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  Politica energetica nazionale                                                           venerdì 25 maggio 2012

 di Dario Di Santo
  Una pausa di riflessione prima del Piano energetico
  Una riflessione sulle lobby, sulle politiche caratterizzate da stop and go, sugli interventi miracolosi e di
  breve respiro affidati a emendamenti estemporanei. L'energia richiede pianificazione, conoscenza e
  organizzazione

      C'erano una volta gli Antichi Romani, che in qualche secolo seppero diffondere in un'ampia regione
 le loro idee di stato organizzato, interconnesso, fondato sulle infrastrutture e sul diritto (ovviamente
 questione di punti di vista).

        A calpestare le antiche consolari siamo rimasti noi, mentre le capacità organizzative e il senso di
 comunità devono essere rotolati dietro qualche pietra miliare. Di per sé non è un fatto negativo,
 sicuramente avremo delle qualità che i Latini di allora ci invidierebbero. Il fatto è che in un modo o
 nell'altro siamo sulla strada del declino. Non per colpa della crisi degli ultimi anni, dell'euro o di chissà
 quali cause esogene. Da questo punto di vista anche se l'apertura della Cina ai mercati non ha aiutato
 l'Italia – per le sue caratteristiche produttive più vicine all'artigianato e per l'incapacità di fare un fronte
 comune e di gestire le trasformazioni – e ha sicuramente avuto un effetto negativo su parte della nostra
 industria, i problemi nascono prima. E non è nemmeno colpa dei politici o delle istituzioni, ma di come
 siamo fatti noi e di come (non) funziona il sistema paese, sempre più chiuso su paure e individualismi.

      Un articolo a firma di Letizia Reichlin sul Corriere della Sera del 17 maggio ci ricorda dati noti, che
 ci vedono “arretrare” nel bel mezzo degli anni novanta, con un'incapacità di fondo di rimettere in pista il
 Paese. E non è certo questa la decrescita latouchiana che può intrigare alcuni. Nel tempo ci sta
 portando a un abbrutimento collettivo.

     Che c'entra con la Staffetta tutto questo? C'entra perché l'energia, oltre a essere il motore della
 nostra vita e della democrazia (attraverso la scolarizzazione diffusa) è, per le sue caratteristiche di
 complessità infrastrutturale, un tema che richiede pianificazione e, di conseguenza, conoscenza e
 organizzazione; ossia quello che nel nostro Paese al momento non esiste, se non in percentuali
 comparabili alle particelle di sodio fantasma della nota acqua minerale.

     Gli esempi di quanto faccia male agire senza basarsi su dati adeguati sono sotto gli occhi di tutti.
 Anche se recentemente la parte del leone la gioca il fotovoltaico, energetico Malaussène delle nostre
 soleggiate regioni, di inefficienze ne possiamo mettere a fattore comune molte di più. In un decennio
 abbondante siamo riusciti a essere molto improduttivi, in effetti.

      Abbiamo vissuto una fase di bolla del gas e poi una di crisi invernali del gas nonostante il crollo
 della domanda e parallelamente un deficit di potenza elettrica disponibile seguito da un eccesso della
 medesima potenza (che, tolto il fotovoltaico, rimane e stupisce). Avevamo un sistema elettrico con tanto
 termoelettrico e il pompaggio di modulazione, ora ci ritroviamo con “montarozzi” fotovoltaici giornalieri
 (basta guardare il diagramma di produzione del giorno di punta nei rapporti mensili di Terna) e il
 termoelettrico in modulazione per salvare gli investimenti fatti pochi anni prima, mentre le importazioni
 viaggiano apparentemente costanti (con un'alta percentuale di fonti non programmabili le reti non
 potrebbero aiutare a gestire i flussi legati all'energia solare in senso lato?). Fra un po' cominceranno a
 farsi sentire in bolletta gli interventi sulle reti, che arriveranno al solito in ritardo, e la modulazione locale
 condita di stoccaggio. Che dire poi dei contratti take or pay sul metano e l'elettricità? Presumibilmente
 convenienti all'inizio, lo sono anche ora, almeno in un'ottica di sistema? Speriamo di sì, ma certo
 qualche domanda conviene farsela anche su questo fronte.



http://www.staffettaonline.com/Stampa.aspx?id=105066                                                                    Pagina 1 di 3
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       Sul fronte della generazione distribuita abbiamo i tentativi regolatori di gestire le connessioni
 selvagge che continuano a infrangersi sulla giustizia amministrativa e i sistemi efficienti d'utenza – i
 SEU introdotti perché producono benefici energetici e ambientali – che sono difficilissimi da usare, fra
 distributori che approfittano della mancata definizione di alcune regole e Agenzia delle Dogane che
 ritiene non possa esserci autoconsumo sul fronte delle accise. Molto più agevole la vita di RIU e SAAE.
 Da notare che più il sistema apporta benefici, più diventa difficile farvi ricorso.

      Insomma, in dieci anni abbiamo sì stravolto il sistema energetico, ma non proprio secondo le
 logiche e gli indirizzi decantati all'inizio.

      Poi c'è l'efficienza energetica negli usi finali, da sempre la soluzione migliore del mondo sotto tutti i
 punti di vista e dunque prioritaria per tutti i governi, i politici e le istituzioni. Peccato che quando si tratta
 di passare ai fatti i decreti collegati arrivino sempre per ultimi, a valle di tutto il resto. Dunque le priorità
 reali non coincidono con quelle dichiarate, e questo andrebbe anche bene, se le prime fossero più utili
 delle seconde, cosa di cui si può ragionevolmente dubitare. Chi vince, dove non si fondano le scelte sui
 dati, sono le lobby più forti.

      Almeno si potesse dire che tanta rappresentanza lobbistica aiuta chi ce l'ha! Le lobby raramente
 ragionano in un'ottica di sistema e ancora più raramente sanno proporre soluzioni meditate e ragionate,
 col risultato che la traduzione parlamentare dei loro desideri quando va bene richiede grandi sforzi per
 essere attuata e quando va male può addirittura sortire effetti opposti alle aspettative. In ogni caso il
 gioco consiste nell'intervenire il più frequentemente possibile, pronti a sistemare quanto prodotto spesso
 solo pochi mesi prima dal gruppo di interesse antagonista. I ministeri e le autorità preposte passano di
 conseguenza il loro tempo a fare e disfare provvedimenti, la maggior parte dei quali si ferma allo stato di
 bozza (senza parlare dei ricorsi alla giustizia amministrativa, che flagellano in particolare le autorità),
 con grande dispendio di energia e pochi effetti utili.

      La domanda che mi pongo è: cosa succederebbe se le associazioni di categoria fossero una per
 ambito (meno direttori e amministrativi, più “tecnici”), dedicassero un po' di risorse a studi di mercato e
 di settore seri (aiutate dallo Stato, capace di promuovere anche le misure di supporto e
 accompagnamento, e non solo gli incentivi all'installazione delle tecnologie), offrissero più servizi agli
 associati per aiutarli a operare nel mondo esistente, rinunciando a cercare sempre e solo più soldi del
 necessario, invece di eliminare gli ostacoli e le storture di mercato? E se il Parlamento, perché stimolato
 da lobby più mature, evitasse di cambiare direzione persino all'interno della stessa legislatura,
 rinunciasse ai commi miracolosi sparsi su provvedimenti dedicati a tutt'altro – raramente utili perché non
 inseriti in un contesto organico di modifiche – e consentisse così ai ministeri e alle autorità di lavorare su
 regole più stabili, ordinate e basate su studi di mercato e di settore e su indirizzi di medio periodo? E se
 gli operatori e gli utenti finali potessero perdere meno tempo nel seguire estenuanti modifiche e
 potessero costruire di più?

      Non credo sia solo un'utopia. Di meglio potremmo fare. Perché il vero problema, mentre ogni tanto
 qualcuno sostiene che in Italia si lavora poco per le troppe festività, è che lavoriamo troppo, ma per fare
 niente. Rispetto a dieci anni fa il ritmo è cresciuto, ma non la produttività, che è diminuita, perché
 avendo meno tempo per pensare e capire ciò che si fa, si finisce per agire a casaccio, cambiando
 spesso idea e facendo perdere tempo a chi ci circonda, sia un collega o un terzo. La continua
 ridefinizione degli obiettivi e delle vie per raggiungerli, tipica di chi non ha capito chi è e cosa vuole fare
 da grande, ci rende sempre meno capaci di combinare qualcosa di concreto e di costruttivo. E anzi
 genera un malcontento crescente perché si lavora male, perché gli altri ci lasciano senza contratti chiusi
 dopo mesi di trattative e noi facciamo lo stesso con altri ancora, tutti colpevoli pur essendolo sempre di
 meno.

     Questa non è politica energetica, sono d'accordo. Ma se non sapremo liberare le energie che
 abbiamo dentro dalle resistenze crescenti che le dissipano inutilmente, fra qualche anno saremo dei
 poveretti. E questo è un problema che trascende il nostro settore.

     Facciamolo questo piano energetico nazionale di cui molti parlano. Ma prima creiamo le condizioni
 per poterlo scrivere e rendere applicabile: investiamo in conoscenza e fermiamoci a meditare sul nostro
 modello di lavoro. Applichiamo i principi dei sistemi di gestione aziendale al nostro modo di fare.
 Troviamo il modo di mettere in discussione il diluvio di attività improduttive quotidiane per dedicare un
 po' di tempo a pensare. La tanto invocata crescita non potrà derivare da norme o slogan politici di
 movimenti vecchi o nuovi, ma da persone che sapranno dare spazio alle idee, valorizzare le capacità
 umane e incanalarle verso la costruzione. Le capacità per fare molto di più le abbiamo in questo Paese,

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 sono dentro di noi. E una volta capito chi siamo, allora sì che tutte le strade porteranno a Roma.




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Tutte le strade portano a Roma

  • 1. Stampa | Staffetta Quotidiana 25/05/12 11:30 stampa | chiudi Copyright © RIP Srl Politica energetica nazionale venerdì 25 maggio 2012 di Dario Di Santo Una pausa di riflessione prima del Piano energetico Una riflessione sulle lobby, sulle politiche caratterizzate da stop and go, sugli interventi miracolosi e di breve respiro affidati a emendamenti estemporanei. L'energia richiede pianificazione, conoscenza e organizzazione C'erano una volta gli Antichi Romani, che in qualche secolo seppero diffondere in un'ampia regione le loro idee di stato organizzato, interconnesso, fondato sulle infrastrutture e sul diritto (ovviamente questione di punti di vista). A calpestare le antiche consolari siamo rimasti noi, mentre le capacità organizzative e il senso di comunità devono essere rotolati dietro qualche pietra miliare. Di per sé non è un fatto negativo, sicuramente avremo delle qualità che i Latini di allora ci invidierebbero. Il fatto è che in un modo o nell'altro siamo sulla strada del declino. Non per colpa della crisi degli ultimi anni, dell'euro o di chissà quali cause esogene. Da questo punto di vista anche se l'apertura della Cina ai mercati non ha aiutato l'Italia – per le sue caratteristiche produttive più vicine all'artigianato e per l'incapacità di fare un fronte comune e di gestire le trasformazioni – e ha sicuramente avuto un effetto negativo su parte della nostra industria, i problemi nascono prima. E non è nemmeno colpa dei politici o delle istituzioni, ma di come siamo fatti noi e di come (non) funziona il sistema paese, sempre più chiuso su paure e individualismi. Un articolo a firma di Letizia Reichlin sul Corriere della Sera del 17 maggio ci ricorda dati noti, che ci vedono “arretrare” nel bel mezzo degli anni novanta, con un'incapacità di fondo di rimettere in pista il Paese. E non è certo questa la decrescita latouchiana che può intrigare alcuni. Nel tempo ci sta portando a un abbrutimento collettivo. Che c'entra con la Staffetta tutto questo? C'entra perché l'energia, oltre a essere il motore della nostra vita e della democrazia (attraverso la scolarizzazione diffusa) è, per le sue caratteristiche di complessità infrastrutturale, un tema che richiede pianificazione e, di conseguenza, conoscenza e organizzazione; ossia quello che nel nostro Paese al momento non esiste, se non in percentuali comparabili alle particelle di sodio fantasma della nota acqua minerale. Gli esempi di quanto faccia male agire senza basarsi su dati adeguati sono sotto gli occhi di tutti. Anche se recentemente la parte del leone la gioca il fotovoltaico, energetico Malaussène delle nostre soleggiate regioni, di inefficienze ne possiamo mettere a fattore comune molte di più. In un decennio abbondante siamo riusciti a essere molto improduttivi, in effetti. Abbiamo vissuto una fase di bolla del gas e poi una di crisi invernali del gas nonostante il crollo della domanda e parallelamente un deficit di potenza elettrica disponibile seguito da un eccesso della medesima potenza (che, tolto il fotovoltaico, rimane e stupisce). Avevamo un sistema elettrico con tanto termoelettrico e il pompaggio di modulazione, ora ci ritroviamo con “montarozzi” fotovoltaici giornalieri (basta guardare il diagramma di produzione del giorno di punta nei rapporti mensili di Terna) e il termoelettrico in modulazione per salvare gli investimenti fatti pochi anni prima, mentre le importazioni viaggiano apparentemente costanti (con un'alta percentuale di fonti non programmabili le reti non potrebbero aiutare a gestire i flussi legati all'energia solare in senso lato?). Fra un po' cominceranno a farsi sentire in bolletta gli interventi sulle reti, che arriveranno al solito in ritardo, e la modulazione locale condita di stoccaggio. Che dire poi dei contratti take or pay sul metano e l'elettricità? Presumibilmente convenienti all'inizio, lo sono anche ora, almeno in un'ottica di sistema? Speriamo di sì, ma certo qualche domanda conviene farsela anche su questo fronte. http://www.staffettaonline.com/Stampa.aspx?id=105066 Pagina 1 di 3
  • 2. Stampa | Staffetta Quotidiana 25/05/12 11:30 Sul fronte della generazione distribuita abbiamo i tentativi regolatori di gestire le connessioni selvagge che continuano a infrangersi sulla giustizia amministrativa e i sistemi efficienti d'utenza – i SEU introdotti perché producono benefici energetici e ambientali – che sono difficilissimi da usare, fra distributori che approfittano della mancata definizione di alcune regole e Agenzia delle Dogane che ritiene non possa esserci autoconsumo sul fronte delle accise. Molto più agevole la vita di RIU e SAAE. Da notare che più il sistema apporta benefici, più diventa difficile farvi ricorso. Insomma, in dieci anni abbiamo sì stravolto il sistema energetico, ma non proprio secondo le logiche e gli indirizzi decantati all'inizio. Poi c'è l'efficienza energetica negli usi finali, da sempre la soluzione migliore del mondo sotto tutti i punti di vista e dunque prioritaria per tutti i governi, i politici e le istituzioni. Peccato che quando si tratta di passare ai fatti i decreti collegati arrivino sempre per ultimi, a valle di tutto il resto. Dunque le priorità reali non coincidono con quelle dichiarate, e questo andrebbe anche bene, se le prime fossero più utili delle seconde, cosa di cui si può ragionevolmente dubitare. Chi vince, dove non si fondano le scelte sui dati, sono le lobby più forti. Almeno si potesse dire che tanta rappresentanza lobbistica aiuta chi ce l'ha! Le lobby raramente ragionano in un'ottica di sistema e ancora più raramente sanno proporre soluzioni meditate e ragionate, col risultato che la traduzione parlamentare dei loro desideri quando va bene richiede grandi sforzi per essere attuata e quando va male può addirittura sortire effetti opposti alle aspettative. In ogni caso il gioco consiste nell'intervenire il più frequentemente possibile, pronti a sistemare quanto prodotto spesso solo pochi mesi prima dal gruppo di interesse antagonista. I ministeri e le autorità preposte passano di conseguenza il loro tempo a fare e disfare provvedimenti, la maggior parte dei quali si ferma allo stato di bozza (senza parlare dei ricorsi alla giustizia amministrativa, che flagellano in particolare le autorità), con grande dispendio di energia e pochi effetti utili. La domanda che mi pongo è: cosa succederebbe se le associazioni di categoria fossero una per ambito (meno direttori e amministrativi, più “tecnici”), dedicassero un po' di risorse a studi di mercato e di settore seri (aiutate dallo Stato, capace di promuovere anche le misure di supporto e accompagnamento, e non solo gli incentivi all'installazione delle tecnologie), offrissero più servizi agli associati per aiutarli a operare nel mondo esistente, rinunciando a cercare sempre e solo più soldi del necessario, invece di eliminare gli ostacoli e le storture di mercato? E se il Parlamento, perché stimolato da lobby più mature, evitasse di cambiare direzione persino all'interno della stessa legislatura, rinunciasse ai commi miracolosi sparsi su provvedimenti dedicati a tutt'altro – raramente utili perché non inseriti in un contesto organico di modifiche – e consentisse così ai ministeri e alle autorità di lavorare su regole più stabili, ordinate e basate su studi di mercato e di settore e su indirizzi di medio periodo? E se gli operatori e gli utenti finali potessero perdere meno tempo nel seguire estenuanti modifiche e potessero costruire di più? Non credo sia solo un'utopia. Di meglio potremmo fare. Perché il vero problema, mentre ogni tanto qualcuno sostiene che in Italia si lavora poco per le troppe festività, è che lavoriamo troppo, ma per fare niente. Rispetto a dieci anni fa il ritmo è cresciuto, ma non la produttività, che è diminuita, perché avendo meno tempo per pensare e capire ciò che si fa, si finisce per agire a casaccio, cambiando spesso idea e facendo perdere tempo a chi ci circonda, sia un collega o un terzo. La continua ridefinizione degli obiettivi e delle vie per raggiungerli, tipica di chi non ha capito chi è e cosa vuole fare da grande, ci rende sempre meno capaci di combinare qualcosa di concreto e di costruttivo. E anzi genera un malcontento crescente perché si lavora male, perché gli altri ci lasciano senza contratti chiusi dopo mesi di trattative e noi facciamo lo stesso con altri ancora, tutti colpevoli pur essendolo sempre di meno. Questa non è politica energetica, sono d'accordo. Ma se non sapremo liberare le energie che abbiamo dentro dalle resistenze crescenti che le dissipano inutilmente, fra qualche anno saremo dei poveretti. E questo è un problema che trascende il nostro settore. Facciamolo questo piano energetico nazionale di cui molti parlano. Ma prima creiamo le condizioni per poterlo scrivere e rendere applicabile: investiamo in conoscenza e fermiamoci a meditare sul nostro modello di lavoro. Applichiamo i principi dei sistemi di gestione aziendale al nostro modo di fare. Troviamo il modo di mettere in discussione il diluvio di attività improduttive quotidiane per dedicare un po' di tempo a pensare. La tanto invocata crescita non potrà derivare da norme o slogan politici di movimenti vecchi o nuovi, ma da persone che sapranno dare spazio alle idee, valorizzare le capacità umane e incanalarle verso la costruzione. Le capacità per fare molto di più le abbiamo in questo Paese, http://www.staffettaonline.com/Stampa.aspx?id=105066 Pagina 2 di 3
  • 3. Stampa | Staffetta Quotidiana 25/05/12 11:30 sono dentro di noi. E una volta capito chi siamo, allora sì che tutte le strade porteranno a Roma. © Tutti i diritti riservati E' vietata la diffusione e o riproduzione anche parziale in qualsiasi mezzo e formato. http://www.staffettaonline.com/Stampa.aspx?id=105066 Pagina 3 di 3