da contadine o lavoratrici dei campi:
potevano sembrare al tempo stesso nostalgiche donne rurali e moderne pin-up, con
una sessualità esplicita ma priva di perversione. “Le super-carrozzate di casa nostra,
da Gina a Sophia, incarnano un’esigenza di proletaria sessualità, diretta, vistosa, alla
portata di tutti. Sono le ciociare bellocce e le prosperose bersagliere che parlano agli
istinti collettivi di una massa non ancora turbata da complicazioni freudiane e
intellettualistiche”37
. La connessione istituita dal cinema italiano del secondo
dopoguerra fra corpo femminile e paesaggio era fondamentale poiché costituiva la
base per la rinascita invocata dal Neorealismo. Venivano raccontate storie di
rinascita che vedevano come protagoniste le donne soprattutto perché il rapporto fra
terra madre/donna è molto stretto. Il fenomeno del corpo/paesaggio diviene così un
aspetto chiave del cinema del dopoguerra. A simboleggiare il fascino femminile
italiano nel cinema furono soprattutto i seni: la donna del popolo veniva associata ad
un seno prosperoso e al fascino che questo esercitava sugli uomini. “Il seno italiano
non era soltanto un ornamento, ma il significate primario del potere femminile in una
cultura organizzata in base a divisioni di genere convenzionali, e quindi si
identificava non soltanto con la femminilità ma anche con il luogo.”38
Inoltre
37
Marisa Rusconi, Il seno in almanacco letterario, Bompiani, 1967, pag. 85-86
38
Stephen Gundle, Figure del desiderio, storia della bellezza femminile italiana, Laterza, Roma,
2009, pag. 253
43
l’esaltazione dei seni delle dive divenne uno strumento di marketing ufficiale del
cinema italiano.
5.2 Le contadinelle sbarcano a Hollywood
Dopo il successo di Riso amaro le riviste di tutto il mondo iniziarono ad interessarsi
delle dive italiane portandole all’apice del successo, contemporaneamente l’attività
cinematografica in Italia stava avendo un grosso boom che fece ampliare la
produzione di pellicole. La Mangano, seguita poi dalla Lollobrigida, dalla Loren e
dalla Cardinale, divennero le più ambite dalla stampa estera oltre che da quella
italiana e il loro fascino si espanse fino alle coste americane fino ad approdare alle
case di produzione hollywoodiane. In contrasto con le produzioni hollywoodiane, le
star italiane conservavano un certo carattere di accessibilità molto apprezzato dal
pubblico e i film in cui erano protagoniste promettevano la visione di un ambiente
realistico e quotidiano. È difficile però ignorare una certa influenza delle dive
americane su quelle italiane: anche se apparentemente i due tipi di donna possono
sembrare agli antipodi, in realtà i canoni estetici della pin-up americana erano
presenti nella bellezza contadina delle dive italiane. “Così, mentre le star italiane
erano considerate dal pubblico straniero diverse per i colori più scuri, l’accento
straniero e i corpi ben torniti, erano anche in sintonia con la tendenza dominante
della tipologia divistica”39
. Le dive italiane, soprattutto la Lollobrigida e la Loren,
contribuirono a rompere la rigida gerarchia dello star system hollywoodiano. Con i
loro vestiti succinti e le loro forme provocanti, fondarono su queste caratteristiche il
loro divismo nella Hollywood dove qualunque esplicito riferimento al sesso era
vietato e abilmente raccontato attraverso corpi fallici e allusioni. Sophia e Gina erano
le stelline erotiche che potevano competere con le grandi dive hollywoodiane e
piacevano al pubblico. La stessa Lollobrigida venne presentata in America come la
Marilyn Monroe europea. A differenza del sistema statunitense dove le dive
venivano selezionate accuratamente e costruite a pennello, le dive italiane erano
figlie di concorsi di bellezza ed elette dal popolo e quindi risultavano più genuine.
39
Ibidem pag. 260
44
L’immagine che gli americani davano delle bellezze nostrane era alquanto
superficiale perché sia Sophia che Gina (furono le due attrici più lanciate nel
panorama hollywoodiano) interpretavano sempre le ragazze italiane belle in un Paese
da cartolina ma molto arretrato rispetto all’America. Le ragazze italiane erano
conosciute ovunque e il commentatore radiofonico Walter Winchell inventò il
termine “Lollopalooza” per evocare il fascino particolarmente sensuale delle attrici
italiane, mentre in Francia “Les Lollos” divenne un termine gergale per indicare i
seni. Le attrici comunque non furono sempre destinate ad essere le contadinelle ma
sia la Loren che la Lollobrigida girarono film storici come anche la Mangano e la
Pampanini. Prerogativa delle prime due fu di riuscire a non omologarsi agli standard
statunitensi e a mantenere una certa personalità e rinunciarono a trasferirsi a
Hollywood per continuare a lavorare con le produzioni italiane. Intanto i costumi
stavano cambiando, lo stereotipo della bella paesana formosa stava perdendo
attrattiva per un modello di ragazza più moderna influenzata dalla cultura americana
che un po’ alla volta si stava espandendo in Italia. L’arrivo dell’attrice bionda e
nordica Anita Ekber con il film di Federico Fellini La dolce vita (1960) portò una
nuova ventata e una nuova icona sexy: se le donne del Neorealismo erano materne e
dal sapore tradizionale, quelle nuove in arrivo grazie anche alle rivoluzione culturale
che stava prendendo piede in tutta Europa (basti pensare a Brigitte Bardot), erano più
cosmopolite e dal fisico più asciutto. E fu Claudia Cardinale ad avvicinarsi di più a
questa nuova immagine femminile mantenendo però il fascino delle dive del
Neorealismo. Le nuove star che vennero alla ribalta nella seconda metà degli anni
Cinquanta si allinearono al canone di bellezza dominante. Nei prossimi paragrafi
analizzerò l’ascesa e i film cardine che hanno lanciato le quattro dive italiane come
sex symbol internazionali: Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Sophia Loren e
Claudia Cardinale.
5.3 Silvana Mangano, la mondina
45
Il primo film neorealista che produsse una nuova icona della bellezza italiana fu Riso
amaro (1949) del regista Giuseppe De Santis. Il personaggio chiave di questo
dramma ambientato nelle risaie di Vercelli è la giovane mondina interpretata da
Silvana Mangano. La ragazza è diversa dalle altre perché è proiettata verso la
modernità: mastica chewing gum, legge fotoromanzi e soprattutto balla il boogie
woogie. Silvana Mangano rimane impressa nella memoria del film ballando il boogie
woogie con sensuale esuberanza e innocente ingenuità: nella suddetta scena ostenta
la sua bellezza ruvida ed una collana troppo riccamente pacchiana che ha rubato alla
sua compagna, mentre la gente attorno a lei messa a cerchio la osserva. Dalla massa
emerge un uomo che le si avvicina e lei balla come nessuna umile mondina
ballerebbe. Muove le anche, le spalle, i capelli: è la voglia di apparire diversa, di
riscattarsi, è l’urlo della gioia di vivere di una ragazza costretta ad indossare abiti
troppo popolani e poveri incompatibili con i suoi ideali di libertà e divertimento. La
mondina ha l’America in testa e progetta una fuga individuale dalla povertà e dal
lavoro faticoso. Il regista dovette spogliare la Mangano della sua raffinatezza per
farla assomigliare “a una Rita Hayworth di periferia italiana”40
. Italo Calvino che
all’epoca scriveva per l’Unità andò a vedere l’attrice sul set di Riso Amaro e ne
40
Faldini e Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Feltrinelli, Milano, 1979, pag. 154
46
rimase colpito soprattutto per la sua bellezza indescrivibile a parole che venne
immortalata dal fotografo Robert Capa. Le immagini scattate da lui dell’attrice
diciottenne immersa nell’ acqua fino alle cosce con una camicia attillata e calzoncini,
furono riprodotte dalla stampa internazione e divennero subito un’icona. L’immagine
dell’attrice veniva percepita in tutto il mondo come una nuova versione italiana del
sex appeal americano. Silvana Mangano nel film racchiude in sé il duplice aspetto
della ragazza semplice e contadina e l’icona degli stereotipi femminili hollywoodiani
come la pin-up e la vamp. Se Silvana la mondina era un prodotto femminile
influenzato dai canoni americani, l’erotismo che De Santis portò sullo schermo con
Riso Amaro non era sicuramente come quello hollywoodiano: l’industria
cinematografica americana accolse molto rigidamente gli espliciti temi sessuali
presenti nel film. Per De Santis era importate trattare e affrontare i temi femminili in
modo libero e quindi portare sullo schermo una visione autentica della realtà. Ancora
oggi pensando a Silvana Mangano la prima immagine che salta alla mente è quella di
lei con il costume di scena: i calzoncini tagliati corti criticati come non realistici che
però dopo il film vennero adottati in massa. È in questo film che il rapporto fra corpo
e paesaggio si plasma nell’immaginario degli spettatori e fu proprio grazie a questa
pellicola che si portarono alla ribalta le problematiche del lavoro massacrante delle
mondine che cantando lavorano immerse nell’acqua. Dopo la Mangano arrivarono
una serie di contadine, paesane e lavoratrici sensuali e fiere nella loro rude e naturale
italianità.
Tra le grandi pellicole interpretate dalla Mangano, si ricordano in particolare: L'oro
di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, Uomini e lupi (1957) ancora di De Santis,
Edipo re (1967), Teorema (1968) e Il Decameron (1971) di Pier Paolo Pasolini e
Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973) e Gruppo di famiglia in un interno (1974) di
Luchino Visconti. Nel 1984 fu tra le interpreti del film Dune, del regista statunitense
David Lynch.
5.4 Gina Lollobrigida, la Bersagliera
47
La seconda attrice a conquistare una particolare attenzione grazie all’identificazione
rurale fu Gina Lollobrigida. Grazie alla sua avvenenza fisica divenne l’idolo delle
ragazze delle classi inferiori la cui unica carta per l’avvenire era la prestanza fisica. Il
suo primo ruolo contadino si dimostrò di importanza iconica, perché segnò la nascita
del termine con cui le formose star degli anni Cinquanta furono designate: le
“maggiorate fisiche”. Il termine fu utilizzato per la prima volta in Altri tempi (1952)
di Alessandro Blasetti dove viene presentato un ritratto sentimentale delle usanze
dell’Italia ottocentesca. Il film è diviso in episodi e quello finale “Il processo di
Frine” è basato su una storia scritta da Edoardo Scarfoglio nel 1884. Gina interpreta
una ragazza che viene difesa dall’avvocato (De Sica) che, nell’appello finale, chiede
alla giuria di non rinchiudere la ragazza perché essa fa parte del patrimonio
paesaggistico italico (ecco qui lo rapporto stretto fra corpo e paesaggio). Ma la
motivazione pronunciata con più enfasi è quella di non condannare la bella giovane
perché essa è una “maggiorata fisica” nel senso che le bellezze del corpo sono ben
superiori alle capacità intellettive e che quindi va perdonata anche per salvare il
“patrimonio corporeo”. La battuta della maggiorata fisica non fa parte dell’opera di
Scarfoglio ma è una novità inserita dagli sceneggiatori, che nel film viene gridata con
grande trasporto dall’avvocato. Soltanto dopo questo episodio la maggiorata
Lollobrigida venne associata al sesso. Nei film successivi aggiunse altre sfaccettature
48
Il corpo erotico. L'evoluzione dei canoni estetici nelle icone femminili - Marta De Zolt
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Il corpo erotico. L'evoluzione dei canoni estetici nelle icone femminili - Marta De Zolt

  • 1. UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TRIESTE FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN DISCIPLINE DELLO SPETTACOLO Tesi di laurea in FILMOLOGIA IL CORPO EROTICO L’evoluzione dei canoni estetici nelle icone femminili Laureanda: Relatore: MARTA DE ZOLT Prof. ROBERTO NEPOTI Correlatore: Prof. GIANLUCA GUERRA Anno Accademico 2008 - 2009 1
  • 2. INTRODUZIONE Questa tesi si pone l’obiettivo di analizzare come la seduzione della figura femminile al cinema viene attuata, partendo dalle teorie psicologiche di Lacan e Freud e dagli studi di psicoanalisi applicati al cinema di Metz. Con l’analisi del voyeurismo e del feticismo si possono comprendere i processi attraverso i quali lo spettatore percepisce la donna erotica. Lo spettatore diventa voyeur quando si pone in relazione ad un film e fra lui e la pellicola si instaura un rapporto di esibizionismo/voyeurismo. Questa relazione ha delle implicazioni psicologiche inconsce che contribuiscono alla percezione del corpo erotico da parte dello spettatore voyeur. Il feticismo, altra perversione ampiamente trattata da Freud, è un aspetto molto complesso se applicato al cinema soprattutto se si parla del corpo erotico. Quest’ultimo infatti viene costruito all’interno delle pellicole e percepito dallo spettatore proprio attraverso i meccanismi inconsci relativi ai processi psicologici legati al feticismo. Il corpo nudo, il corpo vestito, il concetto di corpo teatralizzato sono tutti legati al complesso meccanismo di questa perversione che ha radici molto profonde nel nostro inconscio. La musica con il canto, la danza e lo streap-tease, è presente in molte scene dove le dive del cinema mettono in atto la loro seduzione e carica sessuale. Anche questa disciplina affonda le proprie radici nel nostro inconscio e nei nostri primi anni di vita soprattutto nella percezione di essa come un tramite della seduzione. Questa prima parte della tesi analizza quindi la stretta relazione fra le teorie psicanalitiche e il cinema in particolare come viene costruito e percepito il corpo erotico delle dive. La seconda parte della tesi si pone l’obiettivo di analizzare lungo tutto il corso della storia del cinema, quali sono state le figure femminili che più si sono imposte nell’immaginario collettivo, analizzandone anche il contesto storico e culturale. In particolare per ogni attrice prenderò ad esempio un film che ha creato nell’immaginario collettivo l’immagine erotica dell’attrice. Nei primi decenni del Novecento la fanno da padrone la femme fatale Marlene Dietrich grazie al film L’angelo azzurro, diretto da Josef von Sternberg (1930) e Louise Brooks con Lulù, il vaso di Pandora (1928) di Georg Wilhelm Pabst . 2
  • 3. La tappa successiva sarà negli anni d’oro dello star system hollywoodiano dove emergono a livello internazionale i corpi fallici di Rita Hayworth, la rossa Gilda fasciata nel lungo abito da sera nero, e della bionda Marilyn Monroe che con la gonna bianca sulla grata della metropolitana, si assicura un posto come immagine simbolo del XX secolo. Un capitolo a parte viene dedicato al fenomeno delle maggiorate italiane, figlie del Neorealismo italiano che con la loro bellezza spontanea ed esuberante arriveranno fino a Hollywood. Dalla mondina Silvana Mangano si passa alla Bersagliera Gina Lollobrigida che vedrà come sua rivale Sophia Loren fino alla più moderna Claudia Cardinale. Gli anni Sessanta e Settanta sono importanti perché molti dogmi sessuali dei decenni precedenti cadono e la nuova generazione si libera di tante restrizioni, soprattutto al cinema dove il corpo diventa libero di esprimersi e di essere rappresentato. Figura cardine ed emblematica di questo periodo è Brigitte Bardot che con il film Piace a troppi – e Dio creò la donna diretto da suo marito Roger Vadim nel 1956, si impone come sex symbol internazionale ma anche come figura ribelle e ambasciatrice delle nuove libertà. Il regista Luis Buñuel invece rappresenta la moderna società sotto l’aspetto sessuale con due film importanti: Bella di giorno (1967) dove troviamo Chaterine Deneuve e Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977). Il primo mette in scena le fantasie proibite di una borghese repressa dal suo stato sociale che le impedisce di esprimersi, mentre il secondo è interessante per la rappresentazione della donna: caratteristica particolare è l’utilizzo di due attrici per interpretare lo stesso personaggio in cui si materializzano i due aspetti della seduzione femminile: il diabolico e l’angelico. L’ultimo capitolo descrive le ultime due icone degli anni Ottanta e Novanta riferendosi a Kim Basinger in 9 settimane e ½ Sharon Stone in Basic Insinct. Si apre qui una riflessione su come è mutata la donna erotica rispetto ai primi decenni del Novecento e sull’evoluzione del corpo prendendo ad esempio la cantante Madonna contemporaneamente icona sexy e corpo tecnologico. Lo scopo dell’opera è di dare un’immagine complessiva, anche se non molto approfondita del fenomeno essendo molto vasto, delle icone sessuali figlie del sistema cinematografico con una lunga premessa sui processi psicologici relativi alla percezione del corpo erotico nella mente dello spettatore. 3
  • 4. CAPITOLO 1. IL LATO OSCURO DELLO SPETTATORE: IL VOYEURISMO “L’istinto, la pulsione di guardare è una delle componenti primarie della nostra libido e può divenire, in certi casi un sostituto, come se lo sguardo rimpiazzasse l’atto di toccare.”1 Sigmund Freud 1.1 Chi è lo spettatore? Che cosa significa essere spettatori di fronte ad un film? Numerose sono le motivazioni consce ma soprattutto inconsce, che ci fanno sedere al buio in una sala a condividere con altri spettatori dei fasci di luce intermittenti. Lo spettatore si reca di sua volontà al cinema per condividere emozioni, per farsi emozionare e forse per cercare sé stesso al buio di una proiezione. Il rapporto che si instaura fra il film e spettatore è alquanto complicato dato che alla base di tutto c’è il fatto che il film viene creato nella mente dello spettatore che lo percepisce. È lo spettatore, che con la sua capacità di percezione, farà in modo che la serie di fotografie in movimento assumano un senso grazie alla rielaborazione che avviene nella sua mente. La stessa struttura della sala cinematografica favorisce la fusione fra spettatore e film: il buio, l’immobilità fisica e soprattutto i sensi completamente coinvolti e attratti dal dispositivo filmico. Seguire un film comporta un coinvolgimento non soltanto emozionale ma anche fisico, il nostro corpo risponde agli stimoli che percepiamo attraverso il film (se una scena ci fa paura partecipiamo con una tensione muscolare), dunque l’immagine filmica interagisce con il corpo dello spettatore. Al contempo però si sperimentano delle assenze come gli odori, il gusto e il tatto compensabili con l’attività sinestesica. Lo spettatore, attraverso i 1 Freud, Sessualità e vita amorosa, Newton, Roma, 2006, pag 23 4
  • 5. sensi, accede ad un’ altra dimensione e nel caso della fruizione di un film la vista e l’udito prendono il sopravvento aiutandolo a partecipare alla diversa dimensione filmica. La partecipazione psicologica dello spettatore è una condizione necessaria per attivare l’impressione di realtà e la croyance che è lo stato di sospensione fra il “credere” e “non credere” a ciò che si sta vedendo. Tale attivazione avviene attraverso il processo d’identificazione. L’identificazione si realizza trasferendo le nostre emozioni sui personaggi del film (identificazione cinematografica secondaria). È un’attività inconscia, noi viviamo le emozioni attraverso i personaggi con i quali ci identifichiamo. Ma anche ci proiettiamo su essi, infatti lo spettatore arricchisce i personaggi con i propri elementi psicologici. Così il cinema ci offre la possibilità di vivere una vita non nostra e di soddisfare quei nostri impulsi che mai potremmo o vorremmo soddisfare nella realtà2 . Per questo possiamo parlare di più film nel film, ogni spettatore percepisce a modo suo e quindi interpreta il film a seconda delle sue capacità e delle sue esperienze. 1.2 Le pulsioni al cinema: vista e udito La psicofisiologia distingue classicamente i “sensi a distanza” (la vista e l’udito) dagli altri sensi che si esercitano più da vicino che vengono chiamati “sensi a contatto” (tatto, gusto, olfatto). La visione e la percezione di un film è possibile soltanto attraverso due pulsioni percettive: il desiderio di vedere, il solo presente nel cinema muto e il desiderio di ascoltare, apparso con il cinema parlato. Nella psicanalisi la pulsione è un insieme di tendenze istintive volte a soddisfare bisogni primitivi, mentre la percezione è l’attività di raccolta delle informazione provenienti dall’ambiente attorno a noi. Si deduce quindi che per la fruizione di un film ci avvaliamo dei nostri sensi (vista e udito) per percepire e soprattutto soddisfare il nostro bisogno e la nostra curiosità di conoscere ciò che ci sta attorno. Queste due pulsioni si distinguono dagli impulsi organici (denominati così da Lancan, mentre Freud li chiama pulsioni di autoconservazione) in base al rapporto 2 Cesare Musatti, Psicologia degli spettatori al cinema, “Quaderni di Ikon” 5
  • 6. che si instaura fra loro e l’oggetto che li soddisfa. Se la fame e la sete sono dei bisogni che vengono soddisfatti con l’assunzione di cibo e acqua, quindi con beni materiali non sostituibili con altri; il desiderio di vedere e di sentire instaurano con l’oggetto che li soddisfa una rapporto alquanto complesso. Queste due pulsioni sessuali (vista e udito) trovano soddisfazione fino ad un certo punto con l’oggetto perché si nutrono del loro stesso desiderio di essere insoddisfatte. In parole più semplici, la vista e l’udito si soddisfano con beni immateriali che placano le pulsioni soltanto per poco, appena l’oggetto sparisce il bisogno di soddisfazione riaffiora e si nutre di sé stesso; la mancanza dell’oggetto è sia un vuoto da colmare ma anche un vuoto da preservare per mantenere vivo il desiderio. Ogni oggetto che soddisfa queste pulsioni non è altro che la proiezione di un oggetto immaginario desiderato che tiene vivo il desiderio stesso. Queste due pulsioni vivono inseguendo l’oggetto, assaporando il breve momento in cui vengono soddisfatte per poi ritornare all’inseguimento. Il cinema si presta bene per le scene erotiche per il fatto che mantiene vive le pulsioni con l’offerta di oggetti ricchi ma al contempo assenti materialmente. 1.3 Lo spettatore voyeur “Il voyeurismo sarebbe all’origine di gran parte della narrativa e, ovviamente, del cinema. Non ci sarebbe invece scopofilia nella pittura e nella scultura perché in queste arti mancherebbe il movimento: il voyeur non spia tanto l’oggetto quanto il suo movimento cioè il suo comportamento. […] La scopofilia comincia a partire dall’osservazione del movimento dell’oggetto spiato. […] Lo scopofilo non spia soltanto ciò che è proibito ma anche ciò che è sconosciuto; in altri termini, la scopofilia ha bisogno di scoprire l’ignoto”3 . Il termine perversione deriva etimologicamente da “per-vertere” (termine che sta per “tendere”, “volgere oltre”) e fu introdotto da Magnan nel 1885 per differenziare dalle 3 Tratto da L’uomo che guarda di Alberto Moravia 6
  • 7. anomalie e dalle aberrazioni sessuali. Fino al 1952 le deviazioni sessuali erano classificate insieme ai disturbi della personalità psicopatica e considerate come reati commessi da individui con tendenze antisociali e criminali. Nel 1983 le perversioni sessuali furono incasellate in una categoria a sé stante e definite “parafilie” (da para “deviante” e filia “attrazione). Esse comprendono: l’esibizionismo, il feticismo, il frotteurismo, la pedofilia, il masochismo sessuale, il sadismo sessuale, il feticismo di travestimento e il voyeurismo. Inoltre si aggiungono altre perversioni come la necrofilia, la zoofilia, la scatologia telefonica, il parzialismo, la coprofilia e la clismafilia. Il voyeurismo è quindi una forma di deviazione sessuale ma anche la condizione dello spettatore di fronte al film. Freud osserva che il voyeurismo, simile in questo al sadismo, mantiene sempre una distanza fra l’oggetto (in questo caso l’oggetto osservato) e la fonte pulsionale (l’occhio). La distanza viene mantenuta perché in caso contrario il soggetto si appagherebbe consumando l’oggetto. Il voyeur eviterà di colmare la distanza per non soddisfare il suo desiderio ma è la stessa insoddisfazione ad essere fonte di soddisfazione (ricordiamoci che il voyeurismo è una forma da sadismo). Avvicinandosi all’oggetto rischierebbe di placare il desiderio e di consumare quindi l’oggetto, di portarlo all’orgasmo e al piacere del corpo mettendo fine al dispositivo scopico. Il voyeur vive di illusioni e immagini che necessariamente devono rimanere tali per evitare la fine del gioco. Il cinema nella sua natura mantiene la distanza fra il soggetto (spettatore) e l’oggetto (film), cosicché la fantasia rimane viva e la pulsione visiva può continuare a nutrirsi del suo stesso desiderio di soddisfarsi. Lo spettatore è un voyeur “naturale”, la struttura stessa del cinema lo obbliga ad esserlo. Un film non può esistere senza uno spettatore che lo guardi. Ma ciò che distingue il cinema da una qualunque altra situazione voyeuristica (basti pensare al teatro), è il raddoppiamento della distanza fra il voyeur (spettatore) e l’oggetto (immagini del film). L’oggetto è materialmente assente dalla scena, ciò che il voyeur-spettatore vede non è altro che una dimensione spazio-temporale esistita in un momento in cui lui non c’era (durante le riprese lo spettatore non era presente). Il voyeurismo che non sia troppo sadico, si avvale di una sorta di finzione, più o meno giustificata o anche istituzionalizzata (come in uno spogliarello), che stabilisce 7
  • 8. che l’oggetto è “d’accordo” di sottoporsi all’attività dei voyeur e quindi è esibizionista. Il voyeur si difende e si giustifica pensando inconsciamente che “se l’oggetto è là, è perché lo vuole”. Il rapporto fra spettatore e film in questo senso è compromesso. Se l’attore era presente quando non lo era lo spettatore (riprese), e lo spettatore è presente quando l’attore non lo è più (proiezione), l’appuntamento fra voyeur e oggetto è mancato. Il voyeurismo cinematografico deve fare a meno di ogni segno esplicito di consenso da parte dell’oggetto. Lo scopofilo si trova da solo nella sala buia a guardare il film ovvero qualcosa che si lascia vedere senza farsi vedere; lo spettatore si trova privato dell’accordo abilitante e si parla quindi di una scopofilia non autorizzata. Il paradosso sta nel fatto che la scopofilia cinematografica è “non autorizzata” ma si trova ad essere nello stesso tempo “autorizzata” dal semplice fatto della sua istituzionalizzazione (è accettato socialmente che io mi rechi in un cinema). Il cinema conserva in sé qualcosa del divieto della visione della scena primaria freudiana ma al contempo legalizza la pratica dell’esercizio vietato. L’oscurità della sala, la finestrella dello schermo tanto simile al famoso buco della serratura e soprattutto la solitudine del voyeur-spettatore, favoriscono il rapporto voyeuristico che si instaura fra spettatore e film. Il film ignora la presenza dello spettatore perché si trova in un'altra dimensione, inoltre lo spazio filmico è fittizio mentre quello dello spettatore è reale. Il film è una riproduzione della scena primaria dove il bambino vede i genitori intenti in un atto sessuale, ma al contempo sa di non poter essere presente nella loro dimensione, e analogamente al cinema lo spettatore vede il film ma è solo un osservatore la cui partecipazione è inconcepibile. A questo punto il significante cinematografico non è solo psicoanalitico, è più precisamente edipico; inoltre il cinema è un atto lecito che al contempo apre una dimensione inconfessabile perché abilita alla visione della suddetta scena primaria. 1.4 Esibizionismo ambiguo Lo spettatore è al cinema e assiste al film. Uso il termine assistere perché è sia testimone che aiutante nei suoi confronti: lo spettatore guardando il film lo aiuta a nascere e a vivere dentro alla mente. 8
  • 9. Il film è esibizionista, e allo stesso tempo non lo è. L’esibito sa di essere guardato, desidera che sia così, si identifica con il voyeur di cui è l’oggetto. Il film non è esibizionista. Lo guardo, ma lui non mi guarda mentre lo guardo. Tuttavia sa che io lo guardo. Ma non vuole saperlo. Precisamente colui che sa e colui che non sa non si confondono del tutto. Colui che sa, è il cinema, l’istituzione (cioè il discorso che sta dietro la storia); quello che non vuole sapere è il film, il testo: la storia. Lo spettatore vede un oggetto (il film) che sa e si è predisposto per essere visto, ma al contempo lo spettatore ignora di essere un voyeur perché si identifica con la macchina da presa che è un voyeur a sua volta. Semplificando, un bambino che si vede riflesso nello specchio sa di essere lui, si identifica con l’immagine (identificazione primaria). Nel cinema lo spettatore si identifica con la macchina da presa (occhio del regista) e i personaggi nel film “ignorano” di essere vittime del voyeur e fanno ignorare quindi allo stesso voyeur- spettatore di essere tale. 1.5 Il cinema erotico fra spettatori, attori e registi voyeur Il voyeurismo legato all’esistenza stessa del cinema è uno dei primi elementi messi in discussione dalla censura e genera, sin dalla nascita del cinema stesso, il dibattito su cosa sia lecito o meno mostrare. Lo spettatore, di fronte a uno spettacolo di tipo erotico diviene forzatamente una sorta di voyeur costretto ad assistere, senza essere visto, a situazioni scabrose. È importante riflettere sulle parole di Jean-Luc Douin tratte dal libro Les ècrans du dèsir4 : “Al cinema, c’è desiderio all’interno della sala, desiderio sull’immagine, e desiderio nel momento in cui viene girato il film, desiderio grazie al quale il film esiste. È infatti essenzialmente a partire da quest’ultimo desiderio che nascono gli altri due.”. Secondo Douin il regista ha un doppio potere nel realizzare un film: dirigere ciò che filma, ovvero imporre un suo desiderio e immortalarlo sulla pellicola, quindi imprimere per l’eternità sul corpo di una donna quello che egli 4 J.-L. Douin, Les ècrans du dèsir ,tradotto da Daniela Pecchioni, pag.11 9
  • 10. stesso desidera. Il film traduce una tensione erotica fra regista e attrice: il desiderio del regista di “possederla” viene tradotto tramite la macchina da presa. Molte scene che suscitano desiderio nello spettatore, altro non sarebbero che lo specchio di un desiderio originario che il regista proverebbe nei confronti di ciò che sta filmando. Gli occhi del voyeur-spettatore si sovrappongono a quelli del regista, voyeur prima di lui. Il voyeurismo, perversione sottile ma anche sublime, ben si appresta ad essere rappresentata ed utilizzata nei film erotici. Binocoli, obiettivi fotografici, cineprese amplificano l’effetto voyeuristico grazie alla possibilità che offrono di ingigantire le immagini e di offrire così, all’occhio indiscreto, l’opportunità di restare lontano dall’oggetto spiato. Lo spettacolo proibito che possiamo assaporare guardando attraverso il classico buco della serratura o il foro del muro, si potenzia grazie al cinema: la cinepresa, ovvero l’occhio del regista è una protesi che ne accresce l’efficacia, che amplia la possibilità di osservare. Romàn Gubern5 nel suo libro scrive che il voyeurismo è congenito al sistema scopico del cinema e ciò è dimostrato dal fatto che dal 1900, apparvero in Europa e negli Stati Uniti una gran numero di film che potremmo definire film-voyeurs, in cui si mostrava ciò che si poteva vedere attraverso un buco di serratura, opportunamente sagomata in nero nell’inquadratura. In questi primi film-voyeurs, lo stesso Gubern sottolinea quanto fossero comunque “casti”, mostrando non quello che si poteva vedere in realtà attraverso una serratura, bensì ciò che la morale pubblica di quel tempo permetteva che si vedesse in uno spettacolo pubblico. Lo scandalo, in effetti, consisteva già nel fatto di “guardare” senza essere visti, ma ciò che realmente si sarebbe potuto vedere dal buco di una serratura rimaneva irrappresentabile e non ammesso sia dalla censura che dalla morale. Facendo riferimento solo ad alcune pellicole del genere erotico, si può mettere in luce quanta importanza abbia la perversione voyeuristica, non solo al cinema ma anche nella vita reale. Bolw-up, girato da Michelangelo Antonioni nel 1966, significa ingrandimento e allude alla scoperta che il protagonista fotografo fa ingrandendo una fotografia scattata di nascosto ad una coppia in un parco. La figura del fotografo è emblematica, 5 Romàn Gubern, L’eros nel cinema muto,Lindau, Torino, 1997, pag. 31 10
  • 11. esso è già per sua natura voyeur perché impugna un obiettivo che gli consente di “rubare” le immagini dalla realtà per il suo piacere ma anche di “ingrandirla”. La scena della seduta fotografica con la modella che destò scalpore soprattutto per la sua nudità, rappresenta al meglio come la macchina fotografica del protagonista sia uno strumento di seduzione. Attraverso l’obiettivo il fotografo “violenta” il corpo delle modelle, le possiede con l’occhio divoratore alla ricerca dell’immagine più sensuale. Nell’ultima scena del film, Antonioni ci fa riflettere sulla figura del fotografo che anche attraverso l’uso dell’obiettivo e degli ingrandimenti, non sa cogliere il senso nascosto della realtà. Forse Antonioni ci stava anticipando quello che oggi si è realizzato: la nostra società è fin troppo legata alle immagini figlie dei nostri stessi obiettivi cinematografici, televisivi e fotografici e stiamo inesorabilmente cadendo vittime delle illusioni che produciamo. Soprattutto se si parla della figura della donna, costruita e progettata secondo schemi ben precisi ma assai poco reali. Nella foga del voyeurismo cinematografico, fotografico e televisivo forse ci siamo fatti prendere troppo dall’eccitazione di poter costruire una realtà artificiosamente bella, ma sempre più fittizia. Altro regista italiano che del voyeurismo ne ha fatto uno stile, è Tino Brass. La chiave, girato a Venezia nel 1983, parla di come il voyeurismo possa diventare un’ossessione, inoltre è un film importante perché il sesso diviene fulcro centrale della storia. I due protagonisti, per ritrovare lo slancio sessuale di un tempo, iniziano a “spiare” i propri desideri l’uno nel diario dell’altro compiendo dapprima un voyeurismo “letterario”. In seguito il film sarà giocato tutto in relazione allo sguardo, all’esibizione, e all’essere visti: dal pranzare seduti nella vetrina del loro ristorante per essere guardati da tutti i passanti, fino alle azioni più esplicitamente erotiche (lui che spia lei che fa pipì in un canale, che la fotografa nuda mentre dorme…). Il voyeurismo diventa la “cura” per risollevare la vita di coppia, non più visto come una pratica perversa e peccaminosa, ma come un gioco terapeutico. Un altro film dello stesso regista è L’uomo che guarda. Il titolo è già di per sé voyeuristico e assai ambiguo perché non chiarisce chi sia in realtà il voyeur della situazione. Il protagonista del film, Dodo, ha dei complessi nei confronti del padre perché in perenne competizione sessuale con lui e perché da bambino era stato traumatizzato dalla visione (voyeuristica) della famosa scena primaria. In questo film 11
  • 12. assistiamo ad alcuni sofisticati giochi voyeuristici: Dodo osserva il padre in atteggiamenti ambigui con la cameriera e in un'altra scena spia una ragazza nuda alla finestra di fronte (la sua futura moglie). La cosa interessante sta nel fatto che entrambe le ragazze sanno di essere osservate da Dodo e quindi si esibiscono per lui, godono anche loro di questo doppio voyeurismo dove “lui guarda lei che si esibisce per lui” in un continuo gioco di riflessi. Emblematico poi lo scambio di battute fra Dodo e sua moglie: Silvia: Facciamo l’amore Dodo, qui, adesso […] con gli occhi come la prima volta (allude alla scena della finestra sopra riportata)…guardami...[…] toccala…vuoi? Dodo: Preferisco guardare… Nell’ultima scena si vedono Dodo e Silvia allontanarsi lungo un corridoio e dietro di loro una porta aprirsi dove appare il regista. Si può quindi supporre che il famoso “uomo che guarda” non sia in realtà Dodo ma lo stesso Tinto Brass? Come ho detto prima il regista è il primo voyeur in un film. Altro voyeurismo “terapeutico” lo possiamo trovare nel film del 1989 di Steven Soderbergh Sesso, bugie e videotape. Qui un uomo cura la sua impotenza ascoltando le donne che parlano di sesso nelle cassette che realizza con la sua videocamera. Attraverso lo strumento l’uomo costruisce un mondo parallelo dove le donne sono libere di confessarsi perché le loro fantasie rimangono “chiuse” nella videocamera. Il tema del voyeurismo nel cinema, soprattutto quello erotico, fece scalpore fino agli anni ottanta, oggi invece non fa più alcuna impressione dato che lo spettatore è abituato a ben altro. Forse siamo entrati nell’epoca dell’voyeurismo forzato dove si mette in scena qualunque aspetto anche più intimo della nostra vita solo per attirare l’attenzione e nulla ci scandalizza più. Resta il fatto che l’attività voyeuristica è fondamentale al cinema e ancor di più quando sullo schermo appare il corpo erotico di una donna che si esibisce per lo spettatore. È grazie allo sguardo del voyeur che il corpo prende vita, diventa oggetto del desiderio e seduce l’ignaro uomo che lo osserva. La donna quindi ci seduce per quello che appare o per come la percepiamo noi? L’attrazione non è solo figlia del voyeurismo, ma anche di un’altra pratica più radicata nell’inconscio: il feticismo. 12
  • 13. CAPITOLO 2. LA PERVERSIONE DELLO SPETTATORE: IL FETICISMO 2.1 Il feticismo nella psicanalisi Soltanto attraverso alcuni percorsi inconsci lo spettatore può consumare il film, questi sono l’identificazione primaria, il voyeurismo in rapporto con l’esibizionismo e infine il feticismo. Il feticismo e il feticcio, in psicanalisi, sono legati al concetto della castrazione e al timore che essa ispira. La castrazione, per Freud e ancora più per Lacan, è quella della madre: il bambino (ma anche la bambina) che vede il corpo della madre si rende conto che esistono soggetti sprovvisti di pene. Il bambino arriva a questa conclusione dopo molto tempo e qualcosa nel suo inconscio non gli farà mai accettare questa situazione. Il bambino è portato a credere che originariamente gli esseri umani possiedano tutti il pene, e interpreta quindi il corpo della madre come l’effetto di una mutilazione che fa nascere in lui la paura di subire una sorte simile (oppure, nella bambina, a partire da una certa età, la paura di averla già subita). Di fronte a questa rivelazione di mancanza6 (ecco la prima analogia con il cinema), il bambino arriverà alle seguenti conclusioni contraddittorie: tutti gli esseri umani sono provvisti di pene ma alcuni ne sono sprovvisti. Il bambino, terrorizzato da ciò che ha visto sul corpo della madre, fermerà il suo sguardo su ciò che diverrà poi il feticcio: ad esempio su un abito che maschera la terribile scoperta o che la preceda (la biancheria intima femminile, le calze, le scarpe..). Questo attaccamento per il feticcio può essere più o meno pronunciato a seconda dei casi ma resta sempre una forma di rinnegamento della scoperta della castrazione. L’idealizzazione è un mezzo per mascherare l’incapacità di accettare e il feticcio aiuta in questo senso e diverrà infine una condizione più o meno necessaria per il raggiungimento del godimento (anche qui la situazione varia da individuo a individuo). Il feticcio rappresenta sempre il pene, è sempre il suo sostituto, sia per metafora (maschera la sua assenza) che per metonimia (è contiguo al suo posto vuoto). Significa quindi il pene quanto assente, 6 Christian Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, 2002, pag. 85 13
  • 14. colma il vuoto della sua mancanza ma in tal modo conferma anche la consapevolezza di quella mancanza. Attraverso il feticcio si tenta di rinnegare la scoperta e si instaura perché il bambino sa bene che sua madre non ha pene e quindi il feticcio non ha solo una funzione di rinnegamento ma anche di una presa d’atto dell’avvenuta castrazione. Il feticismo come patologia psicologica è la sostituzione del normale oggetto sessuale con un altro non avente alcuna apparente relazione con lo scopo sessuale. L’oggetto equivalente consiste in qualche parte del corpo o qualche oggetto in stretta relazione con la persona che sostituisce e preferibilmente con la sessualità di quella persona. Il feticcio per eccellenza è il piede della donna e le scarpe ad esso correlate. Secondo Freud due sono le motivazioni inconsce che portano a questa idolatria del piede . La prima è che il piede rappresenta il pene mancante della donna, ovvero il bambino traumatizzato dalla scoperta della castrazione si sarebbe soffermato sui piedi perché elemento in comune fra uomo e donna. La seconda motivazione è di origine sensoriale: essendo piedi e capelli oggetti che emanano forti odori, sono stati idealizzati in feticci dopo che la sensazione olfattiva è divenuta sgradevole ed è stata abbandonata. In questo modo vengono spiegate le motivazioni inconsce che portano l’uomo ad essere stimolato alla vista di un paio di scarpe femminili quali i tacchi. 2.2 Il cinema feticcio Analizzando la croyance, che è lo stato di sospensione fra il “credere” e “non credere” a ciò che si sta vedendo necessario nella fruizione di un film, non si può non notare l’assomiglianza con il “credo, non credo” inconscio che ha aiutato il bambino a superare il trauma della castrazione. Il film rimanda ad una cosa che non esiste ma che è esistita, lo spettatore accetta la finzione del film e la percepisce come reale ma in fondo sa che è finzione. A questo punto è chiaro che tutto l’apparato filmico è un feticcio: il cinema è un’esibizione che accusa e sottolinea la mancanza su cui si fonda tutto il dispositivo, ma al contempo cerca di far dimenticare quell’assenza. Lo spettatore feticista gode nel perdersi in questo gioco di negazione intinto di perversione voyeuristica. 14
  • 15. A questo proposito Lacan dice che quello che il voyeur cerca e trova al cinema è un’ombra dietro la tenda: non cerca un fallo ma la sua assenza7 . Grazie al feticcio che ricopre la ferita, che diventa esso stesso erogeno, l’intero oggetto torna ad essere desiderabile senza troppe paure. In modo simile l’intera istituzione cinematografica è come ricoperta da un velo sottile onnipresente che la rende desiderabile allo sguardo voyeuristico dello spettatore. Il feticismo non interviene solo nella costituzione del significante ma anche nel linguaggio cinematografico, basti pensare alle inquadrature e a certi movimenti di macchina. Soprattutto nel cinema erotico si gioca sui limiti dell’inquadratura e sullo svelamento progressivo, eventualmente incompleto, grazie al movimento della macchina da presa. Come il bambino e il rapporto con il feticcio il quale nasconde ciò che sta dietro. Lo scopo è quello di eccitare il desiderio e contemporaneamente di impedirlo (e quindi di alimentarlo) facendo scorrere lo sguardo sulla linea di un confine labile e incerto. Il linguaggio cinematografico con i suoi rinvii e i suoi rilanci non riguarda solo il cinema erotico ma anche la semplice rappresentazione della suspense. Il cinema attua in continuazione uno streap-tease di sé stesso svelando e nascondendo l’immagine fonte di desiderio. 2.3 Il feticcio nel cinema erotico Il linguaggio cinematografico nel cinema erotico si caratterizza per l’uso del piano medio (si consideri, al contrario, che nel genere pornografico viene prediletto il primo piano). Questa scelta stilistica viene impiegata con l’unico effetto di sottolineare il desiderio, l’organo sessuale fonte di eccitazione viene celato, suggerito (teniamo presente che ci sono sempre le eccezioni). L’occhio vaga nell’inquadratura stimolato dalla presenza nascosta della sua fonte d’eccitazione, ma non viene soddisfatto e per questo continua a nutrirsi del suo stesso desidero di appagarsi. A tenere alta la tensione di questo desiderio che consuma l’occhio voyeurista dello spettatore, ci sono i feticci (in questa tesi verranno prese in esame le donne del cinema, ma ciò non toglie che anche per gli uomini si possa fare un discorso 7 J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, pag. 769 15
  • 16. analogo). Il corpo di una donna mostrato solo parzialmente, l’ostacolo di una coscia chiusa, la biancheria intima, l’angolazione di un’inquadratura sono solo alcuni degli stratagemmi per celare l’organo sessuale femminile. In tal modo l’organo del piacere è estromesso e contemporaneamente suggerito come fulcro del piacere. Il feticcio nel cinema erotico esclude lo spettatore dalla scena, a differenza del film pornografico dove tutto viene mostrato, nel film erotico lo spettatore è alla costante attesa di soddisfarsi e il film fa di tutto per nascondergli l’oggetto del desiderio. A questo punto è necessario esplicitare il principio lacaniano del manque. Le immagini sono cariche di simboli e l’organo maschile riveste un ruolo simbolico: è un significante, il significante fondamentale dell’inconscio. Quindi ogni immagine è un feticcio riconducibile ad un simbolismo fallico e nel cinema erotico la pratica del mascherare il fallo è assai più sofisticata che nel cinema pornografico dove tutto viene mostrato senza filtri simbolici. Il desiderio è difficile se non impossibile da rappresentare al cinema e quindi non può essere messo in scena come tale. Il desiderio viene filtrato attraverso il linguaggio cinematografico, la pulsione libidica viene adattata al discorso filmico e tradotta in una nuova lingua. Il cinema erotico non libera le pulsioni, bensì le simbolizza, non vengono rappresentati direttamente gli oggetti del desiderio ma si cerca di stimolare lo spettatore e questo desiderio si basa sulla privazione dello stesso perché altrimenti, soddisfandolo, lo uccideremmo. La fruizione del desiderio nello spettatore avviene attraverso il suo occhio voyeurista e feticista che si appropria del godimento in forme sostitutive simboliche offerte dal film. La libido passa attraverso gli occhi e lo spettatore viene proiettato in uno stato di immobilità e impotenza alla pari della scena primaria esplicitata da Freud. In conclusione è proprio chi guarda a restare spiazzato rispetto a ciò che guarda, a trovarsi tagliato fuori, ma al contempo l’illusione filmica fa in modo che lo spettatore si illuda di far parte di ciò che accade all’interno dello schermo. Come afferma Baudrillard8 “ciò che ci affascina non è la nostra inclusione in un’opera, bensì l’esclusione da essa”. 2.4 Il corpo nel film erotico 8 Jean Baudrillard, Della seduzione, SE, Milano, 1997, pag.34 16
  • 17. Corpo e desiderio sono due entità inscindibili, una fisica e l’altra emozionale. È impossibile come ho detto prima rappresentare il desiderio allo stato puro senza una fisicità e quindi è impensabile rappresentare il corpo come “innocente”. Il corpo filmico diventa il messaggero attraverso il quale il film trasmette le emozioni allo spettatore che le elaborerà nella sua mente. Jan Kott afferma che “determinate esperienze sessuali si ricordano a distanza di anni. Tuttavia esse ritornano come memoria nei polpastrelli, come tatto, non come discorso. Questo è sperimentabile attraverso la fisicità dell’immagine filmica. Un corpo ricorda un altro corpo che gli ha procurato un intenso piacere fisico. La conoscenza carnale si riduce al corpo, ma è anche qualcosa di più del corpo” 9 . La memoria, nel ricordare le emozioni fisiche, fa ricorso non solo ai ricordi ma anche ad associazioni fisiche, si comprende allora che non sarà mai possibile rappresentare il desiderio erotico in un’immagine pura, se per pura intendiamo l’assenza di fisicità. Il corpo è protagonista e messaggero del desiderio sessuale e della sua consumazione. Nel cinema pornografico il corpo viene frammentato e ridotto ad un ”corpo-lavoro”10 , si estremizza l’aspetto fisico enfatizzando la corporeità, scomponendo l’essere umano in una molteplicità di dettagli anatomici nudi e crudi impegnati a consumare un atto sessuale più fisico che emozionale. Totalmente assente poi è la psicologia del personaggio, fattore importante invece nella costruzione del desiderio nel film erotico. Nel genere erotico il corpo è sempre importante ma costruito con un linguaggio diverso più attento alla psicologia e volto a suggerire piuttosto che mostrare. Secondo le teorie di Lacan il corpo della donna nel cinema è investito come corpo fallico ed è alienazione/proiezione del desiderio maschile. Il corpo della donna è iscritto nei meccanismi della esibizione fallica e soprattutto nel film erotico si cerca di “esorcizzare” la fisicità nascondendola con diverse pratiche. È giusto ricordare che questa teoria è stata motivo di tante polemiche soprattutto in ambito femminista. Il corpo della donna erotica è quindi un corpo fallico e feticcio. Nei film si ha la tendenza a caricare ogni singola parte del corpo femminile di simbolismi fino a 9 Jan Kott, Eros e thanatos, Milano, 1982, pag.17 10 Roberto Nepoti, Cinema porno erotico: le pratiche del dispiacere, BN, Roma, 1978, pag. 42 17
  • 18. rendere questo pezzo di corpo un totem. Basti pensare all’ossessione per le gambe e le giarrettiere di Laura Antonelli nel film Malizia. Non esiste parte del corpo femminile che non sia erotico, dai capelli ai piedi tutto può diventare feticcio compresi anche aspetti immateriali quali la voce e il profumo. Da qui nascono i dibattiti sulla visione maschilista della donna concepita come un collage di pezzi tutti volti al soddisfacimento del desiderio maschile. 2.5 Il corpo vestito: l’abito feticcio Perché le bretelle di Charlotte Rampling, le calze di Laura Antonelli, gli occhiali e il lecca lecca della ragazzina/femme fatal Lolita, i guanti di Gilda e i capelli biondi di Marilyn, sono delle immagini così cariche di erotismo? La donna nel cinema erotico è un corpo feticcio non solo fisicamente ma anche negli abiti e negli accessori che indossa. Le motivazioni fondamentali che stanno alla base dell’abbigliamento sono tre: la decorazione, il pudore e la protezione. Il conflitto fra decorazione e pudore costituiscono il punto chiave della psicologia del vestire: anche l’abito è un compromesso tra impulsi inconsci in conflitto. Le vesti accrescono l’attrazione sessuale e lo spostamento dell’erotismo dal corpo all’abbigliamento fa di questo un simbolo sessuale. La teoria delle zone erogene mutevoli analizza i cambiamenti culturali delle focalizzazioni erotiche sul corpo. Il fatto, ad esempio, che a volte sia la schiena, a volte le gambe, la scollatura, la nuca o il piede a provocare il desiderio erotico maschile per il corpo femminile, dimostrerebbe come le forme dell’abito nelle diverse culture e periodi storici abbiano questa valenza fondamentalmente sessuale, e come i cambiamenti delle zone erogene del corpo femminile servirebbero a mantenere vivo il desiderio maschile che altrimenti si esaurirebbe. Per Flügel11 l’aspetto erotico e sessuale nel vestire è molto evidente soprattutto nella moda. La donna usa la moda per attrarre a sé l’uomo e per competere con le altre donne. Molti capi sono dei feticci perché rappresentano gli organi sessuali: la cravatta, il cappello, il colletto, il cappotto e i pantaloni sono simboli fallici mentre la scarpa, la 11 Flügel, Psicologia dell’abbigliamento, F. Angeli, 2000, pag. 98 18
  • 19. giarrettiera e i gioielli sono simboli femminili. La donna è sempre mascherata, si serve della maschera per mostrare ciò che non ha (il pene) e l’abito è suo alleato. Per Lemoine-Luccioni12 la funzione del vestito è quella di essere “la bandiera del sesso”. L’abito quindi è visto come pelle simbolica nella vita reale, e ancora di più nel film erotico dove tutto viene accentuato per raccontare il desiderio. Non esiste immagine erotica della donna che non indossi o assuma posizioni strategiche per coprire le parti di sé più intime (anche se prendiamo ad esempio un nudo che copre le zone erogene con la mano, questa stessa mano possiamo considerarla una specie di abito che nasconde). La donna che non si copre casca irrimediabilmente nel pornografico, quindi l’abito o l’accessorio sono elementi fondamentali per la donna erotica. Giocare con gli abiti come Gilda con il guanto o Kim Basinger nel famoso spogliarello in 9 settimane e ½, è una costante nella figura erotica femminile, la donna sa di essere desiderabile e desiderata sia nel film che nel buio della sala e i vestiti o gli accessori feticci sono complici di questa maschera. Basti pensare alla sigaretta, accessorio spesso visto fra le dita di bellissime donne provocanti: dalle dita di Gilda, di Marlene Dietrich e di Sharon Stone che nella famosissima scena di Basic Instinct accavalla le gambe con una sigaretta accesa in mano. 2.6 Il corpo teatralizzato Secondo Roland Barthes “la passione è fatta per essere vista” 13 . Il film quindi è il miglior mezzo per rappresentare le emozioni. Attraverso la struttura dei generi lo spettatore viene orientato nella comprensione del film e soprattutto delle emozioni. Il linguaggio cinematografico avvicina lo spettatore al film e favorisce il sorgere delle emozioni (i primi piani per esempio) ed anche l’aspetto sonoro fa la sua parte. La nascita delle emozioni e della passione nel film erotico sono frutto di dispositivi stereotipati mediante i quali lo spettatore riesce a leggere e a condividere emotivamente il film. La passione viene percepita attraverso il visivo e ciò è possibile perché esistono delle pre-condizioni che permettono al discorso di essere compreso. Esiste quindi un 12 Lemoine-Luccioni, Psicoanalisi della moda, Mondadori, 2002, pag. 56 13 Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2002, pag 23 19
  • 20. archivio visuale dal quale lo spettatore attinge le immagini e le associa a situazioni emozionali. Mettere in scena la passione, il desiderio e la seduzione, vorrebbe dire praticare una sorta di “archeologia del visivo”14 : è attraverso questo archivio preesistente che associamo l’immagine alle emozioni. Maurizio Regosa parla del procedimento del corpo teatralizzato in contrapposizione a quello quotidiano. Un corpo teatralizzato e cerimoniale è un corpo non quotidiano, è un’ombra sulla quale si proiettano simbolismi: “il corpo teatralizzato può assumere valore in quanto oggetto investito semanticamente dalla passione” 15 . Il corpo quindi rappresenta l’oggetto dal quale tutti gli uomini si sentono attratti, cui tutti vorrebbero essere congiunti: ma è soltanto un oggetto, ed è lo spettatore che da vita alla sua aura di passione guardandolo. La seduzione dell’oggetto del desiderio nasce dagli occhi e dalla mente di chi lo guarda. 2.7 La seduzione fra musica, ballo e canto Il rapporto fra musica e narrazione è molto stretto e importante soprattutto nei film dove i sentimenti, il pathos, e talvolta lo svolgimento dell’azione stessa è determinato da questa componente. La musica è un elemento presente praticamente in tutti i film e aiuta lo spettatore ad orientarsi nelle emozioni che vengono raccontate sullo schermo e a farlo sentire ancora più partecipe. Molte scene sarebbero impensabili senza la colonna sonora in sottofondo, la musica è ovviamente un elemento irreale che però è presente anche nei film che mettono in scena storie reali. “Il materiale sonoro è in grado di esprimere un significato, cioè di conferire alla scena una dimensione semantica”16 . Se la situazione rappresentata viene investita di significato semantico grazie alla musica, è vero anche il discorso inverso ovvero che è anche la scena stessa a conferire un significato alla musica in sottofondo. La musica è un linguaggio metaforico che ha un potere superiore di quello parlato e che presenta delle forme logiche e delle somiglianze con la nostra vita emotiva: “la musica è una 14 Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1999, pag 173 15 Maurizio Regosa, Una rappresentazione della passione: L’angelo azzurro in Il sorriso di Dionisio, Alinea, Milano, 2002, pag. 50 16 Mauro Mancia, Riflessioni psicoanalitiche sul linguaggio musicale, in Il sorriso di Dionisio, Alinea, Milano, 2002, pag. 126 20
  • 21. forma che riflette la forma dei nostri sentimenti con un significato che può essere colto solo intuitivamente. La musica fonda il suo potere poietico sulla interpretazione, che è anche lo strumento principe della psicoanalisi: ambedue le interpretazioni (quella musicale e quella analitica) consentono di rivelare quello che a prima vista non sta scritto nello spartito o nella narrazione del paziente.”17 Sin dall’infanzia il bambino inizia ad orientarsi nella comprensione dei suoni e della musica; complessi sono inoltre i processi che portano il bambino a comprendere il ritmo degli stimoli esterni e a riconoscerli, ma saranno proprio questi processi psichici che iniziano già durante la gestazione, che gli premetteranno di associare la musica ad una situazione emotiva. “In particolare, l’esperienza ritmica uditiva sarà essenziale per lo sviluppo delle funzioni psichiche che parteciperanno alla formazione della categoria mentale deputata alla definizione del bello. La ritmicità è uno degli elementi essenziali del concetto del bello in ogni forma d’arte.”18 . La musica è una forma di comunicazione che va dal mentale verso il sensoriale, dalla mente viene percepita e associata a un’emozione ed è per questo che possiamo intendere la musica come un’interpretazione dei sentimenti, che attraverso il suo linguaggio interpreta le emozioni e mette ordine nel caos delle sensazioni. Quindi la musica viene percepita dall’esterno per essere elaborata nell’inconscio ed associata a situazioni a noi conosciute ed emozionali. È attraverso questo complesso processo psichico e psicologico che si forma nei primi anni di vita, che la musica nei film ha un ruolo importante. “La musica implica un’esperienza proiettiva che si collega allo stato in cui si trovano i nostri oggetti interni: dei e demoni del nostro universo mentale”. La musica nelle scene erotiche ha molta importanza perché aiuta a mettere in scena qualcosa che solo con le immagini è difficile da trasmettere allo spettatore, la musica sa esprimere nella sua impalpabilità proprio quei sentimenti e quelle sensazioni che sfuggono alle definizioni razionali e verbali. Le scene in cui le dive del sex-appeal mettono in atto tutto il loro fascino sono molto spesso associate ad esibizioni canore, danze o streap-tease al suono di qualche melodia divenuta poi famosa e spesso associata alla stessa scena, basti pensare allo spogliarello di Kim Basinger con “You Can Leave Your Hat On” di Joe Cocker. Le canzoni in questi casi svolgono il 17 Ibidem 18 Ibidem 21
  • 22. compito di ammaliare lo spettatore e di accrescere la carica erotica della donna. Molte altre donne fatali dello schermo, che fanno impazzire gli uomini e li seducono, affidano ad una canzone le definizione del loro personaggio. Da Marlene Dietrich cantando ne L’angelo azzurro, passando per Rita Hayworth con “Put the Blame on Me” e “Amado mio”, le innumerevoli esibizioni canore di Marilyn Monroe, i balli delle dive italiane del Neorealismo, gli spogliarelli della già citata Kim Basinger e di Sophia Loren al suono di “Abat-jour” e altre innumerevoli scene si potrebbero citare e l’elenco sarebbe pressoché infinito. Anche nell’ambito dei cartoon molte sono le figure erotiche disegnate sulla carta che ballano e seducono con danze e canzoncine: da Betty Boop figlia della scuderia Fleischer che negli anni Trenta con i suoi grandi occhi, la piccola bocca tirabaci e l’abito succinto ballava e canticchiava facendo scandalo fino ad essere censurata e ridisegnata come una casalinga modello. Poi negli anni Quaranta/Cinquanta arrivò, grazie alla matita di Tex Avery, un’altra pupa dai capelli rossi il cui compito era quello di sconvolgere la vita di un lupo erotomane con danze e canzoni conturbanti. Fino alla fine degli anni Ottanta dove una nipote di Rita Hayworth ispirata a Gilda, fece il suo ingesso cantando “Why don't you do right”: la rossissima Jessica Rabbit. La seduzione quindi non arriva allo spettatore soltanto attraverso l’immagine ma anche grazie attraverso “l’incantesimo” della musica (“l’in-canto dal latino in- cantare, ossia ammaliare, affascinare, sedurre e consacrare per mezzo di incantesimi”19 ).che si insinua nella nostra mente ed anche nella nostra psiche più inconscia. La danza, disciplina antichissima eseguita a ritmo di musica, è un insieme di movimenti del corpo umano eseguiti a fini espressivi o di comunicazione, talvolta secondo schemi prefissati. Ha numerosissime funzioni da quelle rituali a quelle di svago ma soprattutto può anche essere utilizzata come rituale del corteggiamento. I movimenti del corpo a ritmo di musica, lanciano segnali non verbali comprensibili in ogni Paese, esempio emblematico è il tango per l’evidente allusione all’atto sessuale: la coppia danza infatti abbracciata, solitamente guancia a guancia, molto unita nella parte superiore del corpo, mentre la parte inferiore esegue una serie di passi e figure in cui sovente le gambe e i bacini finiscono con l’essere a stretto contatto. Nel regno 19 Ermanno Comuzio, La musica nel film erotico, in Il sorriso di Dionisio, Alinea, Milano, 2002, pag. 136 22
  • 23. animale il corteggiamento viene eseguito attraverso l’esibizione della propria prestanza fisica attraverso una serie di segnali e movimenti che vengono percepiti dal partner come una disponibilità all’accoppiamento. L’uomo non è sicuramente da meno e ovviamente i modi per comunicare il proprio desiderio sono diversi. Al cinema la danza viene usata per trasmettere messaggi di corteggiamento e spesso è accompagnata anche da esibizioni canore. Molta importanza hanno quindi quelle scene in cui le dive si cimentano in balli o canti perché è anche grazie a quelle che riescono a sedurre lo spettatore. CAPITOLO 3. LA SEDUZIONE NEI PRIMI DECENNI DEL NOVECENTO 23
  • 24. 3.1 La nascita dello star system Il corpo dell’attrice è al centro dell’erotismo cinematografico sin dai tempi del muto ma la figura femminile (intesa come attrice) resta anonima fino quasi agli anni Dieci. Poca importanza viene conferita alle personalità delle interpreti i cui nomi spesso restano sconosciuti al pubblico in sala. È a partire dagli anni Dieci e soprattutto Venti, che prende forma il fenomeno del divismo attraverso il quale si possono trasformare le donne sullo schermo in esseri misteriosi, erotici e attraenti grazie alle potenzialità del cinema. Il divismo nasce grazie all'intensa collaborazione tra cinema e gli altri mass media (giornali, riviste, radio). La diffusione capillare di un film di successo rendeva gli attori popolari davanti a un pubblico straordinariamente vasto. Il fenomeno del divismo prende forma soprattutto dalla serializzazione dei personaggi e dall'identità tra immagine sullo schermo e immagine reale: ciò permette la riconoscibilità da parte del pubblico che si sente legato e riversa affetto e ammirazione sul personaggio. Un divo è qualcosa di diverso dall'attore: l'attore può recitare molte parti diverse, mentre un divo è essenzialmente un prodotto legato alla propria immagine, che quindi ripete sempre un medesimo modello nelle varie pellicole. Negli anni Venti l'industria hollywoodiana decise di puntare con forza sul divismo che divenne il cardine del sistema produttivo. Un film veniva di solito ideato espressamente per un volto o per un personaggio e le case di produzione tenevano sotto contratto molti giovani attori fisicamente attraenti che venivano fatti diventare famosi e poi se ne sfruttava l'immagine in una serie di film appositamente creati. I divi degli anni Venti e dei primi anni Trenta erano molto conturbanti e trasgressivi, spesso dai tratti esotici, come l’italiano Rodolfo Valentino, la svedese Greta Garbo o la tedesca Marlene Dietrich. I divi suscitavano deliri di folla feticista: il divo sullo schermo, etereo e soprannaturale, era ormai un'immagine del tutto separata dalla persona in carne ed ossa che recitava e lavorava come le persone nomali. Il primo piano è il momento cruciale della costruzione del divo: il suo volto è lo specchio dei valori psicologici del personaggio e genera nello spettatore una vicinanza mentale, 24
  • 25. investendolo di pulsioni e significati affettivi, in una sorta di identificazione gratificante. 3.2 Femmes fatale e “femme fragile” Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’immagine femminile era largamente usata per diversi fini estetici, dall’arte alla pubblicità. Stava iniziando ad affermarsi un concetto moderno di femminilità legato al consumismo e alla vita urbana. Le attrici e le cortigiane rappresentavano questo nuovo tipo di femminilità e figure come la danzatrice Bella Otero divennero ben presto immagine di eleganza e sensualità. Se fino all’Ottocento la figura erotica della donna era associata a signorine di una certa classe sociale, in questo periodo il fascino erotico delle attrici e delle ballerine stava iniziando ad avere più successo. Le interpreti teatrali dei cafè chantants e dei cabaret erano viste come donne libere, moderne e soprattutto disponibili sessualmente. Vestite in modo appariscente e provocante, lasciando scoperte spalle, braccia e collo, suggerivano ciò che non si poteva far vedere: il corpo nudo. Durante i primi decenni del Novecento i mass media, soprattutto il cinema e la stampa, proponevano ideali di bellezza come il fenomeno della ragazza sbarazzina o garçonne, moderna e consumista. Inizia a farsi largo soprattutto al cinema lo stereotipo della femme fatale, la donna che considera l’uomo nemico e che mira al potere rifiutando ogni convenzione usando la sua forte attrattiva erotica nei confronti dell’altro sesso. Nascono in questo periodo le prime star dell’erotismo fra cui Mae West e per i cartoni animati Betty Boop. Il fenomeno si evolse fino a sfociare nel cosiddetto star system in cui sesso e divismo erano spesso associati e spogliarsi era diventato un valido sistema per promuovere i film. Nike Wagner scrive che la donna come figura erotica di inizio secolo “appare distinta in due categorie abbastanza costanti: la “femme fragile” e la femme fatale”20 . L’esorcizzazione del sesso attraverso la rappresentazione di una “femme fragile” o attraverso l’aggressività della femme fatale serve a sdrammatizzare la carica erotica che la donna porta con sé. La donna ricondotta all’età infantile non può suscitare alcuna paura e, d’altra parte, 20 Nike Wagner, Spirito e sesso. La donna e l’erotismo nella Vienna fin dè siècle, Torino, Einaudi, 1990, pag. 40 25
  • 26. lasciarsi sopraffare da una donna erotica forte giustifica l’uomo perché è la donna che lo seduce, lo spettatore ne è soltanto l’ignara vittima. Possiamo quindi introdurre due grandi figure erotiche del periodo: la “femme fragile” Louise Brooks e la femme fatale Marlene Dietrich. 3.3 Louise Brooks 26
  • 27. “Chi di fronte a queste labbra piene e fiorenti, a questi grandi occhi innocenti di bambina, allo splendore di questo corpo bianco e rosato, non si sente scosso nella sua sicurezza borghese, scagli la prima pietra.” Frank Wedekind21 Louise Brooks interpretò il film di Georg Wilhelm Pabst Lulù, il vaso di Pandora nel 1928. È una giovane femme fatale dei bassifondi che desidera lavorare nei cabaret e che usa gli uomini per raggiungere i suoi scopi senza scrupoli. Un viso dolce e apparentemente innocente, incorniciato dal famosissimo caschetto nero, nasconde in realtà una donna perversa capace di sedurre e uccidere. L’attrice americana in questo film muto dà il meglio di sé interpretano l’erotismo attraverso il linguaggio del corpo ma soprattutto grazie all’espressività del suo sguardo intenso. La figura erotica di Lulù si basa sulla contrapposizione di situazioni quotidiane e ludiche e posture da femme fatale. Lulù gioca a fare la bambina sedendosi sulle ginocchia del suo protettore facendo l’ingenua ragazzina, ma al contempo è cosciente del suo potere sugli uomini e si atteggia da donna sofisticata. Il fascino del personaggio sta proprio in questo alternarsi di atteggiamenti che grazie 21 Frank Wedekind, Il vaso di Pandora, Adlephi, Milano, 1992, pag.189 27
  • 28. all’espressività facciale rendono Lulù una delle donne più eroticamente controverse del cinema. La mancanza della parola (il film è muto) fa si che Louise Brooks dia il meglio del suo fascino giocando con il corpo dando vita ad un personaggio che riesce ad essere talvolta meschino (uccide il marito dopo averlo tradito e umiliato), ma al contempo lo spettatore non riuscirà ad odiarla e forse si commuoverà di fronte alla sua tragica morte. Lulù è una ballerina ma in realtà sembra danzare anche quando semplicemente si alza da una sedia. Il suo camminare è un ballo ammaliatore in ogni movimento, compreso l’ondeggiamento del caschetto. Il momento in cui Lulù dà il meglio della propria capacità di sedurre è quando si rifiuta di andare in scena perché fra gli spettatori c’è la fidanzata del suo amante Schön che è anche il produttore dello spettacolo. Lulù alla vista della donna in sala si arrabbia, protesta con Schön, il suo caschetto nero si agita con i movimenti della testa e alla fine la protagonista si fa accompagnare dall’amato in una stanzetta nel retroscena. Lì Schön cerca di farla ragionare, intanto fuori della porta un collaboratore incita la ballerina ad entrare in scena. Spazientito apre la porta e trova i due amanti in una situazione compromettente anche se in realtà Schön ha messo le mani addosso a Lulù per convincerla ad esibirsi. Il collaboratore richiude la porta e il aspetta ansioso. Intanto Lulù non cambia idea e l’uomo le stringe gli avambracci e la scuote. Una breve in quadratura riprendere i seni della ragazza che attraverso la scollatura si muovono scossi dalla presa dell’amante. Lulù cerca di divincolarsi, la mimica facciale ma soprattutto i neri capelli che si muovono sparpagliati nell’inquadratura la fanno sembrare una sensualissima bambina ribelle. Lulù si getta al suolo prona e inizia a piangere, probabilmente sta fingendo per corrompere Schön e con i tacchi dà dei piccoli calcetti ai polpacci dell’amato che, abbattuto, si siede accanto a lei ridendo e, arresosi alla tenace ragazza, si lascia percuotere. Nel bel mezzo della scherzosa colluttazione, il figlio di Schön, accompagnato dalla fidanzata di Schön, sorprendono Lulù e l’uomo abbracciati e Schön, per evitare lo scandalo, sarà costretto a sposare la protagonista. Lulù a questo punto si scoglie dalla morsa di Schön, si alza sorridendo maliziosamente e si sistema il costume. Lulù ha avuto ciò che voleva, la femme fatale può correre raggiante sul palcoscenico per il balletto. Il regista descrive il corpo di Lulù come un insieme di atteggiamenti tutti mirati a far cadere Schön nella rete della giovane ballerina. Lulù sa di essere provocante quando 28
  • 29. si arrabbia e si ribella alle percosse dell’uomo e infatti appena ne ha l’occasione si lascia cadere a terra e istiga l’amato calciando i suoi polpacci con i lunghi tacchi. Schön non può proprio resistere ai capricci di Lulù e alla tentazione di toccare quella pelle chiara che brilla incorniciata dal frizzante caschetto nero. E alla fine Lulù avrà più di quanto sperava: Schön incastrato dalla situazione compromettente la dovrà sposare. Lulù ha ispirato Sternberg nella costruzione del corpo erotico di Marlene Dietrich nel film L’angelo azzurro. Lola, la protagonista del film di Sternberg, si chiama così proprio in omaggio a Lulù. Elemento che accomuna la bionda Marlene alla nerissima Louise, è che in entrambe il film si gioca sulla rappresentazione del corpo quotidiano e di quello teatralizzato. A Louise Brooks si ispirerà inoltre Guido Crepax per la sua celebre Valentina, protagonista di una serie di fumetti erotici. 3.4 Marlene Dietrich 29
  • 30. “Chiunque sia stato sedotto voleva esserlo” Marlene Dietrich22 Marlene Dietrich venne lanciata come figura erotica dal film L’angelo azzurro, diretto da Josef von Sternberg nel 1930. Abbigliata sulla scena con un boa di piume, capello a cilindro, calze e giarrettiere nere, Marlene porta l’immagine della femme fatale all’apice della sua crudeltà. Nel film un insegnate della piccola borghesia, pieno di sani principi, si lascerà sedurre da lei fino al punto di seguirla nei suoi tour e farle da schiavo sopportando umiliazioni di ogni genere. La vicenda si concluderà con la sua morte e con un tacito ammonimento a prestare attenzione a non farsi sedurre troppo da queste donne senza scrupoli. Marlene Dietrich si ricorda per quella scena in cui canta la canzone di Friedrich Hollaender che recita: "Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt, denn das ist meine Welt, und sonst get nichts”23 guardando il professore seduto nel palchetto degli ospiti d’onore. È in questo momento che Lola si siede su un barile e solleva la gamba destra che cinge con le braccia prendendo quella postura che tutti 22 Marlene Dietrich, Dizionario di buone maniere e cattivi pensieri, a cura di F. Di Giammatteo, Editori Riuniti, Roma, 1996, pag. 147 23 “Sono dalla testa ai piedi infusa d’amore, poiché questo è il mio mondo, e all’infuori di questo non c’è altro" 30
  • 31. rammentano. Il volto è tutto rivolto a sinistra, con sguardo provocante guarda il professore e gli dedica il ritornello della canzone. Lui la guarda dall’alto del palco d’onore compiaciuto e inizialmente imbarazzato per l’esplicita dedica. Tutta la platea osserva lo spettacolo mangiando con gli occhi la ballerina. L’esibizione continua con Lola sempre seduta sul barile che gioca con le gambe e le braccia divaricandole e rivolgendole verso l’uomo il quale si emoziona sempre di più. Per tutta la canzone si alternano inquadrature di Lola e del professore impegnati in una sorta di conversazione non verbale tutta basata su sguardi e movenze, con la voce magica e dura di Marlene. Alla fine l’uomo si ritroverà completamente rapito da Lola. La scena dell’esibizione si chiude e nell’inquadratura successiva si vede il professore steso a letto. Una breve inquadratura di un uccello in gabbia ci fa capire la situazione (il professore è in gabbia, Lola l’ha sedotto e rinchiuso nel suo harem). Poco dopo appare la donna in vestaglia: Lola è riuscito a conquistarlo ed hanno passato la notte assieme. I due si sposeranno e dopo il fatidico “Sì”, Lola inizierà ad essere scontrosa ed approfittatrice con il marito il quale arriverà a dichiarare che “È meglio crepare che continuare con questa vita”. La terribile donna lo sfrutta, inizia ad essere rappresentata come una volgare ballerina senza un minimo di classe o sensibilità e questa immagine continuerà a peggiorare fino alla fine del film. Marlene vestirà quasi sempre costumi di scena provocanti, reggicalze, body, scarpe col tacco e lunghe vestaglie aperte con pizzi e lustrini. Il regista costruisce le varie scene e i corpi creando un’atmosfera di costante insoddisfazione, la fisicità della Dietrich viene esaltata al massimo come lei stessa dichiarerà: “Sul set giravano contemporaneamente quattro macchine da presa, tutte puntate (almeno così mi pareva) sull’inforcatura delle mie gambe (e lo dico con il più profondo disgusto). Ed era davvero così. Ogni volta che toccava a me, dovevo alzare una gamba, la sinistra o la destra, e le macchine da presa non cessavano di concentrarsi sul mio corpo.”24 Un’attenzione maniacale è riposta nella rappresentazione del corpo di Lola, soprattutto nelle posture che fa assumere al personaggio di cui la più famosa che ho già citato, dove la protagonista, durante l’esibizione, è seduta su un barile con le gambe accavallate e lo sguardo provocante. 24 Gian Enrico Rusconi, Donne e moderno. Mode, immagini, strategie femminili in Germania dall’inizio del secolo agli anni Trenta, Electa, Milano, 1991, pag.72 31
  • 32. È attraverso questo modo di rappresentare il personaggio che il regista cerca di trasmettere nello spettatore la carica erotica di Lola; Marlene Dietrich appare quindi come un corpo teatralizzato, non quotidiano, un corpo cerimoniale. Le sue posture sono del tutto innaturali: Lola ha l’atteggiamento di sfida e al contempo di esibizione orgogliosa della bellezza. Questa postura cozza con l’idea di una postura quotidiana ovvero di un atteggiamento normale di una donna comune e la scelta di forgiare Lola così sta a significare proprio la sua invincibilità come femme fatale. Lola è desiderio, il suo corpo, le sue battute fanno di lei una donna seducente, cinica, sicura di essere superiore al genere maschile ma soprattutto cosciente di questo suo potere. Se Lulù aveva un’anima dolce, Lola è l’essenza della terribile femme fatale. CAPITOLO 4. GLI ANNI DELLA SEDUZIONE HOLLYWOODIANA 4.1 Gli anni d’oro dello star system 32
  • 33. Tra il 1927 e il 1929 l'industria cinematografica subì due cambiamenti epocali che l'avrebbero profondamente modificata: uno tecnologico ovvero l'avvento del sonoro e la crisi del 1929 che cambiò completamente la società. Avvenne in questo periodo un rinnovamento nella scelta dei nuovi divi: mentre quelli del periodo muto andavano lentamente scomparendo, il New Deal impose una visione ottimistica alla produzione cinematografica e i nuovi attori incarnavano figure più realistiche, non così diverse dalla gente comune e, dopo l'introduzione del Codice Hays, meno trasgressive e più disciplinate. Il passaggio avvenne con il declino dei precedenti attori corrotti e con il successo dei nuovi giovani provenienti dalla provincia che conquistavano la celebrità grazie alla loro fortuna e rettitudine morale. Le diverse case di produzione americane, le Major come RKO, Universal, Columbia, MGM, si specializzarono ognuna in generi cinematografici differenti e proponevano prodotti mirati per fasce di pubblico. Anche per la scelta degli attori il sistema era il medesimo: i divi erano legati alle case di produzione da contratti a lungo termine che li obbligavano ad interpretare solo un genere cinematografico o un ruolo con i quali venivano poi subito identificati dal pubblico e inoltre erano tenuti a mantenere le caratteristiche del personaggio anche nella vita reale. Tutto questo era organizzato per gli spettatori che si affezionavano agli attori e si recavano al cinema soltanto per vedere il divo o diva del momento prestando meno interesse per il film nel suo complesso. Gli attori in questo periodo divennero veri e propri prodotti industriali forgiati dalle case cinematografiche. Modelli di vita a cui ispirarsi e per le dive cinematografiche anche modelli erotici, simboli e miti irraggiungibili quasi immortali. 4.2 Il corpo fallico hollywoodiano Negli anni Trenta e Quaranta i costumi erano cambiati soprattutto in America dove aveva fatto capolino il codice Hays e togliersi i vestiti comportava spesso uno 33
  • 34. scandalo. I produttori americani, con le ali tarpate dal codice, iniziarono a giocare con le allusioni e le metafore per poter mettere in scena le situazioni più scabrose. Dagli anni Cinquanta il nudo divenne un modo per attirare l’attenzione su di sé, generando comunque scandalo, ma senza gravi conseguenze (basti pensare alle fotografie in cui Marilyn Monroe posò nuda per un calendario che, ai tempi, non fecero molto scalpore). Il maggiore veicolo di diffusione della femminilità artificiale e standardizzata era il cinema. Durante la Grande Guerra aveva prodotto una serie di nuove star che avevano esercitato grande influenza come Greta Garbo, Jean Harlow e Joan Crawford. Le star cinematografiche hollywoodiane proponevano un ideale di femminilità scintillante e seducente nonché emancipato ed Hollywood si proponeva come nuovo centro di produzione della bellezza. Molte star del cinema muto erano donne perlopiù distanti e fantastiche, le star americane degli anni Trenta erano più realistiche, fascinose e seducenti. Il cinema hollywoodiano non offriva semplicemente una gamma variegata di tipi femminili, imponendosi come creatore principale degli ideali di bellezza predominanti, ma forniva anche indicazioni alle giovani donne comuni per imitare i suoi modelli e proiettarle verso il consumismo. Intanto una nuova figura femminile si stava per imporre nell’immaginario erotico comune: la pin-up. Schiettamente B. Paris giustificò con queste parole il successo di questo nuovo tipo di donna: “il pubblico del tempo di guerra aveva più bisogno delle lunghe gambe di Betty Grable, molto di più della grande arte di Greta Garbo.”25 Pin-up stava ad indicare una categoria di splendide ragazze, sensuali e affascinanti, e prive di quell'alone di mistero che aveva caratterizzato le dive degli anni Trenta. Erano tipiche bellezze americane, dalle gambe lunghe, seno prorompente e naso all'insù, quindi prosperose ed attraenti ma dallo sguardo sereno, quasi fanciullesco, ed armonioso. Erano delle dive private del classico "divismo": l'ampia diffusione delle loro storie sulle riviste concorse a conferire loro un carattere comune agli occhi del pubblico. Di lì a poco il fenomeno delle pin-up approdò anche al cinema e al teatro attraverso le attrici-ballerine degli spettacoli di genere burlesque e l’immagine della donna pin-up venne largamente usata nei cartelloni pubblicitari. In realtà le pin- up non erano un fenomeno completamente nuovo negli anni Quaranta, ma erano 25 B. Paris, Garbo, Pan, London, 1995, pag. 365 34
  • 35. comunque simbolo della prosperità e della spensieratezza americana. Il passaggio dell’attenzione al cinema dal volto della donna al corpo, in America fu segnato dall’eclissi di Greta Garbo e dall’affermazione della beniamina del periodo bellico, Betty Grable. L’esuberanza fisica segnalava una rottura della rigida gerarchia che contrassegnava il concetto americano di star system. Era ancora valida la regola generale (identificata già alla fine degli anni Cinquanta dal sociologo Edgar Morin26 nel suo studio pionieristico sul divismo cinematografico) che le star mettessero a nudo le proprie anime, mentre le figure di secondo piano dovessero mettere a nudo il proprio corpo. Con le nuove star questa convenzione venne meno, la stessa Marilyn Monroe, come ho già citato prima, si era spogliata e per le dive più anziane come Joan Crawford, si trattava di un deplorevole svilimento degli elementi signorili della star hollywoodiana. L’attenzione dal viso delle attrici (basti pensare all’importanza che esso aveva per la figura erotica di Louise Brooks) si sposta al resto del corpo: è in questo periodo che l’America inizia ad imporre un cinema corporeo, la star diventa il centro attorno al quale ruotano le aspettative erotiche dello spettatore e il corpo diventa merce sottoposto a regole di mercato per essere sempre desiderabile. Il corpo viene costantemente mascherato e rappresentato in altri modi e si parla di corpo fallico. La censura non permetteva di mettere in scena dialoghi o situazioni troppo spinte e l’unico modo era caricare il corpo femminile di simbolismi fallici. Le attrici del periodo fra cui Rita Hayworth e Marilyn Monroe, vestivano abiti particolarmente significativi da questo punto di vista: lunghi guanti, lunghi tubini per non parlare dei dialoghi, specialmente nel film Quando la moglie è in vacanza, dove le allusioni sono così tante che in alcune occasioni è difficile capire cosa sia accaduto realmente fra i due protagonisti. Il codice Hays fu in fondo uno stimolo per i registi a inventare i sistemi più disparati per far arrivare ugualmente i messaggi “sconvenienti” agli spettatori: tutto ciò avvenne attraverso giri di parole, battute e messaggi subliminali, uno fra questi il corpo fallico della diva. 4.3 Rita Hayworth 26 E. Morin, I divi, Garzanti, Milano, 1977 35
  • 36. “There never was a woman like Gilda!”27 La diva che più di ogni altra ha saputo emergere nel periodo dell'immediato dopoguerra è stata Rita Hayworth. Giunta alla celebrità grazie al film Gilda di Charles Vidor (1946), è divenuta nell'immaginario collettivo una figura rappresentativa di un certo tipo di bellezza femminile. La Hayworth veniva definita dal giornale Life come “la dea dell’amore del Ventesimo secolo”. “Ipnotizzava l’attenzione del pubblico dello schermo con una sessualità ambigua astutamente ostentata. Il pubblico era consapevole di non poter essere mai completamente certo del momento in cui avrebbe usato la sua bellezza e la sua aura di desiderio sessuale – in bene o in male – lasciandolo sempre nel dubbio a chiedersi se le sue grazie sarebbero state un mezzo di autogratificazione oppure se le avrebbe donate all’uomo di cui aveva conquistato il cuore.”28 I capelli rosso fiammante ricadenti sulle spalle erano l’emblema della Hayworth e la facevano sembrare una donna disponibile per quanto riservata che fosse. Fu la diva costruita per eccellenza, dotata di una bellezza artefatta, di un’eleganza impeccabile, con un fisico prorompente e un comportamento da vamp ingenua. Pasolini la definì così: “la sua delicata libidine era come un urlo di gioia, un dolce cataclisma che facesse crollare il cinema.”29 27 Slogan del film Gilda 28 G. Ringgold, The films of Rita Hayworth, Citadel, Secaucus, 1974, pag 13 29 P. Pasolini, Amado mio,Garzanti, Milano, 2000, pag. 192 36
  • 37. Il film di Vidor concentra la sua energia erotica nella fatidica sequenza in cui la statuaria Gilda, vestita con il famoso abito da sera, si toglie il lungo guanto nero cantando “Put the Blame on Mame” e facendo sognare un ben più ardito steaptease. La protagonista da il via al suo show nel locale dove lavora il marito, poco dopo un’accesa discussione dove il consorte l’accusa di essere una compagna infedele. Gilda, arrabbiata e delusa, non si perde d’animo e decide di regalarsi a tutto il pubblico vendicandosi così delle accuse subite. La canzone che Gilda intonerà e ballerà è “Put the Blame on Mame” ovvero “Date la colpa a Mame (Madre Natura)”. Il ritornello dice “Put the Blame on Mame, boys! Put the Blame on Me!”30 e in questo caso la protagonista si riferisce a sé stessa rispondendo così in modo provocatorio agli insulti ricevuti dall’amato. Seguita da un occhio di bue, Gilda interpreterà la canzone davanti ai clienti del locale mentre il marito si aggira fra essi preoccupato e adirato. Ad attirare l’attenzione su di sé non c’è soltanto il bellissimo abito nero aderente e i guanti ma anche la sua chioma fluente che fa ondeggiare a ritmo di musica e che purtroppo non si può ammirare a colori, infatti molto famoso era il rosso dei suoi capelli. Gilda sorride compiaciuta, ammicca e verso la fine della canzone inizia a sfilarsi il lungo guanto destro sempre a ritmo di musica. Al suono degli applausi, Gilda si sfila anche l’altro guanto e lo lancia fra il pubblico (è questo uno dei capi d’abbigliamento più feticci del cinema). La platea si anima gridando apprezzamenti ed è a questo punto, dopo aver lanciato anche la collana che portava al collo, che Gilda, toccandosi l’abito, provoca la platea dicendo con un gran sorriso: “Non so aprire la chiusura lampo…Nessuno è disposto ad aiutarmi?”. Due uomini colgono l’occasione e in mezzo all’ilarità generale si lanciano sul corpo di Gilda la quale si offre alle loro attenzioni guardando compiaciuta il marito interdetto che, nella scena successiva, la schiaffeggerà per questo. La Hayworth interpreterà una Gilda radiosa, ben lontana dalle femmes fatale d’inizio secolo, icona di una femminilità solare, piena e moderna. Considerata la donna fallica per eccellenza, non c’è dubbio che nel film le sue parti del corpo siano un’ossessione simbolica, dai capelli al braccio senza guanto. 30 “Date la colpa a Mammina, ragazzi, date la colpa a me!” 37
  • 38. “Gilda parla una lingua universale che varca tutte le frontiere ed è in comunicazione diretta con lo spettatore per quel salvacondotto specialissimo che si chiama sex appeal.”31 Ispirata alla figura di Gilda, nel 1988 viene creata un’altra figura femminile che interpreterà una scena simile: Jessica Rabbit. Protagonista femminile del film Chi ha incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis, questa donna è un cartone animato che si ricorda per i capelli rosso fuoco e l’abito molto simile a quello di Gilda ma la figura di Jessica viene soprattutto ricordata per la famosissima battuta “Non sono cattiva, mi disegnano così”. È interessante notare come anche Jessica seduce con un’interpretazione canora (come fecero in passato Marlene Dietrich, Rita Hayworth e Marilyn Monroe). Cantando “Why don't you do right” in una scenografia molto simile a quella di Gilda, Jessica stupisce la platea con le sue forme esageratamente perfette da farla sembrare quasi grottesca, e nella stessa scena si può vedere un breve siparietto dove la ex sex symbol dei cartoni animati, Betty Boop, malinconicamente dichiara che i tempi del suo successo sono finiti, travolti dalla rossa esuberante bomba sensuale (trionfo del corpo fallico hollywoodiano). Jessica Rabbit incarna il prototipo della donna sessualmente attraente e apparentemente senza scrupoli e, in una conversazione che intrattiene con il protagonista maschile umano, stupisce tutti dichiarando “Lei non immagina quanto sia difficile essere una donna con l'aspetto che ho” e lui, a nome di tutti gli uomini, le risponderà “E lei non immagina quanto sia difficile essere un uomo che guarda una donna con l'aspetto che ha lei ” 32 . 31 Gion Guida, in Cinemoda ,6 aprile 1947 32 Jessica Rabbit e Bob Hoskins in Chi ha incastrato Roger Rabbit 38
  • 39. 4.4 Marilyn Monroe “Divento intelligente, quando mi serve. Ma al più degli uomini non piace.”33 È difficile poter riassumere in poche righe ciò che è stata, ma soprattutto ciò che è ancora Norma Jean Mortensen conosciuta meglio come Marilyn Monroe. Un’icona sexy degli anni Cinquanta che tuttora è ancora un mito preso a modello ma soprattutto ineguagliabile. Sarà stato il suo fascino fresco, frizzante, i suoi famosissimi capelli biondi, lo sguardo sognante che meglio di tante altre hanno rappresentato tutta la prosperità americana dell’epoca, a fare di lei un simbolo. Definita “l’artefice più importante dello stile biondo nella nostra cultura”34 , uno dei suoi motivi di attrazione era il fatto che muoveva il corpo in modo provocante (il famoso “ancheggiamento” con il quale entra in scena nel film A qualcuno piace caldo) e aveva anche posato nuda come pin-up. Recitava sempre la parte dell’adorabile ragazza spensierata apparentemente svampita e venne lanciata come figura erotica dal regista Billy Wilder grazie ai film Quando la moglie è in vacanza (1955) e A qualcuno piace caldo (1959). È ancora in vigore il codice Hays quando 33 Marilyn Monroe nel film Gli uomini preferiscono le bionde 34 G.McCracken, Big Hair, Indigo, London, 1997, pag. 97 39
  • 40. Marilyn interpreta la vicina di casa smaliziata nel provocatorio film del 1955. Non è concesso far vedere nulla di quello che accade fra i due protagonisti ma le allusioni e le battute sono numerose. Ed è sempre di questo film la celebre scena della gonna di Marilyn. Il film ci fa vedere la ragazza che uscita dal cinema con il protagonista, cammina sopra una griglia di aerazione e con aria divertita si posiziona sopra ad essa con le gambe divaricate. La metropolitana in arrivo provoca uno spostamento d’aria che solleva la gonna del vestito bianco dell’attrice che esclama “Senta il vento della sotterranea! Che delizia!”. L’inquadratura non va più su delle cosce della ragazza che delicatamente trattiene la gonna, lasciandoci sperare in qualche centimetro in più e, anche quando passa il secondo treno della metropolitana, l’inquadratura non ci fa vedere molto di più rispetto alla precedente. Al suo accompagnatore maschile, che per tutto il tempo l’ha guardata stupito e divertito mentre lei, con il viso rivolto dalla parte opposta aspettava l’arrivo della brezza, alla vista della gonna che si solleva non resta che dire, con sorriso malizioso, “Frescolino alle caviglie, vero?”. Questa viene considerata una delle sequenze più importanti del cinema del XX secolo, ricordata per la fortissima carica erotica e ripetuta successivamente da molte altre donne dello spettacolo. “Quando girammo la sequenza sulla grata tutta l’attenzione era rivolta su di lei. Si radunarono ventimila persone, il traffico impazzì, ci fu una crisi coniugale.”35 Sempre dello stesso film, famosa è la scena dove il protagonista duetta al pianoforte con Marilyn e ricorrente è l’immagine di lei che, dopo essere cascata dallo sgabello assieme all’amante, se ne sta seduta a terra stretta nel suo tubino bianco fin troppo aderente, con lo sguardo stupito e la mano sulla guancia: l’adorabile svampita ma terribilmente sensuale Marilyn in tutto il suo candore. Altra scena dove Marilyn dà il meglio di sé cantando è nel film Niagara di Henry Hathaway. Vestita con un abito rosso fiamma profondamente scollato, canticchia seguendo un disco durante un ballo improvvisato, facendo impazzire di gelosia il marito che metterà fine all’esibizione spezzando il 78 giri. Che dire poi di Marilyn quando canta “Good bye, baby”o che i diamanti sono i migliori amici della donna nel film Gli uomini preferiscono le bionde di Howard Hawks? Fasciata nel suo abito rosa e attorniata da un gruppo di ballerini, Marilyn è il 35 Billy Wilder, Un viennese a Hollywood, Mondadori, Milano 1993, pag 105 40
  • 41. sogno americano e la ragazza che dal nulla è arrivata a conquistare John Kennedy per il quale canterà “Happy Birthday Mr President” scatenando uno scandalo. Sempre in ambito canoro nel film Niagara il personaggio di Marilyn trova lo spazio per una frecciatina a Rita Hayworth dichiarando che la canzone “Kiss” del famoso disco che manda in tilt il marito, “non è mica una lagna come “Amado mio”, alludendo alla canzone che aveva lanciato la vamp dai capelli rossi in Sangue e arena (1941). “Rivelando le parti più intime del suo corpo allo spettatore, non sembra preoccuparsi delle fantasie in cui noi possiamo indulgere. È una divinità urbana, a gambe divaricate sulla grata della metropolitana, mentre le masse di New York, mascherate da folata di vento, guardano al di sotto del suo vestito. In alcune versioni dell’immagine, la gonna si solleva come un paio d’ali. Sacro e profano: l’immagine evoca Marilyn, l’angelo carnale.” 36 Prima di Marilyn le belle di Hollywood a cavallo dell’ultima guerra venivano definite da un loro dettaglio anatomico. Così Lauren Bacall era “lo Sguardo”, Betty Grable era “le Gambe”, Jane Russell era “il Seno”. Ma Marilyn non si può associare ad una sola parte del suo corpo, non si può considerarla a frammenti, ma in tutto il suo fisico prorompente. Pure i suoi capelli biondi non si possono isolare come si era fatto negli anni Trenta con Jean Harlow, la Donna di platino. E la sua personalità non si può imprigionare in un solo nome come succede negli anni Quaranta a Rita Hayworth, che divenne Gilda. Marilyn non è solo Zucchero in A qualcuno piace caldo. Sarà stata anche la sua misteriosa morte a creare tutto questo ma basterebbe semplicemente dire Marilyn Monroe, un corpo che parla da sé e di un’epoca entrata nel mito. CAPITOLO 5. 36 Enrico Giacovelli, Tutto quello che avreste voluto sapere su Marilyn Monroe, Lindau, Torino, 2002 41
  • 42. DIVA ALL’ITALIANA 5.1 Neorealismo e dive contadine Fu proprio in Italia che nacque e si diffuse la parola "diva", durante la stagione che vide la nascita dell'industria cinematografica italiana negli anni Dieci, fino alla creazione di un vero e proprio genere chiamato “diva-film”. Le donne fatali italiane si ispiravano alle Vamp (donne-vampiro) scandinave, in particolare ad Asta Nielsen protagonista nel 1910 del film Abisso. Nel 1913 Lyda Borelli girò il primo “diva- film” Ma l'amor mio non muore di Mario Caserini. Colpì soprattutto il suo ballo sensuale e seduttivo che inaugurò una figura di donna dominatrice alla ricerca di un nuovo ruolo sociale. Tra le grandi dive del cinema italiano vi furono oltre alla già citata Borelli, anche Francesca Bertini Pina Menichelli, Italia Almirante Manzini e, presa dal teatro, anche Eleonora Duse. Negli anni Trenta e Quaranta la bandiera della sensualità venne impugnata da Elli Parvo, Doris Duranti e Luisa Ferida. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, in tutto il mondo cinematografico si andò ricercando uno stile più vero e diretto con la realtà. La vita reale che si voleva raccontare in tutta la sua nuda verità, divenne la protagonista indiscussa del cosiddetto Neorealismo. Grazie al Neorealismo nei film entrano le persone più comuni: attori non professionisti e prestati dalla vita reale. Nasce così un'estetica della sofferenza, con volti smagriti, abiti consunti, capelli arruffati. Ma in queste figure emerge comunque un senso eroico e tragico, che avvicinava mai come prima gli attori agli spettatori, mettendoli sullo stesso piano e rendendo di colpo le distanti figure patinate di Hollywood lontane e artefatte. La grande differenza tra divismo hollywoodiano e divismo neorealista è che l'immagine dell'attore non viene più costruita in funzione dei personaggi dei film che interpreta ma, viceversa, è il temperamento reale dell'attore che dà vita ai personaggi, sfocando il confine tra realtà e finzione. Figlie del Neorealismo furono anche molte icone sexy che si imposero nell’immaginario collettivo arrivando fino ad Hollywood: dalla mondina Silvana Mangano in Riso amaro, all’esuberante Gina Lollobrigida soprannominata “la Bersagliera” nel film Pane, amore e fantasia, passando poi per Sophia Loren e Claudia Cardinale, senza 42
  • 43. dimenticare Anna Magnani che, se non era bella come le dive sopra citate, ebbe comunque un ruolo importante nella creazione dello stereotipo della donna italica. Gli stranieri che andavano al cinema fra gli anni Quaranta e Sessanta trovavano le dive italiane esotiche, fiere, appassionate, belle e sagge. Le attrici italiane apparivano soprattutto naturali: comunicavano un sex appeal privo di pose divistiche, una ruvida sensualità terrena che sembrava genuina e incontaminata. Le dive rappresentavano un Paese che aveva gettato dietro le spalle gli anni bui della guerra e della dittatura per riproporsi al mondo con una nuova identità più autentica e affascinante. La gente si poteva identificare nel modo in cui urlavano, parlavano con accenti dialettali, mettevano le mani sui fianchi ed esibivano le loro prerogative femminili. Le dive portavano sulle spalle il peso della responsabilità di essere le icone che rappresentavano l’identità nazionale dentro e fuori dall’Italia. Anche se molte di loro non erano figlie della classe popolare, quasi tutte si affermarono grazie a dei film in ambientazione rurale che le travestivano da contadine o lavoratrici dei campi: potevano sembrare al tempo stesso nostalgiche donne rurali e moderne pin-up, con una sessualità esplicita ma priva di perversione. “Le super-carrozzate di casa nostra, da Gina a Sophia, incarnano un’esigenza di proletaria sessualità, diretta, vistosa, alla portata di tutti. Sono le ciociare bellocce e le prosperose bersagliere che parlano agli istinti collettivi di una massa non ancora turbata da complicazioni freudiane e intellettualistiche”37 . La connessione istituita dal cinema italiano del secondo dopoguerra fra corpo femminile e paesaggio era fondamentale poiché costituiva la base per la rinascita invocata dal Neorealismo. Venivano raccontate storie di rinascita che vedevano come protagoniste le donne soprattutto perché il rapporto fra terra madre/donna è molto stretto. Il fenomeno del corpo/paesaggio diviene così un aspetto chiave del cinema del dopoguerra. A simboleggiare il fascino femminile italiano nel cinema furono soprattutto i seni: la donna del popolo veniva associata ad un seno prosperoso e al fascino che questo esercitava sugli uomini. “Il seno italiano non era soltanto un ornamento, ma il significate primario del potere femminile in una cultura organizzata in base a divisioni di genere convenzionali, e quindi si identificava non soltanto con la femminilità ma anche con il luogo.”38 Inoltre 37 Marisa Rusconi, Il seno in almanacco letterario, Bompiani, 1967, pag. 85-86 38 Stephen Gundle, Figure del desiderio, storia della bellezza femminile italiana, Laterza, Roma, 2009, pag. 253 43
  • 44. l’esaltazione dei seni delle dive divenne uno strumento di marketing ufficiale del cinema italiano. 5.2 Le contadinelle sbarcano a Hollywood Dopo il successo di Riso amaro le riviste di tutto il mondo iniziarono ad interessarsi delle dive italiane portandole all’apice del successo, contemporaneamente l’attività cinematografica in Italia stava avendo un grosso boom che fece ampliare la produzione di pellicole. La Mangano, seguita poi dalla Lollobrigida, dalla Loren e dalla Cardinale, divennero le più ambite dalla stampa estera oltre che da quella italiana e il loro fascino si espanse fino alle coste americane fino ad approdare alle case di produzione hollywoodiane. In contrasto con le produzioni hollywoodiane, le star italiane conservavano un certo carattere di accessibilità molto apprezzato dal pubblico e i film in cui erano protagoniste promettevano la visione di un ambiente realistico e quotidiano. È difficile però ignorare una certa influenza delle dive americane su quelle italiane: anche se apparentemente i due tipi di donna possono sembrare agli antipodi, in realtà i canoni estetici della pin-up americana erano presenti nella bellezza contadina delle dive italiane. “Così, mentre le star italiane erano considerate dal pubblico straniero diverse per i colori più scuri, l’accento straniero e i corpi ben torniti, erano anche in sintonia con la tendenza dominante della tipologia divistica”39 . Le dive italiane, soprattutto la Lollobrigida e la Loren, contribuirono a rompere la rigida gerarchia dello star system hollywoodiano. Con i loro vestiti succinti e le loro forme provocanti, fondarono su queste caratteristiche il loro divismo nella Hollywood dove qualunque esplicito riferimento al sesso era vietato e abilmente raccontato attraverso corpi fallici e allusioni. Sophia e Gina erano le stelline erotiche che potevano competere con le grandi dive hollywoodiane e piacevano al pubblico. La stessa Lollobrigida venne presentata in America come la Marilyn Monroe europea. A differenza del sistema statunitense dove le dive venivano selezionate accuratamente e costruite a pennello, le dive italiane erano figlie di concorsi di bellezza ed elette dal popolo e quindi risultavano più genuine. 39 Ibidem pag. 260 44
  • 45. L’immagine che gli americani davano delle bellezze nostrane era alquanto superficiale perché sia Sophia che Gina (furono le due attrici più lanciate nel panorama hollywoodiano) interpretavano sempre le ragazze italiane belle in un Paese da cartolina ma molto arretrato rispetto all’America. Le ragazze italiane erano conosciute ovunque e il commentatore radiofonico Walter Winchell inventò il termine “Lollopalooza” per evocare il fascino particolarmente sensuale delle attrici italiane, mentre in Francia “Les Lollos” divenne un termine gergale per indicare i seni. Le attrici comunque non furono sempre destinate ad essere le contadinelle ma sia la Loren che la Lollobrigida girarono film storici come anche la Mangano e la Pampanini. Prerogativa delle prime due fu di riuscire a non omologarsi agli standard statunitensi e a mantenere una certa personalità e rinunciarono a trasferirsi a Hollywood per continuare a lavorare con le produzioni italiane. Intanto i costumi stavano cambiando, lo stereotipo della bella paesana formosa stava perdendo attrattiva per un modello di ragazza più moderna influenzata dalla cultura americana che un po’ alla volta si stava espandendo in Italia. L’arrivo dell’attrice bionda e nordica Anita Ekber con il film di Federico Fellini La dolce vita (1960) portò una nuova ventata e una nuova icona sexy: se le donne del Neorealismo erano materne e dal sapore tradizionale, quelle nuove in arrivo grazie anche alle rivoluzione culturale che stava prendendo piede in tutta Europa (basti pensare a Brigitte Bardot), erano più cosmopolite e dal fisico più asciutto. E fu Claudia Cardinale ad avvicinarsi di più a questa nuova immagine femminile mantenendo però il fascino delle dive del Neorealismo. Le nuove star che vennero alla ribalta nella seconda metà degli anni Cinquanta si allinearono al canone di bellezza dominante. Nei prossimi paragrafi analizzerò l’ascesa e i film cardine che hanno lanciato le quattro dive italiane come sex symbol internazionali: Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Sophia Loren e Claudia Cardinale. 5.3 Silvana Mangano, la mondina 45
  • 46. Il primo film neorealista che produsse una nuova icona della bellezza italiana fu Riso amaro (1949) del regista Giuseppe De Santis. Il personaggio chiave di questo dramma ambientato nelle risaie di Vercelli è la giovane mondina interpretata da Silvana Mangano. La ragazza è diversa dalle altre perché è proiettata verso la modernità: mastica chewing gum, legge fotoromanzi e soprattutto balla il boogie woogie. Silvana Mangano rimane impressa nella memoria del film ballando il boogie woogie con sensuale esuberanza e innocente ingenuità: nella suddetta scena ostenta la sua bellezza ruvida ed una collana troppo riccamente pacchiana che ha rubato alla sua compagna, mentre la gente attorno a lei messa a cerchio la osserva. Dalla massa emerge un uomo che le si avvicina e lei balla come nessuna umile mondina ballerebbe. Muove le anche, le spalle, i capelli: è la voglia di apparire diversa, di riscattarsi, è l’urlo della gioia di vivere di una ragazza costretta ad indossare abiti troppo popolani e poveri incompatibili con i suoi ideali di libertà e divertimento. La mondina ha l’America in testa e progetta una fuga individuale dalla povertà e dal lavoro faticoso. Il regista dovette spogliare la Mangano della sua raffinatezza per farla assomigliare “a una Rita Hayworth di periferia italiana”40 . Italo Calvino che all’epoca scriveva per l’Unità andò a vedere l’attrice sul set di Riso Amaro e ne 40 Faldini e Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Feltrinelli, Milano, 1979, pag. 154 46
  • 47. rimase colpito soprattutto per la sua bellezza indescrivibile a parole che venne immortalata dal fotografo Robert Capa. Le immagini scattate da lui dell’attrice diciottenne immersa nell’ acqua fino alle cosce con una camicia attillata e calzoncini, furono riprodotte dalla stampa internazione e divennero subito un’icona. L’immagine dell’attrice veniva percepita in tutto il mondo come una nuova versione italiana del sex appeal americano. Silvana Mangano nel film racchiude in sé il duplice aspetto della ragazza semplice e contadina e l’icona degli stereotipi femminili hollywoodiani come la pin-up e la vamp. Se Silvana la mondina era un prodotto femminile influenzato dai canoni americani, l’erotismo che De Santis portò sullo schermo con Riso Amaro non era sicuramente come quello hollywoodiano: l’industria cinematografica americana accolse molto rigidamente gli espliciti temi sessuali presenti nel film. Per De Santis era importate trattare e affrontare i temi femminili in modo libero e quindi portare sullo schermo una visione autentica della realtà. Ancora oggi pensando a Silvana Mangano la prima immagine che salta alla mente è quella di lei con il costume di scena: i calzoncini tagliati corti criticati come non realistici che però dopo il film vennero adottati in massa. È in questo film che il rapporto fra corpo e paesaggio si plasma nell’immaginario degli spettatori e fu proprio grazie a questa pellicola che si portarono alla ribalta le problematiche del lavoro massacrante delle mondine che cantando lavorano immerse nell’acqua. Dopo la Mangano arrivarono una serie di contadine, paesane e lavoratrici sensuali e fiere nella loro rude e naturale italianità. Tra le grandi pellicole interpretate dalla Mangano, si ricordano in particolare: L'oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, Uomini e lupi (1957) ancora di De Santis, Edipo re (1967), Teorema (1968) e Il Decameron (1971) di Pier Paolo Pasolini e Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973) e Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Luchino Visconti. Nel 1984 fu tra le interpreti del film Dune, del regista statunitense David Lynch. 5.4 Gina Lollobrigida, la Bersagliera 47
  • 48. La seconda attrice a conquistare una particolare attenzione grazie all’identificazione rurale fu Gina Lollobrigida. Grazie alla sua avvenenza fisica divenne l’idolo delle ragazze delle classi inferiori la cui unica carta per l’avvenire era la prestanza fisica. Il suo primo ruolo contadino si dimostrò di importanza iconica, perché segnò la nascita del termine con cui le formose star degli anni Cinquanta furono designate: le “maggiorate fisiche”. Il termine fu utilizzato per la prima volta in Altri tempi (1952) di Alessandro Blasetti dove viene presentato un ritratto sentimentale delle usanze dell’Italia ottocentesca. Il film è diviso in episodi e quello finale “Il processo di Frine” è basato su una storia scritta da Edoardo Scarfoglio nel 1884. Gina interpreta una ragazza che viene difesa dall’avvocato (De Sica) che, nell’appello finale, chiede alla giuria di non rinchiudere la ragazza perché essa fa parte del patrimonio paesaggistico italico (ecco qui lo rapporto stretto fra corpo e paesaggio). Ma la motivazione pronunciata con più enfasi è quella di non condannare la bella giovane perché essa è una “maggiorata fisica” nel senso che le bellezze del corpo sono ben superiori alle capacità intellettive e che quindi va perdonata anche per salvare il “patrimonio corporeo”. La battuta della maggiorata fisica non fa parte dell’opera di Scarfoglio ma è una novità inserita dagli sceneggiatori, che nel film viene gridata con grande trasporto dall’avvocato. Soltanto dopo questo episodio la maggiorata Lollobrigida venne associata al sesso. Nei film successivi aggiunse altre sfaccettature 48