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Sostenibilità e dinamiche sociali



Spongebob group
Elisabetta Bacconi
Fabio Lanza
Marcello Tecleme
Francesco Tocci
Alessia Vidili
Indice

         1    Introduzione                                                  pag. 2
         2    Cos'è il digital divide                                       pag. 2
                     digital divide ed e-government                         pag. 6
         3    Digital divide: diversi casi di studio                        pag. 8
                     diverse forme di divario in occidente                  pag. 10
         4    Information Technology e terzo mondo                          pag. 16
                     uno squillo per ogni situazione                        pag. 16
                     internet e nuovi media: il riscatto del terzo mondo?   pag. 18
         5    Autori sul digital divide                                     pag. 24
         6    E-waste                                                       pag. 29
                     convenzione di Basilea                                 pag. 29
                     dimensione quantitativa del problema in Italia         pag. 32
                     i rischi per l'ambiente e la salute umana              pag. 32
                     norme e leggi                                          pag. 34
                     politiche a rifiuto zero                               pag. 35
         7    E-waste nei paesi in via di sviluppo                          pag. 37
         8    Conclusioni                                                   pag. 41
         9    Criteri di sostenibilità                                      pag. 43
         10   Bibliografia                                                  pag. 44
         11   Sitografia                                                    pag. 45
INTRODUZIONE
Quello che andiamo ad esporre è un lavoro scritto a più mani su due dei principali aspetti critici che
hanno accompagnato dall'origine lo sviluppo delle tecnologie elettroniche e digitali: il digital divide e
l’e-waste. Per digital divide si intende lo scarto che emerge tra quei soggetti che posseggono prodotti
tecnologici di tipo elettronico e digitale, che hanno potenzialmente accesso ad internet e che hanno
fatto proprie le competenze minime per farne uso, e quei soggetti che invece si trovano al di fuori di
queste possibilità.

L' e-waste, definizione anch'essa di origine anglosassone, definisce l'impatto ambientale, assolutamente
negativo, causato dai rifiuti elettrici ed elettronici dispersi nell'ambiente, in particolar modo dagli
elementi tossici di cui sono composti.

Entrambi i temi vengono esaminati all'interno della letteratura esistente in materia, reperendo
informazioni utili da autori riconosciuti, riviste scientifiche e fonti di diverso tipo presenti in rete,
mantenendo fermo, nel corso delle ricerche, il principio della massima attendibilità.

All'interno dei documenti esaminati si è cercato di definire un quadro della situazione a livello locale
ed internazionale, con particolare attenzione ai paesi in via di sviluppo ed alle relazioni tra questi ultimi
e quelli principalmente produttori di tecnologie.

Questi due argomenti apparentemente slegati tra loro hanno al contrario molto in comune: l’aumento
sconsiderato dei prodotti elettronici nel mercato non riesce a contrastare il gap del divario digitale e
nello stesso tempo pone il problema del loro corretto smaltimento. Da questo empasse si può uscire
solo studiando soluzioni che abbiano una sostenibilità cognitiva, economica ed ecologica.




COS'E' IL DIGITAL DIVIDE
Il termine digital divide viene utilizzato per la prima volta nel 1995, durante l'amministrazione
americana Clinton-Gore, quando la National Telecommunications and Information Administration
(NTIA), organo consultivo degli Stati Uniti sulle politiche nel settore delle telecomunicazioni, pubblica
la relazione “A Survey of the “Have nots” in Rural and Urban America”, la prima di una serie
intitolata “Falling Trought the Net”. (http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/fallingthru.html)
Tale termine tecnico viene utilizzato in riferimento alle disuguaglianze nell’accesso e nell’utilizzo delle
tecnologie della cosiddetta “società dell’informazione” per indicare la non omogenea fruizione dei
servizi telematici tra la popolazione statunitense. Divario, disparità, disuguaglianza digitale sono
termini che vogliono spiegare la difficoltà da parte di alcune categorie sociali o di interi paesi di
usufruire di tecnologie che utilizzano una codifica dei dati di tipo digitale rispetto ad un altro tipo di
codifica precedente, quella analogica.

Ma la definizione digital divide racchiude in sé complesse problematiche che coinvolgono tutti gli
aspetti della vita di una comunità: economici, culturali, sociali.

Nel       1999      viene     pubblicata      una      relazione,   “Defining    the    Digital     Divide”,
(http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/net2/falling.html) in cui si sottolinea che la partecipazione di tutti
gli americani nella società dell’informazione era strettamente connessa con lo sviluppo della digital
economy.

Specificatamente, per quel che concerne Internet, si distinguevano cinque livelli di disparità:



      •   tra la minoranza di connessi e la stragrande maggioranza di non connessi;

      •   tra coloro che utilizzano Internet per una vasta gamma di attività, traendone effettivi vantaggi, e
          coloro che di vantaggi ne traggono pochi o nessuno;

      •   tra coloro che possono permettersi servizi a pagamento offerti da Internet e coloro che si
          limitano a utilizzare le risorse gratuite;

      •   tra coloro che utilizzano la rete per effettuare operazioni di e-commerce e coloro che non
          effettuano alcuna transazione on-line;

      •   tra coloro che beneficiano dell’utilizzo della banda larga e coloro che rimangono imbottigliati
          nella lentezza della rete.



Nello stesso anno si è costituito un “High Level Panel” di esperti di tecnologie dell’informazione e
della comunicazione per la redazione del Millennium Report, pubblicato nell’aprile del 2000
(http://www.un.org/millennium/sg/report/) come base di riflessione per il Millennium Summit delle
Nazioni Unite del settembre dello stesso anno.

Tale rapporto contiene, tra i molti temi trattati, tre proposte riguardanti specificatamente l’ICT
(Information Communication Technology):
•   l’istituzione di un corpo di volontari, denominati cyber troops, incaricati di avviare i paesi in via
        di sviluppo all’utilizzo di Internet e delle nuove tecnologie;

    •   la costituzione di un Health InterNetwork per costruire e collegare in rete 10 mila siti di
        ospedali e cliniche nei PVS

    •   la creazione di una rete cellulare e satellitare di pronto intervento - First on the Ground - per
        affrontare disastri naturali ed altre emergenze.


La disparità digitale è, in realtà, solo uno degli aspetti indotti dalla globalizzazione e molteplici sono le
relazioni tra la diffusione di questa e la diffusione delle tecnologie dell’informazione.

Il ruolo cruciale della ICT nell'evoluzione dell'economia globale assume due aspetti: da una parte dà la
possibilità ai paesi di modernizzare i loro sistemi di produzione ed incrementare la loro competitività
tanto quanto mai in passato; dall’altra, per quelle economie che non sono in grado di adattarsi al nuovo
sistema tecnologico, ritardi sempre più incolmabili.

Ampiamente condivisa tra gli studiosi che hanno analizzato il digital divide è che una delle cause
principali del fenomeno sia di carattere economico: i paesi in via di sviluppo non sono in grado di
acquisire un’alfabetizzazione informatica che è causa stessa del digital divide, il circolo vizioso che si
viene a creare porta i paesi poveri ad impoverirsi ulteriormente dato che sono esclusi dalle nuove forme
di produzioni di ricchezza.

I dati relativi all’accesso ai flussi di informazione forniti dall’UNDP nel rapporto 2000
(http://www.digital-divide.it) sono in tal senso particolarmente significativi: nel 1998 nei paesi ad alto
sviluppo umano, circa 41 persone ogni 1000 avevano una connessione ad internet, mentre nei paesi a
medio sviluppo umano meno di 1 persona su 1000; il dato relativo ai paesi a basso sviluppo risultava
insignificante. E’ interessante analizzare alcuni dati specifici: negli Stati Uniti nel 1998 esistevano 661
linee telefoniche, 459 personal computer e 847 televisioni ogni 1000 abitanti, in Italia 451 linee
telefoniche, 173 personal computer e 451 TV, in Colombia 173 linee telefoniche, 28 personal computer
e 217 televisioni, in Pakistan 19 linee telefoniche, 4 personal computer, 88 TV, per concludere, in
Mozambico 4 linee telefoniche, 2 personal computer e 3 televisioni.

Nel corso degli ultimi anni importanti appuntamenti che si sono tenuti in Italia hanno proposto
riflessioni e decisioni operative sul digital divide: dal Forum di Napoli - attraverso il quale organismi
internazionali quali le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Banca Mondiale hanno discusso di
“Cooperazione internazionale e Digital Divide” - a Genova, in occasione dell’incontro del G8,
all’interno del quale è stato ripreso ancora una volta il tema della disparità digitale già segnalato come
prioritario nella Carta di Okinawa del G8 stesso. Al termine del summit venne sottoscritta una "Carta
sulla                       società                       Globale                         dell’Informazione"
(http://www.g8.utoronto.ca/summit/2000okinawa/finalcom.htm) in cui si prevede che lo sviluppo e la
diffusione dell’ICT coincidano con:



    •   la crescita economica sostenibile, andando di conseguenza ad aumentare il benessere pubblico;

    •   la maggiore coesione sociale;

    •   il potenziamento della trasparenza e della responsabilità dell’azione di governo, quindi lavorare
        per realizzare compiutamente il potenziale della democrazia;

    •   la promozione dei diritti umani e della diversità.



Con questo documento il G8 si incarica, quindi, di promuovere la creazione di una partnership che si
impegni a combattere il divario tecnologico nei paesi interessati. In questo contesto viene prevista
l’istituzione di una Digital Opportunity Task Force (DOT Force), finalizzata a preparare un rapporto
dettagliato riguardante le azioni da intraprendere per ridurre il divario digitale tra i paesi industrializzati
e i paesi in via di sviluppo.

Attualmente il dibattito sul digital divide si concentra sugli aspetti geopolitici in relazione sia
all’accesso, sia ai contenuti dell’ICT, tenendo presente che la “Rivoluzione Digitale” accelera i processi
di globalizzazione e moltiplica esponenzialmente il suo impatto.

Una delle argomentazioni sostenute da chi vede la diffusione delle ICT come strumento di sviluppo, è
che queste possano favorire la partecipazione, la decisionalità e lo scambio di informazioni,
consentendo quindi un reale intervento delle persone sulle decisioni che li riguardano. La ICT può
garantire la creazione di networks e quindi di spazi pubblici per dibattiti fra le persone, canali
attraverso i quali far circolare conoscenze ed esperienze fra le persone e le istituzioni, siti dove fonti di
informazione e conoscenza possono essere consultati.

Per quanto riguarda specificatamente l’Europa, il segnale più importante rispetto al tema diffuso
dell’ICT parte dalla Commissione Europea che, riunita a Lisbona nel marzo 2000, lancia il Piano
d’Azione “e-Europe 2002”, nel quale vengono individuati una serie di obiettivi volti a creare un
ambiente favorevole allo sviluppo della e-economy in Europa, ad accelerare la connessione di scuole e
università a Internet, a stimolare la formazione alle nuove tecnologie e a promuovere l’adozione
dell’innovazione da parte di tutti.

Le linee d’azione previste dal Piano europeo sono finalizzate al raggiungimento di tre obiettivi
prioritari:



    •   realizzare un accesso più economico, rapido e sicuro a Internet;

    •   investire nelle risorse umane e nella formazione, favorendo la partecipazione di tutti
        all’economia basata sulla conoscenza;

    •   promuovere l’utilizzo di Internet, anche nella pubblica amministrazione e nei servizi,
        accelerando l’e-commerce e sviluppando contenuti digitali per le reti globali.



Alla conclusione del Consiglio europeo di Lisbona, segue l’istituzione di un’iniziativa denominata “e-
learning, pensare all’istruzione di domani”. I piani d’azione “eEurope 2002” e “eEurope 2005”, fanno
dell’elearning una priorità assoluta per la promozione di una “cultura digitale”.

In conclusione, tanti sono gli aspetti e gli interrogativi su come affrontare il digital divide. Oggi più che
mai sembra improrogabile fermarsi a riflettere, documentarsi e pianificare azioni sia di educazione allo
sviluppo, sia di formazione, che ci consentano di non rimanere impreparati e/o in ritardo nella
risoluzione delle disuguaglianze digitali e delle problematiche a questo connesse.

Se a livello internazionale si cerca di colmare il divario di accesso fisico alle tecnologie e di affermare
un diritto di cittadinanza tecnologica tenendo conto di uno sviluppo economico sostenibile e di
maggiore coesione sociale, a livello europeo la tendenza è quella di formare una cultura digitale
condivisa.




DIGITAL DIVIDE ED E-GOVERNMENT


Una problematica di forte rilievo sollevata dall'uso massiccio della tecnologia digitale in quasi ogni
settore delle società maggiormente sviluppate è quello del processo di digitalizzazione
dell'aministrazione pubblica, comunemente chiamato e-government. Questo processo - unitamente ad
azioni di cambiamento organizzativo - consente di trattare la documentazione e di gestire i
procedimenti con sistemi digitali, grazie all’uso delle tecnologie dell'informazione e della
comunicazione, allo scopo di ottimizzare il lavoro degli enti e di offrire agli utenti (cittadini ed
imprese) sia servizi più rapidi, che nuovi servizi, attraverso - ad esempio - i siti web delle
amministrazioni interessate.

I prerequisiti indispensabili di questo processo sono l'ascolto del cittadino e l'assunzione del suo punto
di vista, al fine di fornire un servizio "Citizen-oriented". Queste pratiche sono definite e-
Administration, amministrazione elettronica. Il cambiamento successivo è quello politico. Un governo,
sia esso statale, regionale o cittadino, grazie alle nuove tecnologie ha la possibilità di coinvolgere
maggiormente i cittadini nei processi decisionali. E' la democrazia elettronica, l'e-Democracy.

Se si pensa che le amministrazioni locali si collegano in rete, ad esempio, con ministeri, enti di
previdenza, camere di commercio, regioni, province, banche e tesoriere, non risulta difficile
immaginare il grado di difficoltà in cui incorrono le persone vittime del divario digitale, nell'accedere a
tutta una serie di servizi che via via stanno assumendo una forma esclusivamente virtuale.

La sostenibilità dei progetti di e-governance (intesa come piena attuazione della partecipazione delle
società alla vita pubblica), nei paesi occidentali è limitata da un divario digitale interno - che esclude
coloro che ancora non adottano i nuovi media -, a livello globale invece genera squilibri ben più gravi e
pericolosi, dal momento che intere nazioni e stati sono esclusi dai centri decisionali. Ciò non fa altro
che allargare la voragine tra paesi sviluppati e non, non solo a livello economico, ma anche a livello di
partecipazione alle decisioni della comunità internazionale. Ovviamente gli stati, o i continenti, con
minore possibilità di utilizzo degli strumenti attraverso cui passano le decisioni globali, resteranno
emarginati proprio per una carenza di tipo infrastrutturale, o comunque verranno inseriti in tali processi
in una posizione di assoluta subordinazione.

Alcuni esempi di innovazioni da cui resteranno esclusi possono essere ad esempio, all'interno di un
quadro di e-governance, la firma digitale in primis, lo scambio di denaro attraverso moneta virtuale, la
carta d'identità virtuale, la trasparenza delle operazioni delle pubbliche amministrazioni locali, la sanità,
ed altri servizi di tipo globale, fino a giungere ai banali acquisti on-line.
DIGITAL DIVIDE: DIVERSI CASI DI
STUDIO
Il digital divide non riguarda solamente il gap esistente tra i paesi in via di sviluppo e le nazioni
industrializzate. La diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sta
ridisegnando le mappe di povertà e ricchezza, come già detto, aumentando il divario già esistente tra
Nord e Sud del mondo e creando nuove zone di esclusione, anche all’interno delle nazioni più
sviluppate.

La questione del divario tecnologico comprende, infatti, due problematiche distinte che si esplicano in
due differenti tipi di divario:



    •   un digital divide interno, riguardante le differenze tra individui all’interno dello stesso paese.

    •   un digital divide internazionale, riguardante le differenze riguardo all’accesso alle tecnologie
        informatiche tra diversi paesi e generalizzabile nel divario tra paesi del nord e del sud del
        mondo.



Il digital divide interno si manifesta in diversi modi ed è influenzato da diverse variabili.

Secondo alcuni autori rappresenta la prima vera frontiera da combattere per i paesi sviluppati. Se non si
prende coscienza di questo fatto non si riuscirà ad avere una prospettiva corretta ed equilibrata del
divario digitale. (Zocchi, 2003)

Il problema, secondo Dutton (2001), è essenzialmente riferito al fatto che esiste una grossa mole di dati
che non è possibile filtrare, perciò ogni individuo si trova su di una autostrada informatica tale per cui
spazio e tempo non rappresentano fattori determinanti per il divario. Per Castells (2001), invece, questa
problematica sembra avere minore rilievo. Le tecnologie si espandono in maniera selettiva, per cui “la
velocità di diffusione tecnologica è selettiva sotto il profilo sia sociale sia funzionale. La sequenza
differenziale nell’accesso al potere della tecnologia dei popoli, paesi ed aree geografiche, costituisce
una causa decisiva dell’ineguaglianza della nostra società.” (ivi).

Castells fa notare come in una società dell’informazione come la nostra non siano solo criteri legati a
reddito e cultura a determinare l’accesso o meno alle tecnologie, ma anche un criterio di
riconoscimento sociale che è proprio di ogni individuo. In poche parole l’appartenenza sociale come
categoria si gioca sempre più su un terreno di inclusione nella società della conoscenza e
dell’informazione. Tuttavia l’integrazione all’interno di questo tipo di società dipende da una serie di
fattori, tutti egualmente importanti e portatori di caratteristiche proprie che non possono essere slegate
tra loro.

Per comprendere la reale portata del divario è necessario definire in che modo crescano le
disuguaglianze. I fattori che contribuiscono a creare distinzioni all’interno della società
dell’informazione possono essere sintetizzati in :

    •   reddito, poiché i gruppi sociali più ricchi hanno possibilità di accesso alle ICT e di ricambio
        tecnologico maggiori;

    •   educazione, poiché gli individui con titoli di studio superiori hanno maggiore possibilità di
        produrre informazioni corrette;

    •   regione geografica, poiché le zone urbane hanno un tasso di penetrazione delle ICT e di
        sviluppo dei servizi molto più alto che le zone rurali;

    •   genere, in quanto le donne sono svantaggiate nell’uso e sono sottorappresentate ai vertici della
        net economy;

    •   età, poiché i giovani risultano più competitivi e più predisposti al cambiamento degli anziani.



Alcuni di questi fattori per Zocchi (2003) sono più determinanti di altri. Gli elementi relativi al digital
divide interno, pur costituendo un sottoinsieme del divario digitale globale, insistono maggiormente su
problematiche di integrazione anagrafica e culturale anziché sull’isolamento geografico, sul reddito e
sullo stato di arretratezza strutturale delle comunità.

Per quanto riguarda il reddito non è sempre detto che maggior ricchezza significhi maggior accesso alle
tecnologie, anche se si può trovare una corrispondenza tra basso reddito disponibile, minore dotazione
infrastrutturale e scarsa dotazione di servizi telematici. Comunque, il dato più evidente sottolinea che
chi ha un reddito inferiore alla media nazionale, ossia il 35% della popolazione, ha molte meno
possibilità di essere on line rispetto al resto del paese.

Riguardo al grado di alfabetizzazione informatica e quindi all’educazione in ambito europeo, per
esempio, le nuove tecnologie non sono distribuite in maniera uniforme: ad un Nord molto sviluppato si
oppone l’arretratezza dei paesi dell’Europa orientale.

L’Europa orientale però ha indubbiamente fatto enormi progressi, sia nel campo della digitalizzazione
che dell’alfabetizzazione informatica. Nei paesi baltici alcuni progetti sono stati utili per favorire nel
giro di alcuni anni la diffusione di una “cultura del computer” (Zocchi, 2003) verso una parte specifica
della popolazione, quella studentesca, realizzando un livello di alfabetizzazione informatica
comparabile a quello delle democrazie scandinave.




DIVERSE FORME DI DIVARIO IN OCCIDENTE


In riferimento a ciò che sostiene Zocchi si è scelto di analizzare alcune dicotomie che sembrano
particolarmente significative per comprendere in che modo si sviluppa il digital divide interno e che
fanno riferimento ai fattori sopra citati:



    •    una prima uomo vs donna

    •    una seconda zone rurali vs zone urbane

    •    una terza giovane vs anziano



Per ogni dicotomia saranno presi in esame esempi che fanno riferimento sia a situazioni generali che
particolari, sempre nell’ottica di inquadrare il divario digitale interno in riferimento ai paesi sviluppati
(quadro europeo e italiano in particolare).




Uomo vs donna


Sono pochi gli studi che descrivono il ruolo delle donne nell'accesso, nello sviluppo e nella gestione
delle tecnologie ICT.

Oggi si parla di “gender divide”, il divario di genere che esprime un disequilibrio tra uomini e donne
nell'accesso alle nuove tecnologie. I dati a disposizione sono scarsi, sarebbe più facile sapere quale sia
il grado di diffusione della banda larga o dei cellulari nei Paesi in via di sviluppo che valutare il gender
divide                  informatico               nelle                 nazioni                 occidentali.
Le principali organizzazioni mondiali hanno attivato solo da qualche tempo programmi per la
valutazione globale del gender divide, preferendo sinora lasciare rilevanza a programmi di sviluppo e
studi legati a particolari regioni svantaggiate (Sudamerica, Est Asiatico, Centro Africa...) e a casi-studio
significativi.

Il divario tra uomini e donne nel recepimento delle tecnologie ICT è molto più diffuso di quanto non si
pensi.

I dati della Commissione Europa relativi all’ Unione a 15 membri indicano che gli scienziati e gli
ingegneri donne rappresentavano nel 2001 l'1,5% della forza lavoro continentale e lo 0,8% di quella
italiana. Per gli uomini le percentuali salgono rispettivamente al 3,4% e allo 1,9%.

Come conseguenza, le donne europee hanno in generale ancora un ruolo secondario quando si tratta di
definire l'agenda della ricerca tecnologica. Ma qui, almeno, registriamo come l’Italia sia in una
situazione positiva: il 40% dei membri dei board' scientifici delle università italiane nel 2001 erano
donne, una percentuale buona se paragonata, per fare qualche esempio, al 23% della Francia, al 29%
del Regno Unito e all'11% della Germania.

A influire pesantemente sul quanto le tecnologie ICT vengano adottate dalle donne sono anche la
struttura sociale della singola nazione, l'accesso all'istruzione di terzo livello (secondo Eurostat l'Italia
ha delle statistiche incoraggianti con un 56,2% di donne tra chi partecipa a formazione di terzo livello
rispetto a una media UE del 54,6%), il benessere economico, l'età e la distribuzione geografica delle
tecnologie. Si è rilevato che averle sul posto di lavoro ha effetti positivi sul generico digital divide ma è
la diffusione nelle case che aiuta a limitare il gender divide.

L'evoluzione sembra la stessa un po' per tutti i Paesi: quando una nuova tecnologia viene introdotta il
gap di adozione tra i due sessi è elevato,man mano si riduce a pochi punti percentuali, anche se non si
colma mai, anzi aumenta quando la tecnologia ha un ulteriore ciclo evolutivo.

Da diverse valutazioni, fatte nazione per nazione, si evince come il gender divide non sia strettamente
legato al digital divide globale e che si risolva quando quest'ultimo viene colmato. Al contrario, diversi
Paesi già evoluti tecnologicamente mostrano differenze marcate tra l'uso delle tecnologie ICT tra
uomini e donne, mentre nazioni meno avanzate magari non hanno affatto un gender divide.

Alcuni spunti interessanti per una riflessione sulle differenze uomo-donna nel panorama italiano
emergono dal Settimo rapporto sulla comunicazione Censis - Ucsi (2008), dedicato in particolare alle
diete mediatiche dei giovani italiani ed europei, ma che presenta anche dati relativi alla popolazione in
generale.

Il Rapporto raggruppa i dati in 4 categorie, separate a metà dall'elemento del digital divide:

    •    persone con diete solo audiovisive (tv, radio, cellulare)
•      persone con diete basate anche su mezzi a stampa

           digital divide

    •      persone con diete aperte a internet

    •      persone con diete aperte a internet ma prive di mezzi a stampa (una categoria su cui il Rapporto
           dell'anno scorso gettava parecchie domande rimaste aperte)

In base a questi dati è risultato che la maggioranza delle donne italiane resta ancora legata ad un
modello basato sulla lettura tradizionale (libri e settimanali).

        “Il contatto con i media, almeno a livello giovanile, sta diventando dunque sempre più simile tra
        uomini e donne, ma il piacere che ne ricavano rimane abbastanza differenziato. La centralità
        dell'esperienza della narrazione (siano le storie pubbliche della televisione, quelle universali
        della letteratura o quelle personali della conversazione telefonica) non è messa in discussione
        tra le donne, anche tra le più giovani, mentre la composizione a mosaico dell'esperienza del
        mondo (la giustapposizione delle informazioni nei quotidiani che si trasferisce in internet, ma
        che si trova anche nella saggistica) risulta sempre preferita tra gli uomini.”

Tuttavia la generale tendenza a livello europeo, per quanto riguarda le nuove generazioni, denota come
"i consumi maschili e femminili tendono ad uniformarsi"




Zone rurali vs zone urbane


Molti organismi come Amnesty International, hanno messo in luce la tendenza di un "virus della
repressione su internet" (Tim Hancock), per cui in diversi stati si stiano adottando misure volte a
limitare il libero accesso alla rete. Nel caso dell’Italia, soprattutto attraverso la rete, sono nate
polemiche contro le istituzioni italiane che, secondo alcuni, mettono in atto delle vere e proprie
campagne contro Internet per limitare il libero accesso alle informazioni. Per quanto riguarda il livello
delle nostre infrastrutture tecnologiche, invece, alcune delle problematiche più sentite dipendono dalla
gestione delle reti telematiche e dal fatto che si siano utilizzate tecnologie vecchie per adattarle a nuovi
servizi.

Tenendo conto di tutti questi aspetti sembra che il divario che si crea tra zone urbane e zone rurali
dipenda, non solo dalla più ovvia diffusione dei computer all'intyerno di un paese, ma anche dalle
condizioni delle infrastrutture, dall'esistenza di accessi alternativi, che si collega ad una maggiore o
minore sensibilità da parte dei governi a regolamentare in materia.

A partire dal 2005 in Italia è stato possibile cominciare a realizzare delle reti di connessione ad Internet
in modalità wireless. Ma mentre si autorizzava questo tipo di servizio, nel 2006 una legge (Pisanu)
impediva ai cittadini la libera connessione ai servizi wireless.

Dal sito dell’Aduc la disamina dello stato dell’arte (la penetrazione di banda larga in Italia è al 18%),
rileva anche le differenti reti in fibra che oggi esistono (Telecom, Fastweb, Infratel, e alcune società
regionali) e ciò che emerge è che, a differenza di altri paesii, l'utilizzo della fibra ottica è scarso.

Negli ultimi anni sono stati conclusi degli accordi con alcune regioni nei quali le regioni hanno
concesso soldi pubblici a Telecom Italia per allargare la copertura adsl. Secondo le ultime statistiche,
infatti, la copertura adsl è aumentata. Nonostante questo, nel nostro paese, il 25% circa dei comuni,
quasi tutti piccoli ,anche se non tutti, è ancora limitato ad una connettività parziale a 56k.

A livello generale emerge che la disponibilità di infrastrutture di base e i costi necessari per accedervi
sono indicatori essenziali per garantire la possibilità ad un paese di usufruire dei vantaggi della
rivoluzione digitale. Quello che si nota e che c’è un deficit di informazione, derivante anche dalle
differenze tra zone rurali e zone urbane, e che il libero pensiero ormai si trova spesso “ghettizzato” in
siti e blog. Anche questo può essere un fattore importante che contribuisce ad aumentare il divario
all’interno di un paese.




Giovane vs anziano


Sempre sulla scia del Settimo rapporto sulla comunicazione Censis-Ucsi, un'analisi annuale del
consumo di media intesi come sistema unico e interconnesso, si analizzano i giovani e il loro rapporto
con i media (classe d'età 14-29 anni). Il confronto è in questo caso fra il 2003 e il 2007.

Se dati come l'uso del cellulare non si sono quasi modificati, dal punto di vista quantitativo spicca
l'aumento nell'uso della rete. Una delle interpretazioni possibili di questi dati è che sia proprio internet a
trascinare tutti gli altri media.

Muta il funzionamento complessivo del sistema:

      “I giovani si trovano a loro agio in questo contesto e hanno elaborato strategie di adattamento
      all'ambiente mediatico all'interno del quale sono nati. La molteplicità dei media li spinge a
passare da uno all'altro, favorendo in loro la nascita di un vero e proprio nomadismo mediatico,
      che si accompagna a una forma di disincanto, prodotta dall'integrazione e cioè dall'assenza di
      una prospettiva gerarchica tra i media.”

La parte qualitativa dell'analisi arriva ad un'altra interessante conclusione:

      “... considerati dal punto di vista della gratificazione personale che si ricava dal contatto con i
      media, questi dati ci suggeriscono che si sta passando da una situazione in cui si collocavano in
      alto nella scala dei valori i media orientati verso la passività audiovisiva (tv e radio) ad una
      realtà in cui si preferiscono i media di tipo alfabetico interattivo (internet e libri).”



Si segnala anche una tendenza comune rispetto agli altri paesi analizzati (Italia, Spagna, Francia,
Germania e Gran Bretagna):

      “I giovani europei stanno convergendo verso un modello uniforme di impiego dei media. In tutte
      le principali nazioni europee i giovani entrano in contatto con un elevato numero di media,
      internet ha conosciuto un elevatissimo indice di penetrazione, i consumi maschili e femminili
      tendono ad uniformarsi, ovunque ai primi posti nell'uso abituale dei media si trovano televisione,
      cellulare e internet, seguiti da radio, libri e quotidiani, sempre a livelli più alti di quanto
      registrato per le fasce d'età più elevate e tra i giovanissimi queste tendenze risultano ancora più
      accentuate.”



Per quanto riguarda la situazione italiana, lo studio del Censis fa riferimento al problema del "divario
generazionale":

      “... in Italia sembra che i giovani vivano in un altro pianeta rispetto agli adulti, per non parlare
      della distanza che li separa dagli anziani. L'Italia è il paese in cui, a tutti i livelli, risulta più
      difficile il ricambio generazionale, ne risulta un quadro in cui ad avere un ruolo dirigente in tutte
      le realtà operative ... è una generazione estranea ai processi di rapida trasformazione in atto su
      scala planetaria, che non ne comprende il senso e la portata, che non è in grado di confrontarsi
      con le classi dirigenti degli altri paesi e che al massimo ha imparato a usare un vocabolario
      attraverso il quale impiega parole nuove per parlare di cose che non esistono più.”



I risultati del rapporto sembrano confermare quello che già parecchi anni fa gli studi sociologici sui
giovani e le loro modalità di rapportarsi alle nuove tecnologie, e anche alcuni degli assunti di
sociologici come Karl Mannheim (Il problema delle generazioni 1927) avevano portato alla luce. Per
Mannheim, per esempio, era importante il ruolo svolto dalla "stratificazione delle esperienze" e ancor
di più dalle "prime impressioni", che vanno a fissarsi come concezione naturale del mondo e fungono
da base e da metro di giudizio per quelle esperienze che verranno in seguito. In questo modo, un
evento qualsiasi sarà interpretato in modo radicalmente differente dai giovani e dagli anziani che
vivono nello stesso tempo. La sociologia ci dice che il rapporto che c’è tra i giovani e le ICT, percepite
come qualcosa di naturale dai giovani che sono cresciuti nel periodo della sua prima affermazione è
estremamente differente da quello degli anziani.

Quando le differenze di utilizzo di alcuni media si trasformano in disuguaglianze, diventa cruciale lo
studio dei motivi per cui alcuni soggetti abbiano accesso ad una tecnologia oppure la utilizzino in
maniera più o meno efficace.

Da uno studio fatto all’Università Bicocca di Milano (2006/2007) emerge come il divario
generazionale sia così forte ed ampio nella realtà italiana. In riferimento ad alcuni media digitali si
nota che mentre l’adozione del cellulare è largamente diffusa (anche se la preferenza d’uso è orientata
sulle funzioni base), il divario all’accesso nei confronti dei due artefatti più complessi (computer e
Internet) rimane evidente.

E’ stato verificato che l’anziano che abbia utilizzato prima del pensionamento un medium come il
computer, non ne fa necessariamente un uso anche da pensionato. L’adozione nella propria vita di un
nuovo medium sembra essere legata, per coloro che hanno superato le barriere mentali del divario
digitale, ai benefici percepiti a miglioramento della qualità di vita.

Per tutti coloro che non sono a conoscenza delle potenzialità derivanti dall’uso di questi strumenti, non
ne percepiscono l’utilità. Michael Levy, nel 1997 , scriveva che

      “ogni nuovo sistema di comunicazione fabbrica i propri esclusi” e che “le politiche
      volontaristiche di lotta contro le disuguaglianze e l’esclusione devono puntare a un guadagno in
      termini di autonomia delle persone o dei gruppi coinvolti”.
Information technology e terzo mondo
Se il digital divide in Occidente, e nei paesi industrializzati in generale, pone il problema
dell'esclusione di parte della società civile dalla vita pubblica e dal sapere condiviso (si pone cioè
sempre più l'accesso all'ICT come un diritto di cittadinanza), nei paesi emergenti e in via di sviluppo
esso è chiaramente il risultato di una generale arretratezza economica ed il suo superamento è spesso
considerato come una possibilità di recupero del terzo mondo nei confronti del primo. Come vedremo
nel corso di questo capitolo, molteplici sono gli argomenti di discussione a proposito dei media digitali
nei paesi in via di sviluppo, dalla copertura e l'utilizzo della rete telefonica cellulare, alla diffusione di
PC connessi ad Internet, al problema dell'alfabetizzazione informatica.




Uno squillo per ogni situazione


Il medium digitale il cui uso è maggiormente diffuso ad oggi in Africa, un continente largamente
escluso dalla rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni, è il cellulare. Se risulta più che evidente
l'importanza di questo mezzo di comunicazione, che ha rivoluzionato senza dubbio i rapporti sociali e
lavorativi a livello globale, ancora oggetto di studio sono le sue dinamiche di propagazione e di
impiego nel contesto del continente africano.

Secondo uno studio realizzato dalla Vodafone, si calcola che circa il 97% della popolazione della
Tanzania (uno dei paesi africani più poveri, la cui economia è quasi totalmente incentrata
sull'agricoltura) abbia accesso alla telefonia mobile, questo nonostante si calcoli che la penetrazione
delle utenze cellulari sia di circa il 2,5%. Questi dati ci indicano chiaramente come nonostante la
stragrande maggioranza della popolazione non possieda le risorse economiche per acquistare un
cellulare, il suo utilizzo sia estremamente diffuso grazie alla condivisione familiare, ma non solo, dello
stesso dispositivo (in tale studio sono considerati utenti di telefonia mobile coloro che utilizzano un
cellulare almeno una volta ogni tre mesi). Uno studio sulle utenze del Botswana, ad esempio, afferma
che il 62% dei possessori di un cellulare lo condivide con la propria famiglia, il 44% lo condivide con i
propri amici, che il 20% lo condivide anche con i propri vicini: tra questi solo il 2% dei possessori di
cellulare chiede un compenso in cambio.
Rilevanti inoltre sono alcuni progetti di noleggio condiviso di cellulari portati avanti dalla Grameen
Bank, esperienza partita dal Bangladesh ed approdata in Africa.

Se nella prospettiva di un paese occidentale chi non possiede un cellulare non ha possibilità di
comunicare efficacemente, altrettanto non si può dire delle aree rurali dei paesi più poveri, dove
informazioni sui mercati agricoli e i trasporti sono essenziali e anche pochi cellulari per centro abitato
possono fare la differenza.

Altri dati interessanti sono emersi da alcuni studi sull'utilizzo efficiente (cioè economizzando) dei
telefoni cellulari. In primo luogo è degna di nota la netta prevalenza di utenze prepagate che non
necessitano di rischiosi, economicamente parlando, costi mensili: gli utenti africani infatti (e
presumibilmente dei paesi poveri nell'insieme) sono propensi ad acquistare una sim prepagata spesso
senza neanche possedere un cellulare.

Ancora più importante è l'utilizzo creativo che in molte circostanze viene fatto con i cellulari. Non
disponendo di risorse economiche sufficienti, si effettuano chiamate vere e proprie solo quando è
assolutamente necessario, utilizzando in tutti gli altri casi un codice comunicativo basato sugli squilli di
cellulare. Quest'ultimo comportamento, come recenti studi dimostrano, è globalmente diffuso. Ma se
comunicare attraverso uno squillo di cellulare, per un utente occidentale, è solo un divertimento o una
soluzione rapida e semplice alla mancanza di credito, nei paesi in via di sviluppo e sottosviluppati può
costituire, in alcuni casi, una grande risorsa.

Questo fenomeno di “beeping creativo” è diffuso praticamente in tutto il mondo in via di sviluppo,
dagli stati africani, a India e Bangladesh, fino alle Filippine e all'America latina. È interessante notare
come ogni paese abbia adattato alle proprie tradizioni e culture questa pratica; le norme sociali già
presenti in una comunità influenzano le regole di utilizzo degli squilli: così le regole non scritte “il più
ricco paga ” e “le donne non apprezzano squilli dai propri pretendenti” riflettono norme di gerarchia
economica e di genere fortemente radicate nel tempo in un determinato paese. In uno studio del 2007
(J.James e M. Versteeg), si ipotizza che le considerazioni sul digital divide africano in relazione
all'utilizzo di telefoni cellulari sia notevolmente sovrastimato e che i dati sull'utilizzo (riportati in
questo lavoro) siano maggiormente indicativi rispetto a quelli sulle utenze. A supporto di questa
considerazione si sottolinea come non tutti coloro che hanno fisicamente accesso alla telefonia mobile
ne facciano uso, costretti dalle proprie condizioni di vita a confrontarsi con problemi cui le tecnologie
di comunicazione non possono rispondere.
Internet e nuovi media, il riscatto del terzo mondo?


La maggior parte degli studiosi riassume, identifica, il problema del digital divide come il divario tra
chi ha e chi non ha accesso alla tecnologia dei computer e di Internet (Van Dijk, 2006).

Nel momento in cui anche i paesi in via di sviluppo iniziano a confrontarsi con Internet e i nuovi media
in generale, è importante andare ad osservare come questi ultimi influiscano nel riscatto dei paesi più
poveri della terra, e di come le diseguaglianze già presenti tra terzo e primo mondo, e tra gli stessi
abitanti dei paesi poveri, si perpetuino o modifichino.

Van Dijk e Hacker (2003) suddividono quattro diversi tipi di digital divide che possono essere isolati:



    •    la mancanza di “accesso mentale”: cioè la mancanza di una elementare esperienza digitale;

    •    la mancanza di “accesso materiale”: cioè la mancanza concreta di PC e connessioni internet;

    •    la mancanza di “accesso alle abilità”: la mancanza di abilità tecniche digitali;

    •    la mancanza di “accesso di uso”: la mancanza di opportunità di utilizzo sensato;



Nonostante questa suddivisione renda l'idea di una molteplicità di requisiti indispensabili per poter
trarre frutto pienamente dalle nuove tecnologie, esse non descrivono esaurientemente il problema.

P. Norris e J. James affermano che il problema non è altro che un aspetto della grande diseguaglianza
economica tra paesi ricchi e paesi poveri, ma che i paesi in via di sviluppo non soffrono solo
l'esclusione economica, ma anche la privazione di peso politico e delle pratiche culturali indispensabili
per far parte della società dell'informazione. A dimostrazione di quest'ultima affermazione gli autori
hanno dimostrato come l'indice HDI (human development index) sia fortemente correlato alla
penetrazione di connessioni internet negli stati africani: gli stati con un reddito pro-capite più basso,
un'istruzione media scarsa, e un aspettativa di vita media più bassa, hanno gli indici di penetrazione più
bassi.

Hardt e Negri (2000) si sono spinti oltre, sfruttando la metafora dell'impero nel descrivere un assetto
decisionale globale le cui regole economiche e politiche sono appannaggio esclusivo dei paesi
industrializzati (Usa, Europa e Giappone) a scapito del mondo in via di sviluppo. L'elaborazione di una
strategia per il superamento del digital divide, secondo questi autori , non può prescindere dal
superamento di questo assetto globale. Un esempio di politica dettata dal mondo occidentale e almeno
in parte fallimentare sono gli Structural Adjustment Loans (piani di aggiustamento strutturale), un
sistema di prestiti gestito dalla Banca Mondiale per lo sviluppo dei paesi poveri, vincolato, tra le altre
cose, alla liberalizzazione e privatizzazione delle telecomunicazioni degli stati beneficiari. Gli autori
definiscono questa imposizione della Banca Mondiale come parte di un più ampio “cultural
colonialism”, una critica più che legittima considerando la struttura organizzativa dell'organismo
internazionale citato, il cui controllo è nelle mani dei paesi occidentali1.

Importante da questo punto di vista è l'esperienza del Sud Africa, paese che a partire dal 1995 ha
liberalizzato e privatizzato il proprio sistema di telecomunicazioni per permettere investimenti privati
nel settore, ponendo l'obbligo agli investitori di espandere la copertura territoriale di telefonia e
connessione ad internet. I dati rilevati mostrano chiaramente come non vi sia una significativa
correlazione tra l'entità degli investimenti effettuati di anno in anno e l'incremento degli utenti di PC ed
Internet. Più precisamente, da tali dati si è registrato un aumento lento e progressivo degli utenti
rispetto ad un andamento degli investimenti inizialmente in forte crescita e poi in drastico calo: se le
possibilità di accesso alle nuove tecnologie e la copertura di telefonia ed internet sono
significativamente migliorate con i nuovi capitali, molte delle cause del divario digitale (tra cui in
primo luogo i costi di accesso ai servizi) sono rimaste pressoché invariate.

Cade quindi l'ipotesi che il superamento di questo divario possa essere raggiunto principalmente grazie
alla concorrenza di più operatori: questa soluzione non tiene assolutamente conto delle diseguaglianze
di reddito, istruzione e abilità informatica, che caratterizzano fortemente le popolazioni di questi paesi.

Uno studio più specifico sul tema del digital divide (Stale Angen Rye, 2008), esamina i fattori
ambientali che influiscono sull'utilizzo dei nuovi media. Il caso presentato analizza due gruppi di
studenti indonesiani che seguono corsi universitari a distanza: il primo proveniente da un'area
metropolitana, il secondo da un'area rurale. Nel rilevare ed analizzare le due diverse esperienze, lo
studio presta attenzione a quattro tipi di accesso indispensabili: la motivazione, la proprietà materiale di
PC, le abilità necessarie ad utilizzare PC connessi ad internet e la possibilità di fare di questa tecnologia
un uso proficuo. L'autore dimostra che gli studi quantitativi relativi alla connettività dei paesi del terzo
mondo non sono sufficienti a spiegare le diseguaglianze tra regione e regione di uno stesso paese: in
effetti, anche tra studenti fortemente motivati a seguire corsi a distanza che si appoggiano alla rete, vi
sono fattori puramente qualitativi che compromettono la possibilità di un uso proficuo di certi


1 The World Bank is run like a cooperative, with member countries as shareholders. The number of shares a country has is
  based roughly on the size of its economy. The United States is the largest single shareholder, with 16.41 percent of the
  votes, followed by Japan (7.87 percent), Germany (4.49 percent), the United Kingdom (4.31 percent) and France (4.31
  percent). The rest of the shares are divided among the other member countries.
strumenti.

Nell'area rurale oggetto di studio, gli studenti sono penalizzati da connessioni internet di bassa qualità
e, pur avendo la possibilità di studiare anche nei propri posti di lavoro (la maggior parte dei soggetti
lavora ed ha un'età tra i 30 e i 50 anni), essi non sono in grado di sfruttare i vantaggi che una
comunicazione in rete tra studenti e con i docenti darebbe loro. Viceversa, gli studenti dell'area urbana,
pur gravati da ritmi di vita più opprimenti e non potendo studiare nelle ore di lavoro, beneficiano di un
maggiore scambio di informazioni dovuto al maggior numero di PC connessi alla rete e connessioni
migliori.

Si ritiene generalmente che i problemi di accesso passino inizialmente da problemi motivazionali e di
accesso fisico, a problemi di capacità informatiche e opportunità di utilizzo delle stesse. Lo studio
empirico effettuato sugli studenti a distanza indonesiani, mostra come la realtà sia più complessa: le
analisi mostrano come gli studenti delle aree periferiche fossero fortemente motivati ad utilizzare
internet, ma che questa motivazione fosse frenata dalla difficoltà di accedere alla tecnologia; che gli
studenti metropolitani avessero buone capacità informatiche ma che pressioni maggiori in ambito
lavorativo e familiare, frenassero il pieno sfruttamento della tecnologia. Questo va a dimostrazione che
le aree rurali di un paese in via di sviluppo non andrebbero considerate semplicemente come zone “un
passo addietro” rispetto alle aree metropolitane. Lo studio dell'accesso informatico nelle due aree,
piuttosto, andrebbe affrontato considerando le due diverse situazioni come contesti dove le “condizioni
di accesso” sono in relazione tra loro in modi diversi.

Nello studio proposto da Fucks e Horak (2008) sono riassunte alcune delle strategie proposte negli anni
per il superamento del divario digitale. Gli autori le riportano una ad una criticandone l'approccio e
proponendo una propria strategia più ampia:



    1. aspettare ed osservare: lo sviluppo tecnologico e il mercato garantiranno un accesso alle
       tecnologie più economico;

I fatti hanno mostrato come attendere non abbia prodotto risultati: il divario di ricchezza ed accesso alla
tecnologia tra primo mondo e terzo mondo, nei fatti, si va ampliando.



    2. entrando nel mercato e competendo, i paesi del terzo mondo saranno capaci di entrare nella
       società dell'informazione scavalcando alcune tappe;

lo “scavalcare tappe” avviene in una certa misura nelle economie africane che hanno liberalizzato la
propria economia, questa innovazione però è chiaramente riservata alla classe agiata dei paesi in via di
sviluppo piuttosto che alla popolazione nel suo complesso.



    3. attrarre capitali stranieri aumenterà il benessere e l'accesso alle nuove tecnologie;

l'ingresso di capitali stranieri, aiuti e prestiti dalla banca mondiale, di fatto, non ha portato ad una
redistribuzione di ricchezza dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo: le transazioni in entrata
rispetto a quelle in uscita (sotto forma di debito estero) rimangono a sfavore dei paesi del terzo mondo
(Fuchs 2002, pag. 370).



    4. tecnologie per il terzo mondo (PC usati e OLPC);

progetti come One Laptop Per Child(http://laptop.org/en/) riescono effettivamente ad introdurre un
maggior numero di PC nei paesi in via di sviluppo, così come la grande quantità di hardware
informatico obsoleto o difettoso “donato” dai paesi industrializzati.

Il problema di questo approccio al digital divide è che oltre a produrre un nuovo flusso di ricchezza dai
paesi sottosviluppati a quelli industrializzati (l'OLPC non viene prodotto in Africa per intendersi), dà in
dotazione a queste società PC dall'hardware inferiore al livello di quello utilizzato nei paesi
industrializzati, perpetrando una forma (pur meno grave) di diseguaglianza, e lascia nei paesi del sud
del mondo grandi quantità di materiale tecnologico obsoleto (generando quell'e-waste di cui ci
occuperemo più avanti).

Ciò di cui hanno bisogno i paesi in via di sviluppo sono PC competitivi, la cui diffusione non gravi
sulla bilancia commerciale (non sia un “affare” per le industrie occidentali a scapito dei mercati del sud
del mondo) e che adottino la filosofia dell'open source. Il software open source dà all'utente quattro
libertà molto importanti:

    •   la possibilità di utilizzare il software senza limitazioni;

    •   la possibilità di studiare come funziona il software, di disporre cioè del codice sorgente;

    •   la possibilità di redistribuire lo stesso software ad altri;

    •   la possibilità di migliorare il software e diffonderlo nuovamente agli altri utenti.
5. il terzo mondo non ha bisogno di tecnologia;

alcuni studiosi hanno affermato che i paesi in via di sviluppo non hanno bisogno di tecnologia, ma che i
loro problemi veri sono povertà, mancanza di copertura sanitaria adeguata ed istruzione, ad esempio. Si
può rispondere a queste affermazioni ricordando che l'informazione e la comunicazione sono diritti
primari al pari della sicurezza sociale, così come sancito dall'Articolo 19 della Dichiarazione
Universale dei Diritti dell'Uomo: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione
incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e
diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”

Nella società attuale Internet e i nuovi media sono sicuramente veicolo dell'opinione pubblica, ecco
perché l'esclusione da essi provoca diseguaglianza.



    6. una strategia integrata che combini: redistribuzione globale della ricchezza, programmi per il
       sostegno alla salute e all'educazione, programmi per l'alfabetizzazione digitale, accesso
       gratuito e pubblico alle nuove tecnologie, tecnologia open source e computer per il terzo
       mondo (prospettiva degli autori dello studio);

     “Tutte e cinque le strategie discusse in precedenza sono riduttive e unidimensionali, non
     considerano le interconnessioni tra le condizioni minime di accesso, i fattori sociali, le
     ineguaglianze dello sviluppo, i diritti umani e il capitalismo globale. Per combattere il digital
     divide una ridistribuzione delle risorse è fondamentale come precondizione. Se si tratta di una
     possibilità concreta la cosa migliore da fare è realizzarla. Ma questo richiede un ripensamento
     generale della società globale, perché il digital divide non è solamente un problema tecnologico,
     ma anche un problema economico, sociale e politico. Il digital divide non è solamente un divario
     nell'accesso e beneficio della tecnologia, ma anche un'espressione di un più generale divario di
     ricchezza e potere (cit. Fuchs e Horak, 2008) .
AUTORI SUL DIGITAL DIVIDE
Numerosi autori si sono interessati alle mutazioni che intervengono all'interno di una società con
l'introduzione di sempre nuove ICT. In particolar modo il sociologo spagnolo Manuel Castells in un suo
testo del 2001, Galassia Internet, dedica un intero capitolo al digital divide, affrontandolo da una
prospettiva globale.

Il digital divide cui fa riferimento riguarda, oltre che la presenza o meno di tecnologie fisiche,
infrastrutture, soprattutto la possibilità di accesso ad internet, che varia in maniera considerevole in
base all'età, alla residenza, al reddito, all'etnia di appartenenza, alla professione ed accesso al lavoro.

Castells definisce il digital divide come “diseguaglianza nell'accesso ad internet [...] L'accesso da solo
non risolve il problema, ma è un prerequisito per superare la disuguaglianza in una società le cui
funzioni e gruppi sociali dominanti sono sempre più organizzati intorno ad Internet”.

Nella sua analisi Castells si è affidato ai dati americani, poichè, nel momento della sua indagine, negli
Stati Uniti si trovava una valida fonte statistica che ha analizzato l'accesso differenziato a Internet a
partire dal 1995: l'indagine su un campione rappresentativo della popolazione statunitense condotta dal
National Telecommunications and Information Administrator (NTIA) del Dipartimento del commercio
americano.
In termini di reddito, prendendo come estremi un guadagno dai 75.000 dollari annui in su e dai 15.000
in giù, dei primi il 70,1 per cento godeva di un accesso ad internet, dei secondi soltanto il 18,9 per
cento.
Anche per quanto riguarda l'istruzione il gap è molto evidente: tra le persone con un diploma
universitario superiore, il 74,5 per cento aveva accesso ad internet, tra quelle senza diploma soltanto il
21,7 per cento.

Un'altra divisione fortemente interessata dal divario digitale era, nella ricerca di Castells, l'età: solo il
29 per cento delle persone sopra i 50 anni aveva accesso ad internet, in contrasto con il 55,4 per cento
del gruppo di età 25-49, il 56,8 per cento del gruppo 18-24 e il 53,4 del gruppo 9-17.

Se si pensa poi che l'appartenenza alla forza lavoro fornisca un 56,7 per cento di utenti connessi contro
il 29 per cento di coloro che non avevano un impiego, risulta anche più semplice capire come l'età
dell'informazione non sia cieca neanche al colore. Difatti il 50,3 per cento di bianchi e il 49,4 per cento
degli asiatico-americani aveva accesso a internet, ma solo il 29,3 per cento degli afro-americani e il
23,7 per cento degli ispanici. Tale fenomeno è spiegabile appunto prendendo in considerazione il fatto
che gli afro-americani hanno un grado inferiore di accesso al lavoro.

Analogamente accade col divario generazionale, che si ipotizzava derivare dall'incapacità delle fasce
più anziane della popolazione di apprendere il funzionamento delle nuove ICT ed adattarvisi. Se questi
facessero parte della forza lavoro, afferma Castells, avrebbero una probabilità circa tre volte superiore
di essere utenti di internet.

Per quanto riguarda il divario di genere, nell'agosto 2000 era quasi scomparso in America in termini di
accesso: tra gli individui, il 44,6 per cento degli uomini e il 44,2 per cento delle donne erano utenti di
internet.
Risulta evidente, dunque, che ciò che conta sempre di più nel determinare l'accesso ad internet, oltre
alle caratteristiche sociografiche, è il rapporto dei singoli col lavoro, dato che internet diventa uno
strumento professionale indispensabile.

Inoltre, essendo internet una tecnologia formata dagli stessi utenti in misura molto maggiore di
qualunque altra, sostiene Castells, questa finisce per rispecchiare la condizione di disuguaglianza
sociale in cui essa stessa ha avuto luogo.

L'autore pone poi all'attenzione una nuova problematica, ovvero, qualora una fonte di disuguaglianza
sembra attenuarsi, ne emerge subito un'altra: si tratta ora dell'accesso differenziato al servizio ad alta
velocità a banda larga. Difatti l'evoluzione dei programmi informatici, dei siti web, e di tutti i progetti e
servizi disponibili in rete, si basa sempre di più sull'alta velocità di connessione. Diretta conseguenza di
tale tendenza è il passaggio da comodità a vera e propria necessità della banda larga, per evitare di
cadere nel vortice dell'esclusione.

Un'altra dimensione degna di riflessione sul digital divide sta in quello che Castells definisce Gap
Cognitivo.
Egli afferma nel proprio testo che se esiste un consenso intorno alle conseguenze sociali
dell'incrementato accesso all'informazione è che l'istruzione e l'apprendimento continuo diventino
risorse essenziali per il successo professionale e lo sviluppo personale. Nella sua previsione il
sociologo spagnolo aveva indovinato la rapida inclusione di internet come strumento educativo in tutto
il sistema scolastico, supponendo che nelle società avanzate sarebbe stato presente nelle classi come il
computer.

Ciò comporta però che l'uso di internet e la tecnologia educativa non possano e non debbano
prescindere dalla buona qualità degli insegnanti. Tale concezione però si scontra con un considerevole
ritardo tra l'investimento in hardware tecnologico e connettività online da un lato, e investimento nella
formazione degli insegnanti e assunzione di personale esperto in tecnologia, dall'altro (Bolt e
Crawford , 2000).

Un tipo di apprendimento basato su internet però non richiede soltanto delle competenze pratiche in
fatto di tecnologia, bensì cambia proprio il genere di istruzione richiesta sia per lavorare su internet, sia
per sviluppare la capacità di apprendimento in un'economia e in una società basate su internet. Il
cambio di prospettiva da adottare, secondo Castells, è dunque da apprendimento all'apprendimento-ad-
apprendere, date appunto l'immensa mole di informazioni presenti online e la necessità/capacità di
decidere cosa cercare, come rintracciare le notizie utili e come usarle per lo scopo prefissatosi in
origine alla ricerca.

La domanda che si pone l'autore è dunque: come si relazione questo squilibrio educativo al divario
digitale? Egli propone quattro livelli:



    •   Primo livello: la differenza tra scuole pubbliche e private porta con sé automaticamente anche
        una differenza di classi ed etnie nonché una sostanziale spaccatura in termini di tecnologie
        disponibili.

    •   Secondo livello: l'educazione all'utilizzo delle tecnologie richiede insegnanti competenti,
        tuttavia la qualità di insegnamento è distribuita irregolarmente tra le scuole.

    •   Terzo livello: c'è una sostanziale differenza nei metodi d'insegnamento che vedono da una parte
        l'attenzione allo sviluppo intellettuale e personale dei bambini, dall'altra una preoccupazione
        alla capacità di mantenere la disciplina e tenere a bada i bambini facendoli crescere attraverso i
        vari livelli di studio. Nel complesso le scuole delle classi alte e medie tendono a essere più
        attente all'apertura mentale rispetto a quelle delle aree a basso reddito.

    •   Quarto livello: in assenza di un'adeguata formazione e disponibilità di risorse materiali
        all'interno delle scuole in fatto di educazione all'utilizzo di internet, saranno i genitori a dover
        fornire insegnamenti in materia ai propri figli, insegnamenti spesso carenti ed effettuati mentre
        sono i genitori stessi in fase di apprendimento.



Tali condizioni delineano un panorama che vede i bambini delle famiglie svantaggiate in posizioni
assai più arretrate rispetto ai loro coetanei con maggiori capacità di trattamento delle informazioni
derivate dalla loro esposizione a un ambiente domestico meglio istruito.

Le capacità di apprendimento differenziate, in condizioni intellettuali ed emozionali simili, sono
correlate al livello culturale e d'istruzione della famiglia. Se queste tendenze fossero confermate,
afferma Castells, in assenza di misure correttive l'uso di internet, a scuola come nella vita professionale,
potrebbe amplificare le differenze sociali radicate in classe, istruzione, genere ed etnicità.

Un'altro degli autori in materia di tecnologia digitale che hanno preso a cuore la questione del digital
divide, tentando in qualche modo di limitare il problema è stato Nicholas Negroponte, informatico
statunitense celebre per i suoi studi innovativi nel campo delle interfacce tra l'uomo e il computer,
nonché autore del best-seller “Being digital” del 1995. Insieme alla moglie Elaine si è profondamente
interessato al divario digitale e informativo dei paesi del terzo mondo.

Entrambi hanno già avviato con successo ben tre scuole in Cambogia, fornendole di computer e
connessione a banda larga. A seguito di questa esperienza, Negroponte ha cominciato a portare avanti
un progetto ambizioso: portare l'informatizzazione e i dispositivi informativi come i computer là dove a
malapena giunge la corrente elettrica. L'annuncio è stato dato il 28 gennaio 2005 a Davos (Svizzera),
durante il Forum Economico Mondiale di quell'anno. In quella sede Negroponte ha anche affermato di
avere già importanti partner commerciali pronti a fornire tecnologie, cervelli e fondi, per comparire
nella lista dei finanziatori, tra cui AMD, Google, Motorola, Samsung e News Corporation (facente
parte del gruppo di Rupert Murdoch).

Il progetto viene destinato, per il momento, ad alcuni paesi ben precisi come la Thailandia, l'India e la
Cina. E proprio quest'ultima ha dimostrato molto interesse sia per la tecnologia molto semplice e a
basso costo che potrà essere portata facilmente in tutto il vasto Paese, sia per la già espressa voglia di
indipendenza da prodotti costosi e proprietari. L'idea di fondo è quella di un computer, portatile,
tecnologicamente non costoso (intorno ai 100 dollari), elettricamente non troppo oneroso, con una suite
completa di programmi non proprietari, orientato alla connessione ed indirizzato principalmente alle
nuove generazioni. Oltre a ciò bisogna considerare il fatto che i paesi citati non offrono situazioni
meteorologiche ottimali per i computer, fuori dagli uffici climatizzati e ben aerati, quindi il grande test
tecnologico che questi computer dovranno superare sarà la loro funzionalità e adattabilità a polvere,
umidità, scossoni, cadute e bagnato. Un ulteriore problema che i ricercatori dovranno risolvere è la
facilità di riparazione, visto che i luoghi da immaginare per questi pc sono zone rurali contadine in cui
la città più vicina si trova a cento chilometri di distanza e un viaggio sino ad essa è un'avventura.
La distribuzione di questi 'gioiellini', poco potenti e scarsamente attraenti davanti alle tecnologie
informatiche a cui l'occidente è abituato, ma vitali in quelle aree, seguirà un progetto ancor più ampio
che non è solo di informatizzazione, bensì di istruzione. Il fine principale infatti sarà quello di sostituire
i libri di testo con delle poco costose copie in formato digitale.
Una risposta, in qualche modo critica, a Negroponte, proviene da Derrick De Kerckhove, direttore del
Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia a Toronto, il quale, in un'intervista al Corriere Economia
dell'aprile 2007 afferma: «Credo poco al superamento del digital divide grazie a computer da 100
dollari. Semmai, vedo dispositivi più simili al telefonino e comunque legati a tecnologie Wi-fi e Wi-
Max: purchè siano disponibili gratuitamente. Il problema dunque è politico, non tecnologico. È legato
alla volontà di superare le barriere monopolistiche di chi pone paletti al f ree-wireless, alle
comunicazioni globali a bassocosto».
E-WASTE




Negli ultimi anni la grande diffusione delle tecnologie ha portato con sé problematiche relative allo
smaltimento, al riciclo e al recupero dei prodotti.

I rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), in inglese "Waste of Electric and
Electronic Equipment" (WEEE) o "e-waste", sono rifiuti che consistono in qualunque prodotto
elettronico in disuso di cui il possessore si vuole liberare.

Questo tipo di spazzatura è molto inquinante per l’ambiente e contiene diverse sostanze chimiche
tossiche e materiali nocivi pericolosi per l’uomo, che se non vengono smaltite nel modo corretto
possono avere un forte impatto la salute delle persone.




Convenzione di Basilea


La Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro
eliminazione (UN, 1989) è un trattato che regola e cerca di ridurre il trasporto di rifiuti pericolosi da un
paese all'altro, occupandosi nello specifico di importazione in paesi in via di sviluppo.

La Convenzione è stata redatta nel 1989, ed è entrata pienamente in attività nel 1992. Al marzo 2009 gli
unici paesi a non aver ratificato la convenzione erano l'Afghanistan, Haiti e gli Stati Uniti d'America. I
tre stati hanno però già firmato il trattato, si avvicina quindi la ratifica che porterà nei prossimi anni
tutti i paesi aderenti alle Nazioni Unite ad aver aderito ufficialmente alla Convenzione.

La Convenzione di Basilea definisce quali sono i rifiuti considerati pericolosi e cerca di limitare
fortemente il trasporto di questi da paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo. In caso di trasporti di
rifiuti prevede comunque che questi vengano schedati e che il loro intero percorso sia tracciato dalle
Nazioni Unite.

Nel 1995 il trattato è stato implementato dal Basel Ban Amendment!!!, che vieta il trasporto di
qualunque rifiuto da un paese all'altro, neanche per riciclaggio. Questo divieto ha visto l'opposizione
dura di USA e Canada, insieme ad alcune industrie multinazionali. L'Emendamento non è ancora stato
rettificato da molti paesi; in ogni caso le nazioni ad averlo firmato sono 63 sulle 62 richieste perchè il
trattato venisse accolto dalle Nazioni Unite!!!. Questo divieto è diventato pienamente operativo
nell'Unione Europea, che lo ha accolto con il Wastment Shipment Regoulation (EWSR)!!!.

In seguito alla nascita della Convenzione è stato creato un ente di controllo: il Basel Action Network
(BAN), il quale si occupa del controllo del traffico di e-waste, oltre ad essere responsabile per le
ispezioni nei siti di stoccaggio, smaltimento e riciclaggio dei rifiuti.




I RAEE


Secondo il decreto attuativo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Ministero dell’Ambiente e della
Tutela del Territorio e del Mare, che definisce la gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed
elettroniche, gli AEE sono le apparecchiature che dipendono per un corretto funzionamento da correnti
elettriche o campi elettromagnetici e le apparecchiature di generazione, trasferimento e misura di
queste correnti e campi, progettate per essere usate con una tensione non superiore a 1000 Volt per la
corrente alternata e a 1500 Volt per

la corrente continua (Ministero dell'ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, 2007)

Sono AEE:
•   Grandi elettrodomestici

   •   Piccoli elettrodomestici

   •   Apparecchiature informatiche per telecomunicazioni

   •   Apparecchiature di consumo

   •   Apparecchiature di illuminazione

   •   Strumenti elettrici ed elettronici (ad eccezione degli utensili industriali fissi di grandi
       dimensioni)

   •   Giocattoli ed apparecchiature per lo sport e per il tempo libero

   •   Dispositivi medici (ad eccezione di tutti i prodotti impiantati ed infettati)

   •   Strumenti di monitoraggio e controllo

   •   Distributori automatici



Non sono AEE (quindi non rientrano nella direttiva RAEE):

   •   I dispositivi medici impiantabili ed infettati

   •   Gli utensili industriali fissi di grandi dimensioni

   •   Le apparecchiature connesse alla tutela di interessi essenziali della sicurezza nazionale

   •   Le armi, le munizioni ed il materiale bellico purché destinati a fini specificatamente militari

   •   Sistemi centralizzati non funzionanti autonomamente (citofonia, video citofonia, sistemi di
       allarme, antincendio, rilevazione fumo e gas)



I RAEE sono le apparecchiature elettriche ed elettroniche giunte a fine vita. La norma divide i RAEE in
3 categorie:

   •   RAEE provenienti dai nuclei domestici

   •   RAEE professionali

   •   RAEE storici: RAEE derivanti da apparecchiature elettriche ed elettroniche immesse sul
       mercato prima del 13 agosto 2005

RAEE sono le apparecchiature intere, e non parti di esse. Questa suddivisione è utile per fini
burocratici allo scopo di regolamentare la tassazione e il corretto smaltimento.
DIMENSIONE QUANTITATIVA DEL PROBLEMA IN ITALIA

In Italia si stima che ogni abitante ha prodotto nel 2006 circa 14 chili di rifiuti elettronici con un totale
di circa 800.000 tonnellate, di cui 108.000 sono stati raccolti in maniera separata. Questo significa che
sono stati raccolti un po’ meno di 2 chili di rifiuti pro capite a dispetto dei 4 chili imposti dalla
Comunità Europea e i 6 della media europea.

Come si evince da queste stime in Italia siamo ben lontani dal target della direttiva europea e gli enormi
volumi di rifiuti elettronici generati hanno imposto la necessità di modificare l’approccio verso questi
prodotti adottando politiche di riuso, riciclo e smaltimento corretto dei RAEE.

Dal sito istituzionale del Centro di Coordinamento dei RAEE oggi si contano in Italia 2.893 Centri di
Raccolta che secondo gli esperti del settore non sono sufficienti per la migliore gestione dei rifiuti e
non sono distribuiti in maniera uniforme nel territorio. Secondo un’inchiesta di Greenpeace sui rifiuti
tecnologici infatti, le 8 regioni del nord (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Valle d’Aosta,
Piemonte, Liguria, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) contano addirittura 2.172 aree di
raccolta rifiuti, contro le 325 del Centro (Toscana, Umbria, Molise e Lazio) e le 302 delle rimanenti sei
regioni del sud. Sardegna e Sicilia si trovano con soli rispettivamente 62 e 32 centri di raccolta. Questo
significa che se nel Settentrione esiste un Centro di Raccolta ogni 12.500 abitanti, scendendo lungo la
penisola si nota un aumento del numero di persone servite da una singola aree di raccolta. Nel Centro si
ha un CdR per ogni 36.000 persone, contro le 46.000 del Sud e le oltre 71.000 delle isole.

Questi dati ci danno un’idea della dimensione del problema, che, nonostante le preoccupazioni dei
governi, è in rapida crescita per l’aumento spropositato del numero di prodotti elettronici in tutto il
mondo.




I RISCHI PER L’AMBIENTE E LA SALUTE UMANA


La contaminazione ambientale derivante da uno scorretto smaltimento di tecno-spazzatura riguarda
l’ambiente in tutte le sue forme: l’acqua, l’aria e il suolo. Questo chiaramente si ripercuote nella salute
umana.

Per smaltimento non corretto s’intende la messa in discarica o la termodistruzione dei RAEE, interi o
parti di essi che contengano ancora sostanze utili o nocive.
Un trattamento non appropriato e uno smaltimento non corretto dei RAEE comporta:

    •   La diffusione nell’ambiente di sostanze pericolose per la salute pubblica;

    •   La distruzione o comunque lo spreco di materiali che possono essere reimpiegati nel ciclo
        produttivo, con conseguente impoverimento di risorse presenti in quantità limitata sul nostro
        pianeta.

In generale negli apparecchi elettrici ed elettronici si trovano diverse sostanze dannose come piombo,
mercurio, cadmio, cromo esavalente, oli minerali e sintetici, PCB (policlorobifenili) e altri idrocarburi.
Molti di questi elementi si accumulano nell’ambiente provocando effetti acuti e cronici sugli organismi
viventi, spesso con danni irreversibili alla salute.

Secondo l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo dell’Ambiente (ARPA) le sostanze nocive contenute nei
rifiuti elettrici e elettronici sono:



CFC/HCFC: I clorofluorocarburi e gli idroclorofluorocarburi sono presenti nei circuiti di
refrigerazione di frigoriferi/congelatori e condizionatori nonché nelle schiume poliuretaniche del
rivestimento esterno degli stessi.

Essi sono in grado di raggiungere intatti la stratosfera e di reagire con le molecole di ozono formando
ossigeno semplice. Questo provoca l’assottigliamento della fascia di ozono, il quale determina un
aumento delle radiazioni ultraviolette che sono causa di tumori alla pelle, malattie agli occhi,
indebolimento del sistema immunitario; negli ultimi anni i casi di melanoma sono raddoppiati.

PIOMBO: È contenuto nelle batterie e nelle saldature degli apparecchi.

Si accumula nell’ambiente provocando effetti tossici acuti e cronici alle piante, agli animali e ai
microorganismi. Nell’uomo può causare gravi danni al sistema nervoso centrale e periferico, a livello
vascolare.

CADMIO: Si trova in componenti, semiconduttori e tubi catodici di vecchio tipo. Può provocare danni
irreversibili ai reni e al sistema osseo, causa di disturbi alla crescita. È considerato cancerogeno.

MERCURIO: Si trova in termostati, sensori, interruttori, attrezzature medicali, apparecchi di
telecomunicazioni e cellulari. Viene assorbito facilmente dagli organismi e trasferito, tramite i pesci,
nella catena alimentare. Nell’uomo provoca danni al cervello, al coordinamento, al bilanciamento.

CROMO ESAVALENTE: Usato per ridurre l’infiammabilità di componenti ed apparecchi elettrici ed
elettronici, è presente in ritardanti di fiamma bromurati. Solubile in acqua, anch’esso entra nella catena
alimentare tramite i pesci. È tossico per l’ecosistema marino e nell’uomo provoca reazioni allergiche e
bronchiti asmatiche ed è in grado di attraversare la membrana cellulare e danneggiare il DNA. È
ritenuto cancerogeno.

POLICLOROBIFENILI (PCB): Allo stesso modo del cromo esavalente, questi sono usati per ridurre
l’infiammabilità di componenti elettronici. Tossico per l’ecosistema marino, entra nella catena
alimentare tramite i pesci. Causa di reazioni allergiche e bronchiti asmatiche nell’uomo può
danneggiare il DNA. È riconosciuto cancerogeno




NORME E LEGGI


Negli ultimi anni, la gestione del fine vita delle apparecchiature elettriche ed elettroniche è diventata un
problema a livello mondiale da affrontare in modo puntuale per difendere l’ambiente e sostenere lo
sviluppo.

Un incremento significante nella generazione delle apparecchiature elettriche e elettroniche (AEE) ha
indotto molti stati a implementare politiche a occuparsi delle ragioni e delle conseguenze di questo
sviluppo.

Nonostante i politici di tutto il mondo stiano reagendo alla rapida crescita dei rifiuti elettrici e
elettronici, questa reazione è strutturata da azioni prese dai singoli stati configurando un mosaico di
politiche diverse.

In Europa il tema dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche è regolamentato dalle direttive
europee 2002/95/CE, 2002/96/CE e 2003/108/CE sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze
pericolose nelle Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche e sulla gestione del fine vita della medesima
tipologia di apparecchiature. Tale direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 25 luglio
2005 n. 151 attuata solo a partire dal 1° Gennaio 2008.

Il decreto ha l’obbiettivo di arrivare alla raccolta media pro-capite di 4 Kg l’anno per abitante (circa
240 mila tonnellate) di rifiuti che dovranno essere recuperati (con percentuali che vanno dal 70 all’ 80
% in base alla categoria di rifiuto) o reimpiegati e riciclati (con percentuali che vanno dal 50 all’ 80 %).

Il Consiglio dei Ministri europeo ha insistito sulla necessità di promuovere il recupero dei rifiuti al fine
di ridurne la quantità da smaltire e di preservare le risorse naturali, in particolare mediante il reimpiego,
il riciclaggio, il compostaggio e il recupero dell'energia dai rifiuti ed ha riconosciuto che la scelta delle
opzioni nei casi specifici deve tener conto delle conseguenze ambientali ed economiche, ma che fino a
quando non interverranno progressi scientifici e tecnici al riguardo e non saranno ulteriormente
sviluppate le analisi del ciclo biologico, bisognerà optare per il reimpiego e per il recupero dei materiali
se e nella misura in cui essi rappresentano le migliori opzioni ambientali.

La presente direttiva in Italia impone la responsabilità a produttori e distributori di creare consorzi ad
hoc che provvedono allo smaltimento e al riciclo e di ritirare gli apparecchi elettrici o elettronici dati
dai consumatori a patto che essi comprino un’apparecchiatura equivalente (una apparecchiatura adibita
alle stesse funzioni della vecchia il cui peso non sia superiore al doppio di quella appena acquistata).
Purtroppo questo non succede sistematicamente.

Un’altra novità apportata dal decreto è la tassa sui RAEE: ogni volta che compriamo un apparecchio
nuovo paghiamo una tassa (per legge non direttamente visibile, ma già calcolata nel prezzo
dell’oggetto) in dipendenza dal peso e delle caratteristiche del prodotto. Per un frigorifero paghiamo 16
euro, 5 per una lavatrice, 3 e mezzo per un televisore fino ai 25 centesimi per l'iPod e i 28 per le
lampadine a basso consumo. Il principio ha la sua logica: per smaltire questo tipo di rifiuto non pagano
più indistintamente tutti i cittadini attraverso la TARSU, la tassa comunale sui rifiuti ma solo quelli che
li producono, e cioè chi compra una tv nuova e quindi ne deve buttare via una vecchia.




POLITICHE A RIFIUTO ZERO


Nella seconda metà del ‘900, il boom economico ha portato ad un enorme incremento della quantità di
prodotti e quindi rifiuti con conseguente consumo di energia e inquinamento. La più ovvia soluzione al
problema è stata la costruzione di discariche, che si sono rivelate inquinanti e indecorose. La risposta
alle polemiche è stata l’invenzione degli inceneritori, che sono sembrate per un decennio (almeno fino
all’arrivo dei primi incidenti e ai dati sulle patologie) la soluzione definitiva: da un’enorme massa di
rifiuti si riduce ad una relativamente piccola fatta di ceneri tossiche. Tale innovazione sembrava anche
relativamente economica e gestibile dal punto di vista della sicurezza, ma dopo qualche anno
cominciarono a sorgere comitati contrari e proteste.

A partire dagli anni ’90 la prospettiva cominciò a cambiare dando progressivamente corpo alla strategia
di Zero Waste, oggi attuata dal 50% delle città in Nuova Zelanda, dall’Australia, dal Canada, dalla
California, dallo Stato dell’Oregon, da alcune cittadine Giapponesi, e da molte aziende multinazionali
(tra cui: Toyota, Bell Canada, Xerox, Hewlett Packard).
I risultati sono straordinari: la Xerox Usa stima che le propria politica Zero Waste, grazie a riduzione,
riuso e riciclo, abbia prodotto in soli nove anni (dal 1990 al 1999) un risparmio di quasi 47 milioni di
dollari.

La stessa politica alle Olimpiadi di Atlanta ha permesso di fare la raccolta differenziata dell’85% dei
rifiuti; lo stabilimento Epson nell’Oregon ha eliminato del 90% la quantità di rifiuti; la catena canadese
Beer Store recupera il 98% delle bottiglie immesse sul mercato, con un risparmio di circa 160 milioni
di dollari e ricicla il 97% degli imballaggi in plastica.

Zero Waste è un metodo di lavoro il cui scopo è ridurre i rifiuti, l’impiego di energia e di materia, lo
spreco e l’inefficienza, partendo dalla considerazione che l’esistenza dei rifiuti è sintomo della
inefficienza del sistema economico e che è possibile porvi rimedio con la tecnica e l’organizzazione.

In particolare si studia la comunità dove agire, analizzando il flusso della materia, e si trovano le
soluzioni tecniche e organizzative insieme ai produttori e ai cittadini. In seguito attuando le soluzioni
trovate, si ottiene la riduzione dei rifiuti nella produzione, distribuzione e nel consumo sia per quantità
sia per tossicità, per quanto possibile a livello locale.

Così si riutilizzano le cose dismesse, creando aziende che le commercializzano dopo averle aggiustate,
creando Parchi del riuso e della rivendita e un mercato vero e proprio, con un adeguato supporto
finanziario e legislativo.

Tutto ciò, naturalmente, va supportato con azioni educative e formazione sul riuso e compostaggio. Il
successivo passaggio consiste nel riciclare e inserire correttamente sul mercato i prodotti del riciclo,
supportare la ricerca tecnica e logistica, creare conoscenza attraverso studi specifici, con corsi
universitari, Accademie Zero Waste, ecc., diffondendo insomma un clima creativo, una cultura tra i
cittadini e nell’economia.

Così i rifiuti diventano risorse economiche e non costi.

Robin Murray (famoso economista della London School of Economics) è il più celebre promotore di
questa “filosofia”, che grazie alla combinazione “riduzione, riuso, riciclo” ed educazione al tema
assicura una rivoluzione nel campo economico, energetico e ambientale.
E-WASTE NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO
Quando si tratta questo argomento vanno fatte delle importanti premesse. Il problema dei rifiuti tossici
è infatti rilevante in molti paesi in via di sviluppo, ma lo è anche in potenze economiche mondiali come
Cina ed India, per ovvi motivi si parla quindi di situazioni completamente diverse. E' chiaro come
vadano ben distinti paesi in cui l'informatizzazione è in crescita ed in cui si sviluppa anche l'industria
del riciclaggio da quei paesi africani, che vengono invece sfruttati come semplici discariche. Non a
caso c'è anche un livello di consapevolezza diversa fra diversi importatori di e-waste. In Asia chi riceve
i rifiuti conosce esattamente la loro natura e sa valutare ogni singolo pezzo ricevuto, potendosi così
permettere una precisa selezione iniziale. Nei paesi africani invece questa perizia non esiste, si
accettano carichi di rifiuti tossici senza aver la minima consapevolezza di quello che può essere il loro
contenuto(C.Schmidt, 2006).

Sembra riflettersi anche in questo caso una sorta di “divide”, stavolta tecnologico, che vede
svantaggiati i soggetti più poveri della filiera. Se a questo aggiungiamo che il paese più informatizzato
al mondo, gli Stati Uniti d'America, non ha ancora ratificato la Convenzione di Basilea, si può intuire
quanto questo mercato sia nebuloso e difficile da controllare.


ASIA


Come già detto una classificazione di e-waste unica e condivisa a livello internazionale non esiste, è
quindi impossibile controllare completamente i traffici di rifiuti nell'area asiatica, in cui si ritrovano
nazioni con legislazioni molto severe e precise come il Giappone, ma anche enormi colossi come
l'India in cui una regolamentazione non esiste o la Cina, in cui le regole ci sono ma spesso non vengono
rispettate. Il traffico di prodotti nocivi è ovviamente facilitato da questo caos legislativo esistente; la
mancanza di definizioni precise che specifichino la differenza fra prodotti di seconda mano, e-waste e
semplici rifiuti metallici (mixed metal scrap) fa sì che questi possano essere importati od esportati
senza grosse difficoltà (Japan’s National Institute for Environmental Studies, 2006).

Abbiamo visto quindi che paesi come Cina, Giappone, Corea e Taiwan hanno regole ben definite per
quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti “interni”. In alcuni casi sono i produttori ad esser responsabili
anche economicamente per lo smaltimento, in altri i consumatori. Il problema nasce però quando ci si
concentra su quelle che sono le regole per l'esportazione dei rifiuti nazionali, per il già citato problema
delle classificazioni ed anche perché non tutti I paesi del sud-est asiatico mettono in atto i principi della
Convenzione di Basilea. In Corea, del Sud per esempio, non viene applicato nessun limite
all'esportazione di rifiuti tecnologici, né esiste un obbligo di un trattamento preliminare di questi, ecco
quindi che in questa maniera si riescono a trasportare enormi quantità di prodotti contenenti sostanze
nocive senza problemi burocratici. Il costo per la nazione, per i produttori, per i consumatori e per i
trasportatori è ridotto, ma a farne le spese sono le popolazioni che devono poi venire a contatto con
questi rifiuti.




CINA


La Cina è il nodo cruciale dell'e-waste a livello globale. In questo paese infatti arrivano la maggior
parte dei rifiuti tecnologici planetari, sempre qui si trovano inoltre alcune fra le più grandi centrali di
riciclaggio specializzate, come quella di Guiyu, nella regione del Guandong (Takayoshi Shinkuma ,
Nguyen Thi Minh Huong, 2008) In questa discarica, la più grande esistente al mondo, si ammassano
tonnellate di rifiuti tecnologici provenienti dalla Cina stessa, dagli Usa, dal Giappone, dalla Corea del
Sud e dall'Europa.

Questo va di fatto a cozzare con la legislazione cinese, che vieta categoricamente l'importazione di
WEEE (i RAEE internazionali) di seconda mano. Emerge di nuovo quello che è il maggior problema
legato all'e-waste: la cronica mancanza di controlli e classificazioni ben definite dei materiali dannosi.
Spesso infatti prodotti che dovrebbero essere classificati come WEEE vengono invece immessi come
semplice spazzatura (scrap). Il governo cinese in questo caso ha ignorato volutamente il fatto che nelle
discariche le leggi non venissero rispettate, a patto che il 4% dei guadagni (grazie all'assemblamento di
nuovi prodotti da materiali riciclati) venisse versato come imposta (value added tax). (Japan’s National
Institute for Environmental Studies, 2006).

Questo stato di cose è potuto andare avanti fino ad oggi vista la grandissima richiesta cinese di prodotti
realizzati con materiali usati. Ora che però il mercato è in crisi, a favore di quello dei prodotti di nuova
fattura, si prevede quindi dei cambiamenti nel mercato tecnologico cinese dei prossimi anni.

Il governo cinese ha cercato di regolamentare, almeno formalmente, questo flusso di materiali. Fino ad
una decina di anni fa infatti, le fabbriche che si occupavano di riciclaggio erano piuttosto piccole e di
proprietà di poche aziende; ogni sito lavorava così qualunque tipo di materiale senza rispettare standard
qualitativi e di sicurezza adeguati. Questa situazione rendeva ovviamente difficili i controlli da parte
delle istituzioni, che non potevano fare altro che chiudere le fabbriche in cui venivano rilevate delle
irregolarità. A quel punto però bastava spostare i materiali illeciti da un sito all'altro e continuare nelle
attività illecite che erano la prassi.

Si è deciso quindi di attuare una nuova strategia: non più combattere semplicemente il riciclaggio
“sporco”, ma parallelamente favorire la nascita di impianti a norma.(Japan’s National Institute for
Environmental Studies, 2006) Guiyu nasce proprio così, pur con le sue mille contraddizioni.
L'accentramento di gran parte del materiale in arrivo ha infatti aiutato il controllo dei rifiuti in entrata
(senza debellare ancora l'afflusso di rifiuti illegali), ma si è trascinata dietro una delle tante
contraddizioni del gigante economico cinese. La situazione per quel che riguarda le condizioni di
lavoro dei dipendenti è infatti disastrosa e spesso a lavorare sui materiali dannosi vengono posti dei
bambini(Greenpeace, 2005).

La Cina però, visto il suo boom economico, ha dovuto contemporaneamente fronteggiare l'enorme
incremento di produzione locale di rifiuti tecnologici, dato che un numero sempre maggiore di persone
ha iniziato a potersi permettere televisori, elettrodomestici e cellulari. Nel 2004 ha quindi ufficialmente
definito quali fossero i rifiuti da considerare come e-waste: tv, frigoriferi, lavatrici, condizionatori d'aria
e personal computers. I distributori hanno il ruolo di raccolta dei rifiuti tecnologici dai consumatori,
dovranno poi inviarli ad impianti di riciclaggio certificati che si occuperanno dello smantellamento,
riutilizzo o smaltimento. Per incoraggiare questo processo sono stati rilasciati dei contributi da parte dei
produttori.




AFRICA


La situazione africana è ancora più selvaggia di quella asiatica, ma non è affatto legata alla produzione
interna di e-waste. Alcuni paesi (soprattutto la Nigeria) sono infatti delle semplici discariche di rifiuti
tecnologici occidentali.

Le stime non ufficiali dicono che per il porto di Lagos passino ogni mese più di 500 cargo contenenti
rifiuti tecnologici non classificati (C.Schmidt, 2006). Dato che per l'importazione di WEEE esistono
precise e costose tariffe, si preferisce classificare illegalmente tutti i rifiuti come semplice scrap, il reale
contenuto di questi cargo rimane quindi, fondamentalmente, un mistero. Di certo c'è il prezzo per un
singolo trasporto: 5000$, davvero esiguo rispetto ai regolari costi di smaltimento. Dal punto di vista
degli importatori il guadagno è quasi assicurato, dato che bastano 40 buoni computer in mezzo
all'immondizia inutilizzabile per avere un lauto guadagno.

In Nigeria l'industria del riutilizzo è sviluppatissima, I rifiuti vengono riparati o riassemblati in loco,
quindi venduti in quantità industriali. Il problema sta nel 75% di rifiuti che però non sono in nessuna
maniera riutilizzabili, che quindi si accumulano nelle discariche nigeriane, con il loro carico letale di
metalli e sostanze chimiche dannose. Dato che il confine fra discarica e zona abitativa è estremamente
labile, questi rifiuti vanno ad avere un impatto ancora più forte sulla vita della popolazione. Inviati del
BAN si sono trovati davanti ad enormi discariche in cui i bambini giocavano con materiali per loro
tossici. In queste aree vagano pure animali come capre o polli, che rappresentano una grossa fetta della
nutrizione di queste popolazioni, che si ritrovano quindi completamente immerse nella tossicità
prodotta dai rifiuti tecnologici occidentali.
Conclusioni

Si è visto nel corso di questa relazione come le tecnologie, in particolar modo quelle dell'informazione
e della comunicazione, non siano strumenti neutri o ininfluenti all'interno della società in cui si
sviluppano o vengono importati. Le ICT, essendo essenzialmente delle psico-tecnologie, come le
definisce D. De Kerckhove, ridefiniscono i sistemi relazionali e le dinamiche sociali, permettono, in
base al tipo di governo, un certo grado di libertà informativa, diffusione dei saperi, modellano la pische
e si trasformano continuamente per soddisfare bisogni, spesso indotti, di interazione e continuo
aggiornamento informazionale.

Ovviamente la tecnologia ha un prezzo, necessita di competenze ed infrastrutture per essere prodotta, di
una certa qualità d'insegnamento per permetterne l'utilizzo ed ovviamente una predisposizione
infrastrutturale e sociale dell'ambiente in cui viene sfruttata. Accanto a queste prime problematiche di
livello generale, se ne affiancano altre più specifiche come età, sesso, etnia, luogo di residenza, accesso
al lavoro, professione. Ognuno di questi status è un potenziale motivo di esclusione dall'utilizzo delle
ICT, motivi che associati e combinati insieme danno vita a quello che viene definito digital divide,
ovvero la diseguaglianza di accesso e di utilizzo delle tecnologie della cosiddetta “società
dell’informazione”.

Pensando inoltre alla velocità con cui nascono e muoiono le tecnologie dell'informazione come telefoni
cellulari, computer ed hardware di ogni tipo, è venuto spontaneo porsi due domande fondamentali. La
prima sulle conseguenze che questa continua e rapida produzione ha all'interno dei paesi sviluppati,
all'interno di quelli in via di sviluppo e tra “nord” e “sud” del mondo. La seconda è sul dove vanno a
finire i “cadaveri elettronici”, come vengono smaltiti, se vengono smaltiti, e quali normative e accordi
stanno dietro il traffico di questi rifiuti.

Dalle ricerche effettuate nel corso della stesura di questa relazione è emerso come questo progresso
tecnologico e comunicativo sia in realtà fonte di arricchimento dei principali paesi produttori a
discapito di quelli in via di sviluppo. Questo svantaggio si spiega prendendo in considerazione, oltre
alle importanti problematiche di ordine economico e politico, anche quelle di tipo amministrativo come
il progressivo processo di virtualizzazione delle burocrazie nazionali e locali. Se si prendono a titolo
d'esempio carta d'identità e tessera sanitaria digitali, come potranno interagire quelle società o quegli
stati che hanno alla base elementi che poggiano su sistemi di produzione, controllo, ed utilizzo
diametricalmente diversi? E ancora: quanto verrano ulteriormente esclusi dalle decisioni di ordine
globale i paesi che non hanno un pieno controllo dei mezzi che trasmettono informazione sulla loro
propria nazione e società?

Su questo Castells si trova in accordo con le frange meno estremiste e non violente degli attivisti
antiglobalizzazione, che trovano un eco nell'opinione pubblica preoccupata degli effetti di questa nuova
società in termini di occupazione, istruzione, protezione sociale e stili di vita. Castells introduce inoltre
anche il problema del rischio di perdita di controllo dello strumento internet, proprio a causa della sua
natura interattiva.

Tale considerazione meriterebbe un discorso a parte sui rischi che porta con sè un utilizzo
estremamente libero della tecnologia digitale, nondimeno sul rischio di cadere, per preservare la
privacy e la sicurezza delle persone, nella trappola del controllo sociale che parte proprio dal controllo
delle informazioni personali.

Di questo si è deciso di non trattare nel corso di questa relazione, sebbene se ne riconosca un'estrema
importanza, proprio per evitare di dilungarsi oltremodo e perdere di vista gli obiettivi prefissati in
origine.

Oltre questo va considerata la grande quantità di rifiuti elettronici che, in violazione ai trattati e alle
legislazioni internazionali, vengono riversati nei paesi in via di sviluppo sfruttando cinicamente il
canale delle donazioni.

Per citare ancora una volta il validissimo testo di Castells "l'economia potenziata dalle reti esplora
incessantemente il pianeta alla ricerca di opportunità di profitto, c'è un processo di sfruttamento
accelerato delle risorse naturali, nonchè di crescita economica dannosa per l'ambiente [...] se
includiamo nello stesso modello di crescita la metà della popolazione planetaria che è attualmente
esclusa, il modello di produzione e consumo industriali che abbiamo creato non è ecologicamente
sostenibile.

La soluzione per le enormi quantità di e-waste prodotte dal nostro modello di sviluppo non è una sola,
ma va trovata per ogni passaggio che fanno questi prodotti. Vanno innanzitutto applicate su scala
globale tecniche di eco-design che già esistono, e permettono una separazione più semplice ed
economica dei vari materiali presenti nei circuiti elettronici. Il passaggio successivo è quello di
sensibilizzare le aziende distributrici di prodotti elettronici nel ruolo fondamentale che devono avere
per quanto riguarda il recupero di prodotti usati. A questo punto sarà la catena di smaltimento a dover
applicare le corrette tecniche, in modo da ridurre al minimo l'impatto inquinante dell'e-waste, oltre a
recuperare i prodotti quando possibile. La funzione di controllo dovrà essere svolta da istituzioni
nazionali ed internazionali (come il BAN), in modo che le regole che ora esistono vengano finalmente
applicate in ogni situazione.



CRITERI DI SOSTENIBILITÀ
Il nostro lavoro vuole portare a riflettere sul tema più generale della sostenibilità economico-sociale. Si
è visto quali siano le potenzialità delle nuove teconologie dell'informazione e quali problematiche
derivino dal loro utilizzo. Queste teconologie rappresentano in qualche modo degli artefatti cognitivi
che, progettati e pensati in maniera sostenibile, potrebbero risolvere alcune problematiche su diversa
scala, partendo dal locale per arrivare al globale. Pertanto si è ritenuto utile formulare alcune linee
guida su come gli artefatti dovrebbero essere concepiti.



1° La produzione dell'artefatto non deve generare forme di "neo-colonialismo" e gravare sull'economia
dei paesi in via di sviluppo. Prodotti realizzati in occidente per risolvere il digital divide farebbero solo
crescere l'economia dei paesi più ricchi senza trasferire competenze e ricchezza ai paesi che si vogliono
aiutare.



2° L'artefatto deve avere un costo sostenibile per essere accessibile al maggior numero di fasce sociali.



3° Adozione della filosofia open source, sia per quanto riguarda le componenti hardware che per il
software, e unificazione degli standard inteso in senso di compatibilità e componibilità



4° Gli artefatti devono essere realizzati con materiali riciclabili grazie alle nuove tecniche di eco-
design, in modo da favorire il riutilizzo dei materiali usati o il loro corretto smaltimento.
BIBLIOGRAFIA
United Nations , Millenium report, 2000

Commissione della comunità europea , Piano d'azione del Consiglio dell'Unione Europea, 2002

P.Zocchi , La democrazia possibile. Come vincere la sfida del digital divide,, 2003

Castells, M. , Galassia Internet ,(2002)

Dutton, W.H., La società on line. Politica dell’informazione nell’era digitale, Milano, Baldini &
Castoldi, (2001)

Censis-Ucis, L'evoluzione delle diete mediatiche giovanili in Italia e in Europa, 2008

K. Mannheim, Il problema delle generazioni (1927), in Id. Sociologia della conoscenza, Bari (1974)

Levy, Michael. Computer-assisted language learning: Context and conceptualization. New York:
Oxford University Press, 1997.

E. Risi, Università di Milano-Bicocca, Vecchie generazioni e nuovi media, 2006/2007

J. James, M. Versteeg, Tilburg University, Mobile phones in Africa, how much do we really know?,
2007;

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J. Donner, Microsoft research India, The rules of beeping: exchanging messages via intentional 'missed
calls' on mobile phones, 2007;

C. Fuchs E. Horak, University of Salzburg, Africa and the digital divide, 2008

Atsushi Terazono · Shinsuke Murakami · Naoya Abe ·Bulent Inanc · Yuichi Moriguchi · Shin-ichi
Sakai ·Michikazu Kojima · Aya Yoshida · Jinhui Li · Jianxin Yang · Ming H.Wong · Amit Jain · In-Suk
Kim · Genandrialine L. Peralta · Chun-Chao Lin · Thumrongrut Mungcharoen · Eric Williams, Current
status and research on E-waste issues in Asia , Springer-Verlag 2006

Ramzy Kahhata, Junbeum Kim, Ming Xu, Braden Allenby, Eric Williams, Peng Zhang, Exploring e-
waste management systems in the United States, 2007

T H E Journal, The Dirt on E-Waste. By: Schaffhauser, Dian, 2009

Takayoshi Shinkuma , Nguyen Thi Minh Huong , The flow of E-waste material in the Asian region and
a reconsideration of international trade policies on E-waste, 2006
Sostenibilità e dinamiche sociali

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Sostenibilità e dinamiche sociali

  • 1. Sostenibilità e dinamiche sociali Spongebob group Elisabetta Bacconi Fabio Lanza Marcello Tecleme Francesco Tocci Alessia Vidili
  • 2. Indice 1 Introduzione pag. 2 2 Cos'è il digital divide pag. 2 digital divide ed e-government pag. 6 3 Digital divide: diversi casi di studio pag. 8 diverse forme di divario in occidente pag. 10 4 Information Technology e terzo mondo pag. 16 uno squillo per ogni situazione pag. 16 internet e nuovi media: il riscatto del terzo mondo? pag. 18 5 Autori sul digital divide pag. 24 6 E-waste pag. 29 convenzione di Basilea pag. 29 dimensione quantitativa del problema in Italia pag. 32 i rischi per l'ambiente e la salute umana pag. 32 norme e leggi pag. 34 politiche a rifiuto zero pag. 35 7 E-waste nei paesi in via di sviluppo pag. 37 8 Conclusioni pag. 41 9 Criteri di sostenibilità pag. 43 10 Bibliografia pag. 44 11 Sitografia pag. 45
  • 3. INTRODUZIONE Quello che andiamo ad esporre è un lavoro scritto a più mani su due dei principali aspetti critici che hanno accompagnato dall'origine lo sviluppo delle tecnologie elettroniche e digitali: il digital divide e l’e-waste. Per digital divide si intende lo scarto che emerge tra quei soggetti che posseggono prodotti tecnologici di tipo elettronico e digitale, che hanno potenzialmente accesso ad internet e che hanno fatto proprie le competenze minime per farne uso, e quei soggetti che invece si trovano al di fuori di queste possibilità. L' e-waste, definizione anch'essa di origine anglosassone, definisce l'impatto ambientale, assolutamente negativo, causato dai rifiuti elettrici ed elettronici dispersi nell'ambiente, in particolar modo dagli elementi tossici di cui sono composti. Entrambi i temi vengono esaminati all'interno della letteratura esistente in materia, reperendo informazioni utili da autori riconosciuti, riviste scientifiche e fonti di diverso tipo presenti in rete, mantenendo fermo, nel corso delle ricerche, il principio della massima attendibilità. All'interno dei documenti esaminati si è cercato di definire un quadro della situazione a livello locale ed internazionale, con particolare attenzione ai paesi in via di sviluppo ed alle relazioni tra questi ultimi e quelli principalmente produttori di tecnologie. Questi due argomenti apparentemente slegati tra loro hanno al contrario molto in comune: l’aumento sconsiderato dei prodotti elettronici nel mercato non riesce a contrastare il gap del divario digitale e nello stesso tempo pone il problema del loro corretto smaltimento. Da questo empasse si può uscire solo studiando soluzioni che abbiano una sostenibilità cognitiva, economica ed ecologica. COS'E' IL DIGITAL DIVIDE Il termine digital divide viene utilizzato per la prima volta nel 1995, durante l'amministrazione americana Clinton-Gore, quando la National Telecommunications and Information Administration (NTIA), organo consultivo degli Stati Uniti sulle politiche nel settore delle telecomunicazioni, pubblica la relazione “A Survey of the “Have nots” in Rural and Urban America”, la prima di una serie intitolata “Falling Trought the Net”. (http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/fallingthru.html)
  • 4. Tale termine tecnico viene utilizzato in riferimento alle disuguaglianze nell’accesso e nell’utilizzo delle tecnologie della cosiddetta “società dell’informazione” per indicare la non omogenea fruizione dei servizi telematici tra la popolazione statunitense. Divario, disparità, disuguaglianza digitale sono termini che vogliono spiegare la difficoltà da parte di alcune categorie sociali o di interi paesi di usufruire di tecnologie che utilizzano una codifica dei dati di tipo digitale rispetto ad un altro tipo di codifica precedente, quella analogica. Ma la definizione digital divide racchiude in sé complesse problematiche che coinvolgono tutti gli aspetti della vita di una comunità: economici, culturali, sociali. Nel 1999 viene pubblicata una relazione, “Defining the Digital Divide”, (http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/net2/falling.html) in cui si sottolinea che la partecipazione di tutti gli americani nella società dell’informazione era strettamente connessa con lo sviluppo della digital economy. Specificatamente, per quel che concerne Internet, si distinguevano cinque livelli di disparità: • tra la minoranza di connessi e la stragrande maggioranza di non connessi; • tra coloro che utilizzano Internet per una vasta gamma di attività, traendone effettivi vantaggi, e coloro che di vantaggi ne traggono pochi o nessuno; • tra coloro che possono permettersi servizi a pagamento offerti da Internet e coloro che si limitano a utilizzare le risorse gratuite; • tra coloro che utilizzano la rete per effettuare operazioni di e-commerce e coloro che non effettuano alcuna transazione on-line; • tra coloro che beneficiano dell’utilizzo della banda larga e coloro che rimangono imbottigliati nella lentezza della rete. Nello stesso anno si è costituito un “High Level Panel” di esperti di tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la redazione del Millennium Report, pubblicato nell’aprile del 2000 (http://www.un.org/millennium/sg/report/) come base di riflessione per il Millennium Summit delle Nazioni Unite del settembre dello stesso anno. Tale rapporto contiene, tra i molti temi trattati, tre proposte riguardanti specificatamente l’ICT (Information Communication Technology):
  • 5. l’istituzione di un corpo di volontari, denominati cyber troops, incaricati di avviare i paesi in via di sviluppo all’utilizzo di Internet e delle nuove tecnologie; • la costituzione di un Health InterNetwork per costruire e collegare in rete 10 mila siti di ospedali e cliniche nei PVS • la creazione di una rete cellulare e satellitare di pronto intervento - First on the Ground - per affrontare disastri naturali ed altre emergenze. La disparità digitale è, in realtà, solo uno degli aspetti indotti dalla globalizzazione e molteplici sono le relazioni tra la diffusione di questa e la diffusione delle tecnologie dell’informazione. Il ruolo cruciale della ICT nell'evoluzione dell'economia globale assume due aspetti: da una parte dà la possibilità ai paesi di modernizzare i loro sistemi di produzione ed incrementare la loro competitività tanto quanto mai in passato; dall’altra, per quelle economie che non sono in grado di adattarsi al nuovo sistema tecnologico, ritardi sempre più incolmabili. Ampiamente condivisa tra gli studiosi che hanno analizzato il digital divide è che una delle cause principali del fenomeno sia di carattere economico: i paesi in via di sviluppo non sono in grado di acquisire un’alfabetizzazione informatica che è causa stessa del digital divide, il circolo vizioso che si viene a creare porta i paesi poveri ad impoverirsi ulteriormente dato che sono esclusi dalle nuove forme di produzioni di ricchezza. I dati relativi all’accesso ai flussi di informazione forniti dall’UNDP nel rapporto 2000 (http://www.digital-divide.it) sono in tal senso particolarmente significativi: nel 1998 nei paesi ad alto sviluppo umano, circa 41 persone ogni 1000 avevano una connessione ad internet, mentre nei paesi a medio sviluppo umano meno di 1 persona su 1000; il dato relativo ai paesi a basso sviluppo risultava insignificante. E’ interessante analizzare alcuni dati specifici: negli Stati Uniti nel 1998 esistevano 661 linee telefoniche, 459 personal computer e 847 televisioni ogni 1000 abitanti, in Italia 451 linee telefoniche, 173 personal computer e 451 TV, in Colombia 173 linee telefoniche, 28 personal computer e 217 televisioni, in Pakistan 19 linee telefoniche, 4 personal computer, 88 TV, per concludere, in Mozambico 4 linee telefoniche, 2 personal computer e 3 televisioni. Nel corso degli ultimi anni importanti appuntamenti che si sono tenuti in Italia hanno proposto riflessioni e decisioni operative sul digital divide: dal Forum di Napoli - attraverso il quale organismi internazionali quali le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Banca Mondiale hanno discusso di
  • 6. “Cooperazione internazionale e Digital Divide” - a Genova, in occasione dell’incontro del G8, all’interno del quale è stato ripreso ancora una volta il tema della disparità digitale già segnalato come prioritario nella Carta di Okinawa del G8 stesso. Al termine del summit venne sottoscritta una "Carta sulla società Globale dell’Informazione" (http://www.g8.utoronto.ca/summit/2000okinawa/finalcom.htm) in cui si prevede che lo sviluppo e la diffusione dell’ICT coincidano con: • la crescita economica sostenibile, andando di conseguenza ad aumentare il benessere pubblico; • la maggiore coesione sociale; • il potenziamento della trasparenza e della responsabilità dell’azione di governo, quindi lavorare per realizzare compiutamente il potenziale della democrazia; • la promozione dei diritti umani e della diversità. Con questo documento il G8 si incarica, quindi, di promuovere la creazione di una partnership che si impegni a combattere il divario tecnologico nei paesi interessati. In questo contesto viene prevista l’istituzione di una Digital Opportunity Task Force (DOT Force), finalizzata a preparare un rapporto dettagliato riguardante le azioni da intraprendere per ridurre il divario digitale tra i paesi industrializzati e i paesi in via di sviluppo. Attualmente il dibattito sul digital divide si concentra sugli aspetti geopolitici in relazione sia all’accesso, sia ai contenuti dell’ICT, tenendo presente che la “Rivoluzione Digitale” accelera i processi di globalizzazione e moltiplica esponenzialmente il suo impatto. Una delle argomentazioni sostenute da chi vede la diffusione delle ICT come strumento di sviluppo, è che queste possano favorire la partecipazione, la decisionalità e lo scambio di informazioni, consentendo quindi un reale intervento delle persone sulle decisioni che li riguardano. La ICT può garantire la creazione di networks e quindi di spazi pubblici per dibattiti fra le persone, canali attraverso i quali far circolare conoscenze ed esperienze fra le persone e le istituzioni, siti dove fonti di informazione e conoscenza possono essere consultati. Per quanto riguarda specificatamente l’Europa, il segnale più importante rispetto al tema diffuso dell’ICT parte dalla Commissione Europea che, riunita a Lisbona nel marzo 2000, lancia il Piano d’Azione “e-Europe 2002”, nel quale vengono individuati una serie di obiettivi volti a creare un ambiente favorevole allo sviluppo della e-economy in Europa, ad accelerare la connessione di scuole e
  • 7. università a Internet, a stimolare la formazione alle nuove tecnologie e a promuovere l’adozione dell’innovazione da parte di tutti. Le linee d’azione previste dal Piano europeo sono finalizzate al raggiungimento di tre obiettivi prioritari: • realizzare un accesso più economico, rapido e sicuro a Internet; • investire nelle risorse umane e nella formazione, favorendo la partecipazione di tutti all’economia basata sulla conoscenza; • promuovere l’utilizzo di Internet, anche nella pubblica amministrazione e nei servizi, accelerando l’e-commerce e sviluppando contenuti digitali per le reti globali. Alla conclusione del Consiglio europeo di Lisbona, segue l’istituzione di un’iniziativa denominata “e- learning, pensare all’istruzione di domani”. I piani d’azione “eEurope 2002” e “eEurope 2005”, fanno dell’elearning una priorità assoluta per la promozione di una “cultura digitale”. In conclusione, tanti sono gli aspetti e gli interrogativi su come affrontare il digital divide. Oggi più che mai sembra improrogabile fermarsi a riflettere, documentarsi e pianificare azioni sia di educazione allo sviluppo, sia di formazione, che ci consentano di non rimanere impreparati e/o in ritardo nella risoluzione delle disuguaglianze digitali e delle problematiche a questo connesse. Se a livello internazionale si cerca di colmare il divario di accesso fisico alle tecnologie e di affermare un diritto di cittadinanza tecnologica tenendo conto di uno sviluppo economico sostenibile e di maggiore coesione sociale, a livello europeo la tendenza è quella di formare una cultura digitale condivisa. DIGITAL DIVIDE ED E-GOVERNMENT Una problematica di forte rilievo sollevata dall'uso massiccio della tecnologia digitale in quasi ogni settore delle società maggiormente sviluppate è quello del processo di digitalizzazione dell'aministrazione pubblica, comunemente chiamato e-government. Questo processo - unitamente ad azioni di cambiamento organizzativo - consente di trattare la documentazione e di gestire i procedimenti con sistemi digitali, grazie all’uso delle tecnologie dell'informazione e della
  • 8. comunicazione, allo scopo di ottimizzare il lavoro degli enti e di offrire agli utenti (cittadini ed imprese) sia servizi più rapidi, che nuovi servizi, attraverso - ad esempio - i siti web delle amministrazioni interessate. I prerequisiti indispensabili di questo processo sono l'ascolto del cittadino e l'assunzione del suo punto di vista, al fine di fornire un servizio "Citizen-oriented". Queste pratiche sono definite e- Administration, amministrazione elettronica. Il cambiamento successivo è quello politico. Un governo, sia esso statale, regionale o cittadino, grazie alle nuove tecnologie ha la possibilità di coinvolgere maggiormente i cittadini nei processi decisionali. E' la democrazia elettronica, l'e-Democracy. Se si pensa che le amministrazioni locali si collegano in rete, ad esempio, con ministeri, enti di previdenza, camere di commercio, regioni, province, banche e tesoriere, non risulta difficile immaginare il grado di difficoltà in cui incorrono le persone vittime del divario digitale, nell'accedere a tutta una serie di servizi che via via stanno assumendo una forma esclusivamente virtuale. La sostenibilità dei progetti di e-governance (intesa come piena attuazione della partecipazione delle società alla vita pubblica), nei paesi occidentali è limitata da un divario digitale interno - che esclude coloro che ancora non adottano i nuovi media -, a livello globale invece genera squilibri ben più gravi e pericolosi, dal momento che intere nazioni e stati sono esclusi dai centri decisionali. Ciò non fa altro che allargare la voragine tra paesi sviluppati e non, non solo a livello economico, ma anche a livello di partecipazione alle decisioni della comunità internazionale. Ovviamente gli stati, o i continenti, con minore possibilità di utilizzo degli strumenti attraverso cui passano le decisioni globali, resteranno emarginati proprio per una carenza di tipo infrastrutturale, o comunque verranno inseriti in tali processi in una posizione di assoluta subordinazione. Alcuni esempi di innovazioni da cui resteranno esclusi possono essere ad esempio, all'interno di un quadro di e-governance, la firma digitale in primis, lo scambio di denaro attraverso moneta virtuale, la carta d'identità virtuale, la trasparenza delle operazioni delle pubbliche amministrazioni locali, la sanità, ed altri servizi di tipo globale, fino a giungere ai banali acquisti on-line.
  • 9. DIGITAL DIVIDE: DIVERSI CASI DI STUDIO Il digital divide non riguarda solamente il gap esistente tra i paesi in via di sviluppo e le nazioni industrializzate. La diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sta ridisegnando le mappe di povertà e ricchezza, come già detto, aumentando il divario già esistente tra Nord e Sud del mondo e creando nuove zone di esclusione, anche all’interno delle nazioni più sviluppate. La questione del divario tecnologico comprende, infatti, due problematiche distinte che si esplicano in due differenti tipi di divario: • un digital divide interno, riguardante le differenze tra individui all’interno dello stesso paese. • un digital divide internazionale, riguardante le differenze riguardo all’accesso alle tecnologie informatiche tra diversi paesi e generalizzabile nel divario tra paesi del nord e del sud del mondo. Il digital divide interno si manifesta in diversi modi ed è influenzato da diverse variabili. Secondo alcuni autori rappresenta la prima vera frontiera da combattere per i paesi sviluppati. Se non si prende coscienza di questo fatto non si riuscirà ad avere una prospettiva corretta ed equilibrata del divario digitale. (Zocchi, 2003) Il problema, secondo Dutton (2001), è essenzialmente riferito al fatto che esiste una grossa mole di dati che non è possibile filtrare, perciò ogni individuo si trova su di una autostrada informatica tale per cui spazio e tempo non rappresentano fattori determinanti per il divario. Per Castells (2001), invece, questa problematica sembra avere minore rilievo. Le tecnologie si espandono in maniera selettiva, per cui “la velocità di diffusione tecnologica è selettiva sotto il profilo sia sociale sia funzionale. La sequenza differenziale nell’accesso al potere della tecnologia dei popoli, paesi ed aree geografiche, costituisce una causa decisiva dell’ineguaglianza della nostra società.” (ivi). Castells fa notare come in una società dell’informazione come la nostra non siano solo criteri legati a reddito e cultura a determinare l’accesso o meno alle tecnologie, ma anche un criterio di riconoscimento sociale che è proprio di ogni individuo. In poche parole l’appartenenza sociale come
  • 10. categoria si gioca sempre più su un terreno di inclusione nella società della conoscenza e dell’informazione. Tuttavia l’integrazione all’interno di questo tipo di società dipende da una serie di fattori, tutti egualmente importanti e portatori di caratteristiche proprie che non possono essere slegate tra loro. Per comprendere la reale portata del divario è necessario definire in che modo crescano le disuguaglianze. I fattori che contribuiscono a creare distinzioni all’interno della società dell’informazione possono essere sintetizzati in : • reddito, poiché i gruppi sociali più ricchi hanno possibilità di accesso alle ICT e di ricambio tecnologico maggiori; • educazione, poiché gli individui con titoli di studio superiori hanno maggiore possibilità di produrre informazioni corrette; • regione geografica, poiché le zone urbane hanno un tasso di penetrazione delle ICT e di sviluppo dei servizi molto più alto che le zone rurali; • genere, in quanto le donne sono svantaggiate nell’uso e sono sottorappresentate ai vertici della net economy; • età, poiché i giovani risultano più competitivi e più predisposti al cambiamento degli anziani. Alcuni di questi fattori per Zocchi (2003) sono più determinanti di altri. Gli elementi relativi al digital divide interno, pur costituendo un sottoinsieme del divario digitale globale, insistono maggiormente su problematiche di integrazione anagrafica e culturale anziché sull’isolamento geografico, sul reddito e sullo stato di arretratezza strutturale delle comunità. Per quanto riguarda il reddito non è sempre detto che maggior ricchezza significhi maggior accesso alle tecnologie, anche se si può trovare una corrispondenza tra basso reddito disponibile, minore dotazione infrastrutturale e scarsa dotazione di servizi telematici. Comunque, il dato più evidente sottolinea che chi ha un reddito inferiore alla media nazionale, ossia il 35% della popolazione, ha molte meno possibilità di essere on line rispetto al resto del paese. Riguardo al grado di alfabetizzazione informatica e quindi all’educazione in ambito europeo, per esempio, le nuove tecnologie non sono distribuite in maniera uniforme: ad un Nord molto sviluppato si oppone l’arretratezza dei paesi dell’Europa orientale. L’Europa orientale però ha indubbiamente fatto enormi progressi, sia nel campo della digitalizzazione
  • 11. che dell’alfabetizzazione informatica. Nei paesi baltici alcuni progetti sono stati utili per favorire nel giro di alcuni anni la diffusione di una “cultura del computer” (Zocchi, 2003) verso una parte specifica della popolazione, quella studentesca, realizzando un livello di alfabetizzazione informatica comparabile a quello delle democrazie scandinave. DIVERSE FORME DI DIVARIO IN OCCIDENTE In riferimento a ciò che sostiene Zocchi si è scelto di analizzare alcune dicotomie che sembrano particolarmente significative per comprendere in che modo si sviluppa il digital divide interno e che fanno riferimento ai fattori sopra citati: • una prima uomo vs donna • una seconda zone rurali vs zone urbane • una terza giovane vs anziano Per ogni dicotomia saranno presi in esame esempi che fanno riferimento sia a situazioni generali che particolari, sempre nell’ottica di inquadrare il divario digitale interno in riferimento ai paesi sviluppati (quadro europeo e italiano in particolare). Uomo vs donna Sono pochi gli studi che descrivono il ruolo delle donne nell'accesso, nello sviluppo e nella gestione delle tecnologie ICT. Oggi si parla di “gender divide”, il divario di genere che esprime un disequilibrio tra uomini e donne nell'accesso alle nuove tecnologie. I dati a disposizione sono scarsi, sarebbe più facile sapere quale sia il grado di diffusione della banda larga o dei cellulari nei Paesi in via di sviluppo che valutare il gender divide informatico nelle nazioni occidentali. Le principali organizzazioni mondiali hanno attivato solo da qualche tempo programmi per la valutazione globale del gender divide, preferendo sinora lasciare rilevanza a programmi di sviluppo e
  • 12. studi legati a particolari regioni svantaggiate (Sudamerica, Est Asiatico, Centro Africa...) e a casi-studio significativi. Il divario tra uomini e donne nel recepimento delle tecnologie ICT è molto più diffuso di quanto non si pensi. I dati della Commissione Europa relativi all’ Unione a 15 membri indicano che gli scienziati e gli ingegneri donne rappresentavano nel 2001 l'1,5% della forza lavoro continentale e lo 0,8% di quella italiana. Per gli uomini le percentuali salgono rispettivamente al 3,4% e allo 1,9%. Come conseguenza, le donne europee hanno in generale ancora un ruolo secondario quando si tratta di definire l'agenda della ricerca tecnologica. Ma qui, almeno, registriamo come l’Italia sia in una situazione positiva: il 40% dei membri dei board' scientifici delle università italiane nel 2001 erano donne, una percentuale buona se paragonata, per fare qualche esempio, al 23% della Francia, al 29% del Regno Unito e all'11% della Germania. A influire pesantemente sul quanto le tecnologie ICT vengano adottate dalle donne sono anche la struttura sociale della singola nazione, l'accesso all'istruzione di terzo livello (secondo Eurostat l'Italia ha delle statistiche incoraggianti con un 56,2% di donne tra chi partecipa a formazione di terzo livello rispetto a una media UE del 54,6%), il benessere economico, l'età e la distribuzione geografica delle tecnologie. Si è rilevato che averle sul posto di lavoro ha effetti positivi sul generico digital divide ma è la diffusione nelle case che aiuta a limitare il gender divide. L'evoluzione sembra la stessa un po' per tutti i Paesi: quando una nuova tecnologia viene introdotta il gap di adozione tra i due sessi è elevato,man mano si riduce a pochi punti percentuali, anche se non si colma mai, anzi aumenta quando la tecnologia ha un ulteriore ciclo evolutivo. Da diverse valutazioni, fatte nazione per nazione, si evince come il gender divide non sia strettamente legato al digital divide globale e che si risolva quando quest'ultimo viene colmato. Al contrario, diversi Paesi già evoluti tecnologicamente mostrano differenze marcate tra l'uso delle tecnologie ICT tra uomini e donne, mentre nazioni meno avanzate magari non hanno affatto un gender divide. Alcuni spunti interessanti per una riflessione sulle differenze uomo-donna nel panorama italiano emergono dal Settimo rapporto sulla comunicazione Censis - Ucsi (2008), dedicato in particolare alle diete mediatiche dei giovani italiani ed europei, ma che presenta anche dati relativi alla popolazione in generale. Il Rapporto raggruppa i dati in 4 categorie, separate a metà dall'elemento del digital divide: • persone con diete solo audiovisive (tv, radio, cellulare)
  • 13. persone con diete basate anche su mezzi a stampa digital divide • persone con diete aperte a internet • persone con diete aperte a internet ma prive di mezzi a stampa (una categoria su cui il Rapporto dell'anno scorso gettava parecchie domande rimaste aperte) In base a questi dati è risultato che la maggioranza delle donne italiane resta ancora legata ad un modello basato sulla lettura tradizionale (libri e settimanali). “Il contatto con i media, almeno a livello giovanile, sta diventando dunque sempre più simile tra uomini e donne, ma il piacere che ne ricavano rimane abbastanza differenziato. La centralità dell'esperienza della narrazione (siano le storie pubbliche della televisione, quelle universali della letteratura o quelle personali della conversazione telefonica) non è messa in discussione tra le donne, anche tra le più giovani, mentre la composizione a mosaico dell'esperienza del mondo (la giustapposizione delle informazioni nei quotidiani che si trasferisce in internet, ma che si trova anche nella saggistica) risulta sempre preferita tra gli uomini.” Tuttavia la generale tendenza a livello europeo, per quanto riguarda le nuove generazioni, denota come "i consumi maschili e femminili tendono ad uniformarsi" Zone rurali vs zone urbane Molti organismi come Amnesty International, hanno messo in luce la tendenza di un "virus della repressione su internet" (Tim Hancock), per cui in diversi stati si stiano adottando misure volte a limitare il libero accesso alla rete. Nel caso dell’Italia, soprattutto attraverso la rete, sono nate polemiche contro le istituzioni italiane che, secondo alcuni, mettono in atto delle vere e proprie campagne contro Internet per limitare il libero accesso alle informazioni. Per quanto riguarda il livello delle nostre infrastrutture tecnologiche, invece, alcune delle problematiche più sentite dipendono dalla gestione delle reti telematiche e dal fatto che si siano utilizzate tecnologie vecchie per adattarle a nuovi servizi. Tenendo conto di tutti questi aspetti sembra che il divario che si crea tra zone urbane e zone rurali dipenda, non solo dalla più ovvia diffusione dei computer all'intyerno di un paese, ma anche dalle condizioni delle infrastrutture, dall'esistenza di accessi alternativi, che si collega ad una maggiore o
  • 14. minore sensibilità da parte dei governi a regolamentare in materia. A partire dal 2005 in Italia è stato possibile cominciare a realizzare delle reti di connessione ad Internet in modalità wireless. Ma mentre si autorizzava questo tipo di servizio, nel 2006 una legge (Pisanu) impediva ai cittadini la libera connessione ai servizi wireless. Dal sito dell’Aduc la disamina dello stato dell’arte (la penetrazione di banda larga in Italia è al 18%), rileva anche le differenti reti in fibra che oggi esistono (Telecom, Fastweb, Infratel, e alcune società regionali) e ciò che emerge è che, a differenza di altri paesii, l'utilizzo della fibra ottica è scarso. Negli ultimi anni sono stati conclusi degli accordi con alcune regioni nei quali le regioni hanno concesso soldi pubblici a Telecom Italia per allargare la copertura adsl. Secondo le ultime statistiche, infatti, la copertura adsl è aumentata. Nonostante questo, nel nostro paese, il 25% circa dei comuni, quasi tutti piccoli ,anche se non tutti, è ancora limitato ad una connettività parziale a 56k. A livello generale emerge che la disponibilità di infrastrutture di base e i costi necessari per accedervi sono indicatori essenziali per garantire la possibilità ad un paese di usufruire dei vantaggi della rivoluzione digitale. Quello che si nota e che c’è un deficit di informazione, derivante anche dalle differenze tra zone rurali e zone urbane, e che il libero pensiero ormai si trova spesso “ghettizzato” in siti e blog. Anche questo può essere un fattore importante che contribuisce ad aumentare il divario all’interno di un paese. Giovane vs anziano Sempre sulla scia del Settimo rapporto sulla comunicazione Censis-Ucsi, un'analisi annuale del consumo di media intesi come sistema unico e interconnesso, si analizzano i giovani e il loro rapporto con i media (classe d'età 14-29 anni). Il confronto è in questo caso fra il 2003 e il 2007. Se dati come l'uso del cellulare non si sono quasi modificati, dal punto di vista quantitativo spicca l'aumento nell'uso della rete. Una delle interpretazioni possibili di questi dati è che sia proprio internet a trascinare tutti gli altri media. Muta il funzionamento complessivo del sistema: “I giovani si trovano a loro agio in questo contesto e hanno elaborato strategie di adattamento all'ambiente mediatico all'interno del quale sono nati. La molteplicità dei media li spinge a
  • 15. passare da uno all'altro, favorendo in loro la nascita di un vero e proprio nomadismo mediatico, che si accompagna a una forma di disincanto, prodotta dall'integrazione e cioè dall'assenza di una prospettiva gerarchica tra i media.” La parte qualitativa dell'analisi arriva ad un'altra interessante conclusione: “... considerati dal punto di vista della gratificazione personale che si ricava dal contatto con i media, questi dati ci suggeriscono che si sta passando da una situazione in cui si collocavano in alto nella scala dei valori i media orientati verso la passività audiovisiva (tv e radio) ad una realtà in cui si preferiscono i media di tipo alfabetico interattivo (internet e libri).” Si segnala anche una tendenza comune rispetto agli altri paesi analizzati (Italia, Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna): “I giovani europei stanno convergendo verso un modello uniforme di impiego dei media. In tutte le principali nazioni europee i giovani entrano in contatto con un elevato numero di media, internet ha conosciuto un elevatissimo indice di penetrazione, i consumi maschili e femminili tendono ad uniformarsi, ovunque ai primi posti nell'uso abituale dei media si trovano televisione, cellulare e internet, seguiti da radio, libri e quotidiani, sempre a livelli più alti di quanto registrato per le fasce d'età più elevate e tra i giovanissimi queste tendenze risultano ancora più accentuate.” Per quanto riguarda la situazione italiana, lo studio del Censis fa riferimento al problema del "divario generazionale": “... in Italia sembra che i giovani vivano in un altro pianeta rispetto agli adulti, per non parlare della distanza che li separa dagli anziani. L'Italia è il paese in cui, a tutti i livelli, risulta più difficile il ricambio generazionale, ne risulta un quadro in cui ad avere un ruolo dirigente in tutte le realtà operative ... è una generazione estranea ai processi di rapida trasformazione in atto su scala planetaria, che non ne comprende il senso e la portata, che non è in grado di confrontarsi con le classi dirigenti degli altri paesi e che al massimo ha imparato a usare un vocabolario attraverso il quale impiega parole nuove per parlare di cose che non esistono più.” I risultati del rapporto sembrano confermare quello che già parecchi anni fa gli studi sociologici sui giovani e le loro modalità di rapportarsi alle nuove tecnologie, e anche alcuni degli assunti di
  • 16. sociologici come Karl Mannheim (Il problema delle generazioni 1927) avevano portato alla luce. Per Mannheim, per esempio, era importante il ruolo svolto dalla "stratificazione delle esperienze" e ancor di più dalle "prime impressioni", che vanno a fissarsi come concezione naturale del mondo e fungono da base e da metro di giudizio per quelle esperienze che verranno in seguito. In questo modo, un evento qualsiasi sarà interpretato in modo radicalmente differente dai giovani e dagli anziani che vivono nello stesso tempo. La sociologia ci dice che il rapporto che c’è tra i giovani e le ICT, percepite come qualcosa di naturale dai giovani che sono cresciuti nel periodo della sua prima affermazione è estremamente differente da quello degli anziani. Quando le differenze di utilizzo di alcuni media si trasformano in disuguaglianze, diventa cruciale lo studio dei motivi per cui alcuni soggetti abbiano accesso ad una tecnologia oppure la utilizzino in maniera più o meno efficace. Da uno studio fatto all’Università Bicocca di Milano (2006/2007) emerge come il divario generazionale sia così forte ed ampio nella realtà italiana. In riferimento ad alcuni media digitali si nota che mentre l’adozione del cellulare è largamente diffusa (anche se la preferenza d’uso è orientata sulle funzioni base), il divario all’accesso nei confronti dei due artefatti più complessi (computer e Internet) rimane evidente. E’ stato verificato che l’anziano che abbia utilizzato prima del pensionamento un medium come il computer, non ne fa necessariamente un uso anche da pensionato. L’adozione nella propria vita di un nuovo medium sembra essere legata, per coloro che hanno superato le barriere mentali del divario digitale, ai benefici percepiti a miglioramento della qualità di vita. Per tutti coloro che non sono a conoscenza delle potenzialità derivanti dall’uso di questi strumenti, non ne percepiscono l’utilità. Michael Levy, nel 1997 , scriveva che “ogni nuovo sistema di comunicazione fabbrica i propri esclusi” e che “le politiche volontaristiche di lotta contro le disuguaglianze e l’esclusione devono puntare a un guadagno in termini di autonomia delle persone o dei gruppi coinvolti”.
  • 17. Information technology e terzo mondo Se il digital divide in Occidente, e nei paesi industrializzati in generale, pone il problema dell'esclusione di parte della società civile dalla vita pubblica e dal sapere condiviso (si pone cioè sempre più l'accesso all'ICT come un diritto di cittadinanza), nei paesi emergenti e in via di sviluppo esso è chiaramente il risultato di una generale arretratezza economica ed il suo superamento è spesso considerato come una possibilità di recupero del terzo mondo nei confronti del primo. Come vedremo nel corso di questo capitolo, molteplici sono gli argomenti di discussione a proposito dei media digitali nei paesi in via di sviluppo, dalla copertura e l'utilizzo della rete telefonica cellulare, alla diffusione di PC connessi ad Internet, al problema dell'alfabetizzazione informatica. Uno squillo per ogni situazione Il medium digitale il cui uso è maggiormente diffuso ad oggi in Africa, un continente largamente escluso dalla rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni, è il cellulare. Se risulta più che evidente l'importanza di questo mezzo di comunicazione, che ha rivoluzionato senza dubbio i rapporti sociali e lavorativi a livello globale, ancora oggetto di studio sono le sue dinamiche di propagazione e di impiego nel contesto del continente africano. Secondo uno studio realizzato dalla Vodafone, si calcola che circa il 97% della popolazione della Tanzania (uno dei paesi africani più poveri, la cui economia è quasi totalmente incentrata sull'agricoltura) abbia accesso alla telefonia mobile, questo nonostante si calcoli che la penetrazione delle utenze cellulari sia di circa il 2,5%. Questi dati ci indicano chiaramente come nonostante la stragrande maggioranza della popolazione non possieda le risorse economiche per acquistare un cellulare, il suo utilizzo sia estremamente diffuso grazie alla condivisione familiare, ma non solo, dello stesso dispositivo (in tale studio sono considerati utenti di telefonia mobile coloro che utilizzano un cellulare almeno una volta ogni tre mesi). Uno studio sulle utenze del Botswana, ad esempio, afferma che il 62% dei possessori di un cellulare lo condivide con la propria famiglia, il 44% lo condivide con i propri amici, che il 20% lo condivide anche con i propri vicini: tra questi solo il 2% dei possessori di cellulare chiede un compenso in cambio.
  • 18. Rilevanti inoltre sono alcuni progetti di noleggio condiviso di cellulari portati avanti dalla Grameen Bank, esperienza partita dal Bangladesh ed approdata in Africa. Se nella prospettiva di un paese occidentale chi non possiede un cellulare non ha possibilità di comunicare efficacemente, altrettanto non si può dire delle aree rurali dei paesi più poveri, dove informazioni sui mercati agricoli e i trasporti sono essenziali e anche pochi cellulari per centro abitato possono fare la differenza. Altri dati interessanti sono emersi da alcuni studi sull'utilizzo efficiente (cioè economizzando) dei telefoni cellulari. In primo luogo è degna di nota la netta prevalenza di utenze prepagate che non necessitano di rischiosi, economicamente parlando, costi mensili: gli utenti africani infatti (e presumibilmente dei paesi poveri nell'insieme) sono propensi ad acquistare una sim prepagata spesso senza neanche possedere un cellulare. Ancora più importante è l'utilizzo creativo che in molte circostanze viene fatto con i cellulari. Non disponendo di risorse economiche sufficienti, si effettuano chiamate vere e proprie solo quando è assolutamente necessario, utilizzando in tutti gli altri casi un codice comunicativo basato sugli squilli di cellulare. Quest'ultimo comportamento, come recenti studi dimostrano, è globalmente diffuso. Ma se comunicare attraverso uno squillo di cellulare, per un utente occidentale, è solo un divertimento o una soluzione rapida e semplice alla mancanza di credito, nei paesi in via di sviluppo e sottosviluppati può costituire, in alcuni casi, una grande risorsa. Questo fenomeno di “beeping creativo” è diffuso praticamente in tutto il mondo in via di sviluppo, dagli stati africani, a India e Bangladesh, fino alle Filippine e all'America latina. È interessante notare come ogni paese abbia adattato alle proprie tradizioni e culture questa pratica; le norme sociali già presenti in una comunità influenzano le regole di utilizzo degli squilli: così le regole non scritte “il più ricco paga ” e “le donne non apprezzano squilli dai propri pretendenti” riflettono norme di gerarchia economica e di genere fortemente radicate nel tempo in un determinato paese. In uno studio del 2007 (J.James e M. Versteeg), si ipotizza che le considerazioni sul digital divide africano in relazione all'utilizzo di telefoni cellulari sia notevolmente sovrastimato e che i dati sull'utilizzo (riportati in questo lavoro) siano maggiormente indicativi rispetto a quelli sulle utenze. A supporto di questa considerazione si sottolinea come non tutti coloro che hanno fisicamente accesso alla telefonia mobile ne facciano uso, costretti dalle proprie condizioni di vita a confrontarsi con problemi cui le tecnologie di comunicazione non possono rispondere.
  • 19. Internet e nuovi media, il riscatto del terzo mondo? La maggior parte degli studiosi riassume, identifica, il problema del digital divide come il divario tra chi ha e chi non ha accesso alla tecnologia dei computer e di Internet (Van Dijk, 2006). Nel momento in cui anche i paesi in via di sviluppo iniziano a confrontarsi con Internet e i nuovi media in generale, è importante andare ad osservare come questi ultimi influiscano nel riscatto dei paesi più poveri della terra, e di come le diseguaglianze già presenti tra terzo e primo mondo, e tra gli stessi abitanti dei paesi poveri, si perpetuino o modifichino. Van Dijk e Hacker (2003) suddividono quattro diversi tipi di digital divide che possono essere isolati: • la mancanza di “accesso mentale”: cioè la mancanza di una elementare esperienza digitale; • la mancanza di “accesso materiale”: cioè la mancanza concreta di PC e connessioni internet; • la mancanza di “accesso alle abilità”: la mancanza di abilità tecniche digitali; • la mancanza di “accesso di uso”: la mancanza di opportunità di utilizzo sensato; Nonostante questa suddivisione renda l'idea di una molteplicità di requisiti indispensabili per poter trarre frutto pienamente dalle nuove tecnologie, esse non descrivono esaurientemente il problema. P. Norris e J. James affermano che il problema non è altro che un aspetto della grande diseguaglianza economica tra paesi ricchi e paesi poveri, ma che i paesi in via di sviluppo non soffrono solo l'esclusione economica, ma anche la privazione di peso politico e delle pratiche culturali indispensabili per far parte della società dell'informazione. A dimostrazione di quest'ultima affermazione gli autori hanno dimostrato come l'indice HDI (human development index) sia fortemente correlato alla penetrazione di connessioni internet negli stati africani: gli stati con un reddito pro-capite più basso, un'istruzione media scarsa, e un aspettativa di vita media più bassa, hanno gli indici di penetrazione più bassi. Hardt e Negri (2000) si sono spinti oltre, sfruttando la metafora dell'impero nel descrivere un assetto decisionale globale le cui regole economiche e politiche sono appannaggio esclusivo dei paesi industrializzati (Usa, Europa e Giappone) a scapito del mondo in via di sviluppo. L'elaborazione di una strategia per il superamento del digital divide, secondo questi autori , non può prescindere dal superamento di questo assetto globale. Un esempio di politica dettata dal mondo occidentale e almeno
  • 20. in parte fallimentare sono gli Structural Adjustment Loans (piani di aggiustamento strutturale), un sistema di prestiti gestito dalla Banca Mondiale per lo sviluppo dei paesi poveri, vincolato, tra le altre cose, alla liberalizzazione e privatizzazione delle telecomunicazioni degli stati beneficiari. Gli autori definiscono questa imposizione della Banca Mondiale come parte di un più ampio “cultural colonialism”, una critica più che legittima considerando la struttura organizzativa dell'organismo internazionale citato, il cui controllo è nelle mani dei paesi occidentali1. Importante da questo punto di vista è l'esperienza del Sud Africa, paese che a partire dal 1995 ha liberalizzato e privatizzato il proprio sistema di telecomunicazioni per permettere investimenti privati nel settore, ponendo l'obbligo agli investitori di espandere la copertura territoriale di telefonia e connessione ad internet. I dati rilevati mostrano chiaramente come non vi sia una significativa correlazione tra l'entità degli investimenti effettuati di anno in anno e l'incremento degli utenti di PC ed Internet. Più precisamente, da tali dati si è registrato un aumento lento e progressivo degli utenti rispetto ad un andamento degli investimenti inizialmente in forte crescita e poi in drastico calo: se le possibilità di accesso alle nuove tecnologie e la copertura di telefonia ed internet sono significativamente migliorate con i nuovi capitali, molte delle cause del divario digitale (tra cui in primo luogo i costi di accesso ai servizi) sono rimaste pressoché invariate. Cade quindi l'ipotesi che il superamento di questo divario possa essere raggiunto principalmente grazie alla concorrenza di più operatori: questa soluzione non tiene assolutamente conto delle diseguaglianze di reddito, istruzione e abilità informatica, che caratterizzano fortemente le popolazioni di questi paesi. Uno studio più specifico sul tema del digital divide (Stale Angen Rye, 2008), esamina i fattori ambientali che influiscono sull'utilizzo dei nuovi media. Il caso presentato analizza due gruppi di studenti indonesiani che seguono corsi universitari a distanza: il primo proveniente da un'area metropolitana, il secondo da un'area rurale. Nel rilevare ed analizzare le due diverse esperienze, lo studio presta attenzione a quattro tipi di accesso indispensabili: la motivazione, la proprietà materiale di PC, le abilità necessarie ad utilizzare PC connessi ad internet e la possibilità di fare di questa tecnologia un uso proficuo. L'autore dimostra che gli studi quantitativi relativi alla connettività dei paesi del terzo mondo non sono sufficienti a spiegare le diseguaglianze tra regione e regione di uno stesso paese: in effetti, anche tra studenti fortemente motivati a seguire corsi a distanza che si appoggiano alla rete, vi sono fattori puramente qualitativi che compromettono la possibilità di un uso proficuo di certi 1 The World Bank is run like a cooperative, with member countries as shareholders. The number of shares a country has is based roughly on the size of its economy. The United States is the largest single shareholder, with 16.41 percent of the votes, followed by Japan (7.87 percent), Germany (4.49 percent), the United Kingdom (4.31 percent) and France (4.31 percent). The rest of the shares are divided among the other member countries.
  • 21. strumenti. Nell'area rurale oggetto di studio, gli studenti sono penalizzati da connessioni internet di bassa qualità e, pur avendo la possibilità di studiare anche nei propri posti di lavoro (la maggior parte dei soggetti lavora ed ha un'età tra i 30 e i 50 anni), essi non sono in grado di sfruttare i vantaggi che una comunicazione in rete tra studenti e con i docenti darebbe loro. Viceversa, gli studenti dell'area urbana, pur gravati da ritmi di vita più opprimenti e non potendo studiare nelle ore di lavoro, beneficiano di un maggiore scambio di informazioni dovuto al maggior numero di PC connessi alla rete e connessioni migliori. Si ritiene generalmente che i problemi di accesso passino inizialmente da problemi motivazionali e di accesso fisico, a problemi di capacità informatiche e opportunità di utilizzo delle stesse. Lo studio empirico effettuato sugli studenti a distanza indonesiani, mostra come la realtà sia più complessa: le analisi mostrano come gli studenti delle aree periferiche fossero fortemente motivati ad utilizzare internet, ma che questa motivazione fosse frenata dalla difficoltà di accedere alla tecnologia; che gli studenti metropolitani avessero buone capacità informatiche ma che pressioni maggiori in ambito lavorativo e familiare, frenassero il pieno sfruttamento della tecnologia. Questo va a dimostrazione che le aree rurali di un paese in via di sviluppo non andrebbero considerate semplicemente come zone “un passo addietro” rispetto alle aree metropolitane. Lo studio dell'accesso informatico nelle due aree, piuttosto, andrebbe affrontato considerando le due diverse situazioni come contesti dove le “condizioni di accesso” sono in relazione tra loro in modi diversi. Nello studio proposto da Fucks e Horak (2008) sono riassunte alcune delle strategie proposte negli anni per il superamento del divario digitale. Gli autori le riportano una ad una criticandone l'approccio e proponendo una propria strategia più ampia: 1. aspettare ed osservare: lo sviluppo tecnologico e il mercato garantiranno un accesso alle tecnologie più economico; I fatti hanno mostrato come attendere non abbia prodotto risultati: il divario di ricchezza ed accesso alla tecnologia tra primo mondo e terzo mondo, nei fatti, si va ampliando. 2. entrando nel mercato e competendo, i paesi del terzo mondo saranno capaci di entrare nella società dell'informazione scavalcando alcune tappe; lo “scavalcare tappe” avviene in una certa misura nelle economie africane che hanno liberalizzato la
  • 22. propria economia, questa innovazione però è chiaramente riservata alla classe agiata dei paesi in via di sviluppo piuttosto che alla popolazione nel suo complesso. 3. attrarre capitali stranieri aumenterà il benessere e l'accesso alle nuove tecnologie; l'ingresso di capitali stranieri, aiuti e prestiti dalla banca mondiale, di fatto, non ha portato ad una redistribuzione di ricchezza dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo: le transazioni in entrata rispetto a quelle in uscita (sotto forma di debito estero) rimangono a sfavore dei paesi del terzo mondo (Fuchs 2002, pag. 370). 4. tecnologie per il terzo mondo (PC usati e OLPC); progetti come One Laptop Per Child(http://laptop.org/en/) riescono effettivamente ad introdurre un maggior numero di PC nei paesi in via di sviluppo, così come la grande quantità di hardware informatico obsoleto o difettoso “donato” dai paesi industrializzati. Il problema di questo approccio al digital divide è che oltre a produrre un nuovo flusso di ricchezza dai paesi sottosviluppati a quelli industrializzati (l'OLPC non viene prodotto in Africa per intendersi), dà in dotazione a queste società PC dall'hardware inferiore al livello di quello utilizzato nei paesi industrializzati, perpetrando una forma (pur meno grave) di diseguaglianza, e lascia nei paesi del sud del mondo grandi quantità di materiale tecnologico obsoleto (generando quell'e-waste di cui ci occuperemo più avanti). Ciò di cui hanno bisogno i paesi in via di sviluppo sono PC competitivi, la cui diffusione non gravi sulla bilancia commerciale (non sia un “affare” per le industrie occidentali a scapito dei mercati del sud del mondo) e che adottino la filosofia dell'open source. Il software open source dà all'utente quattro libertà molto importanti: • la possibilità di utilizzare il software senza limitazioni; • la possibilità di studiare come funziona il software, di disporre cioè del codice sorgente; • la possibilità di redistribuire lo stesso software ad altri; • la possibilità di migliorare il software e diffonderlo nuovamente agli altri utenti.
  • 23. 5. il terzo mondo non ha bisogno di tecnologia; alcuni studiosi hanno affermato che i paesi in via di sviluppo non hanno bisogno di tecnologia, ma che i loro problemi veri sono povertà, mancanza di copertura sanitaria adeguata ed istruzione, ad esempio. Si può rispondere a queste affermazioni ricordando che l'informazione e la comunicazione sono diritti primari al pari della sicurezza sociale, così come sancito dall'Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.” Nella società attuale Internet e i nuovi media sono sicuramente veicolo dell'opinione pubblica, ecco perché l'esclusione da essi provoca diseguaglianza. 6. una strategia integrata che combini: redistribuzione globale della ricchezza, programmi per il sostegno alla salute e all'educazione, programmi per l'alfabetizzazione digitale, accesso gratuito e pubblico alle nuove tecnologie, tecnologia open source e computer per il terzo mondo (prospettiva degli autori dello studio); “Tutte e cinque le strategie discusse in precedenza sono riduttive e unidimensionali, non considerano le interconnessioni tra le condizioni minime di accesso, i fattori sociali, le ineguaglianze dello sviluppo, i diritti umani e il capitalismo globale. Per combattere il digital divide una ridistribuzione delle risorse è fondamentale come precondizione. Se si tratta di una possibilità concreta la cosa migliore da fare è realizzarla. Ma questo richiede un ripensamento generale della società globale, perché il digital divide non è solamente un problema tecnologico, ma anche un problema economico, sociale e politico. Il digital divide non è solamente un divario nell'accesso e beneficio della tecnologia, ma anche un'espressione di un più generale divario di ricchezza e potere (cit. Fuchs e Horak, 2008) .
  • 24. AUTORI SUL DIGITAL DIVIDE Numerosi autori si sono interessati alle mutazioni che intervengono all'interno di una società con l'introduzione di sempre nuove ICT. In particolar modo il sociologo spagnolo Manuel Castells in un suo testo del 2001, Galassia Internet, dedica un intero capitolo al digital divide, affrontandolo da una prospettiva globale. Il digital divide cui fa riferimento riguarda, oltre che la presenza o meno di tecnologie fisiche, infrastrutture, soprattutto la possibilità di accesso ad internet, che varia in maniera considerevole in base all'età, alla residenza, al reddito, all'etnia di appartenenza, alla professione ed accesso al lavoro. Castells definisce il digital divide come “diseguaglianza nell'accesso ad internet [...] L'accesso da solo non risolve il problema, ma è un prerequisito per superare la disuguaglianza in una società le cui funzioni e gruppi sociali dominanti sono sempre più organizzati intorno ad Internet”. Nella sua analisi Castells si è affidato ai dati americani, poichè, nel momento della sua indagine, negli Stati Uniti si trovava una valida fonte statistica che ha analizzato l'accesso differenziato a Internet a partire dal 1995: l'indagine su un campione rappresentativo della popolazione statunitense condotta dal National Telecommunications and Information Administrator (NTIA) del Dipartimento del commercio americano. In termini di reddito, prendendo come estremi un guadagno dai 75.000 dollari annui in su e dai 15.000 in giù, dei primi il 70,1 per cento godeva di un accesso ad internet, dei secondi soltanto il 18,9 per cento. Anche per quanto riguarda l'istruzione il gap è molto evidente: tra le persone con un diploma universitario superiore, il 74,5 per cento aveva accesso ad internet, tra quelle senza diploma soltanto il 21,7 per cento. Un'altra divisione fortemente interessata dal divario digitale era, nella ricerca di Castells, l'età: solo il 29 per cento delle persone sopra i 50 anni aveva accesso ad internet, in contrasto con il 55,4 per cento del gruppo di età 25-49, il 56,8 per cento del gruppo 18-24 e il 53,4 del gruppo 9-17. Se si pensa poi che l'appartenenza alla forza lavoro fornisca un 56,7 per cento di utenti connessi contro il 29 per cento di coloro che non avevano un impiego, risulta anche più semplice capire come l'età dell'informazione non sia cieca neanche al colore. Difatti il 50,3 per cento di bianchi e il 49,4 per cento degli asiatico-americani aveva accesso a internet, ma solo il 29,3 per cento degli afro-americani e il 23,7 per cento degli ispanici. Tale fenomeno è spiegabile appunto prendendo in considerazione il fatto
  • 25. che gli afro-americani hanno un grado inferiore di accesso al lavoro. Analogamente accade col divario generazionale, che si ipotizzava derivare dall'incapacità delle fasce più anziane della popolazione di apprendere il funzionamento delle nuove ICT ed adattarvisi. Se questi facessero parte della forza lavoro, afferma Castells, avrebbero una probabilità circa tre volte superiore di essere utenti di internet. Per quanto riguarda il divario di genere, nell'agosto 2000 era quasi scomparso in America in termini di accesso: tra gli individui, il 44,6 per cento degli uomini e il 44,2 per cento delle donne erano utenti di internet. Risulta evidente, dunque, che ciò che conta sempre di più nel determinare l'accesso ad internet, oltre alle caratteristiche sociografiche, è il rapporto dei singoli col lavoro, dato che internet diventa uno strumento professionale indispensabile. Inoltre, essendo internet una tecnologia formata dagli stessi utenti in misura molto maggiore di qualunque altra, sostiene Castells, questa finisce per rispecchiare la condizione di disuguaglianza sociale in cui essa stessa ha avuto luogo. L'autore pone poi all'attenzione una nuova problematica, ovvero, qualora una fonte di disuguaglianza sembra attenuarsi, ne emerge subito un'altra: si tratta ora dell'accesso differenziato al servizio ad alta velocità a banda larga. Difatti l'evoluzione dei programmi informatici, dei siti web, e di tutti i progetti e servizi disponibili in rete, si basa sempre di più sull'alta velocità di connessione. Diretta conseguenza di tale tendenza è il passaggio da comodità a vera e propria necessità della banda larga, per evitare di cadere nel vortice dell'esclusione. Un'altra dimensione degna di riflessione sul digital divide sta in quello che Castells definisce Gap Cognitivo. Egli afferma nel proprio testo che se esiste un consenso intorno alle conseguenze sociali dell'incrementato accesso all'informazione è che l'istruzione e l'apprendimento continuo diventino risorse essenziali per il successo professionale e lo sviluppo personale. Nella sua previsione il sociologo spagnolo aveva indovinato la rapida inclusione di internet come strumento educativo in tutto il sistema scolastico, supponendo che nelle società avanzate sarebbe stato presente nelle classi come il computer. Ciò comporta però che l'uso di internet e la tecnologia educativa non possano e non debbano prescindere dalla buona qualità degli insegnanti. Tale concezione però si scontra con un considerevole ritardo tra l'investimento in hardware tecnologico e connettività online da un lato, e investimento nella
  • 26. formazione degli insegnanti e assunzione di personale esperto in tecnologia, dall'altro (Bolt e Crawford , 2000). Un tipo di apprendimento basato su internet però non richiede soltanto delle competenze pratiche in fatto di tecnologia, bensì cambia proprio il genere di istruzione richiesta sia per lavorare su internet, sia per sviluppare la capacità di apprendimento in un'economia e in una società basate su internet. Il cambio di prospettiva da adottare, secondo Castells, è dunque da apprendimento all'apprendimento-ad- apprendere, date appunto l'immensa mole di informazioni presenti online e la necessità/capacità di decidere cosa cercare, come rintracciare le notizie utili e come usarle per lo scopo prefissatosi in origine alla ricerca. La domanda che si pone l'autore è dunque: come si relazione questo squilibrio educativo al divario digitale? Egli propone quattro livelli: • Primo livello: la differenza tra scuole pubbliche e private porta con sé automaticamente anche una differenza di classi ed etnie nonché una sostanziale spaccatura in termini di tecnologie disponibili. • Secondo livello: l'educazione all'utilizzo delle tecnologie richiede insegnanti competenti, tuttavia la qualità di insegnamento è distribuita irregolarmente tra le scuole. • Terzo livello: c'è una sostanziale differenza nei metodi d'insegnamento che vedono da una parte l'attenzione allo sviluppo intellettuale e personale dei bambini, dall'altra una preoccupazione alla capacità di mantenere la disciplina e tenere a bada i bambini facendoli crescere attraverso i vari livelli di studio. Nel complesso le scuole delle classi alte e medie tendono a essere più attente all'apertura mentale rispetto a quelle delle aree a basso reddito. • Quarto livello: in assenza di un'adeguata formazione e disponibilità di risorse materiali all'interno delle scuole in fatto di educazione all'utilizzo di internet, saranno i genitori a dover fornire insegnamenti in materia ai propri figli, insegnamenti spesso carenti ed effettuati mentre sono i genitori stessi in fase di apprendimento. Tali condizioni delineano un panorama che vede i bambini delle famiglie svantaggiate in posizioni assai più arretrate rispetto ai loro coetanei con maggiori capacità di trattamento delle informazioni derivate dalla loro esposizione a un ambiente domestico meglio istruito. Le capacità di apprendimento differenziate, in condizioni intellettuali ed emozionali simili, sono
  • 27. correlate al livello culturale e d'istruzione della famiglia. Se queste tendenze fossero confermate, afferma Castells, in assenza di misure correttive l'uso di internet, a scuola come nella vita professionale, potrebbe amplificare le differenze sociali radicate in classe, istruzione, genere ed etnicità. Un'altro degli autori in materia di tecnologia digitale che hanno preso a cuore la questione del digital divide, tentando in qualche modo di limitare il problema è stato Nicholas Negroponte, informatico statunitense celebre per i suoi studi innovativi nel campo delle interfacce tra l'uomo e il computer, nonché autore del best-seller “Being digital” del 1995. Insieme alla moglie Elaine si è profondamente interessato al divario digitale e informativo dei paesi del terzo mondo. Entrambi hanno già avviato con successo ben tre scuole in Cambogia, fornendole di computer e connessione a banda larga. A seguito di questa esperienza, Negroponte ha cominciato a portare avanti un progetto ambizioso: portare l'informatizzazione e i dispositivi informativi come i computer là dove a malapena giunge la corrente elettrica. L'annuncio è stato dato il 28 gennaio 2005 a Davos (Svizzera), durante il Forum Economico Mondiale di quell'anno. In quella sede Negroponte ha anche affermato di avere già importanti partner commerciali pronti a fornire tecnologie, cervelli e fondi, per comparire nella lista dei finanziatori, tra cui AMD, Google, Motorola, Samsung e News Corporation (facente parte del gruppo di Rupert Murdoch). Il progetto viene destinato, per il momento, ad alcuni paesi ben precisi come la Thailandia, l'India e la Cina. E proprio quest'ultima ha dimostrato molto interesse sia per la tecnologia molto semplice e a basso costo che potrà essere portata facilmente in tutto il vasto Paese, sia per la già espressa voglia di indipendenza da prodotti costosi e proprietari. L'idea di fondo è quella di un computer, portatile, tecnologicamente non costoso (intorno ai 100 dollari), elettricamente non troppo oneroso, con una suite completa di programmi non proprietari, orientato alla connessione ed indirizzato principalmente alle nuove generazioni. Oltre a ciò bisogna considerare il fatto che i paesi citati non offrono situazioni meteorologiche ottimali per i computer, fuori dagli uffici climatizzati e ben aerati, quindi il grande test tecnologico che questi computer dovranno superare sarà la loro funzionalità e adattabilità a polvere, umidità, scossoni, cadute e bagnato. Un ulteriore problema che i ricercatori dovranno risolvere è la facilità di riparazione, visto che i luoghi da immaginare per questi pc sono zone rurali contadine in cui la città più vicina si trova a cento chilometri di distanza e un viaggio sino ad essa è un'avventura. La distribuzione di questi 'gioiellini', poco potenti e scarsamente attraenti davanti alle tecnologie informatiche a cui l'occidente è abituato, ma vitali in quelle aree, seguirà un progetto ancor più ampio che non è solo di informatizzazione, bensì di istruzione. Il fine principale infatti sarà quello di sostituire i libri di testo con delle poco costose copie in formato digitale.
  • 28. Una risposta, in qualche modo critica, a Negroponte, proviene da Derrick De Kerckhove, direttore del Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia a Toronto, il quale, in un'intervista al Corriere Economia dell'aprile 2007 afferma: «Credo poco al superamento del digital divide grazie a computer da 100 dollari. Semmai, vedo dispositivi più simili al telefonino e comunque legati a tecnologie Wi-fi e Wi- Max: purchè siano disponibili gratuitamente. Il problema dunque è politico, non tecnologico. È legato alla volontà di superare le barriere monopolistiche di chi pone paletti al f ree-wireless, alle comunicazioni globali a bassocosto».
  • 29. E-WASTE Negli ultimi anni la grande diffusione delle tecnologie ha portato con sé problematiche relative allo smaltimento, al riciclo e al recupero dei prodotti. I rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), in inglese "Waste of Electric and Electronic Equipment" (WEEE) o "e-waste", sono rifiuti che consistono in qualunque prodotto elettronico in disuso di cui il possessore si vuole liberare. Questo tipo di spazzatura è molto inquinante per l’ambiente e contiene diverse sostanze chimiche tossiche e materiali nocivi pericolosi per l’uomo, che se non vengono smaltite nel modo corretto possono avere un forte impatto la salute delle persone. Convenzione di Basilea La Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro
  • 30. eliminazione (UN, 1989) è un trattato che regola e cerca di ridurre il trasporto di rifiuti pericolosi da un paese all'altro, occupandosi nello specifico di importazione in paesi in via di sviluppo. La Convenzione è stata redatta nel 1989, ed è entrata pienamente in attività nel 1992. Al marzo 2009 gli unici paesi a non aver ratificato la convenzione erano l'Afghanistan, Haiti e gli Stati Uniti d'America. I tre stati hanno però già firmato il trattato, si avvicina quindi la ratifica che porterà nei prossimi anni tutti i paesi aderenti alle Nazioni Unite ad aver aderito ufficialmente alla Convenzione. La Convenzione di Basilea definisce quali sono i rifiuti considerati pericolosi e cerca di limitare fortemente il trasporto di questi da paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo. In caso di trasporti di rifiuti prevede comunque che questi vengano schedati e che il loro intero percorso sia tracciato dalle Nazioni Unite. Nel 1995 il trattato è stato implementato dal Basel Ban Amendment!!!, che vieta il trasporto di qualunque rifiuto da un paese all'altro, neanche per riciclaggio. Questo divieto ha visto l'opposizione dura di USA e Canada, insieme ad alcune industrie multinazionali. L'Emendamento non è ancora stato rettificato da molti paesi; in ogni caso le nazioni ad averlo firmato sono 63 sulle 62 richieste perchè il trattato venisse accolto dalle Nazioni Unite!!!. Questo divieto è diventato pienamente operativo nell'Unione Europea, che lo ha accolto con il Wastment Shipment Regoulation (EWSR)!!!. In seguito alla nascita della Convenzione è stato creato un ente di controllo: il Basel Action Network (BAN), il quale si occupa del controllo del traffico di e-waste, oltre ad essere responsabile per le ispezioni nei siti di stoccaggio, smaltimento e riciclaggio dei rifiuti. I RAEE Secondo il decreto attuativo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, che definisce la gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, gli AEE sono le apparecchiature che dipendono per un corretto funzionamento da correnti elettriche o campi elettromagnetici e le apparecchiature di generazione, trasferimento e misura di queste correnti e campi, progettate per essere usate con una tensione non superiore a 1000 Volt per la corrente alternata e a 1500 Volt per la corrente continua (Ministero dell'ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, 2007) Sono AEE:
  • 31. Grandi elettrodomestici • Piccoli elettrodomestici • Apparecchiature informatiche per telecomunicazioni • Apparecchiature di consumo • Apparecchiature di illuminazione • Strumenti elettrici ed elettronici (ad eccezione degli utensili industriali fissi di grandi dimensioni) • Giocattoli ed apparecchiature per lo sport e per il tempo libero • Dispositivi medici (ad eccezione di tutti i prodotti impiantati ed infettati) • Strumenti di monitoraggio e controllo • Distributori automatici Non sono AEE (quindi non rientrano nella direttiva RAEE): • I dispositivi medici impiantabili ed infettati • Gli utensili industriali fissi di grandi dimensioni • Le apparecchiature connesse alla tutela di interessi essenziali della sicurezza nazionale • Le armi, le munizioni ed il materiale bellico purché destinati a fini specificatamente militari • Sistemi centralizzati non funzionanti autonomamente (citofonia, video citofonia, sistemi di allarme, antincendio, rilevazione fumo e gas) I RAEE sono le apparecchiature elettriche ed elettroniche giunte a fine vita. La norma divide i RAEE in 3 categorie: • RAEE provenienti dai nuclei domestici • RAEE professionali • RAEE storici: RAEE derivanti da apparecchiature elettriche ed elettroniche immesse sul mercato prima del 13 agosto 2005 RAEE sono le apparecchiature intere, e non parti di esse. Questa suddivisione è utile per fini burocratici allo scopo di regolamentare la tassazione e il corretto smaltimento.
  • 32. DIMENSIONE QUANTITATIVA DEL PROBLEMA IN ITALIA In Italia si stima che ogni abitante ha prodotto nel 2006 circa 14 chili di rifiuti elettronici con un totale di circa 800.000 tonnellate, di cui 108.000 sono stati raccolti in maniera separata. Questo significa che sono stati raccolti un po’ meno di 2 chili di rifiuti pro capite a dispetto dei 4 chili imposti dalla Comunità Europea e i 6 della media europea. Come si evince da queste stime in Italia siamo ben lontani dal target della direttiva europea e gli enormi volumi di rifiuti elettronici generati hanno imposto la necessità di modificare l’approccio verso questi prodotti adottando politiche di riuso, riciclo e smaltimento corretto dei RAEE. Dal sito istituzionale del Centro di Coordinamento dei RAEE oggi si contano in Italia 2.893 Centri di Raccolta che secondo gli esperti del settore non sono sufficienti per la migliore gestione dei rifiuti e non sono distribuiti in maniera uniforme nel territorio. Secondo un’inchiesta di Greenpeace sui rifiuti tecnologici infatti, le 8 regioni del nord (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) contano addirittura 2.172 aree di raccolta rifiuti, contro le 325 del Centro (Toscana, Umbria, Molise e Lazio) e le 302 delle rimanenti sei regioni del sud. Sardegna e Sicilia si trovano con soli rispettivamente 62 e 32 centri di raccolta. Questo significa che se nel Settentrione esiste un Centro di Raccolta ogni 12.500 abitanti, scendendo lungo la penisola si nota un aumento del numero di persone servite da una singola aree di raccolta. Nel Centro si ha un CdR per ogni 36.000 persone, contro le 46.000 del Sud e le oltre 71.000 delle isole. Questi dati ci danno un’idea della dimensione del problema, che, nonostante le preoccupazioni dei governi, è in rapida crescita per l’aumento spropositato del numero di prodotti elettronici in tutto il mondo. I RISCHI PER L’AMBIENTE E LA SALUTE UMANA La contaminazione ambientale derivante da uno scorretto smaltimento di tecno-spazzatura riguarda l’ambiente in tutte le sue forme: l’acqua, l’aria e il suolo. Questo chiaramente si ripercuote nella salute umana. Per smaltimento non corretto s’intende la messa in discarica o la termodistruzione dei RAEE, interi o parti di essi che contengano ancora sostanze utili o nocive.
  • 33. Un trattamento non appropriato e uno smaltimento non corretto dei RAEE comporta: • La diffusione nell’ambiente di sostanze pericolose per la salute pubblica; • La distruzione o comunque lo spreco di materiali che possono essere reimpiegati nel ciclo produttivo, con conseguente impoverimento di risorse presenti in quantità limitata sul nostro pianeta. In generale negli apparecchi elettrici ed elettronici si trovano diverse sostanze dannose come piombo, mercurio, cadmio, cromo esavalente, oli minerali e sintetici, PCB (policlorobifenili) e altri idrocarburi. Molti di questi elementi si accumulano nell’ambiente provocando effetti acuti e cronici sugli organismi viventi, spesso con danni irreversibili alla salute. Secondo l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo dell’Ambiente (ARPA) le sostanze nocive contenute nei rifiuti elettrici e elettronici sono: CFC/HCFC: I clorofluorocarburi e gli idroclorofluorocarburi sono presenti nei circuiti di refrigerazione di frigoriferi/congelatori e condizionatori nonché nelle schiume poliuretaniche del rivestimento esterno degli stessi. Essi sono in grado di raggiungere intatti la stratosfera e di reagire con le molecole di ozono formando ossigeno semplice. Questo provoca l’assottigliamento della fascia di ozono, il quale determina un aumento delle radiazioni ultraviolette che sono causa di tumori alla pelle, malattie agli occhi, indebolimento del sistema immunitario; negli ultimi anni i casi di melanoma sono raddoppiati. PIOMBO: È contenuto nelle batterie e nelle saldature degli apparecchi. Si accumula nell’ambiente provocando effetti tossici acuti e cronici alle piante, agli animali e ai microorganismi. Nell’uomo può causare gravi danni al sistema nervoso centrale e periferico, a livello vascolare. CADMIO: Si trova in componenti, semiconduttori e tubi catodici di vecchio tipo. Può provocare danni irreversibili ai reni e al sistema osseo, causa di disturbi alla crescita. È considerato cancerogeno. MERCURIO: Si trova in termostati, sensori, interruttori, attrezzature medicali, apparecchi di telecomunicazioni e cellulari. Viene assorbito facilmente dagli organismi e trasferito, tramite i pesci, nella catena alimentare. Nell’uomo provoca danni al cervello, al coordinamento, al bilanciamento. CROMO ESAVALENTE: Usato per ridurre l’infiammabilità di componenti ed apparecchi elettrici ed elettronici, è presente in ritardanti di fiamma bromurati. Solubile in acqua, anch’esso entra nella catena
  • 34. alimentare tramite i pesci. È tossico per l’ecosistema marino e nell’uomo provoca reazioni allergiche e bronchiti asmatiche ed è in grado di attraversare la membrana cellulare e danneggiare il DNA. È ritenuto cancerogeno. POLICLOROBIFENILI (PCB): Allo stesso modo del cromo esavalente, questi sono usati per ridurre l’infiammabilità di componenti elettronici. Tossico per l’ecosistema marino, entra nella catena alimentare tramite i pesci. Causa di reazioni allergiche e bronchiti asmatiche nell’uomo può danneggiare il DNA. È riconosciuto cancerogeno NORME E LEGGI Negli ultimi anni, la gestione del fine vita delle apparecchiature elettriche ed elettroniche è diventata un problema a livello mondiale da affrontare in modo puntuale per difendere l’ambiente e sostenere lo sviluppo. Un incremento significante nella generazione delle apparecchiature elettriche e elettroniche (AEE) ha indotto molti stati a implementare politiche a occuparsi delle ragioni e delle conseguenze di questo sviluppo. Nonostante i politici di tutto il mondo stiano reagendo alla rapida crescita dei rifiuti elettrici e elettronici, questa reazione è strutturata da azioni prese dai singoli stati configurando un mosaico di politiche diverse. In Europa il tema dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche è regolamentato dalle direttive europee 2002/95/CE, 2002/96/CE e 2003/108/CE sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze pericolose nelle Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche e sulla gestione del fine vita della medesima tipologia di apparecchiature. Tale direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 25 luglio 2005 n. 151 attuata solo a partire dal 1° Gennaio 2008. Il decreto ha l’obbiettivo di arrivare alla raccolta media pro-capite di 4 Kg l’anno per abitante (circa 240 mila tonnellate) di rifiuti che dovranno essere recuperati (con percentuali che vanno dal 70 all’ 80 % in base alla categoria di rifiuto) o reimpiegati e riciclati (con percentuali che vanno dal 50 all’ 80 %). Il Consiglio dei Ministri europeo ha insistito sulla necessità di promuovere il recupero dei rifiuti al fine di ridurne la quantità da smaltire e di preservare le risorse naturali, in particolare mediante il reimpiego, il riciclaggio, il compostaggio e il recupero dell'energia dai rifiuti ed ha riconosciuto che la scelta delle
  • 35. opzioni nei casi specifici deve tener conto delle conseguenze ambientali ed economiche, ma che fino a quando non interverranno progressi scientifici e tecnici al riguardo e non saranno ulteriormente sviluppate le analisi del ciclo biologico, bisognerà optare per il reimpiego e per il recupero dei materiali se e nella misura in cui essi rappresentano le migliori opzioni ambientali. La presente direttiva in Italia impone la responsabilità a produttori e distributori di creare consorzi ad hoc che provvedono allo smaltimento e al riciclo e di ritirare gli apparecchi elettrici o elettronici dati dai consumatori a patto che essi comprino un’apparecchiatura equivalente (una apparecchiatura adibita alle stesse funzioni della vecchia il cui peso non sia superiore al doppio di quella appena acquistata). Purtroppo questo non succede sistematicamente. Un’altra novità apportata dal decreto è la tassa sui RAEE: ogni volta che compriamo un apparecchio nuovo paghiamo una tassa (per legge non direttamente visibile, ma già calcolata nel prezzo dell’oggetto) in dipendenza dal peso e delle caratteristiche del prodotto. Per un frigorifero paghiamo 16 euro, 5 per una lavatrice, 3 e mezzo per un televisore fino ai 25 centesimi per l'iPod e i 28 per le lampadine a basso consumo. Il principio ha la sua logica: per smaltire questo tipo di rifiuto non pagano più indistintamente tutti i cittadini attraverso la TARSU, la tassa comunale sui rifiuti ma solo quelli che li producono, e cioè chi compra una tv nuova e quindi ne deve buttare via una vecchia. POLITICHE A RIFIUTO ZERO Nella seconda metà del ‘900, il boom economico ha portato ad un enorme incremento della quantità di prodotti e quindi rifiuti con conseguente consumo di energia e inquinamento. La più ovvia soluzione al problema è stata la costruzione di discariche, che si sono rivelate inquinanti e indecorose. La risposta alle polemiche è stata l’invenzione degli inceneritori, che sono sembrate per un decennio (almeno fino all’arrivo dei primi incidenti e ai dati sulle patologie) la soluzione definitiva: da un’enorme massa di rifiuti si riduce ad una relativamente piccola fatta di ceneri tossiche. Tale innovazione sembrava anche relativamente economica e gestibile dal punto di vista della sicurezza, ma dopo qualche anno cominciarono a sorgere comitati contrari e proteste. A partire dagli anni ’90 la prospettiva cominciò a cambiare dando progressivamente corpo alla strategia di Zero Waste, oggi attuata dal 50% delle città in Nuova Zelanda, dall’Australia, dal Canada, dalla California, dallo Stato dell’Oregon, da alcune cittadine Giapponesi, e da molte aziende multinazionali (tra cui: Toyota, Bell Canada, Xerox, Hewlett Packard).
  • 36. I risultati sono straordinari: la Xerox Usa stima che le propria politica Zero Waste, grazie a riduzione, riuso e riciclo, abbia prodotto in soli nove anni (dal 1990 al 1999) un risparmio di quasi 47 milioni di dollari. La stessa politica alle Olimpiadi di Atlanta ha permesso di fare la raccolta differenziata dell’85% dei rifiuti; lo stabilimento Epson nell’Oregon ha eliminato del 90% la quantità di rifiuti; la catena canadese Beer Store recupera il 98% delle bottiglie immesse sul mercato, con un risparmio di circa 160 milioni di dollari e ricicla il 97% degli imballaggi in plastica. Zero Waste è un metodo di lavoro il cui scopo è ridurre i rifiuti, l’impiego di energia e di materia, lo spreco e l’inefficienza, partendo dalla considerazione che l’esistenza dei rifiuti è sintomo della inefficienza del sistema economico e che è possibile porvi rimedio con la tecnica e l’organizzazione. In particolare si studia la comunità dove agire, analizzando il flusso della materia, e si trovano le soluzioni tecniche e organizzative insieme ai produttori e ai cittadini. In seguito attuando le soluzioni trovate, si ottiene la riduzione dei rifiuti nella produzione, distribuzione e nel consumo sia per quantità sia per tossicità, per quanto possibile a livello locale. Così si riutilizzano le cose dismesse, creando aziende che le commercializzano dopo averle aggiustate, creando Parchi del riuso e della rivendita e un mercato vero e proprio, con un adeguato supporto finanziario e legislativo. Tutto ciò, naturalmente, va supportato con azioni educative e formazione sul riuso e compostaggio. Il successivo passaggio consiste nel riciclare e inserire correttamente sul mercato i prodotti del riciclo, supportare la ricerca tecnica e logistica, creare conoscenza attraverso studi specifici, con corsi universitari, Accademie Zero Waste, ecc., diffondendo insomma un clima creativo, una cultura tra i cittadini e nell’economia. Così i rifiuti diventano risorse economiche e non costi. Robin Murray (famoso economista della London School of Economics) è il più celebre promotore di questa “filosofia”, che grazie alla combinazione “riduzione, riuso, riciclo” ed educazione al tema assicura una rivoluzione nel campo economico, energetico e ambientale.
  • 37. E-WASTE NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO Quando si tratta questo argomento vanno fatte delle importanti premesse. Il problema dei rifiuti tossici è infatti rilevante in molti paesi in via di sviluppo, ma lo è anche in potenze economiche mondiali come Cina ed India, per ovvi motivi si parla quindi di situazioni completamente diverse. E' chiaro come vadano ben distinti paesi in cui l'informatizzazione è in crescita ed in cui si sviluppa anche l'industria del riciclaggio da quei paesi africani, che vengono invece sfruttati come semplici discariche. Non a caso c'è anche un livello di consapevolezza diversa fra diversi importatori di e-waste. In Asia chi riceve i rifiuti conosce esattamente la loro natura e sa valutare ogni singolo pezzo ricevuto, potendosi così permettere una precisa selezione iniziale. Nei paesi africani invece questa perizia non esiste, si accettano carichi di rifiuti tossici senza aver la minima consapevolezza di quello che può essere il loro contenuto(C.Schmidt, 2006). Sembra riflettersi anche in questo caso una sorta di “divide”, stavolta tecnologico, che vede svantaggiati i soggetti più poveri della filiera. Se a questo aggiungiamo che il paese più informatizzato al mondo, gli Stati Uniti d'America, non ha ancora ratificato la Convenzione di Basilea, si può intuire quanto questo mercato sia nebuloso e difficile da controllare. ASIA Come già detto una classificazione di e-waste unica e condivisa a livello internazionale non esiste, è quindi impossibile controllare completamente i traffici di rifiuti nell'area asiatica, in cui si ritrovano nazioni con legislazioni molto severe e precise come il Giappone, ma anche enormi colossi come l'India in cui una regolamentazione non esiste o la Cina, in cui le regole ci sono ma spesso non vengono rispettate. Il traffico di prodotti nocivi è ovviamente facilitato da questo caos legislativo esistente; la mancanza di definizioni precise che specifichino la differenza fra prodotti di seconda mano, e-waste e semplici rifiuti metallici (mixed metal scrap) fa sì che questi possano essere importati od esportati senza grosse difficoltà (Japan’s National Institute for Environmental Studies, 2006). Abbiamo visto quindi che paesi come Cina, Giappone, Corea e Taiwan hanno regole ben definite per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti “interni”. In alcuni casi sono i produttori ad esser responsabili anche economicamente per lo smaltimento, in altri i consumatori. Il problema nasce però quando ci si concentra su quelle che sono le regole per l'esportazione dei rifiuti nazionali, per il già citato problema
  • 38. delle classificazioni ed anche perché non tutti I paesi del sud-est asiatico mettono in atto i principi della Convenzione di Basilea. In Corea, del Sud per esempio, non viene applicato nessun limite all'esportazione di rifiuti tecnologici, né esiste un obbligo di un trattamento preliminare di questi, ecco quindi che in questa maniera si riescono a trasportare enormi quantità di prodotti contenenti sostanze nocive senza problemi burocratici. Il costo per la nazione, per i produttori, per i consumatori e per i trasportatori è ridotto, ma a farne le spese sono le popolazioni che devono poi venire a contatto con questi rifiuti. CINA La Cina è il nodo cruciale dell'e-waste a livello globale. In questo paese infatti arrivano la maggior parte dei rifiuti tecnologici planetari, sempre qui si trovano inoltre alcune fra le più grandi centrali di riciclaggio specializzate, come quella di Guiyu, nella regione del Guandong (Takayoshi Shinkuma , Nguyen Thi Minh Huong, 2008) In questa discarica, la più grande esistente al mondo, si ammassano tonnellate di rifiuti tecnologici provenienti dalla Cina stessa, dagli Usa, dal Giappone, dalla Corea del Sud e dall'Europa. Questo va di fatto a cozzare con la legislazione cinese, che vieta categoricamente l'importazione di WEEE (i RAEE internazionali) di seconda mano. Emerge di nuovo quello che è il maggior problema legato all'e-waste: la cronica mancanza di controlli e classificazioni ben definite dei materiali dannosi. Spesso infatti prodotti che dovrebbero essere classificati come WEEE vengono invece immessi come semplice spazzatura (scrap). Il governo cinese in questo caso ha ignorato volutamente il fatto che nelle discariche le leggi non venissero rispettate, a patto che il 4% dei guadagni (grazie all'assemblamento di nuovi prodotti da materiali riciclati) venisse versato come imposta (value added tax). (Japan’s National Institute for Environmental Studies, 2006). Questo stato di cose è potuto andare avanti fino ad oggi vista la grandissima richiesta cinese di prodotti realizzati con materiali usati. Ora che però il mercato è in crisi, a favore di quello dei prodotti di nuova fattura, si prevede quindi dei cambiamenti nel mercato tecnologico cinese dei prossimi anni. Il governo cinese ha cercato di regolamentare, almeno formalmente, questo flusso di materiali. Fino ad una decina di anni fa infatti, le fabbriche che si occupavano di riciclaggio erano piuttosto piccole e di proprietà di poche aziende; ogni sito lavorava così qualunque tipo di materiale senza rispettare standard qualitativi e di sicurezza adeguati. Questa situazione rendeva ovviamente difficili i controlli da parte
  • 39. delle istituzioni, che non potevano fare altro che chiudere le fabbriche in cui venivano rilevate delle irregolarità. A quel punto però bastava spostare i materiali illeciti da un sito all'altro e continuare nelle attività illecite che erano la prassi. Si è deciso quindi di attuare una nuova strategia: non più combattere semplicemente il riciclaggio “sporco”, ma parallelamente favorire la nascita di impianti a norma.(Japan’s National Institute for Environmental Studies, 2006) Guiyu nasce proprio così, pur con le sue mille contraddizioni. L'accentramento di gran parte del materiale in arrivo ha infatti aiutato il controllo dei rifiuti in entrata (senza debellare ancora l'afflusso di rifiuti illegali), ma si è trascinata dietro una delle tante contraddizioni del gigante economico cinese. La situazione per quel che riguarda le condizioni di lavoro dei dipendenti è infatti disastrosa e spesso a lavorare sui materiali dannosi vengono posti dei bambini(Greenpeace, 2005). La Cina però, visto il suo boom economico, ha dovuto contemporaneamente fronteggiare l'enorme incremento di produzione locale di rifiuti tecnologici, dato che un numero sempre maggiore di persone ha iniziato a potersi permettere televisori, elettrodomestici e cellulari. Nel 2004 ha quindi ufficialmente definito quali fossero i rifiuti da considerare come e-waste: tv, frigoriferi, lavatrici, condizionatori d'aria e personal computers. I distributori hanno il ruolo di raccolta dei rifiuti tecnologici dai consumatori, dovranno poi inviarli ad impianti di riciclaggio certificati che si occuperanno dello smantellamento, riutilizzo o smaltimento. Per incoraggiare questo processo sono stati rilasciati dei contributi da parte dei produttori. AFRICA La situazione africana è ancora più selvaggia di quella asiatica, ma non è affatto legata alla produzione interna di e-waste. Alcuni paesi (soprattutto la Nigeria) sono infatti delle semplici discariche di rifiuti tecnologici occidentali. Le stime non ufficiali dicono che per il porto di Lagos passino ogni mese più di 500 cargo contenenti rifiuti tecnologici non classificati (C.Schmidt, 2006). Dato che per l'importazione di WEEE esistono precise e costose tariffe, si preferisce classificare illegalmente tutti i rifiuti come semplice scrap, il reale contenuto di questi cargo rimane quindi, fondamentalmente, un mistero. Di certo c'è il prezzo per un singolo trasporto: 5000$, davvero esiguo rispetto ai regolari costi di smaltimento. Dal punto di vista degli importatori il guadagno è quasi assicurato, dato che bastano 40 buoni computer in mezzo
  • 40. all'immondizia inutilizzabile per avere un lauto guadagno. In Nigeria l'industria del riutilizzo è sviluppatissima, I rifiuti vengono riparati o riassemblati in loco, quindi venduti in quantità industriali. Il problema sta nel 75% di rifiuti che però non sono in nessuna maniera riutilizzabili, che quindi si accumulano nelle discariche nigeriane, con il loro carico letale di metalli e sostanze chimiche dannose. Dato che il confine fra discarica e zona abitativa è estremamente labile, questi rifiuti vanno ad avere un impatto ancora più forte sulla vita della popolazione. Inviati del BAN si sono trovati davanti ad enormi discariche in cui i bambini giocavano con materiali per loro tossici. In queste aree vagano pure animali come capre o polli, che rappresentano una grossa fetta della nutrizione di queste popolazioni, che si ritrovano quindi completamente immerse nella tossicità prodotta dai rifiuti tecnologici occidentali.
  • 41. Conclusioni Si è visto nel corso di questa relazione come le tecnologie, in particolar modo quelle dell'informazione e della comunicazione, non siano strumenti neutri o ininfluenti all'interno della società in cui si sviluppano o vengono importati. Le ICT, essendo essenzialmente delle psico-tecnologie, come le definisce D. De Kerckhove, ridefiniscono i sistemi relazionali e le dinamiche sociali, permettono, in base al tipo di governo, un certo grado di libertà informativa, diffusione dei saperi, modellano la pische e si trasformano continuamente per soddisfare bisogni, spesso indotti, di interazione e continuo aggiornamento informazionale. Ovviamente la tecnologia ha un prezzo, necessita di competenze ed infrastrutture per essere prodotta, di una certa qualità d'insegnamento per permetterne l'utilizzo ed ovviamente una predisposizione infrastrutturale e sociale dell'ambiente in cui viene sfruttata. Accanto a queste prime problematiche di livello generale, se ne affiancano altre più specifiche come età, sesso, etnia, luogo di residenza, accesso al lavoro, professione. Ognuno di questi status è un potenziale motivo di esclusione dall'utilizzo delle ICT, motivi che associati e combinati insieme danno vita a quello che viene definito digital divide, ovvero la diseguaglianza di accesso e di utilizzo delle tecnologie della cosiddetta “società dell’informazione”. Pensando inoltre alla velocità con cui nascono e muoiono le tecnologie dell'informazione come telefoni cellulari, computer ed hardware di ogni tipo, è venuto spontaneo porsi due domande fondamentali. La prima sulle conseguenze che questa continua e rapida produzione ha all'interno dei paesi sviluppati, all'interno di quelli in via di sviluppo e tra “nord” e “sud” del mondo. La seconda è sul dove vanno a finire i “cadaveri elettronici”, come vengono smaltiti, se vengono smaltiti, e quali normative e accordi stanno dietro il traffico di questi rifiuti. Dalle ricerche effettuate nel corso della stesura di questa relazione è emerso come questo progresso tecnologico e comunicativo sia in realtà fonte di arricchimento dei principali paesi produttori a discapito di quelli in via di sviluppo. Questo svantaggio si spiega prendendo in considerazione, oltre alle importanti problematiche di ordine economico e politico, anche quelle di tipo amministrativo come il progressivo processo di virtualizzazione delle burocrazie nazionali e locali. Se si prendono a titolo d'esempio carta d'identità e tessera sanitaria digitali, come potranno interagire quelle società o quegli stati che hanno alla base elementi che poggiano su sistemi di produzione, controllo, ed utilizzo
  • 42. diametricalmente diversi? E ancora: quanto verrano ulteriormente esclusi dalle decisioni di ordine globale i paesi che non hanno un pieno controllo dei mezzi che trasmettono informazione sulla loro propria nazione e società? Su questo Castells si trova in accordo con le frange meno estremiste e non violente degli attivisti antiglobalizzazione, che trovano un eco nell'opinione pubblica preoccupata degli effetti di questa nuova società in termini di occupazione, istruzione, protezione sociale e stili di vita. Castells introduce inoltre anche il problema del rischio di perdita di controllo dello strumento internet, proprio a causa della sua natura interattiva. Tale considerazione meriterebbe un discorso a parte sui rischi che porta con sè un utilizzo estremamente libero della tecnologia digitale, nondimeno sul rischio di cadere, per preservare la privacy e la sicurezza delle persone, nella trappola del controllo sociale che parte proprio dal controllo delle informazioni personali. Di questo si è deciso di non trattare nel corso di questa relazione, sebbene se ne riconosca un'estrema importanza, proprio per evitare di dilungarsi oltremodo e perdere di vista gli obiettivi prefissati in origine. Oltre questo va considerata la grande quantità di rifiuti elettronici che, in violazione ai trattati e alle legislazioni internazionali, vengono riversati nei paesi in via di sviluppo sfruttando cinicamente il canale delle donazioni. Per citare ancora una volta il validissimo testo di Castells "l'economia potenziata dalle reti esplora incessantemente il pianeta alla ricerca di opportunità di profitto, c'è un processo di sfruttamento accelerato delle risorse naturali, nonchè di crescita economica dannosa per l'ambiente [...] se includiamo nello stesso modello di crescita la metà della popolazione planetaria che è attualmente esclusa, il modello di produzione e consumo industriali che abbiamo creato non è ecologicamente sostenibile. La soluzione per le enormi quantità di e-waste prodotte dal nostro modello di sviluppo non è una sola, ma va trovata per ogni passaggio che fanno questi prodotti. Vanno innanzitutto applicate su scala globale tecniche di eco-design che già esistono, e permettono una separazione più semplice ed economica dei vari materiali presenti nei circuiti elettronici. Il passaggio successivo è quello di sensibilizzare le aziende distributrici di prodotti elettronici nel ruolo fondamentale che devono avere per quanto riguarda il recupero di prodotti usati. A questo punto sarà la catena di smaltimento a dover applicare le corrette tecniche, in modo da ridurre al minimo l'impatto inquinante dell'e-waste, oltre a
  • 43. recuperare i prodotti quando possibile. La funzione di controllo dovrà essere svolta da istituzioni nazionali ed internazionali (come il BAN), in modo che le regole che ora esistono vengano finalmente applicate in ogni situazione. CRITERI DI SOSTENIBILITÀ Il nostro lavoro vuole portare a riflettere sul tema più generale della sostenibilità economico-sociale. Si è visto quali siano le potenzialità delle nuove teconologie dell'informazione e quali problematiche derivino dal loro utilizzo. Queste teconologie rappresentano in qualche modo degli artefatti cognitivi che, progettati e pensati in maniera sostenibile, potrebbero risolvere alcune problematiche su diversa scala, partendo dal locale per arrivare al globale. Pertanto si è ritenuto utile formulare alcune linee guida su come gli artefatti dovrebbero essere concepiti. 1° La produzione dell'artefatto non deve generare forme di "neo-colonialismo" e gravare sull'economia dei paesi in via di sviluppo. Prodotti realizzati in occidente per risolvere il digital divide farebbero solo crescere l'economia dei paesi più ricchi senza trasferire competenze e ricchezza ai paesi che si vogliono aiutare. 2° L'artefatto deve avere un costo sostenibile per essere accessibile al maggior numero di fasce sociali. 3° Adozione della filosofia open source, sia per quanto riguarda le componenti hardware che per il software, e unificazione degli standard inteso in senso di compatibilità e componibilità 4° Gli artefatti devono essere realizzati con materiali riciclabili grazie alle nuove tecniche di eco- design, in modo da favorire il riutilizzo dei materiali usati o il loro corretto smaltimento.
  • 44. BIBLIOGRAFIA United Nations , Millenium report, 2000 Commissione della comunità europea , Piano d'azione del Consiglio dell'Unione Europea, 2002 P.Zocchi , La democrazia possibile. Come vincere la sfida del digital divide,, 2003 Castells, M. , Galassia Internet ,(2002) Dutton, W.H., La società on line. Politica dell’informazione nell’era digitale, Milano, Baldini & Castoldi, (2001) Censis-Ucis, L'evoluzione delle diete mediatiche giovanili in Italia e in Europa, 2008 K. Mannheim, Il problema delle generazioni (1927), in Id. Sociologia della conoscenza, Bari (1974) Levy, Michael. Computer-assisted language learning: Context and conceptualization. New York: Oxford University Press, 1997. E. Risi, Università di Milano-Bicocca, Vecchie generazioni e nuovi media, 2006/2007 J. James, M. Versteeg, Tilburg University, Mobile phones in Africa, how much do we really know?, 2007; Vodafone Group, Africa; the impact of mobile phones. Moving the debate forward, 2005 J. Donner, Microsoft research India, The rules of beeping: exchanging messages via intentional 'missed calls' on mobile phones, 2007; C. Fuchs E. Horak, University of Salzburg, Africa and the digital divide, 2008 Atsushi Terazono · Shinsuke Murakami · Naoya Abe ·Bulent Inanc · Yuichi Moriguchi · Shin-ichi Sakai ·Michikazu Kojima · Aya Yoshida · Jinhui Li · Jianxin Yang · Ming H.Wong · Amit Jain · In-Suk Kim · Genandrialine L. Peralta · Chun-Chao Lin · Thumrongrut Mungcharoen · Eric Williams, Current status and research on E-waste issues in Asia , Springer-Verlag 2006 Ramzy Kahhata, Junbeum Kim, Ming Xu, Braden Allenby, Eric Williams, Peng Zhang, Exploring e- waste management systems in the United States, 2007 T H E Journal, The Dirt on E-Waste. By: Schaffhauser, Dian, 2009 Takayoshi Shinkuma , Nguyen Thi Minh Huong , The flow of E-waste material in the Asian region and a reconsideration of international trade policies on E-waste, 2006