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FUTURI / 6
OSSERVATORI / CEFI - Osservatorio sulle crisi economico-finanziarie
L’aquila e il dragone:
prove generali di una nuova
guerra fredda
di Nicola Sindaco
S
in dalla fine della guerra civile cinese del 1949, la poli-
tica estera statunitense per l’estremo oriente è stata in-
centrata sul Giappone. Il terrore per una Pax Nipponica
incombente sulla regione estremorientale che potesse
costringere gli USA a rivedere la propria strategia e presenza
nell’area è risultato essere meramente il frutto di calcoli errati
dettati dalla corsa alla creazione di imperi informatici (dei quali
non se ne aveva ben chiara neppure l’utilità) e affrettate conclu-
sioni tratte da economisti e politologi di ambedue le sponde del
Pacifico.
Di recente, la “nippofobia” che serpeggiava tra i corridoi di
Washington è stata spodestata da un’altrettanto virulenta “si-
nofobia”. Una nuova “febbre gialla” che ha colpito i centri del
potere decisionale americano e che ha spinto l’amministrazione
di Barack Obama a formulare il Pivot to Asia, ovvero la nuova
linea guida strategica per la politica estera statunitense intesa a
convogliare l’intero arsenale diplomatico, economico e strate-
gico, sia nazionale che alleato, nella regione dell’Asia-Pacifico.
Gli americani ormai sono giunti alla conclusione che il futuro
ribilanciamento delle forze politiche ed economiche globali si
giocherà sullo scacchiere estremorientale.
L’11 dicembre 2001, l’amministrazione Bush e l’economia ame-
ricana in toto, avevano salutato con entusiasmo l’ingresso del-
la Repubblica Popolare Cinese nell’Organizzazione Mondiale
del Commercio (WTO), quasi a sancire la definitiva vittoria del
modello economico americano e la tanto decantata “fine della
storia” così come intesa da Francis Fukuyama, relegando i fatti
dell’11 Settembre a mero rigurgito di un mondo ormai privo di
alternative non solo per quanto concerne il modello economico
ma lo stesso, way of life. Il processo di osmosi venutosi a creare
tra le economie di Washington e Pechino favoriva la collocazio-
ne dell’esorbitante produzione cinese sul mercato americano e
l’acquisto di titoli di Stato americani, ossia del debito americano
da parte della Cina, faceva sì che il Tesoro statunitense potesse
contenere l’effetto inflattivo.
Le crisi finanziaria prima ed economica poi che dal 2008 hanno
afflitto l’economia americana e globale tout court, hanno depau-
perato questo sistema della sua linfa vitale, ovvero i consumi
americani; ciò ha costretto Pechino a guardarsi intorno e a stu-
diare una nuova via anche sul piano interno, che le permettesse
di collocare la propria produzione anche in un mercato cinese
potenziato. È risultato elementare per il Politburo mandarino
gettare lo sguardo al di là dei propri confini alla ricerca di nuovi
mercati ed è tornata in auge una certa visione “imperiale” che
per l’esattezza è sempre stata insita nella cultura cinese. Basti
pensare allo stesso significato che in cinese mandarino ha il ter-
mine Cina – Chung-kuo – che significa Regno di Mezzo, ulte-
riore conferma di quella centralità che i cinesi conferiscono al
proprio Paese nelle relazioni esterne, principalmente regionali
ma anche globali.
La nazione cinese ha da sempre dimostrato una comunità d’in-
tenti con radici culturali e storiche antiche, che hanno mantenuto
unito un Impero millenario che all’epoca in cui in America si fir-
mava la Dichiarazione d’Indipendenza contava già 200 milioni
di anime ed era all’avanguardia in tema di produzione agricola,
innovazione industriale e standard di vita. Da sempre, le linee
guida della politica cinese sono state la sovranità e l’integrità
territoriale e la vastità della popolazione, quanto dei chilometri
quadrati di territorio a gestione mandarina hanno costantemente
richiesto sforzi ingenti ai decisori politici al fine di poter garan-
tire la sicurezza in senso lato (interna ed esterna), quanto quella
alimentare ed energetica.
E ad oggi sono proprio questi ultimi due i campi in cui gli Sta-
ti Uniti si sentono maggiormente minacciati dall’inarrestabile
ascesa cinese: l’era delle grandi riforme cinesi è stata inaugurata
da Deng Xiaoping nel dicembre del 1978 e a quasi quarant’anni
di distanza ha condotto la Repubblica Popolare dove il Partito
Comunista Cinese (PCC) certamente auspicava di arrivare, ma
che difficilmente riteneva possibile riuscirvi a così stretto giro.
Una crescita costante a due cifre (double digit growth) ha traina-
to la Cina sulla via della grandezza economica quanto politica,
con grande rilancio di Pechino sul palcoscenico internazionale e
come challenger alla predominanza di Washington nella propria
zona naturale d’azione: la regione dell’Asia-Pacifico.
Il peso politico ed economico cinese è stato già testato tanto da-
gli americani quanto dai cinesi stessi nei consessi internazionali
multilaterali delle Nazioni Unite, del G-20 e dei BRICs. Inoltre,
Pechino ha carpito i segreti della entry strategy americana per
fare affari con Paesi con i quali non si hanno punti in comune,
ovvero attraverso la cooperazione allo sviluppo, ma riducendo i
difetti che hanno portato al fallimento del Washington Consen-
sus. I piani di aggiustamento strutturale (ricette di liberalizzazio-
FUTURI / 7
OSSERVATORI / CEFI - Osservatorio sulle crisi economico-finanziarie
ni e deregulation che in Paesi affetti
da recessioni hanno attirato portfolio investments, chiaramente
speculativi, ed impoverito le casse dello Stato e le tasche dei
cittadini causando severe inflazioni), l’aiuto legato, le conditio-
nalities, per decenni sono risultati essere conditio sine qua non
per l’avallo, da parte delle istituzioni finanziarie internazionali,
delle richieste di prestiti avanzate da molteplici Paesi in via di
sviluppo. Istituti quali il Fondo Monetario Internazionale e la
Banca Mondiale, con il beneplacito del Tesoro americano, han-
no imposto la pillola avvelenata degli aggiustamenti strutturali
a decine di Paesi che a posteriori avrebbero rinunciato anziché
lanciarsi nell’impresa.
L’offerta di Pechino di un aiuto slegato (untied aid), una con-
siderazione del ricevente quale partner e non subalterno, una
quantità ingente di liquidità pompata nelle casse dei Paesi con
i quali si intendeva “cooperare”, un vero approccio win-win
hanno conferito un impronosticabile soft power alla Repubbli-
ca Popolare e fatto sì che alla Cina fosse aperta la strada della
grandeur internazionale. E Pechino ha letteralmente comprato
o preso in affitto secolare svariati territori in giro per il globo,
dall’Africa all’America Latina (con buona pace per la dottrina
Monroe), dando il “la” se non ad un vero Beijing Consensus
quantomeno ad un modello à la Pekin.
Il Partito Comunista Cinese è ben conscio delle necessità insite
nella crescita costante e nella sicurezza (in tutte le sue moltepli-
ci accezioni) di un Paese che conta 1 miliardo e 400 milioni di
abitanti e a differenza dei decisori politici degli altri Paesi di cui
consta il Sistema Internazionale, in particolar modo dei governi
occidentali, non ha vincoli etico-democratici a cui attenersi. A
Pechino sanno perfettamente che tanto l’autosufficienza energe-
tica quanto la sicurezza alimentare sono utopie infrantesi oramai
già da un bel po’ e per far fronte a queste esigenze vitali hanno
bisogno di giocare la partita su un piano globale.
Al di là delle schermaglie che i due competitors si lanciano in
giro per il mondo, il teatro di scontro naturale, fisiologico, resta
il Mar Cinese tanto meridionale quanto orientale. La storia ci
insegna come ad ogni segno di declino di grandi potenze, Pechi
no ne ha sempre approfittato, cogliendo in più di un’occasione
l’opportunità per accrescere la propria influenza (quando non
direttamente i confini del proprio territorio, specialmente in di-
rezione sud). Quando gli americani si ritirarono dal Vietnam,
i cinesi ne hanno approfittato per strappare le Isole Paracel a
Saigon; sulla scorta del precedente successo hanno replicato l’a-
zione ai danni delle Filippine (occupando Mischief Reef), non
appena il trattato tra Washington e Manila per l’utilizzo dell’iso-
la come base militare decadde.
Naturalmente, all’apice dell’agenda estera cinese, se non altro
per una questione di prestigio, vi è l’annosa questione dell’indi-
pendenza di Hong Kong. Ed è nel quadro di siffatta importanza
sullo scacchiere cinese quanto su quello americano che si intes-
se la tela di relazioni e frizioni che ha portato lo scorso mese di
settembre allo scoppio della cosidetta Umbrella Revolution.
Per le ragioni sopra citate, la nuova leadership del Partito Co-
munista Cinese è costratta a lasciarsi alle spalle la fase di ascesa
pacifica inaugurata da Deng e con l’obbiettivo di evitare i con-
flitti internazionali per consentire al Paese di crescere econo-
micamente e militarmente. È proprio in contrapposizione a tale
manovra che Washington ha adottato il Pivot to Asia, mentre la
realizzazione della Trans Pacific Partnership (TPP), un’area di
libero scambio a cavallo del Pacifico che escluderebbe la Re-
pubblica Popolare Cinese dall’accordo, rappresenta una sorta
di dichiarazione d’intenti americana, ovvero l’interesse più che
mai geopolitico, piuttosto che economico, della Partnership.
Siamo dinanzi ad una vera nuova strategia del contenimento
come già emersa negli anni della Guerra Fredda.
In questa nuova prospettiva di confronto Est-Ovest, Taiwan
ed Hong Kong si posizionano nell’occhio del ciclone. Ma se
Taiwan è ancora in aperto conflitto con Pechino soprattutto a
livello di leadership politica e pertanto più sensibile alla necessi-
tà dell’ombrello di protezione statunitense; Hong Kong invece,
01.
Manifestazione durante la
“rivoluzione degli ombrelli”
di Hong Kong
FUTURI / 8
tornata nel 1997 sotto la sovranità cinese, dopo 155 anni di co-
lonizzazione britannica (dalla fine della prima guerra dell’oppio
nel 1842), è praticamente una città-stato indipendente sia a livel-
lo politico, che economico, città-stato che a livello politico, eco-
nomico e giudiziario è indipendente dalla Cina Mainland, ma
che anno dopo anno diventa sempre più cinese e sempre meno
indipendente da un punto di visto sistemico. Conosciuta come
una delle quattro tigri asiatiche, Hong Kong è da molti dipinta
anche culturalmente come il punto dove Oriente ed Occidente si
incontrano. Ma soprattutto, Hong Kong è il cash box del sistema
capitalistico occidentale sin dal 1949, in completo spregio alla
visione comunista al potere a Pechino.
Hong Kong vanta uno status fiscale a scarsamente regolamen-
tato (in Italia infatti è inserita nella famigerata Black List dei
paradisi fiscali), inoltre ricopre il ruolo di investitore privilegiato
verso la Cina Mainland (per correggere le disfunzioni dei propri
mercati azionari, Pechino ha demandato ad Hong Kong – e Sin-
gapore – la raccolta di capitali per le proprie banche). E a ripro-
va dell’interesse che suscita negli investitori di tutto il mondo
(siano essi Stati o Multi-National Corporations), annovera la più
massiccia presenza di consolati sul territorio (107), molti di più
che a New York City (93), sede delle Nazioni Unite.
Facendo breccia nelle crepe insite in un quantomai conflittuale
rapporto tra economia capitalistica e governo autoritario, Wa-
shington sta provando a scardinare l’anello debole dell’apparato
ideologico/pragmatico cinese facendo leva sulla voglia di rival-
sa dei figli e nipoti degli emigrati cinesi cantonesi che all’epoca
delle guerre tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento hanno
abbandonato la costa sud della Cina per sfuggire all’oppressione
comunista. Quando Occupy Hong Kong è venuta alla ribalta,
sembrava essere la classica dimostrazione studentesca contro
l’autoritarismo cinese, ed invece s’è rivelata essere l’ennesimo
dispendioso tentativo di Rivoluzione Colorata di natura chiara-
mente “occidentale”. La rivolta degli studenti è risultata essere
aizzata da svariate cellule dell’intelligence occidentale, a ricon-
ferma del fermento politico-ideologico dell’area e che gli an-
glo-americani adottano ancora la politica del Divide et Impera.
Quando Richard Nixon e poi George H. Bush si fecero portato-
ri di istanze favorevoli ad una normalizzazione dei rapporti tra
USA e Cina, l’intenzione reale dell’atto andava interpretata at-
traverso il brocardo “tenersi stretti i propri nemici”. Il confronto
Est-Ovest non ha mai praticamente avuto fine e Hong Kong sta
ai rapporti sino-americani quanto l’Ucraina sta a quelli russo-a-
mericani: campi di battaglia di un epico conflitto.
Mille anni fa la globalizzazione parlava cinese con la diffusione
verso occidente attraverso la Via della Seta, di tecniche all’a-
vanguardia, quali la stampa, la polvere da sparo e la bussola.
Ad oggi le regole del gioco sono cambiate, le necessità degli
abitanti di quel mondo che vive al di là dei confini amministrati
da Pechino sono ben diverse, ma la Cina ne ha ri-compreso il
codice d’accesso e come una mastodontica nave mercantile ha
ripreso il mare sulle acque della globalizzazione. Gli Stati Uniti
che hanno fatto della globalizzazione un vero e proprio processo
politico di governance mondiale hanno dichiarato più o meno
apertamente rispetto ai fatti di Hong Kong, che non permette-
ranno di certo a Pechino un’ascesa indisturbata.
Approfondimenti
Campbell K. e Andrews B., Explaining the US Pivot to Asia, Chatham House, Londra, 2013. / Glaser B.S., Pivot to Asia: Prepare for Unintended Consequences, Center for
Strategic and International Studies (CSIS), Washington D.C., 2013. / Halper S., The Beijing Consensus, Basic Books, New York, 2010.
OSSERVATORI / CEFI - Osservatorio sulle crisi economico-finanziarie
02.

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Una nuova “febbre gialla” che ha colpito i centri del potere decisionale americano e che ha spinto l’amministrazione di Barack Obama a formulare il Pivot to Asia, ovvero la nuova linea guida strategica per la politica estera statunitense intesa a convogliare l’intero arsenale diplomatico, economico e strate- gico, sia nazionale che alleato, nella regione dell’Asia-Pacifico. Gli americani ormai sono giunti alla conclusione che il futuro ribilanciamento delle forze politiche ed economiche globali si giocherà sullo scacchiere estremorientale. 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La nazione cinese ha da sempre dimostrato una comunità d’in- tenti con radici culturali e storiche antiche, che hanno mantenuto unito un Impero millenario che all’epoca in cui in America si fir- mava la Dichiarazione d’Indipendenza contava già 200 milioni di anime ed era all’avanguardia in tema di produzione agricola, innovazione industriale e standard di vita. Da sempre, le linee guida della politica cinese sono state la sovranità e l’integrità territoriale e la vastità della popolazione, quanto dei chilometri quadrati di territorio a gestione mandarina hanno costantemente richiesto sforzi ingenti ai decisori politici al fine di poter garan- tire la sicurezza in senso lato (interna ed esterna), quanto quella alimentare ed energetica. E ad oggi sono proprio questi ultimi due i campi in cui gli Sta- ti Uniti si sentono maggiormente minacciati dall’inarrestabile ascesa cinese: l’era delle grandi riforme cinesi è stata inaugurata da Deng Xiaoping nel dicembre del 1978 e a quasi quarant’anni di distanza ha condotto la Repubblica Popolare dove il Partito Comunista Cinese (PCC) certamente auspicava di arrivare, ma che difficilmente riteneva possibile riuscirvi a così stretto giro. Una crescita costante a due cifre (double digit growth) ha traina- to la Cina sulla via della grandezza economica quanto politica, con grande rilancio di Pechino sul palcoscenico internazionale e come challenger alla predominanza di Washington nella propria zona naturale d’azione: la regione dell’Asia-Pacifico. Il peso politico ed economico cinese è stato già testato tanto da- gli americani quanto dai cinesi stessi nei consessi internazionali multilaterali delle Nazioni Unite, del G-20 e dei BRICs. Inoltre, Pechino ha carpito i segreti della entry strategy americana per fare affari con Paesi con i quali non si hanno punti in comune, ovvero attraverso la cooperazione allo sviluppo, ma riducendo i difetti che hanno portato al fallimento del Washington Consen- sus. I piani di aggiustamento strutturale (ricette di liberalizzazio-
  • 2. FUTURI / 7 OSSERVATORI / CEFI - Osservatorio sulle crisi economico-finanziarie ni e deregulation che in Paesi affetti da recessioni hanno attirato portfolio investments, chiaramente speculativi, ed impoverito le casse dello Stato e le tasche dei cittadini causando severe inflazioni), l’aiuto legato, le conditio- nalities, per decenni sono risultati essere conditio sine qua non per l’avallo, da parte delle istituzioni finanziarie internazionali, delle richieste di prestiti avanzate da molteplici Paesi in via di sviluppo. Istituti quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, con il beneplacito del Tesoro americano, han- no imposto la pillola avvelenata degli aggiustamenti strutturali a decine di Paesi che a posteriori avrebbero rinunciato anziché lanciarsi nell’impresa. L’offerta di Pechino di un aiuto slegato (untied aid), una con- siderazione del ricevente quale partner e non subalterno, una quantità ingente di liquidità pompata nelle casse dei Paesi con i quali si intendeva “cooperare”, un vero approccio win-win hanno conferito un impronosticabile soft power alla Repubbli- ca Popolare e fatto sì che alla Cina fosse aperta la strada della grandeur internazionale. E Pechino ha letteralmente comprato o preso in affitto secolare svariati territori in giro per il globo, dall’Africa all’America Latina (con buona pace per la dottrina Monroe), dando il “la” se non ad un vero Beijing Consensus quantomeno ad un modello à la Pekin. Il Partito Comunista Cinese è ben conscio delle necessità insite nella crescita costante e nella sicurezza (in tutte le sue moltepli- ci accezioni) di un Paese che conta 1 miliardo e 400 milioni di abitanti e a differenza dei decisori politici degli altri Paesi di cui consta il Sistema Internazionale, in particolar modo dei governi occidentali, non ha vincoli etico-democratici a cui attenersi. A Pechino sanno perfettamente che tanto l’autosufficienza energe- tica quanto la sicurezza alimentare sono utopie infrantesi oramai già da un bel po’ e per far fronte a queste esigenze vitali hanno bisogno di giocare la partita su un piano globale. Al di là delle schermaglie che i due competitors si lanciano in giro per il mondo, il teatro di scontro naturale, fisiologico, resta il Mar Cinese tanto meridionale quanto orientale. La storia ci insegna come ad ogni segno di declino di grandi potenze, Pechi no ne ha sempre approfittato, cogliendo in più di un’occasione l’opportunità per accrescere la propria influenza (quando non direttamente i confini del proprio territorio, specialmente in di- rezione sud). Quando gli americani si ritirarono dal Vietnam, i cinesi ne hanno approfittato per strappare le Isole Paracel a Saigon; sulla scorta del precedente successo hanno replicato l’a- zione ai danni delle Filippine (occupando Mischief Reef), non appena il trattato tra Washington e Manila per l’utilizzo dell’iso- la come base militare decadde. Naturalmente, all’apice dell’agenda estera cinese, se non altro per una questione di prestigio, vi è l’annosa questione dell’indi- pendenza di Hong Kong. Ed è nel quadro di siffatta importanza sullo scacchiere cinese quanto su quello americano che si intes- se la tela di relazioni e frizioni che ha portato lo scorso mese di settembre allo scoppio della cosidetta Umbrella Revolution. Per le ragioni sopra citate, la nuova leadership del Partito Co- munista Cinese è costratta a lasciarsi alle spalle la fase di ascesa pacifica inaugurata da Deng e con l’obbiettivo di evitare i con- flitti internazionali per consentire al Paese di crescere econo- micamente e militarmente. È proprio in contrapposizione a tale manovra che Washington ha adottato il Pivot to Asia, mentre la realizzazione della Trans Pacific Partnership (TPP), un’area di libero scambio a cavallo del Pacifico che escluderebbe la Re- pubblica Popolare Cinese dall’accordo, rappresenta una sorta di dichiarazione d’intenti americana, ovvero l’interesse più che mai geopolitico, piuttosto che economico, della Partnership. Siamo dinanzi ad una vera nuova strategia del contenimento come già emersa negli anni della Guerra Fredda. In questa nuova prospettiva di confronto Est-Ovest, Taiwan ed Hong Kong si posizionano nell’occhio del ciclone. Ma se Taiwan è ancora in aperto conflitto con Pechino soprattutto a livello di leadership politica e pertanto più sensibile alla necessi- tà dell’ombrello di protezione statunitense; Hong Kong invece, 01. Manifestazione durante la “rivoluzione degli ombrelli” di Hong Kong
  • 3. FUTURI / 8 tornata nel 1997 sotto la sovranità cinese, dopo 155 anni di co- lonizzazione britannica (dalla fine della prima guerra dell’oppio nel 1842), è praticamente una città-stato indipendente sia a livel- lo politico, che economico, città-stato che a livello politico, eco- nomico e giudiziario è indipendente dalla Cina Mainland, ma che anno dopo anno diventa sempre più cinese e sempre meno indipendente da un punto di visto sistemico. Conosciuta come una delle quattro tigri asiatiche, Hong Kong è da molti dipinta anche culturalmente come il punto dove Oriente ed Occidente si incontrano. Ma soprattutto, Hong Kong è il cash box del sistema capitalistico occidentale sin dal 1949, in completo spregio alla visione comunista al potere a Pechino. Hong Kong vanta uno status fiscale a scarsamente regolamen- tato (in Italia infatti è inserita nella famigerata Black List dei paradisi fiscali), inoltre ricopre il ruolo di investitore privilegiato verso la Cina Mainland (per correggere le disfunzioni dei propri mercati azionari, Pechino ha demandato ad Hong Kong – e Sin- gapore – la raccolta di capitali per le proprie banche). E a ripro- va dell’interesse che suscita negli investitori di tutto il mondo (siano essi Stati o Multi-National Corporations), annovera la più massiccia presenza di consolati sul territorio (107), molti di più che a New York City (93), sede delle Nazioni Unite. Facendo breccia nelle crepe insite in un quantomai conflittuale rapporto tra economia capitalistica e governo autoritario, Wa- shington sta provando a scardinare l’anello debole dell’apparato ideologico/pragmatico cinese facendo leva sulla voglia di rival- sa dei figli e nipoti degli emigrati cinesi cantonesi che all’epoca delle guerre tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento hanno abbandonato la costa sud della Cina per sfuggire all’oppressione comunista. Quando Occupy Hong Kong è venuta alla ribalta, sembrava essere la classica dimostrazione studentesca contro l’autoritarismo cinese, ed invece s’è rivelata essere l’ennesimo dispendioso tentativo di Rivoluzione Colorata di natura chiara- mente “occidentale”. La rivolta degli studenti è risultata essere aizzata da svariate cellule dell’intelligence occidentale, a ricon- ferma del fermento politico-ideologico dell’area e che gli an- glo-americani adottano ancora la politica del Divide et Impera. Quando Richard Nixon e poi George H. Bush si fecero portato- ri di istanze favorevoli ad una normalizzazione dei rapporti tra USA e Cina, l’intenzione reale dell’atto andava interpretata at- traverso il brocardo “tenersi stretti i propri nemici”. Il confronto Est-Ovest non ha mai praticamente avuto fine e Hong Kong sta ai rapporti sino-americani quanto l’Ucraina sta a quelli russo-a- mericani: campi di battaglia di un epico conflitto. Mille anni fa la globalizzazione parlava cinese con la diffusione verso occidente attraverso la Via della Seta, di tecniche all’a- vanguardia, quali la stampa, la polvere da sparo e la bussola. Ad oggi le regole del gioco sono cambiate, le necessità degli abitanti di quel mondo che vive al di là dei confini amministrati da Pechino sono ben diverse, ma la Cina ne ha ri-compreso il codice d’accesso e come una mastodontica nave mercantile ha ripreso il mare sulle acque della globalizzazione. Gli Stati Uniti che hanno fatto della globalizzazione un vero e proprio processo politico di governance mondiale hanno dichiarato più o meno apertamente rispetto ai fatti di Hong Kong, che non permette- ranno di certo a Pechino un’ascesa indisturbata. Approfondimenti Campbell K. e Andrews B., Explaining the US Pivot to Asia, Chatham House, Londra, 2013. / Glaser B.S., Pivot to Asia: Prepare for Unintended Consequences, Center for Strategic and International Studies (CSIS), Washington D.C., 2013. / Halper S., The Beijing Consensus, Basic Books, New York, 2010. OSSERVATORI / CEFI - Osservatorio sulle crisi economico-finanziarie 02.