1. Universal Round Table Conference – Un evento italiano per i giovani “ IL LAVORO”
FOLIGNO: 11 Gennaio 2014 – Palazzo Trinci
STUDIOSI ED ESPERTI
Relatrice
Prof.ssa Cristina Montesi - UNIPG
Relazione
L’evoluzione del lavoro nella società contemporanea
http://www.slideshare.net/VADOcultura/cristina-montesi-relazione
2. Universal Round Table Conference – Un evento italiano per i giovani “ IL LAVORO”
FOLIGNO: 11 Gennaio 2014 – Palazzo Trinci
L’evoluzione del lavoro nella società contemporanea*
Cristina Montesi**
Partirò dalla filosofa Hannah Arendt per capire schematicamente
l’evoluzione del lavoro nella società contemporanea.
Nel suo libro “Vita Activa”, guardando alla società greca del mondo
antico, Lei distingue tre tipi di attività umana:
1. il lavoro, fatto dall’animal laborans, ovvero da colui che, simile
ad una bestia da soma, lavora tanto solo per provvedere alla sua
sussistenza, come lo schiavo nell’antichità, imprigionato in una
attività che viene esercitata in modo routinario e non creativo e
che quindi non lascia il segno di sé;
2. l’opera, fatta dall’ homo faber, come l’artigiano del tempo che,
grazie alle sue abilità e competenze, crea un mondo “artificiale”,
ricco di manufatti originali che facilitano e/o allietano l’esistenza
umana, lasciando un’impronta di sé in ciò che fa. Ma anche
l’opera, seppur è frutto di lavoro non alienato, non è un emblema
di libertà, essendo solo la produzione di un oggetto che risponde
a delle necessità più o meno impellenti di vita delle persone ed
all’utilità di chi la fa;
3. l’azione, fatta dal cittadino nell’ambito della polis (il luogo di
coesistenza degli esseri umani), che consiste nell’“agire
argomentativo”, ovvero nel dialogare secondo razionalità con gli
altri,
in vista del raggiungimento del bene comune
(parlamentum deriva dal parlare, dalla parola “discorso” e la
politica implica le seguenti azioni: riunirsi, consultarsi,
accordarsi).
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Ebbene nell’antichità secondo la Arendt:
1. vigeva il primato dell’ “azione”, unico ambito di vera libertà, sul
“lavoro” e sull’“opera” (sussisteva quindi il primato della politica
sull’economia);
2. l’ “opera”, il lavoro artigiano, era certamente preferibile al
“lavoro” schiavistico.
Nell’era industriale, a causa del fordismo collegato alla produzione ed
al consumo di massa ed a causa della parallela espansione della
burocrazia pubblica nell’età dell’oro del Welfare State, secondo la
Arendt:
1. si è affermata la preminenza del lavoro salariato, nella sua
forma pubblica e privata, sia sull’“opera” (che in termini
moderni è l’impresa industriale, artigiana, di servizi) che
sull’“azione” sempre attinente alla sfera della politica.
Il lavoro salariato, nel contesto della società industriale, anche se
ha guadagnato in libertà e si è affrancato dalla fatica fisica rispetto
all’antichità, è stato connotato, specialmente agli inizi, da
sfruttamento, fenomeno che si è parzialmente attenuato con
l’avanzare dei diritti sociali.
Di questa centralità del “lavoro salariato” e della svalorizzazione dell’
“opera” (che ha poi generato, per lunghi anni, nell’immaginario
collettivo l’aspirazione quasi esclusiva al “lavoro dipendente sicuro” a
scapito del “fare impresa” o del “diventare un professionista”) è stata
grandemente responsabile, dal punto di vista teorico, la scienza
economica sin dai suoi albori.
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Ma vediamo perché.
A seguito della formulazione della teoria del valore-lavoro di Smith,
Ricardo, Marx, che avevano individuato nella quantità di lavoro
incorporata in un bene la fonte del suo valore (a prescindere dalla sua
qualità), qualsiasi tipo di lavoro è stato considerato di per sé
produttivo e si è così annullata la distinzione qualitativa tra il “lavoro
salariato” che non lascia il segno di sé e l’“opera” che è invece più
identitaria.
Le conseguenze teoriche di queste assunzione sono state diverse:
da quel momento in poi gli economisti si sono occupati, nei loro
modelli, più del lavoro subordinato che non del lavoro autonomo
(uniche eccezioni nel panorama: la Scuola austriaca che studia le
caratteristiche tipiche dell’imprenditore; J.Schumpeter che studia la
figura
dell’“imprenditore
innovatore”;
gli
economisti
“istituzionalisti”, come O.Williamson, che studiano il perché
nascono le imprese; M.Yunus che, attraverso l’invenzione del
microcredito, riabilita le attività imprenditoriali di economia
informale come strumento di lotta alla povertà);
il lavoro subordinato è stato considerato come privo di qualsiasi
componente di felicità. Il lavoro è stato infatti descritto dagli
economisti come una palestra di rinuncia o di sofferenza. La teoria
neoclassica lo configura come un costo-opportunità dovendo un
soggetto scegliere tra fatica remunerata e tempo libero (scelta che
si presuppone essere, almeno teoricamente, libera); la concezione
marxiana lo interpreta come una scelta, non libera, lo interpreta
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come una scelta, non libera, ma fatta solo per poter sopravvivere,
fonte di alienazione e sfruttamento (in questa cornice il lavoro
diventa addirittura una merce).
Il lavoro subordinato è stato depurato da tutte quelle motivazioni
che non sono monetarie (secondo gli economisti tradizionali si
lavora solo per avere un reddito che è poi finalizzato al consumo).
Le “motivazioni intrinseche” dei lavoratori non hanno più trovato
cittadinanza nei modelli teorici. Alcuni recenti studi hanno invece
dimostrato che si può lavorare anche per altre ragioni, ovvero:
-per il piacere in sé di farlo;
-per realizzare le proprie aspirazioni;
-per rispondere ad una vocazione;
-per il gusto di far bene il proprio lavoro e di farlo bene per gli altri;
-per un’aspirazione ad eccellere;
-per il desiderio di miglioramento continuo;
-per essere riconosciuti ed ammirati per il proprio valore
professionale;
-per la ricerca del bello e della spiritualità;
(vedi il libro di Bruno Frey “Non solo per denaro. Le motivazioni
disinteressate all’agire economico”).
Nell’era post-industriale del capitalismo flessibile e finanziario cosa
succede?
Se usiamo sempre la chiave di lettura della Arendt si può osservare
che:
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1.
l’azione politica dello Stato è sempre meno incisiva non potendo
efficacemente regolamentare, soltanto a livello nazionale,
fenomeni economici che si dispiegano su scala globale (si pensi
alla multinazionali, alla finanza speculativa) e subendo i vincoli
dettati da istituzioni sovranazionali a cui esso appartiene o fa
riferimento (EU, BCE, G8, G20, FMI, BM); lo Stato dovrebbe
invece tornare ad essere guida ed agente di un nuovo modello di
sviluppo (come è successo negli Usa di Obama). Questo
auspicabile protagonismo dello Stato è dettato dal fatto che le
politiche per lo sviluppo (che è un concetto assai diverso da quello
di crescita economica) finora perpetrate, che sono state fatte solo
dal lato dell’offerta (traducendosi in incentivi rivolti alle imprese
per fare investimenti o per fare assunzioni), si sono rivelate
inefficaci. Infatti se non c’è un clima di fiducia generalizzata e se
non ci sono aspettative positive di ripresa economica gli
imprenditori non effettuano gli investimenti anche se vi sono
condizioni favorevoli per farli (“si può portare il cavallo alla
fontana, ma non si può obbligarlo a bere” è la metafora che si può
utilizzare per spiegare l’empasse). Occorre allora fare politiche di
rilancio della domanda aggregata rilanciando da un lato i consumi
privati attraverso la detassazione del lavoro e delle imprese e,
dall’altro, aumentando la domanda di beni richiesta dallo Stato,
ovvero la spesa pubblica produttiva, come avvenne nel caso del
New Deal di Roosvelt ideato in occasione della Grande
Depressione americana del 1929. Non si tratterebbe comunque
della meccanica riproposizione della ricetta keynesiana di allora
perché la strategia dovrebbe essere posta in essere in primis a
livello europeo (e, a cascata, a livello nazionale); perché non si
tratterebbe di realizzare grandi opere pubbliche tradizionali
(strade, ferrovie, etc.), ma piuttosto infrastrutture innovative
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2. (banda larga, ICT, nuovi materiali, etc.) ed investimenti pubblici
in nuovi campi di attività (ambiente, beni comuni, cura delle
persone, cultura, città, solo per citarne alcuni); perché
l’intervento dello Stato dovrebbe essere fatto anche con la
collaborazione dei privati e del settore non profit sin dalla fase
della sua progettazione;
3. il lavoro salariato, pur rimanendo preminente, si avvicina
qualitativamente sempre più all’opera per alcuni aspetti sia
positivi che negativi:
• il tramonto delle organizzazioni tayloriste, la sempre più spinta
terziarizzazione dell’economia, l’economia della conoscenza,
hanno contribuito alla diffusione, nell’ambito del lavoro salariato,
di occupazioni ad alta intensità di cervello o ad alto contenuto
creativo che somigliano per contenuto ad attività imprenditoriali;
• il lavoro salariato è sempre meno eterodiretto, pretende sempre
più capacità decisionale, coinvolgimento, partecipazione, capacità
di risoluzione dei problemi, capacità di interagire
armoniosamente con gli altri (D.Goleman parla di intelligenza
emotiva; S.Zamagni di razionalità relazionale; R.Sennett di
Profession with Community), tutte abilità tipiche del lavoro
autonomo;
• la flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro salariato
hanno d’altra parte assimilato quest’ultimo al lavoro indipendente
per le maggiori incertezze del mercato a cui è sottoposto,
trasformando le nostre società in “società del rischio” (come
sostiene il sociologo U.Beck);
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3. il lavoro indipendente condivide d’altra parte con il lavoro
dipendente precario un comune sentire: un senso di frustrazione
ed un senso di impotenza dovuti al fatto che:
• la finanza speculativa viene premiata con guadagni più rapidi e
facili rispetto ad un progetto di impresa che, attraverso
investimenti produttivi, crea o mantiene tanto faticosamente
l’occupazione nell’economia reale;
• gli imprenditori, specie quelli di più piccole dimensioni, hanno
attualmente tante difficoltà di accesso al credito presso le
banche;
• gli imprenditori sono tartassati da un’eccessiva pressione fiscale;
• gli imprenditori devono fronteggiare le spietate dinamiche della
iper-competizione connesse alla globalizzazione.
Gli imprenditori perdono talvolta il coraggio e la volontà di
combattere, l’homo faber si riavvicina, afflitto dalla stessa
disperazione, all’animal laborans precario (vedi i recenti suicidi degli
imprenditori a seguito della crisi economica). La vulnerabilità è la
cifra interpretativa che accumuna ormai il “lavoro” all’“opera”.
Nonostante tutte queste condizioni avverse c’è un segnale di
speranza da cogliere: ultimamente la crescita più dinamica di nuove
imprese in Italia, anche se è occorsa sempre in settori tradizionali e
non innovativi, è avvenuta ad opera delle donne e degli immigrati, i
soggetti che, come i giovani, incontrano più difficoltà nel mercato del
lavoro.
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Il fare impresa, che dipende comunque non solo da particolari
attitudini individuali, ma anche dalle condizioni più o meno favorevoli
dettate dal contesto locale (vedi il recente libro di Enrico Moretti “La
nuova geografia del lavoro”), rappresenta una valida alternativa al
lavoro dipendente che vi invito a prendere in considerazione.
Maggiore imprenditività, ma al tempo stesso maggiore flessibilità e
precarietà non sono però le uniche tendenze emergenti nel lavoro
dipendente di oggi. Segnalo anche:
1. maggiore mobilità geografica e fuga dei cervelli all’estero;
2. per alcuni tipi di lavoro esigenza di fedeltà assoluta (rinuncia alla
famiglia, non rispetto delle festività, sempre minore disponibilità
di tempo libero);
3. crescente pervasività del lavoro nella sfera del tempo libero
dovuta alle ICT (si è sempre raggiungibili ed il lavoro diventa
un’istituzione sempre più totalizzante);
4. penalizzazione nel lavoro dei giovani ad istruzione medio-alta (la
banca dati Excelsior ci rivela che le imprese, per diverse
motivazioni, privilegiano personale con qualifiche tecnicoprofessionali più che i laureati);
5. disallineamento tra alcune tipologie di titoli di studio ed i settori
dell’economia in cui si trova lavoro (ciò vale soprattutto per i
laureati in discipline umanistiche);
6. disallineamento tra titolo di studio e qualifica ricoperta sul posto
di lavoro (educational mismatch).
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Si noti che: i due disallineamenti, specie se si cumulano,
comportano il fatto che il lavoro si vive ormai solo come fonte di
reddito (tra l’altro esigua) e non come possibilità di dare senso alla
propria vita.
In questo quadro di problematiche trasformazioni del lavoro e di
sfasamento tra istruzione e mercato del lavoro, che va risincronizzato
con adeguate politiche attive del lavoro, mi sento tuttavia di dire che:
1. bisogna scegliere di studiare ciò che si ama di più, andando alla
ricerca genuina della propria vocazione (di qui l’importanza
strategica della funzione dell’orientamento);
2. il lavoro, anche quello che temporaneamente può non
corrispondere, per inquadramento e per settore di esplicazione,
al titolo di studio conseguito, è comunque importante perché è
uno strumento di emancipazione in quanto non ci fa vivere
totalmente alle dipendenze degli altri e conferisce identità
sociale; perché ha valenza etica in quanto presuppone uno spirito
di servizio ancora maggiore rispetto a quello che può essere in
gioco in un lavoro più confacente ed in quanto implica etica delle
virtù, ovvero l’esercizio di tanta pazienza ed umiltà che
migliorano le persone umanamente e spiritualmente;
3. anche nel caso di lavori non soddisfacenti bisogna sempre
cercare di fare al meglio quello che si fa, perché questo è un
modo di preservare la propria dignità professionale, evitando
l’abbrutimento e facendo comunque emergere la bellezza (in
greco il verbo “fare”, poein, ha la stessa radice di “poesia” ad
indicare il legame tra un lavoro eseguito con maestria e l’arte);
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4. i percorsi lavorativi sono segmentati, fluidi e transitori sia in male
(precarietà) che in bene (non si rimane inchiodati per sempre
nello stesso lavoro e nella stessa posizione).
Chiudo con un messaggio di speranza:
Una serie di promettenti opportunità si profilano con il Programma
“Garanzia Giovani”, previsto dall’Agenda europea 2014-2020. Una
direttiva europea ha sancito l’obbligo per i paesi europei in cui la
disoccupazione giovanile è maggiore del 25% (in Italia siamo al 41,6%)
di garantire, a partire dal 2014, ai giovani un percorso di orientamento,
formazione, inserimento lavorativo entro 4 mesi dall’inizio della
disoccupazione o dall’uscita dal sistema di istruzione.
Ed anche se questo programma si cala nello scenario incerto della
abolizione delle Province e della Riforma dei Centri per l’impiego, esso
rappresenta un’occasione da cogliere appieno.
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*Relazione presentata al convegno su “Il lavoro”, svoltosi l’11
gennaio 2014, presso Palazzo Trinci, Foligno.
**Cristina Montesi è ricercatrice alla Facoltà di Economia di Perugia,
professore affidatario di Politica economica presso la Facoltà di
Economia di Perugia, professore affidatario di Economia pubblica e
dei settori produttivi e di Economia dell’Ambiente presso la sede di
Terni della medesima Facoltà, professore affidatario di Economia
dello Sviluppo presso l’Università degli Stranieri di Perugia. Tra i suoi
più recenti libri: P.Grasselli, C.Montesi (2008) (a cura di),
L’interpretazione dello spirito del dono, Franco Angeli, Milano;
P.Grasselli, C.Montesi (2010) (a cura di), Le politiche attive del
lavoro nella prospettiva del bene comune, Franco Angeli, Milano;
P.Grasselli, C.Montesi (a cura di), L’associazionismo familiare in
Umbria. Cura, dono ed economia del bene comune, Franco Angeli,
2013.
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