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VIRAL ‘K’ MARKETING




           1
VIRAL ‘K’ MARKETING
      Andrea Natella
Siamo tutti soggetti all’azione delle idee virali. Come nell’isteria di massa.
Una musica che ti entra in testa e continui a canticchiarla per tutto il giorno e,
alla fine, l’attacchi a qualcun altro. Le barzellette. Le leggende metropolitane.
Le religioni strampalate. Il marxismo. E per quanto intelligenti diventiamo, esiste
sempre in noi questa parte irrazionale profonda che ci rende potenziali portatori
di informazioni autoreplicanti.

Neal Stephenson, Snow Crash



Viral marketing e pubblicità virale sono termini riferiti a tecniche di comunicazione
che usano social network preesistenti per incrementare la awareness o per ottenere
altri obiettivi di marketing attraverso dei processi di auto-replicazione analoghi
a quelli propri della diffusione dei virus biologici o informatici.
Il marketing virale può prendere le forme di clip video, advergame, ebook,
software brandizzato, immagini o testi.

Wikipedia, Marketing Virale




Nel 1898 il botanico olandese Martinus Beijerinck fu il primo a
identificare l’agente di una strana epidemia che colpiva la famiglia
delle solanaceae, piante come le patate, le melanzane, il pomodoro,
il peperoncino e il tabacco. Attraverso un’operazione di filtraggio
delle foglie di tabacco Beijerinck riuscì a isolare il virus del mosaico
del tabacco, il primo virus identificato dall’uomo.
Per riuscire in questa impresa Beijerinck utilizzò un filtro inventato
pochi anni prima da Charles Chamberland. Si trattava di un
filtro in porcellana che, una volta riscaldato, riusciva a trattenere
particelle che fino ad allora era impossibile rilevare.
VIRAL ‘K’ MARKETING




Le pagine che seguono rappresentano un tentativo di
riscaldare il mondo del marketing virale per vedere cosa
rimane al di qua di un metaforico filtro di Chamberland, quali
sono cioè le caratteristiche propriamente virali dei contenuti
di comunicazione scambiati tra gli utenti. Proveremo a
prendere sul serio le similitudini con il mondo della biologia
per verificare fino a che punto questa metafora possa reggere il
confronto con le problematiche proprie della comunicazione
pubblicitaria.

Negli ultimi tempi la metafora al cuore del marketing virale si
è progressivamente indebolita. I social media hanno costituito
un proprio campo autonomo di investimenti in virtù della loro
forza in termini di misurabilità. L’attenzione si è così spostata
dalla virologia all’epidemiologia, dal virus al suo ambiente di
replicazione. Ora che le numeriche associate ai social media
mostrano la loro fragilità intrinseca è ancora più necessario non
perdere di vista il ruolo del virus, l’agente moltiplicatore che
contraddistingue ogni campagna virale efficace e di successo.


                    POSTA BOLLENTE

Il termine viral marketing è stato reso popolare nel 1996 dai
venture capitalist di Draper Fisher Jurvetson per sostenere il
proprio investimento su Hotmail, uno dei primissimi servizi
di email gratuite disponibile sul web. Con questo termine
si voleva descrivere la rapidità con cui Hotmail riusciva a




                                  5
farsi adottare da nuovi utenti. La strategia era semplice ed è
tuttora la chiave di qualsiasi strategia di marketing vincente:
il prodotto deve incorporare una funzione pubblicitaria al suo
interno. Storicamente ciò è sempre avvenuto grazie alle qualità
intrinseche del prodotto stesso: la bontà del prodotto.

In tempi recenti, a partire dagli anni cinquanta, al valore
della qualità intrinseca del prodotto si è aggiunto il design:
la bellezza del prodotto. Il successo di Hotmail inaugura una
terza possibilità ovvero quella per cui il prodotto incorpora un
elemento verbale o paraverbale di autopromozione: la bravura
del prodotto.
La soluzione adottata dai marketer di Hotmail fu probabilmente
istintiva: in coda a ogni email inviata è stata aggiunta una
semplice tag-line “Ottieni la tua casella e-mail privata e gratis
con www.hotmail.com”, come se avessero prodotto delle t-shirt
con la scritta “compra anche tu una maglietta come questa”. Nel
caso di Hotmail però questa strategia ha davvero funzionato.
Il messaggio di Hotmail ha potuto essere efficace nonostante
fosse esplicito e diretto in modo quasi grossolano grazie al fatto
che presentava 1) un servizio gratuito 2) facile da spiegare ad
altri che 3) possono attivarlo rapidamente 4) spinti da vantaggi
5) che possono essere condivisi 6) grazie a una rete tecnica che
preesiste al messaggio stesso.
Sono i sei principi del marketing virale teorizzati e resi celebri da
Ralph F. Wilson in un celebre articolo del 2000 su Web Marketing
Today3. È anche grazie all’identificazione di questi principi che
Hotmail è diventato rapidamente un benchmark di viral marketing.
VIRAL ‘K’ MARKETING




Oggi però quando si parla di marketing virale non ci si riferisce
quasi mai a prodotti che incorporano naturalmente questi sei
elementi di viralità. Il prodotto da promuovere può essere di
qualsiasi tipo e il compito a cui è chiamato a rispondere il viral
marketer è quello di articolare una relazione con il consumatore
in grado di raggiungere obiettivi analoghi a quelli raggiunti da
Hotmail.
Per farlo ci si affida ad artefatti esterni al prodotto, strumenti
di mediazione simbolica come video, applicazioni, advergame
o siti web. Sono mediatori che includono simbolicamente il
prodotto stesso: i valori di marca, le funzionalità, la fisicità etc.
Questi mediatori sono il fantasma di un prodotto virale come
Hotmail ma hanno il vantaggio della replicabilità infinita e
consentono una precisa misurazione delle redemption di
fruizione degli utenti.
Ma anche se la misura del risultato finale può essere molto
precisa, la possibilità di prevedere tali risultati è sempre
un azzardo. Come nei processi epidemiologici gli esiti
dipendono dall’aggressività che il virus è in grado di mostrare
nell’ambiente, così l’efficacia di una campagna di marketing
virale dipende dalla forza della creatività e può essere misurata
solo al termine del processo. Lo sviluppo epidemico è fluido,
asintotico, browniano, per questo non è del tutto prevedibile
se non per quella parte sostenuta da strumenti più tradizionali
come banner, inserzioni, digital pr etc.
L’unica misurazione certa di un processo virale è possibile solo
al termine del processo, quando il virus viene debellato oppure
diventa endemico.




                                    7
Per questo, nonostante l’enfasi sulla misurabilità consentita dai
social media, la logica della viralità risponde a logiche più simili
a quelle della teoria del caos che non alla meccanica newtoniana
azione-effetto. Come nella meteorologia, il successo di una
campagna virale dipende da movimenti stocastici, traiettorie
infinite e strani attrattori. Solo attraverso la definizione delle
condizioni iniziali e la conoscenza dei meccanismi di viralità è
possibile anticipare i risultati e non ridursi al ruolo di danzatori
della pioggia nel cortile delle aziende.


                  PARASSITI OBBLIGATI

I virus sono entità biologiche incapaci di riprodursi
autonomamente. Non sono organismi viventi in senso
proprio in quanto non possiedono le strutture biochimiche
e biosintetiche necessarie alla loro replicazione. I virus non
potrebbero vivere o, meglio ancora, sarebbero già estinti se
non avessero trovato un modo creativo per sopperire a questa
loro condizione: penetrano all’interno delle cellule e utilizzano
le loro strutture per la replicazione. La scienza definisce
questo stile di vita con il termine di parassitaggio endocellulare
obbligato. In altre parole, i virus sono obbligati a essere parassiti
altrimenti non potrebbero riprodursi e si estinguerebbero alla
prima generazione.
È la creatività a salvare i virus dalla morte. Una creatività che
ha la forma di un testo scritto in codice genetico che deve
poter essere compreso dalle strutture delle cellule parassitate.
VIRAL ‘K’ MARKETING




Infatti ciò che il virus vuole preservare non è la sua esistenza
individuale ma è piuttosto la sua identità di specie, il suo
contributo particolare e unico all’ecosistema vivente: il suo
patrimonio genetico.
È per preservare questo tesoro che il patrimonio genetico
viene sempre nascosto alla cellula da una capside, una capsula
proteica codificata dal genoma virale. Se la capside non viene
accolta dalla cellula ospite allora il patrimonio genetico non
riesce a replicarsi ed è destinato all’estinzione. È questo che
succede alla maggior parte dei virus. La cellula si difende
dall’invasione e il virus non riesce a penetrarla, oppure la
cellula non capisce il messaggio del virus e semplicemente lo
ignora. Come durante l’assedio di Troia, il cavallo deve essere
riconosciuto come un dono di pace affinché gli vengano aperte
le porte della città. Ma se i soldati che scendono dal cavallo di
Troia si limitano alla conquista della città, nel caso dei virus
invece quei soldati scendono e utilizzano Troia come opificio
per costruire nuovi cavalli con cui conquistare nuove città da
trasformare in opifici.




                                  9
ALGORITMI INFORMATICI

Questa meccanica ricorsiva prima di diventare una suggestione
per il mondo del marketing ha infettato quello dell’informatica
ed è diventata metafora per spiegare il funzionamento di una
categoria specifica di malware informatici.
Come i virus biologici anche quelli informatici sono incapaci di
produrre un effetto se non quando riescono a infettare almeno
un file presente nella memoria di un computer. A partire da
questo primo file, il virus riesce a copiare se stesso su altri
file presenti nella macchina ospite e in altri sistemi a questa
collegati. I software infetti iniziano così a funzionare in modi
non previsti dal proprio codice e rispondono alle esigenze di
replicazione del virus e alle finalità spesso malevole previste da
chi li ha programmati.
Per raggiungere questi risultati i virus informatici adottano
una strategia di dissimulazione. Nascondono al software la
propria identità e comunicano con i file senza destare sospetti
presentandosi come un dato che il file è abituato a scambiare
con il suo ambiente esterno. Attraverso questo sotterfugio
creativo di programmazione i virus informatici raggiungono
il loro obiettivo: accrescere la popolazione e moltiplicare i
propri effetti. Come i virus biologici anche i virus informatici
non perseguono la vita del singolo programma ma quella di
un patrimonio genetico che in campo informatico prende il
nome di algoritmo.
Un algoritmo è un modello matematico finalizzato alla
risoluzione di un problema. È un concetto che esprime
VIRAL ‘K’ MARKETING




in modo immediato e diretto la tensione verso un effetto.
Ovviamente anche il patrimonio genetico contempla un
effetto in quanto è responsabile dello sviluppo del fenotipo.
L’algoritmo sottolinea però con più evidenza la funzione
escatologica poiché è per definizione “un metodo per produrre
un risultato”. Se il patrimonio genetico ci induce a guardare
al cavallo, con l’algoritmo vediamo già la conquista di migliaia
di città trasformate in opifici per la produzione di cavalli di
Troia.


               CREATIVITÀ OBBLIGATA

Sono queste caratteristiche ad avere permesso che il termine
virale trovasse posto con facilità ed eleganza accanto alla parola
marketing. Così il viral marketing è diventato una tecnica che,
attraverso meccanismi analoghi a quelli dei virus biologici o
informatici, sfrutta i social network per incrementare la brand
awareness o ottenere altri obiettivi commerciali.
Il virus in questo caso è un mediatore simbolico che può assumere
la forma di un video, di un sito web, di un advergame o anche
solo di un semplice testo. Questi formati assolvono la funzione
di mediazione poiché codificano al loro interno un algoritmo di
marketing, un insieme di istruzioni rivolte ai consumatori e tese
alla valorizzazione del prodotto.
Come nel caso dei virus biologici o informatici, l’essenziale
non è la replicazione del messaggio ma la propagazione del
suo algoritmo: il patrimonio genetico della marca.



                                  11
Nel mondo biologico la struttura della capside con cui il
virus si presenta alle cellule è uno degli effetti previsti dal suo
patrimonio genetico. In informatica come nel viral marketing
il modo in cui il patrimonio virale si presenta al pubblico è
invece un’invenzione creativa. Compito del programmatore
come del pubblicitario è quello di immaginare e realizzare
un mediatore simbolico che abbia le stesse caratteristiche di
inseparabilità che in natura rendono il patrimonio genetico e
la capside un’unica entità biologica. In gergo informatico si
direbbe che si tratta di realizzare un buon hack, una creazione
in cui eleganza e funzione si integrano con naturalezza.
Quando il mediatore simbolico viene messo alla prova della
diffusione deve essere abbastanza robusto da preservare il
patrimonio genetico da dinamiche ricombinanti che possono
ledere l’identità e il messaggio di marca. Per questo la creatività
è il vero fattore strategico di ogni campagna virale.

Il messaggio virale perfetto dovrebbe avere l’efficacia dello
Snow Crash di Neal Stephenson4, un virus neurolinguistico in
grado di colpire direttamente le strutture profonde del cervello
umano, oppure quello della Ninna Nanna di Chuck Palahniuk5,
la filastrocca africana che provoca la morte di chi la ascolta.


                     VIRUS E VIROIDI

Si dice spesso che i video virali di maggior successo hanno una
caratteristica comune: sono stati realizzati con spontaneità,
VIRAL ‘K’ MARKETING




inconsapevolezza o incoscienza; non sono cioè stati pensati
per essere virali. Si tratta di un’affermazione non corretta.
I video prodotti in modo ingenuo non possono raggiungere
alcun obiettivo di comunicazione preordinato. Il pubblico ne
riconosce l’innocenza e valuta esclusivamente il contenuto
esplicito senza alzare barriere di giudizio o di censura sulle
intenzioni del produttore. Grazie a questa caratteristica i
contenuti ingenui riescono a raggiungere con maggiore facilità
una vasta diffusione.
Sebbene presentino caratteristiche epidemiologiche analoghe
a quelle dei video virali, quello che qui manca è un patrimonio
genetico distinto dalla capside. Il video non comunica altro
che se stesso. Se volessimo utilizzare una metafora biologica
potremmo parlare di viroidi.
I viroidi sono entità biologiche più semplici dei virus poiché
privi di capside. Il loro patrimonio genetico e il loro messaggio
esplicito coincidono, e non c’è spazio per articolare alcuna
comunicazione di marca.
È una differenza capitale per chi vuole realizzare campagne di
marketing virale. La confusione tra virus e viroidi ha portato
spesso a un certo automatismo creativo. Vengono costruiti
dei mediatori simbolici che emulano le caratteristiche
statisticamente più diffuse dei contenuti viroidi di successo.
Ecco spuntare banali formule di viralità come sex, pets and
absurd o la regola delle tre esse: sangue, sesso o stronzate.
In sostanza per garantire la viralità di un messaggio, come una
clip video, è sufficiente che il mediatore simbolico giochi su
qualche doppio senso sessuale, mostri un gattino impacciato, ci




                                 13
faccia vedere un incidente stradale spettacolare oppure qualche
strano personaggio impegnato in un’attività completamente
priva di senso.
A scelta le immagini possono avere la bassa qualità di un
telefonino o una videocamera di sorveglianza o all’opposto
sfruttare le ultime novità nel campo della post-produzione.
Il prodotto viene infilato nel video con la stessa logica dei
peggiori product placement oppure ancor più semplicemente
con un packshot di chiusura come in uno spot.
Sarebbe questa la ricetta per eccitare gli umori degli utenti
del web e spingerli alla condivisione del contenuto. E da
un certo punto di vista la ricetta funziona. I migliori video
realizzati con queste ricette riescono effettivamente a circolare
e a raggiungere i numeri che marketing manager si aspettano
da essi.

Ma sono poche le aziende i cui valori possono essere espressi
compiutamente dal principio delle “tre esse” e anche in questi
casi è sempre complesso rendere solido e coerente il legame tra
il mediatore simbolico e il patrimonio della marca.
Come sono articolati i valori di marca dentro quelle clip?
Reggerà il collante che tiene insieme viralità e comunicazione
di prodotto? Il rischio infatti è che quel tenero gattino esprima
valori assai diversi da quelli che la marca deve esprimere oppure
che la forza delle immagini sia tale che ci si ricordi del gattino
ma si dimentichi completamente il prodotto. Per non parlare
dei rischi di editing, remix o di spoof da parte di utenti attivi
che possono tagliare o sostituire il codino pubblicitario.
VIRAL ‘K’ MARKETING




Quando si entra nel mondo della comunicazione virale le
dinamiche ricombinanti sono un fattore che deve essere
considerato preventivamente per evitare la dispersione
del patrimonio genetico e dell’identità di marca. Sono gli
inconvenienti del passaparola che riemergono a dispetto della
riproducibilità digitale. Come nel gioco del telefono senza fili
quello che viene detto dal primo giocatore non corrisponde
mai a ciò che capisce l’ultimo della catena.


                    IL PASSAPAROLA

Sembra paradossale il successo del termine “passaparola”
associato alla diffusione di contenuti di digital marketing.
Il termine passaparola nasce nel XVII secolo in ambito militare
per indicare la tecnica di trasmissione di un ordine da un capo
all’altro di una fila di soldati. Con la diffusione dei mezzi di
comunicazione di massa il significato del termine si è esteso a
spiegare la diffusione di informazioni orali che sfuggivano alle
maglie della riproducibilità tecnica.
Questa caratteristica di irriducibilità agli strumenti di
comunicazione convenzionali è esplosa con la rivoluzione
digitale. In un mondo in cui tutto diventa riproducibile, il
passaparola si manifesta per sottrazione, come rumore oppure
come oggetto non identificato.
Quando la scrittura si sradica da qualsiasi supporto come
nell’universo digitale, il testo diventa orfano. Il passaparola
invece non è mai stato figlio di nessun supporto, nasce libero




                                 15
e senza complessi edipici. Può così indicare con precisione
la diffusione informale di informazioni che non sono state
pensate per raggiungere obiettivi specifici.
Il passaparola si presenta in modo innocente, come la capside
di un virus che avvicina una cellula da infettare, ma può
dissimulare un contenuto di comunicazione specifico. Ed è
esattamente questo l’aspetto che sopravvive del significato
originario del termine.
La parola che passava da un militare all’altro serviva a veicolare
un comando, un algoritmo, una funzione militare autonoma
dal significato della parola trasmessa.

Nonostante l’utilizzo del passaparola sia stato ampiamente
sfruttato come strumento di intelligence per operazioni
di disinformazione, fino a oggi le peculiarità e la forza del
passaparola nell’ambito del marketing sono state utilizzate in
modo più empirico che scientifico.
Viene dagli studi socio-antropologici una più puntuale analisi
del passaparola in grado di spiegare quali sono i meccanismi
linguistici che favoriscono il passaggio del patrimonio genetico
che può essere veicolato dal passaparola. In particolare sono
stati identificati due formati che sono riusciti a piegare la logica
conversazionale dell’oralità alle esigenze di massimizzazione
della riproducibilità verbale. Sono le barzellette e le leggende
metropolitane le due forme di narrazione orale che più di
qualsiasi altra hanno attraversato le rivoluzioni della stampa,
delle comunicazioni di massa e del digitale e conservato la
propria identità. Due strutture narrative diverse di cui sono
VIRAL ‘K’ MARKETING




state identificate le retoriche e delineate le meccaniche di
funzionamento.
Entrambe sono narrazioni brevi, emozionali, composte in modo
da agevolare la memorizzazione e la successiva ripetizione.
Il messaggio privilegia sempre elementi che rispondono
al bisogno antropologico di verifica e rafforzamento delle
relazioni umane.
Il movente psicologico che spinge gli esseri umani a raccontare
una barzelletta o una leggenda urbana è sempre il desiderio di
consolidare i propri rapporti sociali attraverso la condivisione
di sentimenti o di valori. Sono le stesse ragioni che spingono
alla condivisione di un contenuto virale sul web: il bisogno di
costruzione della propria identità sociale, l’affermazione del
sé attraverso la presentazione di contenuti estetici o etici, la
ricerca o la conferma di una relazione.


LEGGENDE METROPOLITANE E BARZELLETTE

Le leggende metropolitane sono storie insolite presentate
come realmente accadute e raramente suscitano ilarità in chi
le ascolta. Secondo Jan Harold Brunvand6, il massimo esperto
accademico di urban legend, ogni leggenda metropolitana
veicola un contenuto valoriale, una paura sociale, un pregiudizio
emergente. Per garantirne il portato emotivo queste storie
sono sempre presentate come realmente accadute all’amico di
un amico. La forza del loro impatto è accresciuta dal numero
di persone che racconta la storia come vera, attribuendola ad




                                 17
amici diversi o introducendo variazioni individuali.
Queste alterazioni narrative piuttosto che indebolire la viralità
delle leggende urbane rappresentano una strategia darwiniana
di adattamento all’ambiente.

Si tratta di mutazioni che, come nel caso dei virus, garantiscono
alla leggenda una vita più duratura e una maggiore persistenza
del patrimonio valoriale veicolato.
Le barzellette funzionano in modo diverso. Alla base c’è un
meccanismo più semplice di rovesciamento in forma comica
o ridicola di situazioni normali. Questo rovesciamento, che
avviene generalmente al termine della storia, crea un effetto
sorpresa e scatena una reazione di ilarità nell’ascoltatore. È
la condivisione di questa ilarità il meccanismo alla base della
viralità delle barzellette, è l’affermazione o la conferma di una
relazione umana.
Per questa ragione il margine di reinterpretazione di una
barzelletta è molto basso. Al contrario di quanto avviene nelle
leggende metropolitane, apportare una variazione al testo
di una barzelletta è sempre un lavoro difficile che rischia di
compromettere l’efficacia virale della storia. L’interpretazione
e la mimica paraverbale – il saperla raccontare - giocano un
ruolo decisivo che può decretare il successo o il fallimento di
uno stesso testo.
Nel caso delle leggende metropolitane invece il testo nel suo
mutare può moltiplicare le occasioni di contagio e garantire così
la sopravvivenza del patrimonio valoriale. Per le barzellette esiste
invece - sebbene solo in astratto - un’unica interpretazione perfetta.
VIRAL ‘K’ MARKETING




Da questo punto di vista il meccanismo linguistico alla base
della barzelletta è analogo a quello dei viroidi. Le barzellette
non comunicano altro che se stesse e per questo sono destinate
a scomparire quando non fanno più ridere, cioè quando cambia
il contesto storico o culturale con cui si erano concatenate.


                      STRATEGIA r/K

In ecologia esiste un modello teorico che descrive la dinamica
attraverso la quale una popolazione di una determinata specie
cresce e si afferma all’interno di un ecosistema. Si tratta di un
modello matematico che considera due variabili principali:

r è il potenziale biotico della specie che è definito attraverso
parametri come la fecondità, il raggiungimento dell’età fertile,
i tempi di gestazione etc.;
K è la capacità portante dell’ambiente che esprime il numero
massimo di individui della specie che possono essere mantenuti
stabilmente in un ambiente.

Lo sviluppo della popolazione di ogni specie dipende
dal suo potenziale biotico e dalla resistenza che a questo
oppone l’ambiente circostante. Questo sviluppo può essere
rappresentato graficamente attraverso una curva matematica
che descrive la strategia di sviluppo della specie.




                                 19
r
    POPOLAZIONE




                      k


                                TEMPO




L’analisi dello sviluppo demografico delle diverse specie ha reso
riconoscibili due comportamenti estremi, indicati rispettivamente
come strategia r e strategia K. La prima strategia è tipica di
organismi semplici come batteri, funghi, alghe, invertebrati, pesci,
piante infestanti ed è caratterizzata da curve di crescita rapida
nel breve periodo e andamenti instabili e decrescenti sul lungo
periodo. Il caso tipico è quello delle ostriche che depongono 500
milioni di uova l’anno a cui non viene prestata alcuna cura.
L’assenza di cura parentale è la causa dell’incapacità di
adattamento. Infatti se le ostriche vengono immesse nel giusto
contesto marino crescono rapidamente ma se il contesto è
sbagliato non hanno le risorse per trovare alternative evolutive.
La strategia K si riscontra invece più frequentemente nelle
specie evolute come gli uccelli o i mammiferi, organismi con
VIRAL ‘K’ MARKETING




ritmi di crescita lenti che, una volta raggiunta la capacità
portante dell’ambiente, trovano un livello di equilibrio grazie
alla propria capacità di adattamento. A differenza delle
specie a strategia r, lo sviluppo della popolazione tende a non
subire crolli repentini ma ha un andamento asintotico verso
la massima capacità portante. Il caso esemplare è quello dei
primati che partoriscono a distanza di anni, tempo durante il
quale possono fornire a ciascun nuovo membro della specie
gli strumenti cognitivi per sopravvivere alle contingenze
ambientali e alle possibili avversità future.

Possiamo guardare le campagne di viral marketing attraverso
il modello r/K e verificare se questo modello può suggerirci
un nuovo approccio nella progettazione della campagne.
Consideriamo la creatività come il potenziale biotico e
il target potenzialmente raggiungibile come la capacità
portante dell’ambiente. Sono i due fattori chiave inscritti
nella progettazione di qualsiasi campagna di comunicazione.
Analizzando questi due fattori possiamo prevedere l’esito della
campagna nei termini di strategia r/K. Avremo così campagne
che contagiano rapidamente il target e poi scompaiono
dall’agenda e altre più lente all’avvio ma con una più lunga
persistenza nel tempo.
Entrambe le strategie possono essere efficaci se raggiungono la
capacità portante dell’ambiente di comunicazione ovvero tutto
il target potenzialmente raggiungibile. In linea di principio
se il target è ampio e deve essere raggiunto rapidamente è
necessario sviluppare una strategia r con un elevato potenziale




                                21
biotico. Una creatività semplice e generalista di immediata
comprensione, tipo sex, pets and absurd può essere la scelta
più efficace. Gli utenti sorrideranno e saranno ben disposti
a condividere quel momento di allegrezza con i propri amici.
Probabilmente una campagna di questo tipo non sarà efficiente
nel comunicare con precisione i valori del prodotto ma, se ben
strutturata, potrà raggiungere un elevato numero di contatti.
Viceversa laddove si voglia ottenere una persistenza nel
tempo dei valori della marca, magari presso un target mirato,
l’approccio migliore è una strategia K. Una campagna che
attiva una riflessione narrativa piuttosto che fare leva sulla
condivisione d’impulso.

Il modello ecologico sottolinea però che quando aumenta il
numero delle specie in competizione in uno stesso ambiente
ne diminuisce la capacità portante. La crescita e lo sviluppo
di ogni singola specie vivente diventa più difficile. Allo stesso
modo in un ambiente di comunicazione sovraccarico di
campagne virali la sopravvivenza di ogni singola campagna
diviene più ardua. L’utente è sottoposto a un viral overload, un
sovraccarico di informazioni che lo porta a innalzare le difese
immunitarie e a scegliere con maggior cura cosa condividere e
cosa no.
Chiaramente in questo contesto diventa più difficile il
successo della campagne di “tipo r”. Per raggiungere risultati
soddisfacenti è necessario un potenziale biotico sempre più
elevato oppure il drogaggio artificiale dell’ambiente attraverso
mezzi più tradizionali come inserzioni, banner, digital pr etc.
VIRAL ‘K’ MARKETING




Per tale ragione campagne con strategia r hanno maggiori
possibilità di successo laddove puntano su nicchie ambientali,
target molto ristretti di cui interpretare l’idioletto. In questo
modo si abbassa la capacità portante dell’ambiente e aumentano
le possibilità di successo.


                         IL SEEDING

Le nicchie possono svolgere inoltre una funzione tattica. Possono
essere il microambiente in cui incubare la prima delicata fase di
seeding, la fase di inseminazione in cui si sceglie dove e come
pubblicare il contenuto virale. È infatti evidente che se non c’è un
paziente zero nessun virus potrà mai esistere. I viroidi di successo
si sviluppano normalmente a partire da un seeding ingenuo.
L’autore si limita a condivide il contenuto con il proprio
network amicale e confida nella proattività dei suoi contatti.
Possiamo immaginare che ci siano migliaia di contenuti virali
di potenziale successo sepolti nelle bacheca di anonimi autori
semplicemente perché non hanno catalizzato l’attenzione del
loro network più prossimo. Questi contenuti esploderanno
magari casualmente in un momento qualsiasi nel tempo
quando capiteranno sotto gli occhi dell’untore giusto.

Chiaramente si tratta di una situazione non compatibile con
nessun piano di marketing. Una campagna virale ha necessità
di una chiara identificazione del target e deve trovare i migliori
canali per raggiungere almeno una parte di esso. Tanto meglio




                                   23
è identificata questa porzione maggiori saranno le possibilità
e la velocità con cui si raggiunge l’ambiente portante.
Per questo il seeding è una variabile strategica nella
progettazione di ogni campagna virale. È necessario selezionare
siti web, blog, mailing list, gruppi di discussione e trend-setter
a cui affidare la fase di inoculazione della campagna. Si tratta
di una fase che non dovrebbe essere considerata secondo
parametri quantitativi.
Se il mediatore simbolico è stato creato con il giusto potenziale
biotico è idealmente sufficiente identificare e contattare un
unico paziente zero. Molto spesso si assiste invece a campagne
virali che vengono lanciate con logiche pubblicitarie e sostenute
forzosamente con inserzioni massive e attività aggressive di
digital pr. È un paradosso che deriva da esigenze preventive di
contabilizzazione che non sono conciliabili con la scelta di un
approccio virale.
La fase del seeding è sempre decisiva ma deve essere pianificata
con la stessa logica che guida la realizzazione del virus. Se
l’investimento per il seeding è superiore a quello per realizzare
il mediatore simbolico non si sta facendo una campagna virale.

Campagne con strategia K possono essere attivate con un
seeding a intensità ridotta poiché la portata dell’ambiente
di comunicazione opporrà comunque la propria resistenza
inerziale al potenziale biotico. Ma anche quando ci si affida
a una strategia r, la pianificazione del seeding deve essere
guidata da logiche qualitative, da una ricerca dei target iniziali
calibrata sui bisogni emotivi e valoriali.
VIRAL ‘K’ MARKETING




                   VIRAL MARKETING

Se guardiamo alle campagne di viral marketing odierne
possiamo facilmente identificare campagne con una struttura
di tipo barzelletta r e campagne con una struttura di tipo
leggenda metropolitana K. Le campagne di “tipo r” sono quelle
che giocano sui ribaltamenti di situazioni normali, come le
candid camera o i più comuni video virali. La loro forza sta
nell’ilarità generata dall’effetto sorpresa. È la stessa condizione
dei video con gattini, bambini, scivolate imbarazzanti o talenti
improbabili.
Quello che gli utenti condividono è una comune empatia
generata dalla dimensione comica o drammatica del mediatore
simbolico.

Il loro elevato potenziale biotico poggia su emozioni semplici
e generaliste e non su valori o narrazioni etico-morali. Per
questa ragione le campagne di “tipo r”, anche quando diventano
pandemiche, rischiano sempre di perdere la concatenazione
con elementi strategici per l’azienda. Il patrimonio di marca
può andare perduto o essere dimenticato dal pubblico non
solo perché può facilmente essere ricombinato dagli utenti
ma perché la componente ultima di viralità può esaurirsi nella
sola risata finale.
Nelle campagne di “tipo K” questo rischio è più raro poiché
sono sostenute da una narrazione e da valori che innervano
il contenuto virale ma che sono anche parte dell’equity della
marca.




                                  25
Una campagna virale di “tipo K” riesce quindi ad avere una
maggiore persistenza perchè fa leva su elementi culturali
che non si esauriscono nell’istante della condivisione ma
invitano alla riflessione e all’approfondimento. Per questo
ogni rimediazione - editing, fake, spoof etc. - rappresenta un
fattore evolutivo che concorre alla sopravvivenza del genoma
e quindi all’awareness della marca stessa. L’ambiente sociale
di condivisione diventa così una risorsa che consente al virus
di mutare per contagiare target non previsti. Le campagne
di “tipo K” possono sopravvivere in modo latente all’interno
dei network sociali e riemergere rinnovate o reinterpretate
per adattarsi al clima sociale. Sono gli spreadable media di
Henry Jenkins7, contenuti creati in modo sempre più inclusivo
e partecipativo che si diffondono e tracimano dal web per
diventare parte del panorama culturale.
Per sintetizzare potremmo dire che la strategia r è emotiva,
rapida e incursiva. La strategia K è invece emozionale,
persistente e partecipativa.
Quando si valuta una campagna di viral marketing non sempre
quella che fa più ridere è quella giusta, come sempre ride bene
chi ride ultimo.
VIRAL ‘K’ MARKETING




NOTE
1. Neal Stephenson, Snow Crash, pgg. 351-352, ed. Shake, 1995.
2. Wikipedia voce: Marketing virale, http://it.wikipedia.org/wiki/Marketing_virale, 2012.
3. Ralph F. Wilson, The Six Simple Principles of Viral Marketing,
http://webmarketingtoday.com/articles/viral-principles/, 2000.
4. Neal Stephenson, Snow Crash, ed. Shake, 1995.
5. Chuck Palahniuk, Ninna Nanna, ed. Mondadori, 2005.
6. Jan Harold Brunvand, Leggende metropolitane.
Storie improbabili raccontate come vere, ed. Costa&Nolan, 1990.
7. Henry Jenkins, If It Doesn’t Spread, It’s Dead,
www.henryjenkins.org/2009/02/if_it_doesnt_spread_its_dead_p.html, 2009.

-




Andrea Natella è socio e direttore creativo di KOOK Artgency
con cui tra l’altro ha realizzato il progetto thisman.org

Grafica e impaginazione: Matteo Carlino e Francesco Croce
(KOOK Artgency)


www.kook.it




                                              27
Viral K Marketing

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Viral K Marketing

  • 2.
  • 3. VIRAL ‘K’ MARKETING Andrea Natella
  • 4. Siamo tutti soggetti all’azione delle idee virali. Come nell’isteria di massa. Una musica che ti entra in testa e continui a canticchiarla per tutto il giorno e, alla fine, l’attacchi a qualcun altro. Le barzellette. Le leggende metropolitane. Le religioni strampalate. Il marxismo. E per quanto intelligenti diventiamo, esiste sempre in noi questa parte irrazionale profonda che ci rende potenziali portatori di informazioni autoreplicanti. Neal Stephenson, Snow Crash Viral marketing e pubblicità virale sono termini riferiti a tecniche di comunicazione che usano social network preesistenti per incrementare la awareness o per ottenere altri obiettivi di marketing attraverso dei processi di auto-replicazione analoghi a quelli propri della diffusione dei virus biologici o informatici. Il marketing virale può prendere le forme di clip video, advergame, ebook, software brandizzato, immagini o testi. Wikipedia, Marketing Virale Nel 1898 il botanico olandese Martinus Beijerinck fu il primo a identificare l’agente di una strana epidemia che colpiva la famiglia delle solanaceae, piante come le patate, le melanzane, il pomodoro, il peperoncino e il tabacco. Attraverso un’operazione di filtraggio delle foglie di tabacco Beijerinck riuscì a isolare il virus del mosaico del tabacco, il primo virus identificato dall’uomo. Per riuscire in questa impresa Beijerinck utilizzò un filtro inventato pochi anni prima da Charles Chamberland. Si trattava di un filtro in porcellana che, una volta riscaldato, riusciva a trattenere particelle che fino ad allora era impossibile rilevare.
  • 5. VIRAL ‘K’ MARKETING Le pagine che seguono rappresentano un tentativo di riscaldare il mondo del marketing virale per vedere cosa rimane al di qua di un metaforico filtro di Chamberland, quali sono cioè le caratteristiche propriamente virali dei contenuti di comunicazione scambiati tra gli utenti. Proveremo a prendere sul serio le similitudini con il mondo della biologia per verificare fino a che punto questa metafora possa reggere il confronto con le problematiche proprie della comunicazione pubblicitaria. Negli ultimi tempi la metafora al cuore del marketing virale si è progressivamente indebolita. I social media hanno costituito un proprio campo autonomo di investimenti in virtù della loro forza in termini di misurabilità. L’attenzione si è così spostata dalla virologia all’epidemiologia, dal virus al suo ambiente di replicazione. Ora che le numeriche associate ai social media mostrano la loro fragilità intrinseca è ancora più necessario non perdere di vista il ruolo del virus, l’agente moltiplicatore che contraddistingue ogni campagna virale efficace e di successo. POSTA BOLLENTE Il termine viral marketing è stato reso popolare nel 1996 dai venture capitalist di Draper Fisher Jurvetson per sostenere il proprio investimento su Hotmail, uno dei primissimi servizi di email gratuite disponibile sul web. Con questo termine si voleva descrivere la rapidità con cui Hotmail riusciva a 5
  • 6. farsi adottare da nuovi utenti. La strategia era semplice ed è tuttora la chiave di qualsiasi strategia di marketing vincente: il prodotto deve incorporare una funzione pubblicitaria al suo interno. Storicamente ciò è sempre avvenuto grazie alle qualità intrinseche del prodotto stesso: la bontà del prodotto. In tempi recenti, a partire dagli anni cinquanta, al valore della qualità intrinseca del prodotto si è aggiunto il design: la bellezza del prodotto. Il successo di Hotmail inaugura una terza possibilità ovvero quella per cui il prodotto incorpora un elemento verbale o paraverbale di autopromozione: la bravura del prodotto. La soluzione adottata dai marketer di Hotmail fu probabilmente istintiva: in coda a ogni email inviata è stata aggiunta una semplice tag-line “Ottieni la tua casella e-mail privata e gratis con www.hotmail.com”, come se avessero prodotto delle t-shirt con la scritta “compra anche tu una maglietta come questa”. Nel caso di Hotmail però questa strategia ha davvero funzionato. Il messaggio di Hotmail ha potuto essere efficace nonostante fosse esplicito e diretto in modo quasi grossolano grazie al fatto che presentava 1) un servizio gratuito 2) facile da spiegare ad altri che 3) possono attivarlo rapidamente 4) spinti da vantaggi 5) che possono essere condivisi 6) grazie a una rete tecnica che preesiste al messaggio stesso. Sono i sei principi del marketing virale teorizzati e resi celebri da Ralph F. Wilson in un celebre articolo del 2000 su Web Marketing Today3. È anche grazie all’identificazione di questi principi che Hotmail è diventato rapidamente un benchmark di viral marketing.
  • 7. VIRAL ‘K’ MARKETING Oggi però quando si parla di marketing virale non ci si riferisce quasi mai a prodotti che incorporano naturalmente questi sei elementi di viralità. Il prodotto da promuovere può essere di qualsiasi tipo e il compito a cui è chiamato a rispondere il viral marketer è quello di articolare una relazione con il consumatore in grado di raggiungere obiettivi analoghi a quelli raggiunti da Hotmail. Per farlo ci si affida ad artefatti esterni al prodotto, strumenti di mediazione simbolica come video, applicazioni, advergame o siti web. Sono mediatori che includono simbolicamente il prodotto stesso: i valori di marca, le funzionalità, la fisicità etc. Questi mediatori sono il fantasma di un prodotto virale come Hotmail ma hanno il vantaggio della replicabilità infinita e consentono una precisa misurazione delle redemption di fruizione degli utenti. Ma anche se la misura del risultato finale può essere molto precisa, la possibilità di prevedere tali risultati è sempre un azzardo. Come nei processi epidemiologici gli esiti dipendono dall’aggressività che il virus è in grado di mostrare nell’ambiente, così l’efficacia di una campagna di marketing virale dipende dalla forza della creatività e può essere misurata solo al termine del processo. Lo sviluppo epidemico è fluido, asintotico, browniano, per questo non è del tutto prevedibile se non per quella parte sostenuta da strumenti più tradizionali come banner, inserzioni, digital pr etc. L’unica misurazione certa di un processo virale è possibile solo al termine del processo, quando il virus viene debellato oppure diventa endemico. 7
  • 8. Per questo, nonostante l’enfasi sulla misurabilità consentita dai social media, la logica della viralità risponde a logiche più simili a quelle della teoria del caos che non alla meccanica newtoniana azione-effetto. Come nella meteorologia, il successo di una campagna virale dipende da movimenti stocastici, traiettorie infinite e strani attrattori. Solo attraverso la definizione delle condizioni iniziali e la conoscenza dei meccanismi di viralità è possibile anticipare i risultati e non ridursi al ruolo di danzatori della pioggia nel cortile delle aziende. PARASSITI OBBLIGATI I virus sono entità biologiche incapaci di riprodursi autonomamente. Non sono organismi viventi in senso proprio in quanto non possiedono le strutture biochimiche e biosintetiche necessarie alla loro replicazione. I virus non potrebbero vivere o, meglio ancora, sarebbero già estinti se non avessero trovato un modo creativo per sopperire a questa loro condizione: penetrano all’interno delle cellule e utilizzano le loro strutture per la replicazione. La scienza definisce questo stile di vita con il termine di parassitaggio endocellulare obbligato. In altre parole, i virus sono obbligati a essere parassiti altrimenti non potrebbero riprodursi e si estinguerebbero alla prima generazione. È la creatività a salvare i virus dalla morte. Una creatività che ha la forma di un testo scritto in codice genetico che deve poter essere compreso dalle strutture delle cellule parassitate.
  • 9. VIRAL ‘K’ MARKETING Infatti ciò che il virus vuole preservare non è la sua esistenza individuale ma è piuttosto la sua identità di specie, il suo contributo particolare e unico all’ecosistema vivente: il suo patrimonio genetico. È per preservare questo tesoro che il patrimonio genetico viene sempre nascosto alla cellula da una capside, una capsula proteica codificata dal genoma virale. Se la capside non viene accolta dalla cellula ospite allora il patrimonio genetico non riesce a replicarsi ed è destinato all’estinzione. È questo che succede alla maggior parte dei virus. La cellula si difende dall’invasione e il virus non riesce a penetrarla, oppure la cellula non capisce il messaggio del virus e semplicemente lo ignora. Come durante l’assedio di Troia, il cavallo deve essere riconosciuto come un dono di pace affinché gli vengano aperte le porte della città. Ma se i soldati che scendono dal cavallo di Troia si limitano alla conquista della città, nel caso dei virus invece quei soldati scendono e utilizzano Troia come opificio per costruire nuovi cavalli con cui conquistare nuove città da trasformare in opifici. 9
  • 10. ALGORITMI INFORMATICI Questa meccanica ricorsiva prima di diventare una suggestione per il mondo del marketing ha infettato quello dell’informatica ed è diventata metafora per spiegare il funzionamento di una categoria specifica di malware informatici. Come i virus biologici anche quelli informatici sono incapaci di produrre un effetto se non quando riescono a infettare almeno un file presente nella memoria di un computer. A partire da questo primo file, il virus riesce a copiare se stesso su altri file presenti nella macchina ospite e in altri sistemi a questa collegati. I software infetti iniziano così a funzionare in modi non previsti dal proprio codice e rispondono alle esigenze di replicazione del virus e alle finalità spesso malevole previste da chi li ha programmati. Per raggiungere questi risultati i virus informatici adottano una strategia di dissimulazione. Nascondono al software la propria identità e comunicano con i file senza destare sospetti presentandosi come un dato che il file è abituato a scambiare con il suo ambiente esterno. Attraverso questo sotterfugio creativo di programmazione i virus informatici raggiungono il loro obiettivo: accrescere la popolazione e moltiplicare i propri effetti. Come i virus biologici anche i virus informatici non perseguono la vita del singolo programma ma quella di un patrimonio genetico che in campo informatico prende il nome di algoritmo. Un algoritmo è un modello matematico finalizzato alla risoluzione di un problema. È un concetto che esprime
  • 11. VIRAL ‘K’ MARKETING in modo immediato e diretto la tensione verso un effetto. Ovviamente anche il patrimonio genetico contempla un effetto in quanto è responsabile dello sviluppo del fenotipo. L’algoritmo sottolinea però con più evidenza la funzione escatologica poiché è per definizione “un metodo per produrre un risultato”. Se il patrimonio genetico ci induce a guardare al cavallo, con l’algoritmo vediamo già la conquista di migliaia di città trasformate in opifici per la produzione di cavalli di Troia. CREATIVITÀ OBBLIGATA Sono queste caratteristiche ad avere permesso che il termine virale trovasse posto con facilità ed eleganza accanto alla parola marketing. Così il viral marketing è diventato una tecnica che, attraverso meccanismi analoghi a quelli dei virus biologici o informatici, sfrutta i social network per incrementare la brand awareness o ottenere altri obiettivi commerciali. Il virus in questo caso è un mediatore simbolico che può assumere la forma di un video, di un sito web, di un advergame o anche solo di un semplice testo. Questi formati assolvono la funzione di mediazione poiché codificano al loro interno un algoritmo di marketing, un insieme di istruzioni rivolte ai consumatori e tese alla valorizzazione del prodotto. Come nel caso dei virus biologici o informatici, l’essenziale non è la replicazione del messaggio ma la propagazione del suo algoritmo: il patrimonio genetico della marca. 11
  • 12. Nel mondo biologico la struttura della capside con cui il virus si presenta alle cellule è uno degli effetti previsti dal suo patrimonio genetico. In informatica come nel viral marketing il modo in cui il patrimonio virale si presenta al pubblico è invece un’invenzione creativa. Compito del programmatore come del pubblicitario è quello di immaginare e realizzare un mediatore simbolico che abbia le stesse caratteristiche di inseparabilità che in natura rendono il patrimonio genetico e la capside un’unica entità biologica. In gergo informatico si direbbe che si tratta di realizzare un buon hack, una creazione in cui eleganza e funzione si integrano con naturalezza. Quando il mediatore simbolico viene messo alla prova della diffusione deve essere abbastanza robusto da preservare il patrimonio genetico da dinamiche ricombinanti che possono ledere l’identità e il messaggio di marca. Per questo la creatività è il vero fattore strategico di ogni campagna virale. Il messaggio virale perfetto dovrebbe avere l’efficacia dello Snow Crash di Neal Stephenson4, un virus neurolinguistico in grado di colpire direttamente le strutture profonde del cervello umano, oppure quello della Ninna Nanna di Chuck Palahniuk5, la filastrocca africana che provoca la morte di chi la ascolta. VIRUS E VIROIDI Si dice spesso che i video virali di maggior successo hanno una caratteristica comune: sono stati realizzati con spontaneità,
  • 13. VIRAL ‘K’ MARKETING inconsapevolezza o incoscienza; non sono cioè stati pensati per essere virali. Si tratta di un’affermazione non corretta. I video prodotti in modo ingenuo non possono raggiungere alcun obiettivo di comunicazione preordinato. Il pubblico ne riconosce l’innocenza e valuta esclusivamente il contenuto esplicito senza alzare barriere di giudizio o di censura sulle intenzioni del produttore. Grazie a questa caratteristica i contenuti ingenui riescono a raggiungere con maggiore facilità una vasta diffusione. Sebbene presentino caratteristiche epidemiologiche analoghe a quelle dei video virali, quello che qui manca è un patrimonio genetico distinto dalla capside. Il video non comunica altro che se stesso. Se volessimo utilizzare una metafora biologica potremmo parlare di viroidi. I viroidi sono entità biologiche più semplici dei virus poiché privi di capside. Il loro patrimonio genetico e il loro messaggio esplicito coincidono, e non c’è spazio per articolare alcuna comunicazione di marca. È una differenza capitale per chi vuole realizzare campagne di marketing virale. La confusione tra virus e viroidi ha portato spesso a un certo automatismo creativo. Vengono costruiti dei mediatori simbolici che emulano le caratteristiche statisticamente più diffuse dei contenuti viroidi di successo. Ecco spuntare banali formule di viralità come sex, pets and absurd o la regola delle tre esse: sangue, sesso o stronzate. In sostanza per garantire la viralità di un messaggio, come una clip video, è sufficiente che il mediatore simbolico giochi su qualche doppio senso sessuale, mostri un gattino impacciato, ci 13
  • 14. faccia vedere un incidente stradale spettacolare oppure qualche strano personaggio impegnato in un’attività completamente priva di senso. A scelta le immagini possono avere la bassa qualità di un telefonino o una videocamera di sorveglianza o all’opposto sfruttare le ultime novità nel campo della post-produzione. Il prodotto viene infilato nel video con la stessa logica dei peggiori product placement oppure ancor più semplicemente con un packshot di chiusura come in uno spot. Sarebbe questa la ricetta per eccitare gli umori degli utenti del web e spingerli alla condivisione del contenuto. E da un certo punto di vista la ricetta funziona. I migliori video realizzati con queste ricette riescono effettivamente a circolare e a raggiungere i numeri che marketing manager si aspettano da essi. Ma sono poche le aziende i cui valori possono essere espressi compiutamente dal principio delle “tre esse” e anche in questi casi è sempre complesso rendere solido e coerente il legame tra il mediatore simbolico e il patrimonio della marca. Come sono articolati i valori di marca dentro quelle clip? Reggerà il collante che tiene insieme viralità e comunicazione di prodotto? Il rischio infatti è che quel tenero gattino esprima valori assai diversi da quelli che la marca deve esprimere oppure che la forza delle immagini sia tale che ci si ricordi del gattino ma si dimentichi completamente il prodotto. Per non parlare dei rischi di editing, remix o di spoof da parte di utenti attivi che possono tagliare o sostituire il codino pubblicitario.
  • 15. VIRAL ‘K’ MARKETING Quando si entra nel mondo della comunicazione virale le dinamiche ricombinanti sono un fattore che deve essere considerato preventivamente per evitare la dispersione del patrimonio genetico e dell’identità di marca. Sono gli inconvenienti del passaparola che riemergono a dispetto della riproducibilità digitale. Come nel gioco del telefono senza fili quello che viene detto dal primo giocatore non corrisponde mai a ciò che capisce l’ultimo della catena. IL PASSAPAROLA Sembra paradossale il successo del termine “passaparola” associato alla diffusione di contenuti di digital marketing. Il termine passaparola nasce nel XVII secolo in ambito militare per indicare la tecnica di trasmissione di un ordine da un capo all’altro di una fila di soldati. Con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa il significato del termine si è esteso a spiegare la diffusione di informazioni orali che sfuggivano alle maglie della riproducibilità tecnica. Questa caratteristica di irriducibilità agli strumenti di comunicazione convenzionali è esplosa con la rivoluzione digitale. In un mondo in cui tutto diventa riproducibile, il passaparola si manifesta per sottrazione, come rumore oppure come oggetto non identificato. Quando la scrittura si sradica da qualsiasi supporto come nell’universo digitale, il testo diventa orfano. Il passaparola invece non è mai stato figlio di nessun supporto, nasce libero 15
  • 16. e senza complessi edipici. Può così indicare con precisione la diffusione informale di informazioni che non sono state pensate per raggiungere obiettivi specifici. Il passaparola si presenta in modo innocente, come la capside di un virus che avvicina una cellula da infettare, ma può dissimulare un contenuto di comunicazione specifico. Ed è esattamente questo l’aspetto che sopravvive del significato originario del termine. La parola che passava da un militare all’altro serviva a veicolare un comando, un algoritmo, una funzione militare autonoma dal significato della parola trasmessa. Nonostante l’utilizzo del passaparola sia stato ampiamente sfruttato come strumento di intelligence per operazioni di disinformazione, fino a oggi le peculiarità e la forza del passaparola nell’ambito del marketing sono state utilizzate in modo più empirico che scientifico. Viene dagli studi socio-antropologici una più puntuale analisi del passaparola in grado di spiegare quali sono i meccanismi linguistici che favoriscono il passaggio del patrimonio genetico che può essere veicolato dal passaparola. In particolare sono stati identificati due formati che sono riusciti a piegare la logica conversazionale dell’oralità alle esigenze di massimizzazione della riproducibilità verbale. Sono le barzellette e le leggende metropolitane le due forme di narrazione orale che più di qualsiasi altra hanno attraversato le rivoluzioni della stampa, delle comunicazioni di massa e del digitale e conservato la propria identità. Due strutture narrative diverse di cui sono
  • 17. VIRAL ‘K’ MARKETING state identificate le retoriche e delineate le meccaniche di funzionamento. Entrambe sono narrazioni brevi, emozionali, composte in modo da agevolare la memorizzazione e la successiva ripetizione. Il messaggio privilegia sempre elementi che rispondono al bisogno antropologico di verifica e rafforzamento delle relazioni umane. Il movente psicologico che spinge gli esseri umani a raccontare una barzelletta o una leggenda urbana è sempre il desiderio di consolidare i propri rapporti sociali attraverso la condivisione di sentimenti o di valori. Sono le stesse ragioni che spingono alla condivisione di un contenuto virale sul web: il bisogno di costruzione della propria identità sociale, l’affermazione del sé attraverso la presentazione di contenuti estetici o etici, la ricerca o la conferma di una relazione. LEGGENDE METROPOLITANE E BARZELLETTE Le leggende metropolitane sono storie insolite presentate come realmente accadute e raramente suscitano ilarità in chi le ascolta. Secondo Jan Harold Brunvand6, il massimo esperto accademico di urban legend, ogni leggenda metropolitana veicola un contenuto valoriale, una paura sociale, un pregiudizio emergente. Per garantirne il portato emotivo queste storie sono sempre presentate come realmente accadute all’amico di un amico. La forza del loro impatto è accresciuta dal numero di persone che racconta la storia come vera, attribuendola ad 17
  • 18. amici diversi o introducendo variazioni individuali. Queste alterazioni narrative piuttosto che indebolire la viralità delle leggende urbane rappresentano una strategia darwiniana di adattamento all’ambiente. Si tratta di mutazioni che, come nel caso dei virus, garantiscono alla leggenda una vita più duratura e una maggiore persistenza del patrimonio valoriale veicolato. Le barzellette funzionano in modo diverso. Alla base c’è un meccanismo più semplice di rovesciamento in forma comica o ridicola di situazioni normali. Questo rovesciamento, che avviene generalmente al termine della storia, crea un effetto sorpresa e scatena una reazione di ilarità nell’ascoltatore. È la condivisione di questa ilarità il meccanismo alla base della viralità delle barzellette, è l’affermazione o la conferma di una relazione umana. Per questa ragione il margine di reinterpretazione di una barzelletta è molto basso. Al contrario di quanto avviene nelle leggende metropolitane, apportare una variazione al testo di una barzelletta è sempre un lavoro difficile che rischia di compromettere l’efficacia virale della storia. L’interpretazione e la mimica paraverbale – il saperla raccontare - giocano un ruolo decisivo che può decretare il successo o il fallimento di uno stesso testo. Nel caso delle leggende metropolitane invece il testo nel suo mutare può moltiplicare le occasioni di contagio e garantire così la sopravvivenza del patrimonio valoriale. Per le barzellette esiste invece - sebbene solo in astratto - un’unica interpretazione perfetta.
  • 19. VIRAL ‘K’ MARKETING Da questo punto di vista il meccanismo linguistico alla base della barzelletta è analogo a quello dei viroidi. Le barzellette non comunicano altro che se stesse e per questo sono destinate a scomparire quando non fanno più ridere, cioè quando cambia il contesto storico o culturale con cui si erano concatenate. STRATEGIA r/K In ecologia esiste un modello teorico che descrive la dinamica attraverso la quale una popolazione di una determinata specie cresce e si afferma all’interno di un ecosistema. Si tratta di un modello matematico che considera due variabili principali: r è il potenziale biotico della specie che è definito attraverso parametri come la fecondità, il raggiungimento dell’età fertile, i tempi di gestazione etc.; K è la capacità portante dell’ambiente che esprime il numero massimo di individui della specie che possono essere mantenuti stabilmente in un ambiente. Lo sviluppo della popolazione di ogni specie dipende dal suo potenziale biotico e dalla resistenza che a questo oppone l’ambiente circostante. Questo sviluppo può essere rappresentato graficamente attraverso una curva matematica che descrive la strategia di sviluppo della specie. 19
  • 20. r POPOLAZIONE k TEMPO L’analisi dello sviluppo demografico delle diverse specie ha reso riconoscibili due comportamenti estremi, indicati rispettivamente come strategia r e strategia K. La prima strategia è tipica di organismi semplici come batteri, funghi, alghe, invertebrati, pesci, piante infestanti ed è caratterizzata da curve di crescita rapida nel breve periodo e andamenti instabili e decrescenti sul lungo periodo. Il caso tipico è quello delle ostriche che depongono 500 milioni di uova l’anno a cui non viene prestata alcuna cura. L’assenza di cura parentale è la causa dell’incapacità di adattamento. Infatti se le ostriche vengono immesse nel giusto contesto marino crescono rapidamente ma se il contesto è sbagliato non hanno le risorse per trovare alternative evolutive. La strategia K si riscontra invece più frequentemente nelle specie evolute come gli uccelli o i mammiferi, organismi con
  • 21. VIRAL ‘K’ MARKETING ritmi di crescita lenti che, una volta raggiunta la capacità portante dell’ambiente, trovano un livello di equilibrio grazie alla propria capacità di adattamento. A differenza delle specie a strategia r, lo sviluppo della popolazione tende a non subire crolli repentini ma ha un andamento asintotico verso la massima capacità portante. Il caso esemplare è quello dei primati che partoriscono a distanza di anni, tempo durante il quale possono fornire a ciascun nuovo membro della specie gli strumenti cognitivi per sopravvivere alle contingenze ambientali e alle possibili avversità future. Possiamo guardare le campagne di viral marketing attraverso il modello r/K e verificare se questo modello può suggerirci un nuovo approccio nella progettazione della campagne. Consideriamo la creatività come il potenziale biotico e il target potenzialmente raggiungibile come la capacità portante dell’ambiente. Sono i due fattori chiave inscritti nella progettazione di qualsiasi campagna di comunicazione. Analizzando questi due fattori possiamo prevedere l’esito della campagna nei termini di strategia r/K. Avremo così campagne che contagiano rapidamente il target e poi scompaiono dall’agenda e altre più lente all’avvio ma con una più lunga persistenza nel tempo. Entrambe le strategie possono essere efficaci se raggiungono la capacità portante dell’ambiente di comunicazione ovvero tutto il target potenzialmente raggiungibile. In linea di principio se il target è ampio e deve essere raggiunto rapidamente è necessario sviluppare una strategia r con un elevato potenziale 21
  • 22. biotico. Una creatività semplice e generalista di immediata comprensione, tipo sex, pets and absurd può essere la scelta più efficace. Gli utenti sorrideranno e saranno ben disposti a condividere quel momento di allegrezza con i propri amici. Probabilmente una campagna di questo tipo non sarà efficiente nel comunicare con precisione i valori del prodotto ma, se ben strutturata, potrà raggiungere un elevato numero di contatti. Viceversa laddove si voglia ottenere una persistenza nel tempo dei valori della marca, magari presso un target mirato, l’approccio migliore è una strategia K. Una campagna che attiva una riflessione narrativa piuttosto che fare leva sulla condivisione d’impulso. Il modello ecologico sottolinea però che quando aumenta il numero delle specie in competizione in uno stesso ambiente ne diminuisce la capacità portante. La crescita e lo sviluppo di ogni singola specie vivente diventa più difficile. Allo stesso modo in un ambiente di comunicazione sovraccarico di campagne virali la sopravvivenza di ogni singola campagna diviene più ardua. L’utente è sottoposto a un viral overload, un sovraccarico di informazioni che lo porta a innalzare le difese immunitarie e a scegliere con maggior cura cosa condividere e cosa no. Chiaramente in questo contesto diventa più difficile il successo della campagne di “tipo r”. Per raggiungere risultati soddisfacenti è necessario un potenziale biotico sempre più elevato oppure il drogaggio artificiale dell’ambiente attraverso mezzi più tradizionali come inserzioni, banner, digital pr etc.
  • 23. VIRAL ‘K’ MARKETING Per tale ragione campagne con strategia r hanno maggiori possibilità di successo laddove puntano su nicchie ambientali, target molto ristretti di cui interpretare l’idioletto. In questo modo si abbassa la capacità portante dell’ambiente e aumentano le possibilità di successo. IL SEEDING Le nicchie possono svolgere inoltre una funzione tattica. Possono essere il microambiente in cui incubare la prima delicata fase di seeding, la fase di inseminazione in cui si sceglie dove e come pubblicare il contenuto virale. È infatti evidente che se non c’è un paziente zero nessun virus potrà mai esistere. I viroidi di successo si sviluppano normalmente a partire da un seeding ingenuo. L’autore si limita a condivide il contenuto con il proprio network amicale e confida nella proattività dei suoi contatti. Possiamo immaginare che ci siano migliaia di contenuti virali di potenziale successo sepolti nelle bacheca di anonimi autori semplicemente perché non hanno catalizzato l’attenzione del loro network più prossimo. Questi contenuti esploderanno magari casualmente in un momento qualsiasi nel tempo quando capiteranno sotto gli occhi dell’untore giusto. Chiaramente si tratta di una situazione non compatibile con nessun piano di marketing. Una campagna virale ha necessità di una chiara identificazione del target e deve trovare i migliori canali per raggiungere almeno una parte di esso. Tanto meglio 23
  • 24. è identificata questa porzione maggiori saranno le possibilità e la velocità con cui si raggiunge l’ambiente portante. Per questo il seeding è una variabile strategica nella progettazione di ogni campagna virale. È necessario selezionare siti web, blog, mailing list, gruppi di discussione e trend-setter a cui affidare la fase di inoculazione della campagna. Si tratta di una fase che non dovrebbe essere considerata secondo parametri quantitativi. Se il mediatore simbolico è stato creato con il giusto potenziale biotico è idealmente sufficiente identificare e contattare un unico paziente zero. Molto spesso si assiste invece a campagne virali che vengono lanciate con logiche pubblicitarie e sostenute forzosamente con inserzioni massive e attività aggressive di digital pr. È un paradosso che deriva da esigenze preventive di contabilizzazione che non sono conciliabili con la scelta di un approccio virale. La fase del seeding è sempre decisiva ma deve essere pianificata con la stessa logica che guida la realizzazione del virus. Se l’investimento per il seeding è superiore a quello per realizzare il mediatore simbolico non si sta facendo una campagna virale. Campagne con strategia K possono essere attivate con un seeding a intensità ridotta poiché la portata dell’ambiente di comunicazione opporrà comunque la propria resistenza inerziale al potenziale biotico. Ma anche quando ci si affida a una strategia r, la pianificazione del seeding deve essere guidata da logiche qualitative, da una ricerca dei target iniziali calibrata sui bisogni emotivi e valoriali.
  • 25. VIRAL ‘K’ MARKETING VIRAL MARKETING Se guardiamo alle campagne di viral marketing odierne possiamo facilmente identificare campagne con una struttura di tipo barzelletta r e campagne con una struttura di tipo leggenda metropolitana K. Le campagne di “tipo r” sono quelle che giocano sui ribaltamenti di situazioni normali, come le candid camera o i più comuni video virali. La loro forza sta nell’ilarità generata dall’effetto sorpresa. È la stessa condizione dei video con gattini, bambini, scivolate imbarazzanti o talenti improbabili. Quello che gli utenti condividono è una comune empatia generata dalla dimensione comica o drammatica del mediatore simbolico. Il loro elevato potenziale biotico poggia su emozioni semplici e generaliste e non su valori o narrazioni etico-morali. Per questa ragione le campagne di “tipo r”, anche quando diventano pandemiche, rischiano sempre di perdere la concatenazione con elementi strategici per l’azienda. Il patrimonio di marca può andare perduto o essere dimenticato dal pubblico non solo perché può facilmente essere ricombinato dagli utenti ma perché la componente ultima di viralità può esaurirsi nella sola risata finale. Nelle campagne di “tipo K” questo rischio è più raro poiché sono sostenute da una narrazione e da valori che innervano il contenuto virale ma che sono anche parte dell’equity della marca. 25
  • 26. Una campagna virale di “tipo K” riesce quindi ad avere una maggiore persistenza perchè fa leva su elementi culturali che non si esauriscono nell’istante della condivisione ma invitano alla riflessione e all’approfondimento. Per questo ogni rimediazione - editing, fake, spoof etc. - rappresenta un fattore evolutivo che concorre alla sopravvivenza del genoma e quindi all’awareness della marca stessa. L’ambiente sociale di condivisione diventa così una risorsa che consente al virus di mutare per contagiare target non previsti. Le campagne di “tipo K” possono sopravvivere in modo latente all’interno dei network sociali e riemergere rinnovate o reinterpretate per adattarsi al clima sociale. Sono gli spreadable media di Henry Jenkins7, contenuti creati in modo sempre più inclusivo e partecipativo che si diffondono e tracimano dal web per diventare parte del panorama culturale. Per sintetizzare potremmo dire che la strategia r è emotiva, rapida e incursiva. La strategia K è invece emozionale, persistente e partecipativa. Quando si valuta una campagna di viral marketing non sempre quella che fa più ridere è quella giusta, come sempre ride bene chi ride ultimo.
  • 27. VIRAL ‘K’ MARKETING NOTE 1. Neal Stephenson, Snow Crash, pgg. 351-352, ed. Shake, 1995. 2. Wikipedia voce: Marketing virale, http://it.wikipedia.org/wiki/Marketing_virale, 2012. 3. Ralph F. Wilson, The Six Simple Principles of Viral Marketing, http://webmarketingtoday.com/articles/viral-principles/, 2000. 4. Neal Stephenson, Snow Crash, ed. Shake, 1995. 5. Chuck Palahniuk, Ninna Nanna, ed. Mondadori, 2005. 6. Jan Harold Brunvand, Leggende metropolitane. Storie improbabili raccontate come vere, ed. Costa&Nolan, 1990. 7. Henry Jenkins, If It Doesn’t Spread, It’s Dead, www.henryjenkins.org/2009/02/if_it_doesnt_spread_its_dead_p.html, 2009. - Andrea Natella è socio e direttore creativo di KOOK Artgency con cui tra l’altro ha realizzato il progetto thisman.org Grafica e impaginazione: Matteo Carlino e Francesco Croce (KOOK Artgency) www.kook.it 27