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I dati Istat sull'occupazione ci consegnano un quadro
sempre più drammatico. In un solo mese il numero
assoluto dei disoccupati è aumentato del 2.3 %. 62 mila
persone hanno perso il lavoro e si aggiungono ai 2 milioni
774 mila già conteggiati. Il tasso di disoccupazione è
prossimo all' 11% mentre quello giovanile è oltre il 35%.
La definizione di “Riforme strutturali” non è originale ma risponde
  esattamente all'apparato teorico concettuale contenuto nel Rapporto Ocse
  del 1994, successivamente acquisito dal Fondo Monetario Internazionale e
  poi dalla Bce.
L'indagine Ocse, in sostanza, assumeva che solo un mercato del lavoro
    perfettamente flessibile, in un contesto neutrale di politiche
    macroeconomiche, avrebbe ridotto la disoccupazione.
Il rapporto suggeriva di ridurre la rigidità in uscita, cioè rendere i licenziamenti
    più facili, e legare i salari alla produttività. La traduzione pratica è
    contenuta in due ricette: libertà di licenziamento e aumento dell'orario di
    lavoro a parità di salario.
Il mantra, ripetuto ossessivamente nei citati documenti, è che l'eccessiva rigidità del
   mercato del lavoro italiano (di cui la tutela in materia di licenziamenti sarebbe la
   massima espressione) scoraggerebbe gli investimenti esteri nel nostro paese.
   Inoltre rappresenterebbe la causa principale della precarietà e della
   disoccupazione. In questo clima «culturale» il diritto del lavoro appare solo una
   forma di regolazione dei rapporti sociali come altre, che deve rispettare, e
   possibilmente esprimere, le leggi del mercato (Garofalo, 1999a).
Il diritto del lavoro ha una funzione diversa: correggere e controbilanciare i rapporti
    di potere intrinseci in un contratto asimmetrico come quello che vede da una
    parte il prestatore e dall'altra colui che offre il lavoro e pretende di organizzarlo
    esercitando una autorità.
Il contratto di lavoro infatti presuppone una finta uguaglianza tra le parti.
E' grazie alle codificazioni borghesi che i lavoratori passano dallo status di servi ad
   attori negoziali. Ciò avviene attraverso una finzione.
L'unico modo per legittimare la posizione di potere e di subordinazione in una società
   che il pensiero liberale voleva di uguali era lo schema negoziale che presiede allo
   scambio di merci. Il lavoro merce viene scambiato con la retribuzione. Il lavoro
   però non è una merce ma espressione della persona umana come riconosciuto
   nella nostra costituzione. Per questa ragione Il contratto individuale che legittima
   lo scambio ineguale è corretto da altre fonti eteronome: la costituzione, la legge, e
   la contrattazione collettiva.
“Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita
    stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta”
K. Polanyi, La grande trasformazione, Le origini e economiche e politiche della nostra
   epoca, Einaudi, Torino 1974.
Le valutazioni del rapporto Ocse e degli altri documenti che ne riprendono lo
   spirito sono di natura politica e ideologica.
Un dato comparatistico: le migliori esperienze europee quanto a performance
  occupazionali hanno in comune una elevata imposizione fiscale, impegnative
  politiche di formazione professionale ed elevati investimenti in R&S; non bassi
  salari e licenziamenti facili.
Gran Bretagna, Svezia e Danimarca , ma anche la Germania negli ultimi anni hanno
   «regimi di protezione dell'impiego» completamente diversi. Si passa dall'ampia
   libertà di licenziamento tipica del sistema danese, alle regole di protezione deboli
   dell'ordinamento britannico fino all'estremo opposto, rappresentato dal sistema
   svedese di tutela contro il licenziamento ingiustificato, paragonabile al nostro per
   intensità protettiva. Senza dimenticare il modello tedesco di coderminazione
   fondato su relazioni industriali ancora relativamente solide nonostante la crisi.


.
La stessa Ocse ha prodotto negli anni indagini decisamente contraddittorie. Nel
   1998 l’Employment Outlook aveva affermato che né la teoria economica né le
   analisi econometriche sono state in grado di determinare l’influenza sui livelli
   occupazionali di discipline legali o contrattuali sui minimi salariali, così come
   non vi sarebbero prove del fatto che riducendo la protezione contro il
   licenziamento e indebolendo i contratti di lavoro standard si possa agevolare
   la crescita dell'occupazione (Ocse, 1998).
Si rivelerà sbagliato l'indice di rigidità dell'impiego elaborato per il nostro paese
    dalla stessa agenzia nel 1999, che includeva, erroneamente, il trattamento di
    fine rapporto fra i costi monetari del licenziamento, mentre – com’è noto –
    rappresenta una quota differita della retribuzione. Nel rapporto viene,
    incredibilmente, confuso con una indennità per il licenziamento.
E' in questo contesto ideologico che si inserisce la legge 92/2012
Infatti durante l'iter parlamentare è stato esplicitamente
   affermato che il disegno di legge pur centrato sull'allentamento
   della “rigidità in uscita” avrebbe contenuto misure di
   “riequilibrio” rappresentate da norme di limitazione del
   precariato e di tutela contro gli abusi di contratti non standard.
L'intervento più rilevante riguarda infatti più che le flessibilità in
   entrata la disciplina dei licenziamenti che era il vero obiettivo.
Non si tratta di una grande riforma del lavoro ma di una
  manutenzione ideologicamente orientata e nel solco della
  legge 276 2003.
La disciplina dei
 licenziamenti
Nel nostro ordinamento esistono due regimi di tutela in relazione al recesso
   datoriale riconosciuto illegittimo: l’alternativa tra riassunzione e risarcimento del
   danno ex legge 604 del 1966 (tutela obbligatoria); la reintegrazione nel posto di
   lavoro (tutela reale), qualora sussistano determinati limiti dimensionali, prevista
   dall’art. 18 dalla legge 300 del 1970.
L'art. 18 legge 300 del 1970 è diretto , attraverso una complessa combinazione di
   tecniche (invalidante dell'atto, inibitorio, restitutoria, risarcitoria), alla
   reintegrazione nel posto di lavoro, e ha una funzione di prevenzione generale
   contro i licenziamenti illegittimi pur interessando un numero non elevato di
   lavoratori. Il tessuto produttivo italiano è infatti composto prevalentemente da
   aziende che hanno meno di 15 dipendenti.
Nelle semplificazioni giornalistiche e nella retorica prevalente
  del discorso pubblico questa disciplina viene presentata
  come un «privilegio di pochi», assolutamente incoerente
  con lo sviluppo di un paese moderno.
Le cose stanno diversamente. La tutela reale corrisponde a
  uno sviluppo coerente della nostra civiltà giuridica, non solo
  nei rapporti di lavoro.
Anzi, è la legge del 1966 che si discosta dal diritto comune, dal
  diritto dei contratti.
La reintegrazione in forma specifica è un rimedio previsto dal codice civile in
   quanto diritto all'esatto adempimento se giuridicamente e materialmente
   possibile. La tutela risarcitoria è una alternativa secondaria.
Inoltre sempre più, soprattutto nel settore della produzione di beni e servizi e
   della tutela del consumatore, si vanno diffondendo, sia a livello comunitario
   sia nella legislazione nazionale, strumenti analoghi.
Quest’esigenza assume un rilievo particolare nel diritto del lavoro, dove
  l'adempimento della prestazione lavorativa non è soltanto l'esecuzione di
  un obbligo nell’ambito di un contratto a prestazioni corrispettive, ma è
  anche un mezzo di espressione della personalità, costituzionalmemte
  tutelato.
Lo svolgimento dell’attività lavorativa è connesso a diritti
  fondamentali, tra i quali la libertà di espressione nel luogo di
  lavoro, la libertà di costituire associazioni sindacali, di svolgere
  attività sindacali e di esercitare i diritti garantiti dallo Statuto
  dei lavoratori che la tutela reale rende esigibili. La scelta tra i
  due tipi di tutela è quindi squisitamente politica. Sono in gioco
  due interessi contratrapposti quello del datore di lavoro
  all'esercizio dell'autorità e quello del lavoratore all'espressione
  della propria personalità oltre che al reddito.
Nel nostro paese la maggior parte delle aziende dove trova
  applicazione l’art. 18 si colloca in quelle aree geografiche
  dove registriamo livelli occupazionali pari alle migliori
  performance europee e dove si producono i beni a più alto
  valore aggiunto, quelli che maggiormente esportiamo. In
  queste aziende, non a caso forse, il livelli di precarietà si
  sono mantenuti negli anni su tassi fisiologici.
L'articolo 18 dopo la legge 92 2012.
Obiettivo iniziale del governo: prevedere come “risposta
  dell'ordinamento” ad un licenziamento ingiustificato
  l'indennizzo monetario in tutti i casi tranne quelli di
  licenziamento discriminatorio. Realizzare la prevalenza della
  libertà di iniziativa economica sulla stabilità del posto di
  lavoro.
Dopo la legge 92 qualora manchino giusta causa
  (comportamento intenzionale del lavoratore che incide sul
  rapporto fiduciario) o giustificato motivo soggettivo (grave
  inadempimento), al di fuori delle ipotesi discriminatorie
  (licenziamento per ragioni di razza, religione, politiche,
  sindacali) la tutela reale cioè il reintegro potrà avvenire
  solo se i motivi concreti addotti dal datore di lavoro
  motivo siano del tutto inesistenti.
Nella casisitica giudiziaria, fino ad oggi, generalmente il fatto
  sussiste ma il giudice non lo valuta così grave da giustificare
  il licenziamento.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ragioni
   economiche o organizzative) non prevede più il reintegro
   automatico.
Il giudice può disporre il reintegro nell'ipotesi in cui accerti la manifesta
    insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato
    motivo oggettivo.
Al giudice viene riconosciuto un ampio potere discrezionale anche perchè
   l'uso del verbo potere sembra attribuire una mera facoltà anche in caso
   di “manifesta insussistenza”.
Del resto è quanto affermato da Monti in data 8 Aprile 2012 in replica al
  Wall Street Journal: “ Per il motivo economico non è più previsto il
  reintegro. Solo nel caso in cui il fatto sia considerato manifestamente
  insussistente il giudice può, e non deve, come chiedevano il PD e certi
  sindacati decidere per il reintegro”.
La reintegrazione è solo una eventualità.
L'aggettivo che dovrebbe caratterizzare l'insussistenza desta
   molte perplessità: quando ci si propone di scongiurare gli abusi
   non si può pretendere che chi pone in essere una condotta
   illegittima lo faccia in modo manifesto. Gli imprenditori furbi che
   decideranno di ricorrere a tale causale per liberarsi di un
   dipendente sgradito si guarderanno bene dal confessarlo e
   conseguentemente cercheranno di nascondere e mascherare
   l'illegittimità della loro condotta. In altre parole di renderla
   occulta e non manifesta.
La “flessibilità” in
      entrata
L'intervento principale assieme a quello sui
   licenziamenti riguarda i contratti “flessibili”.
Non si introduce alcun contratto unico di ingresso
   e si mantengono le svariate tipologie esistenti
   operando una manutenzione in alcuni casi
   anche rilevante.
L'obiettivo è incentivare le scelte aziendali verso
   alcuni tipi contrattuali.
   Lavoro a tempo indeterminato 14.253.628
   Lavoro a tempo determinato 1.075.122
   Contratto formazione lavoro (CFL) 133.822 12,2
   Apprendistato 346.912
   Contratto d’inserimento 180.425 11,1
   Lavoro interinale o a somministrazione 147.575
   Job sharing o lavoro ripartito 8.876
   Lavoro intermittente o a chiamata 157.950 17,6
   Collaborazioni coordinate e continuative (Co.Co.Co.) 375.176
   Collaborazione occasionale (Ritenuta d’acconto) 358.661
   Lavoro a progetto 559.561
   Associati in partecipazione 63.810

    Partita IVA 1.641.244
   Stage, Alternanza scuola – lavoro 33.988
   Pratica professionale 55.970 17,4
   Tirocinio 33.666
Il contratto a termine nella legge 92/2012
Il pendolo legislativo si sposta verso una
   maggiore flessibilità di utilizzo grazie
   all'introduzione del contratto a-causale.
Diventa ammissibile un’assunzione a tempo
   determinato del tutto priva di qualsiasi ragione
   di carattere tecnico, produttivo, organizzativo
   o sostitutivo.
Il rischio di un continuo turn-over fra rapporti a-causali,
   intercorrenti con diversi lavoratori, tutti assunti a termine
   per una prima ed unica volta è elevato.
Manca un espresso divieto di riassumere con un contratto a-
 causale lo stesso lavoratore, mentre è senz’altro chiaro il
 divieto di prorogare tale contratto.
Diventerà molto più appetibile di una assunzione a tempo
  indeterminato con patto di prova (generalmente di 6
  mesi).
L’unica vera stretta è quella economica, consistente
   nell’aggravio contributivo (senza alcun beneficio retributivo
   per il lavoratore) fissato nella misura dell’1,4% della
   retribuzione imponibile ai fini previdenziali con esclusione
   di due “categorie” di lavoratori a termine (quelli assunti in
   sostituzione di lavoratori assenti e i cosiddetti ‘stagionali’),
   nonché degli apprendisti e dei dipendenti pubblici.
Si prevede la restituzione del contributo addizionale in caso di
   trasformazione del contratto a tempo indeterminato entro
   6 mesi dalla cessazione del precedente rapporto di lavoro a
   termine.
A conti fatti, in fase di prima assunzione, non vi
 è più alcuna convenienza ad offrire al
 lavoratore        un     contratto   a    tempo
 indeterminato (e non si comprende, quindi,
 come questo potrà risultare ‘dominante’), al
 netto di eventuali benefici economici
 connessi.
Le restrizioni in materia di lavoro autonomo.
La nuova legge rende ancora più strette la maglie
  del lavoro a progetto per contrastare le
  persistenti pratiche abusive consistenti nella
  dissimulazione di veri e propri rapporti di lavoro
  subordinato.
Per prima cosa la legge restringe il campo del
  lavoro a progetto eliminando i riferimenti a
  “programma di lavoro o fase di esso”.
Inoltre chiarisce che il progetto non può
  consistere nell'oggetto sociale dell'impresa.
Attraverso questi due varchi infatti sono stati
  commessi abusi sistematici della fattispecie.
Il progetto è ora l'oggetto del contratto.
Si cerca di evitare il famoso contratto a progetto
  per fare fotocopie.
Si conferma la sanzione della conversione
  automatica in lavoro subordinato in caso di
  mancanza del progetto che tuttavia opera se
  l’apporto del collaboratore si sostanzi in
  «prestazioni di elevata professionalità»


La scelta legislativa ha alla base una doppia
  equivalenza tra lavoro professionalizzato e
  lavoro autonomo, da un lato, e tra lavoro
  dequalificato e lavoro subordinato, dall’altro, che
  non soltanto non è sempre vera in fatto, ma è
  certamente infondata in diritto.
Sul piano giuridico non esiste alcuna connessione
 tra professionalità elevata e lavoro autonomo.
Qualsiasi   attività   concreta suscettibile   di
 valutazione        economica   può        essere
 indifferentemente oggetto di un contratto di
 lavoro subordinato o autonomo.
Non rileva infatti il contenuto materiale della
 prestazione bensì soltanto l’assoggettamento o
 meno del lavoratore alle direttive altrui.
Il corrispettivo. Uno dei principali problemi problemi dei
   lavoratori autonomi.


Oggi deve essere definito dalla contrattazione collettiva che
  per ciascun settore di attività dovrebbe contenere
  specifiche previsioni riguardanti i collaboratori a progetto.
  Incredibilmente i compensi dei lavoratori a progetto
  impegnati nei call- center outbound sono svincolati da
  qualunque parametrazione.
Partite iva◦
si prospetta la presunzione di lavoro svolto in
  collaborazione a progetto (la quale a sua
  volta,mancando il progetto, potrà essere
  considerata lavoro subordinato), qualora si
  verifichino congiuntamente due su tre
  condizioni: prevalenza nel fatturato di un
  committente, postazione di lavoro fissa, durata
  di 8 mesi in due anni con lo stesso committente.
La stretta non opera per coloro che che registrano un reddito lordo
  annuo oltre i 18.000 Euro.



Contemporaneamente è stato disposto un innalzamento delle
  aliquote contributive per tutti i parasubordinati di quasi 6 punti
  percentuali: significa compensi netti ancora più magri per le
  p.iva, dato che chi lavora con questa modalità contrattuale è
  costretto a farsene interamente carico senza ripartire l’onere coi
  committenti.
Gli ammortizzatori sociali avrebbero dovuto rappresentare l'altro
   grande capitolo della riforma: l’Aspi (associazione sociale per
   l'impiego) era stata annunciata come l’ammortizzatore sociale
   universale, esclude i parasubordinati e molti dipendenti a tempo
   determinato per i quali i requisiti di accesso rimangono gli stessi della
   vecchia indennità di disoccupazione.


La legge prevede una Una tantum per i collaboratori a progetto.
  Questo strumento si rivolge ai soli collaboratori a progetto,
  escludendo tutto il resto del mondo precario non subordinato e
  prevede requisiti di accesso iper-restrittivi. Non è un ammortizzatore
  sociale, perché non è finanziato su base contributiva e non
  accompagna il periodo di disoccupazione. Benchè finanziata dalla
  fiscalità generale, tuttavia, non è neanche una misura universalistica
  di welfare, tipo reddito di base, perché si rivolge ad una categoria
  molto specifica del mondo del lavoro, solo nel caso di non rinnovo di
  un contratto. Somiglia, in fin dei conti, a un’elemosina.
Quale riforma
 servirebbe ?
Cosa serviva davvero in questa fase?
Un sistema di sostegno al reddito rivolto anche a coloro che
  oggi ne sono esclusi: alle lavoratrici e ai lavoratori
  parasubordinati; a chi presta la sua opera con p.iva e vede
  una drastica diminuzione del proprio reddito a causa della
  perdita di gran parte dei suoi committenti; a tutti i
  lavoratori a tempo determinato che oggi non vi posso
  accedere.
Meccanismi di tipo strettamente contributivo potrebbero non
 essere capaci di sostenere il fabbisogno di protezione di
 soggetti altamente esposti al rischio disoccupazione quindi
 prevedere un progressivo spostamento verso la fiscalità
 generale attraverso la costituzione di un reddito di base.
Allo stesso tempo riformare il sistema pensionistico nel senso vero
   del termine. L'allungamento generalizzato dell'età pensionabile
   (fino a 5 anni) non è stato compensato da alcun vero intervento a
   vantaggio degli intermittenti.
I bassi compensi e buchi contributivi mettono a rischio l'intero
  sistema previdenziale oltre a garantire al massimo pensioni da
  300 euro in media ai lavoratori parasubordinati
E’ su questi aspetti, dunque, che bisogna intervenire: garantendo
  compensi adeguati con dei veri minimi salariali; contributi
  figurativi, una ripartizione del carico contributivo anche per i
  lavoratori indipendenti, magari attraverso l’obbligatorietà, la
  deducibilità e l’adeguamento in termini di entità del diritto di
  rivalsa. Ed è necessario che comunque lo stato assicuri a chi ha
  lavorato una vita, ancor più se precario, una pensione che
  permetta una vita dignitosa
In prospettiva un “vero” contratto unico.
La disponibilità «giuridica» dei contratti di lavoro autonomo utilizzati in
  sostituzione del lavoro dipendente, economicamente convenienti in
  quanto poco tutelati, a iniziare dai minimi salariali, ha reso possibile
  una vera e propria fuga non tanto dalla subordinazione, ma dallo
  statuto «protettivo» del lavoro subordinato.
In realtà è la stessa distinzione netta tra lavoro autonomo e lavoro
   subordinato che oggi non ha senso.
margini crescenti di autonomia esistono in tutti i lavori.
Può accadere che nel lavoro autonomo fuori dall'impresa organizzata la
  dipendenza economica sia più forte che nel lavoro subordinato.
Riscrivere il contratto di lavoro superando l'attuale
  bipartizione ripartendo dagli studi di Massimo
  D'Antona.
   Graduare i diritti in relazione alla misura
  dell'integrazione nell'organizzazione del lavoro e
  allargare gli strumenti di sostegno al reddito nelle
  fasi di non lavoro.
Porre al centro del contratto la collaborazione al fine
  di realizzare un progetto e il diritto dovere alla
  formazione e all'autoformazione.
Una politica industriale per cambiare il
nostro sistema produttivo e puntare ad
 uno sviluppo fondato su innovazione
                 ricerca.
In realtà i problemi del lavoro sono quelli del nostro sistema produttivo che punta
   prevalentemente a ridurne il costo. Non esiste legge sul lavoro che possa da sola
   invertire questa tendenza. Le ragioni della nostra scarsa competitività hanno
   motivazioni ben diverse. Il punto vero è modificare la specializzazione produttiva.
   L'andamento della produttività nella nostra industria (manifatturiera in particolare)
   segue una traiettoria ascendente dagli anni cinquanta fino alla prima metà degli
   anni settanta, per poi iniziare un progressivo declino, finendo col precipitare dalla
   seconda metà degli anni novanta in avanti. Nello stesso periodo i tassi di crescita
   delle retribuzioni reali per unità di lavoro hanno seguito una linea di tendenza
   negativa e, in particolare dalla prima metà degli anni novanta in poi, sono
   aumentati i contratti atipici.
L'Italia ha implementato negli anni un modello di crescita senza ricerca e innovazione.
Tuttavia se fino alla fine degli anni ’80 ancora quel sistema poteva reggere, l’irruzione
   della globalizzazione e contestualmente la conquistata stabilità monetaria hanno
   fatto venire meno alcune delle condizioni di fondo su cui si basava la nostra
   residua capacità competitiva. L'avvento dell'euro ha messo fine alle svalutazioni
   competitive che offrivano una apparente scappatoia consentendo per un po' di
   galleggiare senza correggere i nostri difetti ancestrali.
L'Italia, in sostanza, non ha reagito in alcun modo al mutamento delle condizioni
    strutturali dei mercati internazionali restando ancorata al modello che abbiamo
    descritto.
Oggi le retribuzioni medie lorde dell’industria in senso stretto (imprese con almeno
  10 addetti) sono tra le più basse della zona euro.
E' il lavoro il problema ?
Negli ultimi 10 anni l'Italia ha registrato una sostanzale persistenza del tradizionale
  modello di specializzazione manifatturiera. Si consolida, infatti, la specializzazione
  nei settori a medio-bassa tecnologia mentre, ad esempio Germania e Austria
  rafforzano la specializzazione nelle industrie manifatturiere ad alta tecnologia e
  Svezia, Polonia e Repubblica Ceca riducono in modo rilevante la loro
  despecializzazione in questo settore.
La Francia si conferma poi leader nei servizi tecnologici ad elevata conoscenza che
   comprendono le telecomunicazioni, i servizi informatici e la ricerca e sviluppo.
Si tratta delle produzioni a più alto valore aggiunto che determinano la maggiore
    produttività di questi paesi.
Alla debolezza del settore manifatturiero si accompagna inoltre e non a caso una
    analoga debolezza nel settore dei servizi.
Il vero limite della nostra competitività è la produttività che dipende dal basso valore
    aggiunto dei nostri prodotti e dalla propensione di una parte consistente delle
    nostre imprese a sfruttare i vantaggi comparati ereditati da innovazioni del
    passato o incorporati in un saper fare individuale frutto anch'esso di stratificazioni
    storiche piuttosto che rinnovare il vantaggio competitivo attraverso la ricerca di
    rapporti con il mondo della scienza e della conoscenza (come ci ricorda Fabrizio
    Barca).
Nella classifica (eurostat) delle imprese innovatrici sul totale delle imprese su 12 paesi
    siamo undicesimi, prima la Germania. Tre su 500 sono le aziende italiane inserite
   nella classifica annuale technology fast di Deloitte. A guidare la classifica è la
   Francia con 93 aziende. In linea con noi ci sono Portogallo e Bulgaria.
Si tratta della conseguenza inevitabile della ridotta spesa in
   ricerca da parte delle nostre imprese. Il problema non è però
   l'avarizia dei nostri imprenditori in questo campo ma il
   trascinarsi di una cultura che riflette le caratteristiche del
   nostro modello produttivo.
Ciò è confermato dal fatto che se il confronto con gli altri paesi
  viene fatto a parità di struttura dimensionale e specializzazione
  produttiva la spesa risulterà analoga.
Il nodo è quello della debolezza tecnologica dell'Italia in ragione
   della bassa specializzazione produttiva nei settori ad alta
   intensità di ricerca che a livello internazionale beneficiano tra
   l'altro di una più elevata dinamica della domanda.
Ciò naturalmente ha effetti sulla qualità del lavoro.
  L'industria senza ricerca e innovazione richiede qualifiche
  professionali basse, ritiene poco importante il titolo di
  studio e ignora alcune capacità professionali legate a
  percorsi di studio. Non è un caso infatti che abbiamo un
  numero di laureati impiegati nel mondo del lavoro tra i più
  bassi d'Europa per non parlare dei dottori di ricerca. Altro
  che economia della conoscenza.
Tasso di occupazione laureati a un anno
Guadagno netto dei laureati a 5 anni dal
conseguimento del titolo
Senza modificare la specializzazione produttiva concentrandola su beni ad alto valore
   di conoscenza e senza proseguire nelle innovazioni di processo che hanno
   caratterizzato anche le nostre produzioni prevalenti negli anni passati ci
   limiteremo a gestire un progressivo impoverimento.
Cosa serve?
Uno Stato che si concentri sulla domanda di innovazione attraverso la cura delle
  infrastrutture fondamentali e dei beni comuni. Ciò naturalmente richiede una
  diversa politica europea che deve ripartire dalle intuizioni di Delors. Il fiscal
  compact è il primo nemico dello sviluppo. Serve UNA POLITICA INDUSTRIALE
Per concludere.
Le competenze e le conoscenze sono questione centrale dei processi di sviluppo in
   ogni paese ma nel nostro, per le ragioni sommariamente esposte, più che in altri.
Le politiche di intervento finalizzate a realizzare un nuovo sviluppo non possono
   quindi prescindere dall'accumulazione di “capitale immateriale” cioè investimenti
   nelle persone che lavorano all'interno del sistema ricerca e università.
Da qui si deve partire anche per cambiare la struttura occupazionale del nostro
   Paese.
F ig . 3 .1 4 - Il p e r s o n a le r ic e r c a to r e d e lle u n iv e r s ità in r a p p o r to a g li o c c u p a ti in a lc u n i p a e s i d e ll’ O c s e e d e l re s to
     del m ondo, 2007

                                              F F i inn l laa nn dd ii aa                                                                                                     0 ,4 9
                                      AA uu ss tt rr aa ll ii aa (( aa ))                                                                                                    0 ,4 8
                                  R Re eg gn n oo UU nn ii tt oo                                                                                                           0 ,4 8
                                                        BB ee ll gg ii oo                                                                                         0 ,3 5
                                              N  N o o r rvv ee gg ii aa                                                                                    0 ,3 3
                                         D  D a an n i imm aa rr cc aa                                                                                     0 ,3 3
                                                        SS vv e z i a                                                                                      0 ,3 3
                                       S S vv ii zz zz ee rr aa (( aa ))                                                                          0 ,2 9
                                             G G i ia a pp pp o n e                                                                               0 ,2 9
                                                     SS pp a g n aa                                                                               0 ,2 9
                                                    FF rr aa n c i a                                                                    0 ,2 6
69                                                       UU e - 2 7                                                                   0 ,2 6
                                           CC a n a dd aa ( a )                                                                      0 ,2 5
                                                     AA uu s t r i a                                                                0 ,2 5
                                                      I Irr ll aa n d a                                                        0 ,2 3
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                   F e Fd e ed rea r za iz oi on ne e RR uu ss s a                              0 ,1 1
                                                                C i n aa               0 ,0 3

                                                                            00 ,, 00                                                        00% ,, 33                                  00 ,, 66 %

     N o te : (a ) 2 0 0 6 .
     F o n te : E la b o ra z io n e d e l C e ris -C n r s u d a ti O c s e .
I beni si possono importare o esportare, mentre queste “capacità” sono intrinseche
   ad ogni paese. Allo stesso tempo sono il presupposto dell'unico sviluppo che ci
   interessa quello che si misura in relazione ai livelli di libertà effettivamente
   conseguiti dalle persone come direbbe Amartya Sen.
La seconda repubblica è stata disastrosa per i settori della conoscenza e per il lavoro
   speriamo nella terza anche se i dubbi per ora sono molti.
• L’Italia continua ad avere un numero di laureati tra i
  più bassi d’Europa. Si tratta del 15% di laureati se
  consideriamo la fascia d’età tra i 26 e i 64 anni, contro il
  31% (media EU) , mentre nella fascia d’età tra i 25 e i 34
  anni si tratta del 21% di laureati contro il 38% media EU,
  dato che la colloca al 34/37
• Il livello delle immatricolazioni in Italia continua a
  scendere, e questo dato è aggravato dalla situazione
  del mercato del lavoro: il tasso di occupabilità aumenta
  con l’aumentare dell’istruzione in maniera ridotta rispetto
  alla media europea.
• Il rapporto Almalaurea 2012 evidenzia addirittura come
  il guadagno mensile netto a un anno dalla laurea sia
  maggiore per un laureato triennale rispetto a uno
  studente che ha conseguito la laurea specialistica.
Associazione in partecipazione :
questo istituto era stato riconosciuto da tutte le rappresentanze sociali come
  particolarmente a rischio di un utilizzo improprio ed elusivo, pertanto nel
  documento riassuntivo del confronto, approvato "salvo intese" dal Consiglio
  dei Ministri del 20 marzo si leggeva che "si prevede di preservare l’istituto
  solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1° grado o coniugi.”
  Invece il testo del disegno di legge prevede che “ il numero degli associati non
  può essere superiore a tre, …, con l'unica eccezione nel caso in cui gli associati
  siano legati all'associante da un rapporto coniugale, di parentela entro il terzo
  grado e di affinità entro il secondo.” Inoltre si prevede che le eventuali
  associazioni in partecipazione la cui legittimità sia stata oggetto di
  certificazione (art. 75 e sg. D.Lgs. 276/03 ) restino valide fino alla scadenza
  della loro durata. La sanzione per le associazioni illegittime è la conversione in
  lavoro subordinato, a meno che esse non siano riconducibili alle prestazioni
  rese con partita Iva come modificate da questa legge.
è un caso eclatante di smentita delle dichiarazioni del
  Governo di contrastare la "cattiva flessibilità". L'area
  salvaguardata (fino a tre associati più coniugi e parenti
  illimitati) corrisponde esattamente alla descrizione dei
  soggetti, prevalentemente catene commerciali e turistiche
  in franchising, che sono stati i più grandi utilizzatori di
  questa fattispecie
L'ASpI è un'indennità di disoccupazione, che si vuole universale, e
   pertanto sostituisce, con una transizione tra il 2013 e il 2016, le
   indennità di disoccupazione, ordinaria e con requisiti ridotti, l'indennità
   di mobilità e le indennità speciali in edilizia. Destinatari del trattamento
   sono i lavoratori subordinati che hanno perso l'impiego, compresi gli
   apprendisti, gli artisti dipendenti, i soci di cooperativa con rapporto di
   dipendenza, i lavoratori a tempo determinato della Pubblica
   Amministrazione .
In caso del solo versamento previdenziale di 13 settimane, è possibile
   accedere ad un'indennità che sostituisce la previgente indennità con
   requisiti ridotti (MiniASpI). Essa è calcolata allo stesso modo dell'ASpI,
   e viene erogata direttamente a domanda, anziché l'anno successivo
   come l'indennità con requisiti ridotti.
Il licenziamento discriminatorio è quello determinato
   (nei fatti) per ragioni di credo politico o fede
   religiosa, razziali, di appartenenza ad un sindacato,
   di partecipazione all'attività sindacale, di adesione
   ad uno sciopero, di lingua, di sesso, intimato nel
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  • 1. 1
  • 2.
  • 3. I dati Istat sull'occupazione ci consegnano un quadro sempre più drammatico. In un solo mese il numero assoluto dei disoccupati è aumentato del 2.3 %. 62 mila persone hanno perso il lavoro e si aggiungono ai 2 milioni 774 mila già conteggiati. Il tasso di disoccupazione è prossimo all' 11% mentre quello giovanile è oltre il 35%.
  • 4. La definizione di “Riforme strutturali” non è originale ma risponde esattamente all'apparato teorico concettuale contenuto nel Rapporto Ocse del 1994, successivamente acquisito dal Fondo Monetario Internazionale e poi dalla Bce. L'indagine Ocse, in sostanza, assumeva che solo un mercato del lavoro perfettamente flessibile, in un contesto neutrale di politiche macroeconomiche, avrebbe ridotto la disoccupazione. Il rapporto suggeriva di ridurre la rigidità in uscita, cioè rendere i licenziamenti più facili, e legare i salari alla produttività. La traduzione pratica è contenuta in due ricette: libertà di licenziamento e aumento dell'orario di lavoro a parità di salario.
  • 5. Il mantra, ripetuto ossessivamente nei citati documenti, è che l'eccessiva rigidità del mercato del lavoro italiano (di cui la tutela in materia di licenziamenti sarebbe la massima espressione) scoraggerebbe gli investimenti esteri nel nostro paese. Inoltre rappresenterebbe la causa principale della precarietà e della disoccupazione. In questo clima «culturale» il diritto del lavoro appare solo una forma di regolazione dei rapporti sociali come altre, che deve rispettare, e possibilmente esprimere, le leggi del mercato (Garofalo, 1999a). Il diritto del lavoro ha una funzione diversa: correggere e controbilanciare i rapporti di potere intrinseci in un contratto asimmetrico come quello che vede da una parte il prestatore e dall'altra colui che offre il lavoro e pretende di organizzarlo esercitando una autorità. Il contratto di lavoro infatti presuppone una finta uguaglianza tra le parti.
  • 6. E' grazie alle codificazioni borghesi che i lavoratori passano dallo status di servi ad attori negoziali. Ciò avviene attraverso una finzione. L'unico modo per legittimare la posizione di potere e di subordinazione in una società che il pensiero liberale voleva di uguali era lo schema negoziale che presiede allo scambio di merci. Il lavoro merce viene scambiato con la retribuzione. Il lavoro però non è una merce ma espressione della persona umana come riconosciuto nella nostra costituzione. Per questa ragione Il contratto individuale che legittima lo scambio ineguale è corretto da altre fonti eteronome: la costituzione, la legge, e la contrattazione collettiva. “Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta” K. Polanyi, La grande trasformazione, Le origini e economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974.
  • 7. Le valutazioni del rapporto Ocse e degli altri documenti che ne riprendono lo spirito sono di natura politica e ideologica. Un dato comparatistico: le migliori esperienze europee quanto a performance occupazionali hanno in comune una elevata imposizione fiscale, impegnative politiche di formazione professionale ed elevati investimenti in R&S; non bassi salari e licenziamenti facili. Gran Bretagna, Svezia e Danimarca , ma anche la Germania negli ultimi anni hanno «regimi di protezione dell'impiego» completamente diversi. Si passa dall'ampia libertà di licenziamento tipica del sistema danese, alle regole di protezione deboli dell'ordinamento britannico fino all'estremo opposto, rappresentato dal sistema svedese di tutela contro il licenziamento ingiustificato, paragonabile al nostro per intensità protettiva. Senza dimenticare il modello tedesco di coderminazione fondato su relazioni industriali ancora relativamente solide nonostante la crisi. .
  • 8. La stessa Ocse ha prodotto negli anni indagini decisamente contraddittorie. Nel 1998 l’Employment Outlook aveva affermato che né la teoria economica né le analisi econometriche sono state in grado di determinare l’influenza sui livelli occupazionali di discipline legali o contrattuali sui minimi salariali, così come non vi sarebbero prove del fatto che riducendo la protezione contro il licenziamento e indebolendo i contratti di lavoro standard si possa agevolare la crescita dell'occupazione (Ocse, 1998). Si rivelerà sbagliato l'indice di rigidità dell'impiego elaborato per il nostro paese dalla stessa agenzia nel 1999, che includeva, erroneamente, il trattamento di fine rapporto fra i costi monetari del licenziamento, mentre – com’è noto – rappresenta una quota differita della retribuzione. Nel rapporto viene, incredibilmente, confuso con una indennità per il licenziamento.
  • 9. E' in questo contesto ideologico che si inserisce la legge 92/2012 Infatti durante l'iter parlamentare è stato esplicitamente affermato che il disegno di legge pur centrato sull'allentamento della “rigidità in uscita” avrebbe contenuto misure di “riequilibrio” rappresentate da norme di limitazione del precariato e di tutela contro gli abusi di contratti non standard. L'intervento più rilevante riguarda infatti più che le flessibilità in entrata la disciplina dei licenziamenti che era il vero obiettivo. Non si tratta di una grande riforma del lavoro ma di una manutenzione ideologicamente orientata e nel solco della legge 276 2003.
  • 10. La disciplina dei licenziamenti
  • 11. Nel nostro ordinamento esistono due regimi di tutela in relazione al recesso datoriale riconosciuto illegittimo: l’alternativa tra riassunzione e risarcimento del danno ex legge 604 del 1966 (tutela obbligatoria); la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale), qualora sussistano determinati limiti dimensionali, prevista dall’art. 18 dalla legge 300 del 1970. L'art. 18 legge 300 del 1970 è diretto , attraverso una complessa combinazione di tecniche (invalidante dell'atto, inibitorio, restitutoria, risarcitoria), alla reintegrazione nel posto di lavoro, e ha una funzione di prevenzione generale contro i licenziamenti illegittimi pur interessando un numero non elevato di lavoratori. Il tessuto produttivo italiano è infatti composto prevalentemente da aziende che hanno meno di 15 dipendenti.
  • 12. Nelle semplificazioni giornalistiche e nella retorica prevalente del discorso pubblico questa disciplina viene presentata come un «privilegio di pochi», assolutamente incoerente con lo sviluppo di un paese moderno. Le cose stanno diversamente. La tutela reale corrisponde a uno sviluppo coerente della nostra civiltà giuridica, non solo nei rapporti di lavoro. Anzi, è la legge del 1966 che si discosta dal diritto comune, dal diritto dei contratti.
  • 13. La reintegrazione in forma specifica è un rimedio previsto dal codice civile in quanto diritto all'esatto adempimento se giuridicamente e materialmente possibile. La tutela risarcitoria è una alternativa secondaria. Inoltre sempre più, soprattutto nel settore della produzione di beni e servizi e della tutela del consumatore, si vanno diffondendo, sia a livello comunitario sia nella legislazione nazionale, strumenti analoghi. Quest’esigenza assume un rilievo particolare nel diritto del lavoro, dove l'adempimento della prestazione lavorativa non è soltanto l'esecuzione di un obbligo nell’ambito di un contratto a prestazioni corrispettive, ma è anche un mezzo di espressione della personalità, costituzionalmemte tutelato.
  • 14. Lo svolgimento dell’attività lavorativa è connesso a diritti fondamentali, tra i quali la libertà di espressione nel luogo di lavoro, la libertà di costituire associazioni sindacali, di svolgere attività sindacali e di esercitare i diritti garantiti dallo Statuto dei lavoratori che la tutela reale rende esigibili. La scelta tra i due tipi di tutela è quindi squisitamente politica. Sono in gioco due interessi contratrapposti quello del datore di lavoro all'esercizio dell'autorità e quello del lavoratore all'espressione della propria personalità oltre che al reddito.
  • 15. Nel nostro paese la maggior parte delle aziende dove trova applicazione l’art. 18 si colloca in quelle aree geografiche dove registriamo livelli occupazionali pari alle migliori performance europee e dove si producono i beni a più alto valore aggiunto, quelli che maggiormente esportiamo. In queste aziende, non a caso forse, il livelli di precarietà si sono mantenuti negli anni su tassi fisiologici.
  • 16. L'articolo 18 dopo la legge 92 2012. Obiettivo iniziale del governo: prevedere come “risposta dell'ordinamento” ad un licenziamento ingiustificato l'indennizzo monetario in tutti i casi tranne quelli di licenziamento discriminatorio. Realizzare la prevalenza della libertà di iniziativa economica sulla stabilità del posto di lavoro.
  • 17. Dopo la legge 92 qualora manchino giusta causa (comportamento intenzionale del lavoratore che incide sul rapporto fiduciario) o giustificato motivo soggettivo (grave inadempimento), al di fuori delle ipotesi discriminatorie (licenziamento per ragioni di razza, religione, politiche, sindacali) la tutela reale cioè il reintegro potrà avvenire solo se i motivi concreti addotti dal datore di lavoro motivo siano del tutto inesistenti. Nella casisitica giudiziaria, fino ad oggi, generalmente il fatto sussiste ma il giudice non lo valuta così grave da giustificare il licenziamento.
  • 18. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ragioni economiche o organizzative) non prevede più il reintegro automatico. Il giudice può disporre il reintegro nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Al giudice viene riconosciuto un ampio potere discrezionale anche perchè l'uso del verbo potere sembra attribuire una mera facoltà anche in caso di “manifesta insussistenza”. Del resto è quanto affermato da Monti in data 8 Aprile 2012 in replica al Wall Street Journal: “ Per il motivo economico non è più previsto il reintegro. Solo nel caso in cui il fatto sia considerato manifestamente insussistente il giudice può, e non deve, come chiedevano il PD e certi sindacati decidere per il reintegro”.
  • 19. La reintegrazione è solo una eventualità. L'aggettivo che dovrebbe caratterizzare l'insussistenza desta molte perplessità: quando ci si propone di scongiurare gli abusi non si può pretendere che chi pone in essere una condotta illegittima lo faccia in modo manifesto. Gli imprenditori furbi che decideranno di ricorrere a tale causale per liberarsi di un dipendente sgradito si guarderanno bene dal confessarlo e conseguentemente cercheranno di nascondere e mascherare l'illegittimità della loro condotta. In altre parole di renderla occulta e non manifesta.
  • 21. L'intervento principale assieme a quello sui licenziamenti riguarda i contratti “flessibili”. Non si introduce alcun contratto unico di ingresso e si mantengono le svariate tipologie esistenti operando una manutenzione in alcuni casi anche rilevante. L'obiettivo è incentivare le scelte aziendali verso alcuni tipi contrattuali.
  • 22. Lavoro a tempo indeterminato 14.253.628  Lavoro a tempo determinato 1.075.122  Contratto formazione lavoro (CFL) 133.822 12,2  Apprendistato 346.912  Contratto d’inserimento 180.425 11,1  Lavoro interinale o a somministrazione 147.575  Job sharing o lavoro ripartito 8.876  Lavoro intermittente o a chiamata 157.950 17,6  Collaborazioni coordinate e continuative (Co.Co.Co.) 375.176  Collaborazione occasionale (Ritenuta d’acconto) 358.661  Lavoro a progetto 559.561  Associati in partecipazione 63.810  Partita IVA 1.641.244  Stage, Alternanza scuola – lavoro 33.988  Pratica professionale 55.970 17,4  Tirocinio 33.666
  • 23. Il contratto a termine nella legge 92/2012 Il pendolo legislativo si sposta verso una maggiore flessibilità di utilizzo grazie all'introduzione del contratto a-causale. Diventa ammissibile un’assunzione a tempo determinato del tutto priva di qualsiasi ragione di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.
  • 24. Il rischio di un continuo turn-over fra rapporti a-causali, intercorrenti con diversi lavoratori, tutti assunti a termine per una prima ed unica volta è elevato. Manca un espresso divieto di riassumere con un contratto a- causale lo stesso lavoratore, mentre è senz’altro chiaro il divieto di prorogare tale contratto. Diventerà molto più appetibile di una assunzione a tempo indeterminato con patto di prova (generalmente di 6 mesi).
  • 25. L’unica vera stretta è quella economica, consistente nell’aggravio contributivo (senza alcun beneficio retributivo per il lavoratore) fissato nella misura dell’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali con esclusione di due “categorie” di lavoratori a termine (quelli assunti in sostituzione di lavoratori assenti e i cosiddetti ‘stagionali’), nonché degli apprendisti e dei dipendenti pubblici. Si prevede la restituzione del contributo addizionale in caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato entro 6 mesi dalla cessazione del precedente rapporto di lavoro a termine.
  • 26. A conti fatti, in fase di prima assunzione, non vi è più alcuna convenienza ad offrire al lavoratore un contratto a tempo indeterminato (e non si comprende, quindi, come questo potrà risultare ‘dominante’), al netto di eventuali benefici economici connessi.
  • 27. Le restrizioni in materia di lavoro autonomo. La nuova legge rende ancora più strette la maglie del lavoro a progetto per contrastare le persistenti pratiche abusive consistenti nella dissimulazione di veri e propri rapporti di lavoro subordinato.
  • 28. Per prima cosa la legge restringe il campo del lavoro a progetto eliminando i riferimenti a “programma di lavoro o fase di esso”. Inoltre chiarisce che il progetto non può consistere nell'oggetto sociale dell'impresa. Attraverso questi due varchi infatti sono stati commessi abusi sistematici della fattispecie. Il progetto è ora l'oggetto del contratto. Si cerca di evitare il famoso contratto a progetto per fare fotocopie.
  • 29. Si conferma la sanzione della conversione automatica in lavoro subordinato in caso di mancanza del progetto che tuttavia opera se l’apporto del collaboratore si sostanzi in «prestazioni di elevata professionalità» La scelta legislativa ha alla base una doppia equivalenza tra lavoro professionalizzato e lavoro autonomo, da un lato, e tra lavoro dequalificato e lavoro subordinato, dall’altro, che non soltanto non è sempre vera in fatto, ma è certamente infondata in diritto.
  • 30. Sul piano giuridico non esiste alcuna connessione tra professionalità elevata e lavoro autonomo. Qualsiasi attività concreta suscettibile di valutazione economica può essere indifferentemente oggetto di un contratto di lavoro subordinato o autonomo. Non rileva infatti il contenuto materiale della prestazione bensì soltanto l’assoggettamento o meno del lavoratore alle direttive altrui.
  • 31. Il corrispettivo. Uno dei principali problemi problemi dei lavoratori autonomi. Oggi deve essere definito dalla contrattazione collettiva che per ciascun settore di attività dovrebbe contenere specifiche previsioni riguardanti i collaboratori a progetto. Incredibilmente i compensi dei lavoratori a progetto impegnati nei call- center outbound sono svincolati da qualunque parametrazione.
  • 32. Partite iva◦ si prospetta la presunzione di lavoro svolto in collaborazione a progetto (la quale a sua volta,mancando il progetto, potrà essere considerata lavoro subordinato), qualora si verifichino congiuntamente due su tre condizioni: prevalenza nel fatturato di un committente, postazione di lavoro fissa, durata di 8 mesi in due anni con lo stesso committente.
  • 33. La stretta non opera per coloro che che registrano un reddito lordo annuo oltre i 18.000 Euro. Contemporaneamente è stato disposto un innalzamento delle aliquote contributive per tutti i parasubordinati di quasi 6 punti percentuali: significa compensi netti ancora più magri per le p.iva, dato che chi lavora con questa modalità contrattuale è costretto a farsene interamente carico senza ripartire l’onere coi committenti.
  • 34. Gli ammortizzatori sociali avrebbero dovuto rappresentare l'altro grande capitolo della riforma: l’Aspi (associazione sociale per l'impiego) era stata annunciata come l’ammortizzatore sociale universale, esclude i parasubordinati e molti dipendenti a tempo determinato per i quali i requisiti di accesso rimangono gli stessi della vecchia indennità di disoccupazione. La legge prevede una Una tantum per i collaboratori a progetto. Questo strumento si rivolge ai soli collaboratori a progetto, escludendo tutto il resto del mondo precario non subordinato e prevede requisiti di accesso iper-restrittivi. Non è un ammortizzatore sociale, perché non è finanziato su base contributiva e non accompagna il periodo di disoccupazione. Benchè finanziata dalla fiscalità generale, tuttavia, non è neanche una misura universalistica di welfare, tipo reddito di base, perché si rivolge ad una categoria molto specifica del mondo del lavoro, solo nel caso di non rinnovo di un contratto. Somiglia, in fin dei conti, a un’elemosina.
  • 36. Cosa serviva davvero in questa fase? Un sistema di sostegno al reddito rivolto anche a coloro che oggi ne sono esclusi: alle lavoratrici e ai lavoratori parasubordinati; a chi presta la sua opera con p.iva e vede una drastica diminuzione del proprio reddito a causa della perdita di gran parte dei suoi committenti; a tutti i lavoratori a tempo determinato che oggi non vi posso accedere. Meccanismi di tipo strettamente contributivo potrebbero non essere capaci di sostenere il fabbisogno di protezione di soggetti altamente esposti al rischio disoccupazione quindi prevedere un progressivo spostamento verso la fiscalità generale attraverso la costituzione di un reddito di base.
  • 37. Allo stesso tempo riformare il sistema pensionistico nel senso vero del termine. L'allungamento generalizzato dell'età pensionabile (fino a 5 anni) non è stato compensato da alcun vero intervento a vantaggio degli intermittenti. I bassi compensi e buchi contributivi mettono a rischio l'intero sistema previdenziale oltre a garantire al massimo pensioni da 300 euro in media ai lavoratori parasubordinati E’ su questi aspetti, dunque, che bisogna intervenire: garantendo compensi adeguati con dei veri minimi salariali; contributi figurativi, una ripartizione del carico contributivo anche per i lavoratori indipendenti, magari attraverso l’obbligatorietà, la deducibilità e l’adeguamento in termini di entità del diritto di rivalsa. Ed è necessario che comunque lo stato assicuri a chi ha lavorato una vita, ancor più se precario, una pensione che permetta una vita dignitosa
  • 38. In prospettiva un “vero” contratto unico. La disponibilità «giuridica» dei contratti di lavoro autonomo utilizzati in sostituzione del lavoro dipendente, economicamente convenienti in quanto poco tutelati, a iniziare dai minimi salariali, ha reso possibile una vera e propria fuga non tanto dalla subordinazione, ma dallo statuto «protettivo» del lavoro subordinato. In realtà è la stessa distinzione netta tra lavoro autonomo e lavoro subordinato che oggi non ha senso. margini crescenti di autonomia esistono in tutti i lavori. Può accadere che nel lavoro autonomo fuori dall'impresa organizzata la dipendenza economica sia più forte che nel lavoro subordinato.
  • 39. Riscrivere il contratto di lavoro superando l'attuale bipartizione ripartendo dagli studi di Massimo D'Antona. Graduare i diritti in relazione alla misura dell'integrazione nell'organizzazione del lavoro e allargare gli strumenti di sostegno al reddito nelle fasi di non lavoro. Porre al centro del contratto la collaborazione al fine di realizzare un progetto e il diritto dovere alla formazione e all'autoformazione.
  • 40. Una politica industriale per cambiare il nostro sistema produttivo e puntare ad uno sviluppo fondato su innovazione ricerca.
  • 41. In realtà i problemi del lavoro sono quelli del nostro sistema produttivo che punta prevalentemente a ridurne il costo. Non esiste legge sul lavoro che possa da sola invertire questa tendenza. Le ragioni della nostra scarsa competitività hanno motivazioni ben diverse. Il punto vero è modificare la specializzazione produttiva. L'andamento della produttività nella nostra industria (manifatturiera in particolare) segue una traiettoria ascendente dagli anni cinquanta fino alla prima metà degli anni settanta, per poi iniziare un progressivo declino, finendo col precipitare dalla seconda metà degli anni novanta in avanti. Nello stesso periodo i tassi di crescita delle retribuzioni reali per unità di lavoro hanno seguito una linea di tendenza negativa e, in particolare dalla prima metà degli anni novanta in poi, sono aumentati i contratti atipici. L'Italia ha implementato negli anni un modello di crescita senza ricerca e innovazione.
  • 42. Tuttavia se fino alla fine degli anni ’80 ancora quel sistema poteva reggere, l’irruzione della globalizzazione e contestualmente la conquistata stabilità monetaria hanno fatto venire meno alcune delle condizioni di fondo su cui si basava la nostra residua capacità competitiva. L'avvento dell'euro ha messo fine alle svalutazioni competitive che offrivano una apparente scappatoia consentendo per un po' di galleggiare senza correggere i nostri difetti ancestrali. L'Italia, in sostanza, non ha reagito in alcun modo al mutamento delle condizioni strutturali dei mercati internazionali restando ancorata al modello che abbiamo descritto. Oggi le retribuzioni medie lorde dell’industria in senso stretto (imprese con almeno 10 addetti) sono tra le più basse della zona euro. E' il lavoro il problema ?
  • 43. Negli ultimi 10 anni l'Italia ha registrato una sostanzale persistenza del tradizionale modello di specializzazione manifatturiera. Si consolida, infatti, la specializzazione nei settori a medio-bassa tecnologia mentre, ad esempio Germania e Austria rafforzano la specializzazione nelle industrie manifatturiere ad alta tecnologia e Svezia, Polonia e Repubblica Ceca riducono in modo rilevante la loro despecializzazione in questo settore. La Francia si conferma poi leader nei servizi tecnologici ad elevata conoscenza che comprendono le telecomunicazioni, i servizi informatici e la ricerca e sviluppo. Si tratta delle produzioni a più alto valore aggiunto che determinano la maggiore produttività di questi paesi. Alla debolezza del settore manifatturiero si accompagna inoltre e non a caso una analoga debolezza nel settore dei servizi.
  • 44.
  • 45. Il vero limite della nostra competitività è la produttività che dipende dal basso valore aggiunto dei nostri prodotti e dalla propensione di una parte consistente delle nostre imprese a sfruttare i vantaggi comparati ereditati da innovazioni del passato o incorporati in un saper fare individuale frutto anch'esso di stratificazioni storiche piuttosto che rinnovare il vantaggio competitivo attraverso la ricerca di rapporti con il mondo della scienza e della conoscenza (come ci ricorda Fabrizio Barca). Nella classifica (eurostat) delle imprese innovatrici sul totale delle imprese su 12 paesi siamo undicesimi, prima la Germania. Tre su 500 sono le aziende italiane inserite nella classifica annuale technology fast di Deloitte. A guidare la classifica è la Francia con 93 aziende. In linea con noi ci sono Portogallo e Bulgaria.
  • 46.
  • 47. Si tratta della conseguenza inevitabile della ridotta spesa in ricerca da parte delle nostre imprese. Il problema non è però l'avarizia dei nostri imprenditori in questo campo ma il trascinarsi di una cultura che riflette le caratteristiche del nostro modello produttivo. Ciò è confermato dal fatto che se il confronto con gli altri paesi viene fatto a parità di struttura dimensionale e specializzazione produttiva la spesa risulterà analoga. Il nodo è quello della debolezza tecnologica dell'Italia in ragione della bassa specializzazione produttiva nei settori ad alta intensità di ricerca che a livello internazionale beneficiano tra l'altro di una più elevata dinamica della domanda.
  • 48.
  • 49. Ciò naturalmente ha effetti sulla qualità del lavoro. L'industria senza ricerca e innovazione richiede qualifiche professionali basse, ritiene poco importante il titolo di studio e ignora alcune capacità professionali legate a percorsi di studio. Non è un caso infatti che abbiamo un numero di laureati impiegati nel mondo del lavoro tra i più bassi d'Europa per non parlare dei dottori di ricerca. Altro che economia della conoscenza.
  • 50. Tasso di occupazione laureati a un anno
  • 51. Guadagno netto dei laureati a 5 anni dal conseguimento del titolo
  • 52. Senza modificare la specializzazione produttiva concentrandola su beni ad alto valore di conoscenza e senza proseguire nelle innovazioni di processo che hanno caratterizzato anche le nostre produzioni prevalenti negli anni passati ci limiteremo a gestire un progressivo impoverimento. Cosa serve? Uno Stato che si concentri sulla domanda di innovazione attraverso la cura delle infrastrutture fondamentali e dei beni comuni. Ciò naturalmente richiede una diversa politica europea che deve ripartire dalle intuizioni di Delors. Il fiscal compact è il primo nemico dello sviluppo. Serve UNA POLITICA INDUSTRIALE
  • 53. Per concludere. Le competenze e le conoscenze sono questione centrale dei processi di sviluppo in ogni paese ma nel nostro, per le ragioni sommariamente esposte, più che in altri. Le politiche di intervento finalizzate a realizzare un nuovo sviluppo non possono quindi prescindere dall'accumulazione di “capitale immateriale” cioè investimenti nelle persone che lavorano all'interno del sistema ricerca e università. Da qui si deve partire anche per cambiare la struttura occupazionale del nostro Paese.
  • 54. F ig . 3 .1 4 - Il p e r s o n a le r ic e r c a to r e d e lle u n iv e r s ità in r a p p o r to a g li o c c u p a ti in a lc u n i p a e s i d e ll’ O c s e e d e l re s to del m ondo, 2007 F F i inn l laa nn dd ii aa 0 ,4 9 AA uu ss tt rr aa ll ii aa (( aa )) 0 ,4 8 R Re eg gn n oo UU nn ii tt oo 0 ,4 8 BB ee ll gg ii oo 0 ,3 5 N N o o r rvv ee gg ii aa 0 ,3 3 D D a an n i imm aa rr cc aa 0 ,3 3 SS vv e z i a 0 ,3 3 S S vv ii zz zz ee rr aa (( aa )) 0 ,2 9 G G i ia a pp pp o n e 0 ,2 9 SS pp a g n aa 0 ,2 9 FF rr aa n c i a 0 ,2 6 69 UU e - 2 7 0 ,2 6 CC a n a dd aa ( a ) 0 ,2 5 AA uu s t r i a 0 ,2 5 I Irr ll aa n d a 0 ,2 3 P Pa ae es si i BB aa s s i 0 ,2 0 G G e er rmm aa n i a 0 ,1 8 CC o r e a 0 ,1 6 I ITT A L II AA 0 ,1 5 F e Fd e ed rea r za iz oi on ne e RR uu ss s a 0 ,1 1 C i n aa 0 ,0 3 00 ,, 00 00% ,, 33 00 ,, 66 % N o te : (a ) 2 0 0 6 . F o n te : E la b o ra z io n e d e l C e ris -C n r s u d a ti O c s e .
  • 55. I beni si possono importare o esportare, mentre queste “capacità” sono intrinseche ad ogni paese. Allo stesso tempo sono il presupposto dell'unico sviluppo che ci interessa quello che si misura in relazione ai livelli di libertà effettivamente conseguiti dalle persone come direbbe Amartya Sen. La seconda repubblica è stata disastrosa per i settori della conoscenza e per il lavoro speriamo nella terza anche se i dubbi per ora sono molti.
  • 56. • L’Italia continua ad avere un numero di laureati tra i più bassi d’Europa. Si tratta del 15% di laureati se consideriamo la fascia d’età tra i 26 e i 64 anni, contro il 31% (media EU) , mentre nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni si tratta del 21% di laureati contro il 38% media EU, dato che la colloca al 34/37 • Il livello delle immatricolazioni in Italia continua a scendere, e questo dato è aggravato dalla situazione del mercato del lavoro: il tasso di occupabilità aumenta con l’aumentare dell’istruzione in maniera ridotta rispetto alla media europea. • Il rapporto Almalaurea 2012 evidenzia addirittura come il guadagno mensile netto a un anno dalla laurea sia maggiore per un laureato triennale rispetto a uno studente che ha conseguito la laurea specialistica.
  • 57.
  • 58.
  • 59. Associazione in partecipazione : questo istituto era stato riconosciuto da tutte le rappresentanze sociali come particolarmente a rischio di un utilizzo improprio ed elusivo, pertanto nel documento riassuntivo del confronto, approvato "salvo intese" dal Consiglio dei Ministri del 20 marzo si leggeva che "si prevede di preservare l’istituto solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1° grado o coniugi.” Invece il testo del disegno di legge prevede che “ il numero degli associati non può essere superiore a tre, …, con l'unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all'associante da un rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado e di affinità entro il secondo.” Inoltre si prevede che le eventuali associazioni in partecipazione la cui legittimità sia stata oggetto di certificazione (art. 75 e sg. D.Lgs. 276/03 ) restino valide fino alla scadenza della loro durata. La sanzione per le associazioni illegittime è la conversione in lavoro subordinato, a meno che esse non siano riconducibili alle prestazioni rese con partita Iva come modificate da questa legge.
  • 60. è un caso eclatante di smentita delle dichiarazioni del Governo di contrastare la "cattiva flessibilità". L'area salvaguardata (fino a tre associati più coniugi e parenti illimitati) corrisponde esattamente alla descrizione dei soggetti, prevalentemente catene commerciali e turistiche in franchising, che sono stati i più grandi utilizzatori di questa fattispecie
  • 61. L'ASpI è un'indennità di disoccupazione, che si vuole universale, e pertanto sostituisce, con una transizione tra il 2013 e il 2016, le indennità di disoccupazione, ordinaria e con requisiti ridotti, l'indennità di mobilità e le indennità speciali in edilizia. Destinatari del trattamento sono i lavoratori subordinati che hanno perso l'impiego, compresi gli apprendisti, gli artisti dipendenti, i soci di cooperativa con rapporto di dipendenza, i lavoratori a tempo determinato della Pubblica Amministrazione . In caso del solo versamento previdenziale di 13 settimane, è possibile accedere ad un'indennità che sostituisce la previgente indennità con requisiti ridotti (MiniASpI). Essa è calcolata allo stesso modo dell'ASpI, e viene erogata direttamente a domanda, anziché l'anno successivo come l'indennità con requisiti ridotti.
  • 62. Il licenziamento discriminatorio è quello determinato (nei fatti) per ragioni di credo politico o fede religiosa, razziali, di appartenenza ad un sindacato, di partecipazione all'attività sindacale, di adesione ad uno sciopero, di lingua, di sesso, intimato nel periodo di gravidanza.