La Qualità nella scuola non può essere considerata solo un caso particolare dell'applicazione di principi, metodi e strumenti elaborati in altri contesti produttivi, ma ...
1. PROGRAMMARE LA QUALITA’ EDUCATIVA
Seminario di Aggiornamento
per Insegnanti di Scuola dell'Infanzia
Dispense a cura del
Prof. Angelo Pennella
Angelo R. Pennella, Programmare la qualità educativa -1-
2. La Qualità nella Scuola non può essere considerata solo un caso particolare dell’applicazione
di principi, metodi e strumenti elaborati in altri contesti produttivi, ma deve essere piuttosto
considerata come una questione centrale per lo sviluppo economico e sociale del Paese.
Questo per almeno due motivi:
• il primo è riconducibile al fatto che oggi operiamo in una economia di rete, in cui il
successo di una organizzazione (si veda scheda di approfondimento n° 1) è direttamente
connesso non solo ai livelli di cooperazione che si realizzano all’interno dell’organizzazione
stessa ma anche alla capacità di correlarsi con il tessuto sociale ed economico in cui ci si
trova ad operare.
• Il secondo motivo è da ricondurre al fatto che la scuola è un sistema essenziale per
la società ma è anche particolarmente complesso e vulnerabile. Questo ci deve
spingere a riflettere sugli equilibri esistenti tra risorse tecniche e risorse umane, tra vincoli
ed opportunità offerte dalle attuali normative e capacità di ogni singola istituzione
scolastica di confrontarsi con esse.
Questioni in precedenza complementari rispetto alla buona organizzazione della produzione
si propongono come fattori decisivi per il successo: il rapporto con i fornitori, l’accesso al
credito, la disponibilità di servizi di rete e all’impresa, il sistema di opportunità e vincoli
definito dalle normative, il livello della ricerca tecnologica, la qualità delle risorse umane.
Il compito di ripensare la scuola nella prospettiva della Qualità (vedi scheda di
approfondimento 2) è certamente difficile, perché questa organizzazione non si è sviluppata
tanto come un servizio rivolto alla persona, quanto piuttosto come uno strumento di
integrazione nel sistema sociale, strumento governato e gestito in funzione di regole definite
dallo stato nazionale.
In questa prospettiva è la scuola a stabilire:
• i contenuti dell’insegnamento;
• gli standard di apprendimento;
• i criteri di valutazione degli allievi;
• la ‘certificazione’ di conformità degli allievi.
L'utilizzatore del servizio scolastico non è considerato come un cliente, ma come una materia
prima da plasmare.
Questo pone, tra l’altro, il problema di riflettere sulla definizione dei ruoli esistenti nell’ambito
dell’organizzazione scolastica:
• chi sono gli utenti del servizio? Chi sono i committenti? A chi risponde l’organizzazione?
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3. Si potrebbe comunque pensare che il fatto di considerare la scuola come una organizzazione
al servizio non della persona ma della collettività può risultare utile allo sviluppo sociale ed
economico del Paese.
Ma anche in questa prospettiva, la questione non cambia: la necessità è infatti sempre quella
di mantenersi in contatto con i propri interlocutori. L’aggiornamento dei contenuti offerti, ad
esempio, può essere fatta in funzione delle richieste dei ragazzi o dei genitori così come del
mondo culturale e produttivo: la questione è quella di evitare la
• autoreferenzialità
e di riorganizzare il sistema scolastico per recuperare efficacia ed efficienza, ma anche, a mio
avviso, per innalzare i livelli di congruenza tra le attività svolte e la mission istituzionale.
A questo proposito può essere interessante ricordare che Deming, a proposito delle
organizzazioni formative - scolastiche in particolare - riconosce che l’esistenza di una forte
spinta verso la competizione individuale (riferimento a standard di apprendimento predefiniti,
forte meritocrazia, ecc.) può indurre dei preoccupanti fenomeni di sotto-ottimizzazione, con
la conseguente emarginazione di gran parte della risorsa umana disponibile in un Paese,
attraverso un processo di selezione e di dispersione drammaticamente costoso.
Questa dispersione di risorse è in gran parte frutto di un atteggiamento che non è attento
alle esigenze ed ai bisogni, non facili da identificare, del destinatario, del cliente del servizio.
Quando si tenta di fare Qualità nella Scuola ci si incontra quindi con un’istituzione scolastica
in cui il cliente (possiamo parlare in modo forse più corretto di committente) è più facilmente
identificabile nello Stato che non in colui che fruisce del servizio (parleremo, in questo caso
di utente).
Lo Stato è per convenzione l’entità che recepisce una committenza sociale più o meno
definita e più o meno condivisa e che interpreta quindi quelli che sono i bisogni del Paese,
del contesto sociale e produttivo e li traduce in una serie di prescrizioni. Esso da un lato
definisce quali sono i contenuti che la scuola deve insegnare, dall'altro definisce quali sono i
livelli ai quali è considerato accettabile l’apprendimento da parte dell’utilizzatore della scuola,
da parte degli studenti (si pensi, in questo senso, al Servizio Nazionale per la Qualità
dell’Istruzione e all’Archivio Docimologico).
Da queste brevi osservazioni si può dedurre che chi opera seriamente all’interno della scuola
si pone due obiettivi:
• insegnare tecnicamente bene;
• valutare in modo equo i livelli di apprendimento raggiunti.
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4. Se si riflette tuttavia su questi obiettivi, su cui - per altri versi - potremmo certamente
concordare, ci si rende conto che l’atteggiamento che essi traducono è molto simile, come ha
osservato Vairetti, a quello che potrebbe avere un ingegnere. L’attenzione viene infatti
rivolta al compito che l’insegnante si propone di svolgere e alla correttezza (tecnica e
morale) dei criteri di valutazione utilizzati.
Quello che si rischia di perdere è la relazione, la partecipazione al processo educativo
dell’utente. Non si considera cioè che l’insegnamento è innanzitutto un fatto di
comunicazione, come ha dichiarato Titone, e che si tratta sempre e comunque di una
processo circolare.
Anche nella scuola troviamo situazioni di questo tipo, con l’insegnante tradizionale,
concentrato solo sulla buona trasmissione della propria disciplina. Una buona scuola
tradizionale funziona così. Ma perché si parla di scuola tradizionale? Perché questo è stato il
modello dominante, mai messo in discussione almeno fino alla riforma del 1974 con
l’introduzione degli organi collegiali nella scuola, di una Scuola dove c’era il Capo di Istituto
con potere di coordinamento, e gli insegnanti, ciascuno dedicato in quasi totale autonomia (e
sostanziale isolamento) al proprio campo specifico disciplinare. Si trattava di un’applicazione
particolarmente riuscita della divisione tayloristica del lavoro
Ciò che si è affermato dai decreti delegati in poi, anche sulla spinta del tentativo di dare una
risposta istituzionale alla contestazione studentesca, è stato lo sviluppo nella scuola di una
tendenza ad aprire le porte dell’organizzazione alle istanze sociali. L’occasione era tutt’altro
che irrilevante: si offriva infatti alla scuola la possibilità di dialogare con l’utenza e di
verificare le eventuali discrepanze esistenti tra i bisogni ed i desideri dell’utenza e quelli per
cui si riceveva la delega della committenza. Di fatto questa opportunità è stata perduta e la
scuola non ha posto in discussione le modalità di erogazione del proprio servizio ai cittadini.
Come è stato osservato da Piero Romei (“La Qualità nella Scuola”), le innovazioni dei decreti
delegati, in qualche modo imposte per legge ai singoli istituti, sono state depauperate dalla
cultura organizzativa della scuola che si fonda su una serie di elementi (si veda scheda di
approfondimento n° 2), tra cui ricordiamo:
• il forte individualismo del personale;
• l’assenza di effettivi controlli esterni;
• l’attenzione al cerimoniale.
Questa è la situazione che prevalentemente incontriamo oggi, per cui l’obiettivo del fare
bene scuola si traduce nel fissare obiettivi coerenti e di valutare la coerenza tra
apprendimento ed obiettivi. Non abbiamo più una assunzione sostanzialmente passiva delle
indicazioni dei programmi e della normativa nazionale all’interno della singola unità
scolastica, ma abbiamo una attenta elaborazione degli obiettivi, compito esclusivo degli
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5. operatori professionali della scuola, i docenti, e con la verifica della rispondenza
dell’utilizzatore del servizio ai livelli ed ai requisiti che questi obiettivi fissano.
Se l’esperienza ci deve essere da guida, possiamo quindi a buon titolo chiederci come
potrebbe essere integrata (fagocitata?) la Qualità nella cultura organizzativa della scuola.
Dobbiamo porci, in altri termini, il problema di come sia possibile promuovere un
cambiamento nella scuola che non sia puramente formale come è stato quello - almeno per
molte realtà scolastiche - dei Decreti Delegati: ecco quindi emergere il tema delle teorie e
delle tecniche del cambiamento. In questo senso possiamo parlare di un:
• cambiamento trasformativo
• cambiamento esplorativo,
ma anche di quelle tecniche che, ampiamente utilizzate in altri ambiti organizzativi, possono
agevolare la promozione del cambiamento, faccio riferimento al brainstorming e al problem
solvine (si veda la scheda di approfondimento n° 3).
Nel momento in cui si affronta il tema della Qualità nella scuola si ha quindi a che fare con
un tema difficile, molto più difficile di quanto non sia produrre la condivisione di obiettivi
quali l’efficacia o l’efficienza, più difficile che far condividere la necessità del controllo. Si
tratta cioè di arrivare a capire la scuola come servizio. L’obiettivo diventa progettare il
servizio a partire dalla verifica dei bisogni e da una attenta rilevazione della domanda.
Il vantaggio della scuola rispetto ad altre organizzazioni di servizio (si pensi alla sanità o alle
ferrovie) è forse identificabile nel fatto che l’utente si trova ad interagire per un lungo
periodo di tempo e per molte ore ogni giorno con la struttura di servizio e propone ad essa
una domanda molto complessa ed articolata.
Si è infatti sempre più consapevoli sia della articolazione dei bisogni che l’utenza rivolge alla
scuola sia della necessità di prendere in considerazione non solo il cosiddetto core service
proposto dalla struttura scolastica ma anche il pacchetto di servizi che essa può affiancare al
servizio principale.
Per la scuola questa costituisce una grande sfida, che rivela facilmente la non funzionalità
del tentativo di rispondere al bisogno complessivo dell’individuo attraverso un modello
astratto: l’esperienza dell’inadeguatezza e dell’inefficacia è quotidiana, almeno per gli
operatori più avveduti. In molti casi, di fronte a questo disagio non si sa cosa fare, ma
almeno la ricerca di strategie adattive è continua. Un insegnante che sa fare il proprio
mestiere ha immediatamente la consapevolezza che la semplice trasposizione di un modello
rigido non produce risultati adeguati proprio per le differenze individuali degli utenti del
servizio scolastico.
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6. Questa consapevolezza porta a capire che la tecnologia tipica del fare scuola, come per
qualunque altra azienda di servizi, deve essere pensata essa stessa come un servizio: cioè la
capacità di programmare il processo di erogazione del servizio scolastico (la competenza
professionale) non può essere fine a sé stessa, non può essere una scelta a priori, frutto di
un’opzione istituzionale o pedagogica, o ideologica. Il possesso di requisiti, di competenze e
professionalità, di tecniche operative, deve essere posto al servizio delle persone.
Una strategia adeguata per la qualità della scuola richiede un percorso che parta dall’ascolto
e dall’analisi dei bisogni per elaborare una proposta educativa e formativa. Anche la scuola,
come ogni azienda, deve partire da una ricerca di mercato.
In questo senso è necessario che il servizio scolastico si organizzi in funzione dei bisogni
dell’utenza e sia in grado di programmare e realizzare un percorso che consenta la
produzione di un apprendimento, di uno sviluppo professionale, di una crescita per le
persone.
Certamente questo si declina in modi diversi in funzione della fascia di età degli utenti (se
consideriamo gli allievi) e del loro rapporto con le famiglie ed il contesto sociale e lavorativo
in cui sono inseriti.
La programmazione del servizio mette in sequenza una serie di attività e operazioni,
arrivando a costruire un processo complesso e articolato, ad identificare le responsabilità che
ciascuno degli attori (insegnante, coordinatore/dirigente scolastico, genitore, studente...) ha
nelle diverse parti di questo processo, a definire quali metodi e quali mezzi permettono la
realizzazione delle singole operazioni.
Fare qualità nella scuola significa dunque anzitutto ricostruire il processo di progettazione,
organizzazione, produzione e erogazione del servizio: si tratta di modificare la cultura
organizzativa.
Ma questo implica, tra l’altro, affrontare il tema della leadership delle singole istituzioni
scolastiche perché è possibile promuovere la qualità solo quando la direzione di una
organizzazione è in prima persona coinvolta nel processo di cambiamento. Lo stile nella
gestione del personale si affianca, d’altro canto, a quello di un cambiamento nelle modalità
di lavoro. Sebbene la scuola sia una organizzazione in cui si tende spesso ad utilizzare il
gruppo come contesto del cambiamento, il personale della scuola è forse tra quelli meno
preparato ad affrontare il tema del gruppo di lavoro.
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7. SCHEDA 1
Il termine organizzazione può essere facilmente associato a parole come ordine,
efficienza, gerarchia, obiettivi, struttura, divisione del lavoro, ruoli, coordinamento. Queste
parole tendono a farci considerare il fare organizzazione come un mezzo per ottenere un
buon risultato proprio grazie ad una organizzazione delle caratteristiche suddette.
Probabilmente, in ambito aziendale, il termine “organizzazione” viene utilizzato per definire le
funzioni presenti nella società ed il loro rapporto con il compito ed il ruolo.
Il termine organizzazione può essere però utilizzato anche per indicare alcuni sistemi
complessi come gli ospedali, la scuola, gli enti pubblici, ecc.: in questo caso si parla spesso
di organizzazione complessa o di organizzazione formale. In questa accezione una
organizzazione formale può essere considerata come un “gruppo organizzato con obiettivi,
regole e regolamenti formalmente fissati e con un sistema di ruoli specificamente definiti,
con diritti e doveri chiaramente stabiliti” (Theodorson, 1975).
Essa si distingue dal gruppo formale in quanto, a differenza di quest’ultimo, possiede non
solo dimensioni ma anche livelli di formalizzazione maggiori. Rientrano nella categoria delle
organizzazioni formali le scuole, gli ospedali, le associazioni volontarie, gli enti governativi, le
società private, ecc.
Pur nella loro diversità, possiamo rilevare in tutte queste prospettive una serie di elementi
comuni che ci consentono di affermare che l’organizzazione e:
• un sistema complesso di persone
• associate per il conseguimento di uno scopo unitario
• fra cui si dividono le attività da svolgere
• secondo certe norme
• stabilendo a tal fine dei ruoli
• collegati fra loro in modo gerarchico
• in rapporto dinamico con l’ambiente esterno.
Sebbene possa sembrare una notevole semplificazione della realtà, si può comunque
affermare che un insieme di persone costituiscono una organizzazione quando sono in grado
di:
• assicurare una serie di processi comunicativi a livello intersoggettivo e
istituzionale;
• mostrare una disponibilità a fornire il proprio contributo in funzione di un fine
comune.
Una organizzazione si caratterizza quindi dalla presenza di tre elementi:
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8. 1. la comunicazione;
2. la disponibilità dei suoi membri a contribuire alle attività svolte
dall’organizzazione in rapporto ai propri obiettivi;
3. un fine comune.
Mentre i primi due elementi possono essere considerati come delle condizioni necessarie e
sufficienti per la costituzione di una organizzazione, il fatto di avere un fine comune viene
dato solitamente per scontato, sebbene, come avremo modo di osservare più avanti, questo
implica spesso l’impossibilità di analizzare le discrepanze che i singoli soggetti o i sottogruppi
che costituiscono l’organizzazione possono avere rispetto ad esso.
Affinché una organizzazione possa avere una esistenza prolungata nel tempo, essa deve far
si che la propria attività si caratterizzi come un valido mix tra efficacia ed efficienza (1).
Nella nostra prospettiva, la vitalità di un’organizzazione è strettamente legata alla
disponibilità dei suoi membri a contribuire al conseguimento del fine comune. Tale
disponibilità si fonda da un lato nel convincimento che il fine possa essere concretamente
raggiunto, dall’altro nel fatto che si sia sufficientemente motivati ad assicurare nel tempo la
propria partecipazione alle attività svolte dall’organizzazione.
Una qualsiasi modificazione in queste due condizioni tenderà ad incidere sull’efficacia o
sull’efficienza dell’organizzazione. Se si dovesse perdere, ad esempio, la convinzione che il
fine comune possa essere effettivamente raggiunto, l’efficacia tenderebbe a crollare mentre,
se venisse intaccata la disponibilità del personale a prolungare nel tempo la propria
compartecipazione al fine dell’organizzazione, quello che si perderebbe sarebbe l’efficienza
dell’organizzazione stessa.
In sostanza, possiamo affermare che, se al momento della sua costituzione è necessario
assicurare la presenza di tutti e tre gli elementi da noi segnalati (comunicazione, disponibilità
a partecipare e fine comune), si può tuttavia sperare che l’organizzazione resista nel tempo
solo a condizione che si mantenga un equilibrio tra questi elementi.
(1)
Mentre per efficacia si indica la capacità di un singolo o di una organizzazione a raggiungere gli obiettivi che
ci si è proposti di ottenere con la propria azione, per efficienza ci si riferisce alla capacità di raggiungere gli
obiettivi con il minore costo possibile.
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9. SCHEDA 2
E’ certamente difficile dare una definizione esaustiva del concetto di qualità. In passato si
tendeva ad associare ad esso l’idea del lusso, di una “eccedenza” spesso non legata al
necessario. In un secondo momento, il termini è stato utilizzato per indicare il rispetto o, per
meglio dire, la conformità dell’oggetto/prodotto con determinate specifiche (fornite a volte
dal progettista, a volte dallo stato). Il Department of Defense statunitense definiva la qualità
come la “somma di tutti gli attributi o caratteristiche comprese le prestazioni di un prodotto”.
In una fase successiva, il concetto si è esteso dal prodotto/servizio al processo produttivo e
all’organizzazione che lo produceva. L’attenzione si è cioè spostata dall’output fisico a quello
organizzativo, ma si è anche introdotta l’idea che la qualità non potesse essere considerata
come una caratteristica “oggettiva”, indipendente dalle caratteristiche e dai bisogni del
consumatore/utente, ma dovesse essere considerata in funzione di questi ultimi. Evidente, in
questo senso, la definizione di Feigenbaum che considera la qualità “non la migliore in senso
assoluto, bensì la migliore per certe condizioni del cliente”.
Questo cambiamento di prospettiva risultò determinante quando si estese il concetto di
qualità dall’ambito merceologico a quello dei servizi. Per questi ultimi, la qualità non si
riferisce a standard numerici quantificabili/misurabili (ad es. la resistenza di una corda ad
una determinata forza di trazione), ma anche e specialmente a bisogni, attese, desideri.
Nell’ambito dei servizi – e la scuola è ovviamente una organizzazione che offre
essenzialmente un servizio alla propria utenza – la qualità può quindi essere espressa con il
seguente rapporto:
Sebbene possa apparire scontato, c’è anche da aggiungere che un importante elemento da
considerare è il rapporto tra costi e qualità del servizio. E’ infatti evidente che la
soddisfazione del cliente debba avvenire utilizzando al meglio le risorse (umane e
strumentali) disponibili.
La qualità si configura, infine, come la sommatoria di una serie di dimensioni, tra cui:
la qualità tecnica (riguarda il prodotto/servizio offerto e la sua capacità di rispondere
ai bisogni del cliente/utente);
la qualità relazionale (riguarda il come viene offerto il prodotto/servizio e si riferisce
agli aspetti comunicazionali e relazionali della transazione);
la qualità ambientale (riguarda il dove si può fruire del prodotto/servizio e si riferisce
all’accessibilità e al confort);
la qualità economica (riguarda il quanto si deve pagare per un determinato
prodotto/servizio)
la qualità organizzativa (riguarda il modo con cui il prodotto/servizio può essere
fruito dal cliente/utente e si riferisce alla funzionalità, semplicità, ecc.).
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10. SCHEDA 3
Il primo tratto che ha caratterizzato per decenni la cultura organizzativa della scuola è
l’individualismo. Il singolo insegnante, in modo particolare dalle elementari in poi, ha
sempre svolto un lavoro fondato su una competenza disciplinare specifica, posseduta in
maniera esclusiva rispetto al gruppo dei colleghi della medesima classe. Tale competenza,
esercitata in situazioni operative – le classi – caratterizzate da dinamiche particolari
agevolava lo sviluppo di una azione educativa e didattica individuale e praticamente
insindacabile. Gli insegnanti si sono quindi abituati a lavorare da soli, rispettando l’esclusività
delle competenze distintive reciproche, decidendo autonomamente come impostare e gestire
il proprio ruolo operativo, i contenuti e le modalità didattiche da utilizzare.
Il secondo tratto tipico della scuola come organizzazione formale è individuabile nella
convinzione della natura essenzialmente qualitativa del proprio lavoro. Da tale
convinzione viene spesso fatta discendere l’affermazione secondo cui il lavoro educativo e
didattico svolto dal docente – a volte anche quello del discente – non può essere sottoposto
a valutazione perché non quantificabile.
In qualche modo correlato al precedente, nella scuola è forte la tendenza ad accettare
con difficoltà qualsiasi controllo esterno in ordine ai contenuti, alle modalità operative
e ai risultati conseguiti attraverso l’azione didattica svolta, cosa che si traduce in una sorta di
autoreferenzialità del singolo docente. Sebbene sia ovvia la necessità di garantire la
libertà dell’insegnamento, è però utile ricordare che questo tratto è alla base della scarsa
abitudine degli insegnanti a condividere e a confrontarsi con i colleghi rispetto al lavoro
svolto.
Un altro tratto distintivo della cultura organizzativa della scuola è l’attenzione al
“cerimoniale”, cioè agli adempimenti formali che i singoli docenti sono tenuti a rispettare.
Essi scandiscono burocraticamente il rapporto di appartenenza di insegnanti ed allievi alla
struttura scolastica nonché le condizioni per lo sviluppo del processo didattico, fissando
requisiti, tempi, procedure ed atti dovuti. Di fatto, questi adempimenti burocratici sono i soli
comportamenti attuati dagli insegnanti sottoposti a controllo esterno e a eventuali sanzioni.
L’ultimo tratto della cultura organizzativa della scuola – peraltro ampiamente condivisa da
tutta la Pubblica Amministrazione – è l’abitudine degli insegnanti a considerarsi
socialmente, normativamente ed economicamente garantiti dallo Stato (la
situazione si è comunque molto modificato in questi ultimi anni).
C’è da aggiungere che i tratti indicati si inseriscono in uno scenario culturale e sociale che ha
subito, dagli anni ’70 ad oggi, un notevole cambiamento. Sono stati, infatti, messi in
discussione gli assunti secondo cui la scuola consentiva:
l’acquisizione di conoscenze e competenze direttamente spendibili nel mondo del lavoro;
l’accesso agevolato e rapido alla vita produttiva.
Proprio il cambiamento dello scenario sembra aver agevolato le riflessioni sulle
caratteristiche della cultura organizzativa della scuola.
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11. SCHEDA 4
Il brainstorming (“tempesta delle idee”) è una tecnica messa a punto da Alex Osborn
prima della seconda guerra mondiale ed è un metodo semplice ed efficace se si intendono
ricercare soluzioni innovative ed originale ai problemi.
Il brainstorming si basa sul principio del giudizio posticipato, ciò significa che la ricerca di
soluzioni si attua in due fasi temporali nettamente distinte:
1. la ricerca di idee (fase divergente);
2. la critica e la valutazione delle idee (fase convergente).
Nel corso della prima fase non bisogna esprimere nessun giudizio o valutazione (ad es. di
fattibilità) sulle idee espresse: i partecipanti devono accogliere qualsiasi proposta con la
massima apertura e disponibilità. Solo quando le idee sono state tutte esplicitate, annotate e
raccolte il gruppo passerà alla seconda fase. E’ necessario che il conduttore mantenga
nettamente distinte le due fasi.
Osborn ha indicato alcune semplici regole per il buon funzionamento della prima fase del
brainstorming:
1. è proibita la critica sia delle idee altrui che delle proprie;
2. è gradita l’immaginazione più sfrenata; tutte le idee, anche le più sfrenate o folli non
solo sono autorizzate ma desiderate ed auspicate;
3. è necessario giocare con le idee, nel senso di farle “rimbalzare” all’interno del gruppo
al fine di elaborarle e combinarle in ulteriori idee/proposte;
4. è opportuno ricercare il maggior numero di idee possibili per avere molto materiale
per la fase di critica e valutazione.
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