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Università degli studi di Modena e Reggio
                     Emilia
  Facoltà di Scienze della Comunicazione e
                dell’Economia

            Corso di Laurea in
       Scienze della Comunicazione
              a.a. 2008/2009

                Tesi di laurea
          Sicurezza o libertà?
       Mediatizzazione e uso politico
         dell’insicurezza diffusa




Relatore: Prof. Andrea Rapini



Laureando: Emiliano Martinelli
4
Ringraziamenti
Desidero ringraziare, in ordine sparso: la mia compagna Silvia
Basini per la pazienza e per aver degnamente sopportato la
condizione stressante del mio lavoro, la mia famiglia per il supporto
che non è mai venuto a mancare, il prof. Andrea Rapini per la
disponibilità, i preziosissimi suggerimenti e per avermi aperto gli
occhi sul giusto modo di affrontare alcune questioni, infine i fratelli e
le sorelle del Laboratorio Aq16 per darmi sempre nuovi stimoli e
incanalare positivamente la mia rabbia.




Dedico questo lavoro a quelli che stanno ai margini della società e a
           quelli che trovano giusto ribellarsi, in nome della libertà




                                                                       5
6
Indice

Ringraziamenti......................................................................p.5

I. L’epopea sicuritaria: origini e sviluppi da una sponda
all’altra dell’Atlantico..........................................................p.9

Introduzione (p.9) – 1.1 War on crime (p17) – 1.2 La
trasformazione da Stato Sociale a Stato Penale (p.29) – 1.3
Europa e Italia come banchi di prova (e di tenuta) dei nuovi
paradigmi sicuritari (p.36) – Conclusioni (p.41)

II. Comunicazione, sistema politico e
cittadini................................................................................p.43

Introduzione (p.43) – 2.1 Il campo della comunicazione
politica (p.45) – 2.2 Modelli della comunicazione politica
(p.47) – 2.3 Sistema dei media e sistema politico (p.49) –
2.4 Sistema dei media e cittadini (p.52) – Conclusioni (p.55)

III. Reggio Emilia: da città dell’accoglienza a città della
paura?..................................................................................p.57

Introduzione (p.57) – 3.1 La sicurezza paga nelle urne? (p.58)
– 3.2 Reggio Emilia è davvero un nuovo Bronx? (p.66) -
3.3 Profili criminali (p.72) – Conclusioni (p.76)


Bibliografia..........................................................................p.81




                                                                                           7
8
CAPITOLO 1
   L’epopea sicuritaria: origini e sviluppi da una
          sponda all’altra dell’Atlantico

Introduzione

«Emergenza sicurezza. Pronte misure drastiche dall’esecutivo»,
«Tolleranza zero verso stupratori e immigrati clandestini»,
«Recintato il parco dello spaccio, soddisfazione dei residenti».
Questi sono soltanto esempi a titolo indicativo di decine e decine di
titoli che ci capita di scorgere ogni giorno leggendo i quotidiani.
Se ci guardassimo bene indietro, se facessimo ricerche tra gli archivi
dei quotidiani o recuperassimo i servizi dei notiziari televisivi, ci
renderemmo conto che fino a qualche tempo fa in Italia, fino
grossomodo alla fine degli anni Ottanta, i problemi ai quali venivano
riservati gli spazi maggiori nelle politiche di newsmaking, erano
prevalentemente di tipo politico, sociale, economico.
Ora il clima è diverso: assistiamo ogni giorno ad uno stillicidio
mediatico       sull’insicurezza    diffusa,    sui    problemi      della
microcriminalità, il tutto corredato da interviste ai cittadini su quanto
si sentano insicuri a passeggiare nelle proprie città.
Fanno parte dell’esperienza quotidiani di ciascuno di noi servizi nei
telegiornali e intere pagine dei quotidiani sulle misure di sicurezza
predisposte da questo o quel governo o dalle amministrazioni locali,
dalle sempre più fantasiose ordinanze dei sindaci delle grandi città
fino ad arrivare ai più piccoli comuni, il tutto condito con una salsa
di compiacimento e plauso dei cittadini per il ristabilimento
dell’ordine in zone degradate.
I fatti di cronaca nera sembrano ormai gli unici per i quali valga la
pena di spendere pagine e pagine di approfondimenti catastrofistici.
Certo, si può tranquillamente obiettare che la cronaca nera esiste da
quando esiste la carta stampata, ed è sicuramente vero.




                                                                        9
Ma perché da qualche anno a questa parte il tema della sicurezza
domina le pagine dei quotidiani e i servizi dei telegiornali? Perché
abbiamo avuto un’impennata della percezione dei pericoli che ci
circondano (o che ci potrebbero circondare)?
Se guardiamo con attenzione alle statistiche sulla criminalità non
vediamo aumenti dei tassi di delittuosità così marcati da giustificare
un tale allarmismo. E nel corso di questo capitolo lo vedremo ancora
meglio.
Citando Zygmunt Bauman possiamo concordare sul fatto che

ogni epoca della storia si è differenziata dalle altre per aver conosciuto
forme particolari di paura; o piuttosto, ogni epoca ha dato un nome di
propria invenzione ad angosce conosciute da sempre1

e possiamo tranquillamente affermare che anche la nostra epoca ha le
proprie peculiarità in questo senso.
In un mondo che mai come ora sta conoscendo nuovi scenari di
instabilità a livello planetario (terrorismo internazionale, crisi
finanziaria, mutamenti climatici) e a livello individuale
(precarizzazione del mercato del lavoro, desocializzazione del
salario), ecco che si delinea una società che ha un estremo bisogno di
forme di rassicurazione materiale e simbolica.
Quale miglior rassicurazione allora che la concentrazione verso i
“nemici interni”, quelli più vicini e immediatamente percepibili
come minacce alla nostra incolumità e a quella dei nostri cari?
Qual è la soluzione più semplice se non pensare alla propria
esistenza come una quotidiana lotta per la sopravvivenza fisica,
minacciata da orde barbariche pronte ad assalirci e a darci la caccia
per puro divertimento o per due soldi?
Il rischio è sempre stato una componente dell’agire umano,
dall’economia alla vita sociale quotidiana, la differenza sta nel fatto
che oggi minacce come la microcriminalità e la violenza urbana, che
in ogni società e in ogni tempo sono state presenti seppur con

1
 Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999,
pag.99



10
intensità e tassi di incidenza diversi, sono trattate dai mass-media con
toni a dir poco catastrofistici.
Di fronte all’emergere di nuovi rischi ancora non conosciuti (si pensi
ai cambiamenti climatici, al terrorismo internazionale, alle mutazioni
genetiche, alle pandemie virali, alle prospettive nefaste causate dalla
crisi economica globale, ecc…) chi detiene il potere legittima se
stesso reinventandosi problematiche già conosciute attraverso
linguaggi, stili e forme nuove, declinando così vecchi problemi in
nuovi termini, allo scopo di esercitare quello che in sociologia viene
comunemente detto “controllo sociale”.
Queste tesi potrebbero sembrare rivelatrici di un approccio
catastrofista, o peggio ancora, mi si passi il termine, complottista, ma
non è così.
Indagare sulle nuove forme dell’insicurezza sociale equivale a
chiedersi perché, di fronte ad emergenze che sembrano puramente
mediatiche, si risponde con un agire politico che di mediatico ha ben
poco, ripercuotendosi immediatamente sulle vite dei cittadini.
Ma non voglio andare oltre in questa introduzione, sperando che le
ipotesi qui accennate possano avere riscontro nelle pagine che
seguono.
Nel corso di questo capitolo esporrò lo “stato dell’arte” delle ricerche
nel campo dell’insicurezza sociale e delle politiche che ne
conseguono.
Sono diverse le prospettive attraverso le quali gli studiosi che più si
sono concentrati su questo tipo di problematiche hanno analizzato il
problema.
Mi concentro su tre autori in particolare che mi sembrano
fondamentali per capire l’oggetto di studio di questa tesi, Loïc
Wacquant, David Garland e Jonathan Simon. Di questi autori ho
apprezzato particolarmente la critica radicale, nei termini di rapporto
tra politiche sicuritarie e democrazia, che apportano alla visione
attualmente dominante delle politiche criminologiche e della
devianza dei paesi occidentali. Seppur con sfumature differenti tutti e
tre questi autori denunciano i pericoli che questo tipo di politiche
penali e ordine di pubblico rappresentano alla struttura democratica




                                                                     11
degli stati occidentali, talvolta alla luce dei cambiamenti economico-
sociali derivati dall’avvento e dallo sviluppo dell’orientamento
cosiddetto neoliberista.
Loïc Wacquant, studioso francese, allievo di Pierre Bourdieu e
docente all’università di Berkeley in California, propone di
combinare l’analisi materialista di stampo marxista-engelsiana (che
propone di studiare l’insorgenza del discorso sicuritario alla luce dei
radicali e moderni cambiamenti dei sistemi di produzione capitalista)
e l’analisi dei simboli, mutuata da Émile Durkheim e Pierre Bourdieu
(volta a determinare come lo Stato adotta simboli, linguaggi e metodi
di persuasione per tracciare e determinare i confini della realtà)2.
Wacquant vede un legame strutturale tra il sistema di produzione
postfordista, e dunque del neoliberismo, e la nascita di uno “stato
penale” che sorgerebbe dalla ceneri dello stato sociale.
L’autore riassume le caratteristiche di questo cambiamento nel
sistema economico e del lavoro: precarizzazione del lavoro,
desocializzazione del salario, intensificazione dello sfruttamento nei
confronti dei settori più marginali e dequalificati della forza lavoro,
espansione della povertà nelle inner cities statunitensi.
L’ipertrofia del sistema carcerario e l’ascesa del nuovo stato penale
viene dunque letta alla luce di questi cambiamenti, come un
paradigma di governo delle popolazioni urbane povere e delle
minoranze razziali (da qui il titolo del testo “Punire i poveri”).
Proprio sull’aspetto razziale delle nuove politiche delle pena
americane si concentra Wacquant, che spiega come l’emergenza
criminalità si sia sviluppata definitivamente come reazione alle lotte
per i diritti civili che hanno infiammato i ghetti urbani per un
decennio tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70.




2
  Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello
stato penale nella società neoliberale, Milano, Feltrinelli, 2000; Loïc
Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale,
Roma, DeriveApprodi, 2006



12
In un testo pubblicato nel 20013 (e tradotto per la prima volta in Italia
nel 2004), David Garland, attuale docente di sociologia presso la
New York University School of Law, adotta una prospettiva
“culturalista”, che mette in relazione i cambiamenti in materia di
politica della pena e della sanzione enfatizzando la dimensione
sociale delle devianze. Un altro interessante aspetto osservato da
Garland è dato dalla correlazione tra l’attuale costruzioni sociali
delle devianze (e di conseguenza il loro trattamento) e i complicati
processi di trasformazione culturale osservabili nelle società
occidentali contemporanee. Queste trasformazioni (disgregamento
del valore della famiglia, stili di vita non conformisti,
flessibilizzazione del lavoro, ecc…) creerebbero, secondo l’ipotesi di
Garland, una situazione di percezione dell’insicurezza diffusa e un
orientamento dei governi rispetto alle politiche della pena di tipo
anti-welfarista.
Questi orientamenti anti-welfaristi sarebbero riconducibili da un lato
alla rottura del compromesso politico e, soprattutto, fiscale sul quale
si reggeva lo stato sociale, dall’altro da un’insoddisfazione diffusa
nei confronti di quelle strategie tipiche dell’assistenzialismo dello
stato, causata a sua volta da un aumento dei tassi di criminalità
registrata proprio negli anni di massimo sviluppo del trattamento
sociale delle devianze.
Per questa serie di ragioni i saperi criminologici e le tecnologie
rivolte al trattamento e al recupero dei criminali sono stati
ampiamente riconsiderati in un’ottica penalista.
I fattori così considerati creerebbero una nuova “cultura del
controllo” (dalla quale, appunto, il titolo del libro) che declina il
crimine come un fenomeno normale – con il quale, cioè siamo
costretti a fare i conti nella quotidianità – e al contempo mostruoso.
Si svilupperebbe così una sorta di “criminologia della vita
quotidiana” (aspetto normale della criminalità) che pervaderebbe
ogni aspetto del vivere civile e sociale e una “criminologia dell’altro”
dai caratteri fortemente neo-autoritari (aspetto mostruoso della
criminalità).
3
    David Garland, La cultura del controllo, Milano, Il Saggiatore, 2004



                                                                           13
Le tecniche che derivano da questa “criminologia della vita
quotidiana”, per esempio i sistemi di videosorveglianza, i metal
detector nei luoghi pubblici o le gated communities residenziali,
svolgono la funzione di controllo sociale discreto, ma continuo,
inserito nell’ordinato fluire delle esistenze delle persone in quanto
produttori e consumatori.
Questo primo aspetto delle nuove politiche sicuritarie abituerebbero
il cittadino, secondo l’autore, a considerare la criminalità come un
rischio endemico, come il traffico o le malattie.
Le politiche che derivano dalla “criminologia dell’altro”, sembrano
entrare in contraddizione con i dettami neoliberali di alleggerimento
dello Stato, mostrando apertamente il volto severo e punitivo della
legge. Secondo Garland il principio che ispira queste politiche penali
non è più la riabilitazione, bensì la vendetta nei confronti di chi
commette il crimine.
I linguaggi che supportano questo tipo di pratiche esibiscono, come è
facile immaginare, i tratti tipici dei discorsi neo-autoritari, quali la
ristabilizzazione dell’ordine e della difesa della società minacciata
dal male.
Garland prende dunque in esame alcuni delle tecniche penali che si
rifanno alla “criminologia dell’altro”: la reintroduzione in alcuni stati
della pena di morte anche per i malati psichiatrici, la reintroduzione
dei lavori forzati, la pubblicazione di elenchi con i nominativi degli
ex detenuti per reati sessuali, il three strikes and you’re out4, ecc.
Garland conclude, in accordo con l’approccio “culturalista” del quale
è fautore, che tale insieme di politiche hanno un significato
fortemente simbolico: da un lato tendono a offrire una rassicurazione
ai cittadini e dall’altro vanno in controtendenza rispetto ai dettami
neoliberali di cui sopra. Per questo motivo Garland rifiuta una lettura
causale, al contrario ad esempio di Loïc Wacquant, del rapporto tra
nuove politiche sicuritarie e processi di ristrutturazione capitalista in
senso neoliberale.

4
 Misura legislativa che impone ai giudici statali di condannare a un periodo
obbligatorio e prolungato di carcere persone che siano state condannate per
un reato penale grave in tre o più distinte occasioni.



14
Un terzo tipo di approccio è quello riconducibile a Jonathan Simon,
situato a un livello distante a entrambi gli altri due approcci.
Simon, infatti, compie un’accurata analisi sociologica, giuridica e
politica delle razionalità di governo consolidatesi negli Stati Uniti
dall’assunzione di centralità della questione criminale nell’opinione
pubblica e nel discorso politico.
L’ipotesi di Simon è di un governo attraverso la criminalità
analizzato attraverso i differenti piani dei processi di governo (in
senso foucaultiano di “condotta di condotta”) consolidatisi dopo
l’acquisizione di centralità della questione criminale. Citando
direttamente Simon:

Quando governiamo attraverso la criminalità, rendiamo il crimine e le
forme di sapere a esso storicamente associate – diritto penale, letteratura
popolare sulla criminalità, criminologia – disponibili al di là del loro
limitato ambito d’origine, facendone uno strumento efficace con il quale
interpretare e inquadrare tutte le forme di azione sociale come questioni di
governance.5

Il testo di Simon ripercorre le tappe fondamentali dello sviluppo di
questo governo attraverso la criminalità, passando in rassegna alcuni
momenti fondamentali per la storia dei discorsi politici6 (cita ad
esempio le cicliche guerre alla criminalità di Nixon, Reagan, Bush
padre, fino alla war on terror di Bush figlio). Questi processi
discorsivi porterebbero, secondo l’ipotesi di Simon, a individuare
nuove pratiche di governance i cui scopi ultimi sarebbero
l’individuazione e la neutralizzazione del rischio criminale.


5
  Jonathan Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e
democrazia in America, Milano, Cortina Raffaello, 2008, pag. 22
6
  Ancora una volta il riferimento a Michel Foucault è evidente, Simon
considera il discorso politico come atto linguistico, capace di descrivere (e
prescrivere) la realtà, dando luogo a pratiche, tecniche e razionalità di
governo.



                                                                            15
Simon analizza poi i diversi ambiti di applicazione di questo
paradigma di governance: potere esecutivo, giurisprudenza, famiglie,
scuole, luoghi di lavoro.
Dal lato del potere esecutivo, ad esempio, queste pratiche politiche
creerebbero un modello di autorità e di rappresentanza che l’autore
definisce “complesso accusatorio”, nel quale la leadership politica si
configura come estensione e diretta emanazione della “pubblica
accusa”; ognuno di queste cariche politiche, in questo contesto, deve
quotidianamente ricercare e segnalare le fonti di rischio criminale e
una volta individuate commissionare (e quando non è possibile,
invocare) sanzioni adeguate.
Dall’altro lato, quello del cittadino comune, emerge la tendenza a
considerare, e dunque a considerarsi, una vittima: la vittima del
crimine è diventata il modello principale di cittadino.
Questo fa si che il bene della vittima (e dunque per estensione del
cittadino) porti al concetto di pena come vendetta, che deve essere
dura e degradante, per ottenere quella forma simbolica di
rassicurazione della popolazione già descritta da David Garland.
In questo contesto, e grazie soprattutto all’ascesa del modello di
“complesso accusatorio”, viene quasi naturale constatare come la
funzione che dovrebbe essere propria dei tutori della legge, la
funzione “giudicante”, è costantemente sotto attacco: infatti, ricorda
Simon, nelle cicliche guerre alla criminalità, l’autonomia dei giudici
è sempre stata attaccata duramente. I giudici vengono considerati,
all’interno del discorso politico sicuritario, come “complici” dei
criminali e lassisti in virtù del loro ruolo istituzionale, ovvero quello
di soppesare la ragioni della vittima e del presunto criminale. Le
legislazioni three strikes7 e i minimi di pena obbligatori, ad esempio,
sono espressione della volontà di limitare l’autonomia dei giudici e
delle corti di giustizia statunitensi.
Il quadro tracciato da Simon è quindi quello di una svolta punitiva
considerata non soltanto come episodio storico circoscritto, bensì
come processo sociale, politico e istituzionale capace di

7
    Vedi nota n. 4, infra



16
un’autopoiesi teoricamente infinita attraverso le relazioni quotidiane
tra gli individui.

Passerò dunque in rassegna prima il contesto storico nel quale si
sono sviluppate queste nuove tendenze in termini di politiche della
pena, ovvero negli Stati Uniti nella a cavallo tra la fine degli
Sessanta e la metà degli anni Settanta, in seguito cercherò di
approfondire alcuni elementi-chiave di queste nuove strategie
sicuritarie. Il tutto cercando di utilizzare i tre approcci
precedentemente citati al fine di cogliere gli elementi che mi
sembrano più salienti della svolta punitiva americana e confrontarli
con quelli che si riversano sulla società e la politica italiana, vero
focus di questo testo. Bisogna infatti ricordare che tutti e tre gli
autori presi in esame svolgono un’analisi approfondita del sistema
penale e politico statunitense, che rappresenta i tratti di
un’incubatrice del discorso sicuritario poi tramandatosi nella
maggior parte dei sistemi occidentali, ma al contempo presenta
alcune differenze strutturali e culturali con i modelli europeo ed
italiano.
Un paragrafo a parte sarà poi destinato a quello che con De Giorgi
possiamo chiamare paradigma attuariale della criminologia penale,
che vede lo svilupparsi di correnti di pensiero criminologico che
danno vita ad uno Stato sempre meno sociale e sempre più penale.
Concluderò il capitolo con uno sguardo più approfondito verso la
realtà italiana, prendendo quello che mi sembra il caso paradigmatico
di declinazione del discorso sicuritario nei nostri territori: il caso
della criminalizzazione mediatica dei migranti irregolari.



1.1 War on crime: politiche di controllo e criminalizzazione
    della società americana

Dalla metà degli anni ’70 negli Stati Uniti è nata una nuova
emergenza: la criminalità, specialmente quella di strada e quella




                                                                   17
percepita come problema che potrebbe toccare, con buona
probabilità, indistintamente ciascuno dei membri della middle class.

Il contesto storico nel quale nasce questa emergenza criminalità negli
Stati Uniti è il periodo immediatamente successivo alle rivolte
razziali degli afroamericani dei ghetti per l’ottenimento dei diritti
civili. È anche il periodo nel quale entra in crisi il modello del New
Deal, nel quale sembra insomma vacillare la capacità del governo
federale nel mantenere una gestione economica che negli anni
Cinquanta e Sessanta causò un incremento del benessere.
Questi due elementi possono dare, secondo la lettura di Jonathan
Simon, una chiave di lettura in senso storico dell’emersione del
problema.
Per quanto riguarda il primo di questi fattori, si assistette, negli anni
a cavallo tra il 1950 e il 1970 ad importanti sviluppi riguardanti la
segregazione razziale negli Stati Uniti. I movimenti per i diritti civili
delle minoranze afroamericani ottennero importanti vittorie presso la
Corte Suprema e il Congresso, vittorie concretizzatesi poi con
l’emanazione del Civil Rights Act del 1964.
Alcuni studiosi8 individuano proprio nella questione razziale la
lacuna più importante del New Deal: infatti il presidente Franklin D.
Roosevelt aveva deliberatamente escluso gli afroamericani dalla
principali protezioni sociali del nuovo corso americano (questo per
non inimicarsi le correnti democratiche del Sud, sicuro bacino di
voti, per le quali la questione razziale era ancora un tabù). Lo stesso
presidente Lyndon B. Johnson, succeduto a Kennedy dopo
l’assassinio di Dallas del 1963, si schierò a favore del movimento per
i diritti civili promettendo di impegnarsi per realizzarne il
programma. Bisogna ricordare, tuttavia, che buona parte dei politici
statunitensi guardavano con sospetto, quando non addirittura
tentarono di ostacolare esplicitamente, i progressi ottenuti dal
movimento per i diritti civili. Infatti i primi a strumentalizzare la
criminalità, dandole i connotati di una prerogativa degli
8
 Ad esempio Katherine Beckett, Making crime pay: law and order in
contemporary American politics, New York, Oxford University Press, 1997



18
afroamericani, furono politici bianchi del Sud in cerca di argomenti
più validi per contrastare il movimento afroamericano, di quanto
fossero le ragioni segregazioniste.
L’incendiaria campagna elettorale di Barry Goldwater, candidato
repubblicano per le presidenziali del 1964, incentrata sui temi
dell’anticomunismo e della guerra alla criminalità ne è un esempio
lampante.
Se le conseguenze del movimento contro la segregazione razziale
contribuiscono a fare emergere la criminalità come stato
emergenziale, è la crisi del modello del New Deal a fare da scenario
allo sviluppo delle “emergenze criminali”.
Il New Deal fu, sinteticamente, quella serie di misure statali
predisposte dal presidente Roosevelt per risollevare gli Stati Uniti
dalla crisi finanziaria del 1929. L’intervento statale nell’economia
con la realizzazione di importanti infrastrutture, la creazione di un
welfare state in grado di sostenere i lavoratori che persero il lavoro, e
una serie di misure che permisero di rilanciare l’economia in
stagnazione, furono il cardine degli interventi della presidenza
Roosevelt.
Questo modello entra in crisi con l’avvicinarsi agli anni Settanta, in
concomitanza con l’emergere del problema criminalità come uno dei
più importanti problemi che la politica avrebbe dovuto affrontare.
Così abbiamo un forte depotenziamento dello stato sociale, causato
secondo Wacquant da una reazione ai movimenti progressisti degli
anni Sessanta.
L’ipotesi di Simon9 è che la nascita dell’emergenza criminalità sia da
leggere all’interno di questi due fenomeni storici, come risposta dei
politici a questi avvenimenti che rischiavano, di fatto, di rendere
ingovernabile il paese.

Dopo la sua nascita, dunque, la nuova emergenza criminalità viene
poi sempre più frequentemente spettacolarizzata ed esaltata dai mass
media, così come gli interventi di war on crime delle classi dirigenti
del paese.
9
    Jonathan Simon, Il governo della paura, cit.



                                                                      19
La mediatizzazione della criminalità (e dei relativi provvedimenti per
contrastarla) ha una duplice funzione: da un lato è funzionale ad
accrescere la percezione di insicurezza delle classi medie americane
che si sentono così costantemente minacciate e sotto assedio;
dall’altro emerge la faccia severa e punitiva dei governi contro i
criminali così come quella protettiva e paternale verso le “vittime”.
Si tratta di quello che Wacquant definisce come “pornografia
penale”, ovvero quel processo per cui il crimine e le azioni sicuritarie
devono essere mostrati, esibiti e ritualizzati, al pari degli amplessi
nelle produzioni pornografiche.
Assistiamo così ai roboanti proclami dei tutori dell’ordine, agli
inseguimenti in diretta televisiva, alle dichiarazioni di tolleranza
zero, alle continue lodi alle forze dell’ordine e ai biasimi nei
confronti dei giudici (ormai ultimo baluardo del trattamento sociale
delle devianze) definiti lassisti e quasi “complici” dei criminali.
La sicurezza e la guerra alla criminalità sono state il leitmotiv delle
campagne elettorali da Nixon in avanti, di volta in volta declinate in
base a quella che viene percepita come la minaccia presente più
pericolosa; nel mondo del presente il tema principe risulta essere,
ovviamente, la war on terror inaugurata dall’amministrazione di
George W. Bush.
I tratti distintivi di queste nuove politiche sicuritarie sembrano essere
comuni a tutte le esperienze del genere sia negli Stati Uniti che in
Europa10; in primo luogo esse attaccano frontalmente il crimine,
considerato soltanto come devianza immorale e spostando il focus
dalle cause che lo creano alle persone che lo commettono: così il
“criminale” è un deviante irrecuperabile (lo vedremo meglio quando
parleremo del paradigma attuariale del trattamento delle devianze) la
cui unica prospettiva deve essere il carcere, pena il disordine sociale
e l’insicurezza generalizzata.
Ancora, è ben visibile il proliferare di dispositivi di controllo
inimmaginabili fino a pochi anni fa: telecamere per la
videosorveglianza, comitati di quartiere (le italiane “ronde”,
10
  Questa affermazione trova il suo fondamento nell’analisi di Wacquant sul
“Fac-simile europeo”, contenuta in Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit.



20
recentemente entrate prepotentemente nel dibattito politico),
profiling genetico dei criminali, maggior potere e risorse alle forze
dell’ordine, centri di detenzione specializzati, test antidroga nelle
scuole, ecc…
Un altro tratto distintivo di queste politiche è il fatto di suddividere
nei discorsi politici (intesi nel senso tramandatoci da Foucault come
atti linguistici, capaci di segmentare e ridefinire la realtà) i cittadini-
vittime, quelli buoni per intenderci, dai cittadini-criminali, dei quali
si può già intuire un profilo base: neri, provenienti dai quartieri
popolari in declino, tossicodipendenti e via dicendo.
Di conseguenza il carcere non è più visto come passaggio penale
verso il reinserimento in società, al contrario, l’amministrazione
carceraria è ormai considerata soltanto una contabilità di flussi in
entrata e uscita e dei relativi costi di gestione.
Questo tipo di politiche sono sostenute ed alimentate da una rete di
discorsi pubblici allarmisti e catastrofisti, tesi a tracciare una
descrizione dei centri urbani come “zone di guerra” (non a caso il
lessico militare è quello prediletto dai mass media nel trattare i
problemi della criminalità e della sicurezza) e l’intervento dei tutori
dell’ordine come il pugno di ferro del potere senza il quale non vi
sarebbe risoluzione dei conflitti; i rimedi proposti sono drastici ma al
contempo semplicistici, generalizzano le questioni sociali della
devianza e appiattiscono i livelli di problematicità insiti nel trattare
un tema tanto delicato, quanto complesso come la criminalità.
Ultimo tratto distintivo, e in parte conseguenza diretta di quelli
trattati poco sopra, è il rafforzamento delle reti poliziesche,
l’incremento vertiginoso delle popolazioni carcerarie e la volontà di
accelerare i tempi della giustizia.
Questa serie di pratiche politiche trovano l’appoggio indiscriminato
di tutti gli schieramenti politici, quasi a sottolineare che non vi è altra
via d’uscita, se non le politiche sicuritarie, alla presunta emergenza
criminalità.
Ora, se si analizzano le statistiche criminali del periodo nel quale
questi discorsi si sviluppano, non ci sono tassi di crescita della




                                                                        21
criminalità tali da giustificare il proliferare di questo tipo di misure di
controllo sociale11.
Riporto due dati che mi sembrano i più rilevanti per capire la portata
di quello che da trent’anni a questa parte sta succedendo negli Stati
Uniti.
Il primo di questi dati riguarda il numero di persone sottoposte a
qualche tipo di misura penale (carcere, libertà vigilata, libertà
condizionale): se nel 1980 il totale di queste persone era di circa 1
milioni e 842 mila, nel 1995 sono diventate 5 milioni e 343 mila, con
un aumento del 190% in quindici anni.12
L’altro dato fondamentale riguarda i tassi di criminalità registrati nel
periodo 1975-1995: il tasso nazionale di omicidi è rimasto stabile (8
casi ogni 100.000 abitanti), i furti con aggressione oscillavano tra i
200 e 250 casi su 100.000 abitanti (questi dati non rivelano una
tendenza all’aumento né alla diminuzione), il tasso di vittime di
lesione è rimasto stabile al valore di 30 casi su 100.000 abitanti, la
frequenza della violenze si è abbassata da 12 a 9 su 100.000. I
crimini contro la proprietà sono nettamente calati, scendendo dai 550
su 100.000 abitanti del 1975 a meno di 300 vent’anni dopo.13
Questi dati testimoniano che l’insorgenza e lo sviluppo del discorso
sicuritario non sono in alcun modo collegati ad un aumento della
criminalità. Va ricordato, infatti, che le principali misure legislative
orientate alla war on crime, in particolare il modello New York del
sindaco Rudolph Giuliani, vengono attuate dopo il 1994, quando,
come abbiamo visto, la criminalità era già in netto calo da oltre
vent’anni, per di più manifestando una concreta tendenza a
un’ulteriore diminuzione.


11
   Si vedano, ad esempio, le statistiche del Bureau of Justice Statistics del
Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America
(www.ojp.usdoj.gov/bjs)
12
   Bureau of Justice Statistics, Correctional populations in the United States
1995, Washington, Governement Printing Office, 1997
13
   Bureau of Justice Statistics, Criminal victimization in the United States
1975-1995, Washington, U.S. Governement printing office, 1997



22
I dati così presentati fanno legittimamente pensare che questi
processi siano allora effettivamente utili a qualche cosa d’altro.
Se, infatti, andiamo a vedere, con una semplificazione estrema,
quello che sul piano materiale e simbolico si sta sviluppando con
l’ascesa dei nuovi paradigmi neoliberisti del mercato e della società
possiamo intravedere una possibile spiegazione dell’insorgenza del
discorso sicuritario.
Partendo dal piano prettamente simbolico, vediamo come nella
società teorizzata dai massimi esponenti del neoliberismo, del quale
l’America è punta di diamante, lo Stato deve avere un ruolo sempre
più marginale all’interno del panorama politico-economico e sociale.
Gli interventi statali devono essere ridotti ai minimi termini, non
interferire con i processi economici se non in termini normativi, lo
Stato deve diventare uno stato “leggero”, sempre meno presente e
visibile, il suo ruolo deve essere relegato a quello di mero
supervisore di processi autopoietici che vivono già di vita propria.
Lo Stato verrebbe così a perdere quella funzione di autorità superiore
che tradizionalmente aveva acquisito nelle democrazie occidentali,
perde in ultima analisi le sue funzioni proprie, perde di potere e
autorità.
Ecco allora che uno Stato forte contro il crimine e le devianze
riafferma la propria autorità in ambito sociale, restituendoci
un’immagine che legittima e controbilancia l’amputazione del
braccio economico statale dettata dall’avvento del neoliberismo.
Sempre rimanendo sul piano simbolico, la progressiva erosione di
valori quali la famiglia patriarcale, il lavoro stabile e continuativo, lo
stesso indebolimento dello stato-nazione hanno contribuito a
delegittimare il sistema di strategie di governo dei problemi sociali
legate al welfare, dunque anche della stessa devianza. Lo stesso
welfare è ormai percepito dai cittadini statunitensi come un sistema
assistenzialista inutile, sprecone e che “premia chi non se lo merita”.
Questo ha fatto sì che la criminalità non fosse più percepita come un
qualcosa da arginare riabilitando i devianti, bensì un qualcosa da
eliminare con politiche repressive dure e inflessibili. Queste politiche
hanno un alto valore simbolico, dunque, perché, come detto in




                                                                       23
precedenza, riaffermano un valore autoritario dello Stato, in
controtendenza rispetto ai dettami neoliberisti.14

Passando sinteticamente al piano prettamente materialistico non
possiamo che soffermarci sui profondi cambiamenti che hanno
investito il mondo dell’economia, tipicamente negli aspetti della
flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro che il nuovo ordine
economico è venuto a creare.
Secondo Wacquant

l’irresistibile ascesa dello stato penale americano non contraddice certo il
progetto neoliberale di deregolamentazione e snellimento del settore
pubblico, anzi si potrebbe dire che ne rappresenta il negativo – in senso
fotografico, rilevatore ma “al contrario” – in quanto esprime una politica di
criminalizzazione della misera funzionale all’imposizione della condizione
salariale precaria e sottopagata come obbligo di cittadinanza e alla
concomitante riformulazione dei programmi sociali in senso punitivo.15

Per lo studioso francese, così come ad esempio per l’italiano
Alessandro De Giorgi16, esiste un nesso “verticale” di causalità tra
politiche della pena e nuovo ordine economico neoliberista (o
postfordista nel lessico di De Giorgi).
Questa causalità e data dalla sostituzione dello stato sociale (welfare)
con uno stato penale teso a inserire forzatamente i cittadini più
poveri nel sistema di produzione capitalista del lavoro salariato
flessibile e desocializzato (workfare).
Questi processi altro non fanno se non contribuire ad un

governo della vasta popolazione urbana, povera e in larga maggioranza non
bianca, resa economicamente superflua dalla crisi del modello di

14
   David Garland, La cultura del controllo, cit.
15
   Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero, cit., 2000, pag. 70
16
   Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società
di controllo,Roma, Derive Approdi, 2000; oppure in: Alessandro De Giorgi,
Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine,
Verona, Ombre Corte, 2002



24
produzione fordista e socialmente vulnerabile dalla distruzione delle residue
protezioni sociali a questo associate.17

Si delineerebbe dunque un complesso sistema commercial-
carcerario-assistenziale, secondo la stessa definizione di Wacquant,
il cui compito è di triplice valenza: da un lato deve sorvegliare le
popolazioni povere che non vogliono rientrare nei nuovi modelli di
produzione lavorativa postfordisti, dall’altro deve soggiogare queste
stesse classi povere e infine punire e neutralizzare chi devia dal
nuovo ordine economico-sociale.
Probabilmente l’intuizione più azzeccata di Wacquant consiste nel
mettere l’accento sulle connotazioni razziali e di classe del sistema
penale, che replicano in toto le disuguaglianze sociali della
popolazione urbana.
Ad oggi oltre 2 milioni di persone su 275 milioni di cittadini
statunitensi sono in carcere, e il numero aumenta se consideriamo i
cittadini sottoposti a un qualche tipo di tutela penale (probation,
parole, ecc…) il numero aumenta a oltre 6 milioni. Questo significa
che oltre il 2% della popolazione statunitense è sotto l’egida del
controllo penale.
Questa ipertrofia denota, come sottolineato da Wacquant, una
dimensione razzista e classista del sistema penale: infatti, statistiche
del 1995 dicono che su 22 milioni di neri maggiorenni, 767mila
erano in prigione, 999mila in libertà vigilata e 325 rilasciati sulla
parola. Oltre il 60% della popolazione carceraria è composta da
minoranze etniche e i dati su questo punto si sprecano.
Wacquant arriva addirittura a sostenere che la prigione è diventata
ormai un sostituto del ghetto, infatti, secondo lo studioso francese

il ghetto funge da prigione etno-razziale: chiude in gabbia, per così dire, un
gruppo privo d’onore e riduce drasticamente le possibilità di vita dei suoi



17
  Alessando De Giorgi, Prefazione in: Jonathan Simon, Il governo della
paura, cit.



                                                                          25
membri per garantire al gruppo dominante che risiede nei paraggi la
“monopolizzazione dei beni e delle opportunità materiali e spirituali”.18

Un carcere, a sua volta, serve a tenere sotto controllo una
popolazione denigrata, funge da “preservativo urbano” contro
l’infamia che provocherebbe il venire a contatto con la popolazione
colpevole di aver commesso un crimine.
Il ghetto servirebbe anche ad «agevolare lo sfruttamento economico
della categoria segregata»19, così come la prigione che costringe la
popolazione carceraria ai lavori forzati e al successivo reinserimento
negli strati più bassi del nuovo lavoro salariato precario.
Non bisogna poi dimenticare, altre conseguenze, prettamente
economiche, dell’insorgenza del discorso sicuritario e della
persecuzione delle politiche di zero tolerance e war on crime
sviluppatesi negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni.
Da un lato l’industria carceraria americana produce una tale quantità
di ricchezza, stimata intorno ai 20 miliardi di dollari all’anno, che si
compone di oltre 100 imprese edili che si occupano esclusivamente
di costruzione e manutenzione di prigioni, le carceri private sono
oltre 160 in continua espansione. Questi pochi dati soltanto per
rendere l’idea della mole di affari del “Correctional Business”:
ovviamente politiche della pena sempre più severe comportano
ancora maggiori ricchezze per gli operatori dell’economia carceraria.
Dall’altro lato la marcata diffusione del senso di insicurezza tra i
cittadini della middle class ha fatto sì che si sia sviluppato un florido
e redditizio mercato della sicurezza privata, nuova branca del
business dell’insicurezza sociale; non è un caso che proprio negli
Stati Uniti in questi ultimi trent’anni siano cresciute a dismisura le
spese per la sicurezza privata, dalle guardie armate per sorvegliare le
imprese o gli accessi alle gated communities (interi quartieri i cui
accessi sono sbarrati per i non residenti), fino agli impianti di
videosorveglianza privati. Solo per riportare alcuni dati a supporto di
queste affermazioni, si pensi che nel solo anno 1990, negli Stati Uniti
18
     Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit., pag. 210
19
     Ibidem, pag. 210



26
sono stato spesi oltre 52 miliardi di dollari in sicurezza privata,
contro i 30 miliardi spesi per le forze di polizia federali; più di
10.000 compagnie di private security impiegano 1 milione e 500
mila guardie, circa il triplo rispetto ai 554 mila uomini delle forze
dell’ordine federali e locali.20

Una conseguenza culturale importante dello sviluppo e attuazione
delle politiche sicuritarie consiste nella cosiddetta “vittimizzazione
del cittadino”.
Negli USA, il cittadino non è più visto come un attore sociale nel
senso classico del termine: il cittadino ora è una potenziale vittima di
un crimine, seguendo Simon:

La democrazia americana è minacciata anche dall’emergere della vittima
del crimine come modello dominante del cittadino in quanto rappresentante
della gente comune, i cui bisogni e le cui capacità definiscono la missione
del governo rappresentativo. Una serie di nuove forme di conoscenza porta
adesso la “verità” delle vittime all’interno del sistema penale e al di là di
questo. Le verità di queste vittime sono potenti, e spesso travolgono il
significato emotivo di altre questioni. Esse minano le forme di solidarietà e
di responsabilità necessarie alle istituzioni democratiche.21

L’esame di questi autori delinea dunque il quadro di un’America che
si riscopre in qualche misura razzista e classista, insicura e dominata
da un discorso politico dai caratteri fortemente neo-autoritari, nel
quale le ragioni dell’economia neoliberale hanno la meglio rispetto a
quelle sociali e del welfare-state.
Le conseguenze, delineate efficacemente da Jonathan Simon, di
questo Governo attraverso la criminalità, sulla democrazia sono
enormi:



20
   Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag,
Milano, Elèuthera, 1996
21
   Jonathan Simon, Il governo della paura, cit., pag. 9



                                                                            27
che si individui il valore della democrazia americana nelle sue
caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la
criminalità ha prodotto effetti negativi.22

In primo luogo la trasformazione dal cosiddetto “stato sociale” allo
“stato penale” a causa delle ingenti risorse finanziare tolte al sistema
welfaristico e dirottate verso il sistema punitivo e penale; inoltre il
distaccamento dai principi neoliberali di uno stato “leggero” in
favore di uno stato forte e autoritario.
L’ipertrofia del sistema penale e la sua connotazione razziale sono
anch’esse parte delle conseguenze della war on crime tanto decantata
da questo o da quel governo.

Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di
americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica
di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute
incarcerazioni, oppure delle conseguenze a lungo termine di una condanna
penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende da
quegli schiavi liberati.23

Tutto ciò poi, e questo è il dato forse più importante, non ha prodotto
alcun tipo di risultato in termini di riduzione dei tassi di criminalità o
di percezione dell’insicurezza tra i cittadini: come si evince dai dati
riportati precedentemente, la criminalità negli Stati Uniti è in netto e
continuo calo dalla metà degli anni Settanta ad oggi. L’unico
risultato conseguito è stato quello di stigmatizzare una popolazione
già vessata dalla povertà.
Anche la middle class, come già accennato prima, subisce
conseguenze importanti: con la “vittimizzazione dei cittadini” essi si
sentono assediati e vivono in un continuo stato di tensione emotiva e
di paura dell’altro; non a caso numerose ricerche testimoniano come
decisioni importanti della vita famigliare, come ad esempio dove
mandare i figli a scuola o dove lavorare, sono prese in base al rischio
percepito.
22
     Ibidem, pag. 7
23
     Ibidem, pag. 8



28
Inoltre, sempre a proposito delle gated communities e della
privatizzazione della sicurezza

un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora
più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela
delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad
alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni
inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo
appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un
gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio
solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde.24




1.2 La trasformazione da Stato Sociale a Stato Penale:
    excursus storico sul trattamento delle devianze e sul
    controllo sociale.

Quando, nella maggior parte degli studi criminologici effettuati
prima dell’avvento dei nuovi paradigmi sicuritari, si studia il
rapporto tra devianza e controllo sociale, si tende a mantenere un
nesso causale con una doppia direzione: da un lato viene ricercata
una causa della devianza (che può essere la situazione sociale, la
malvagità individuale, povertà, ecc…). Dall’altro lato si pensa che il
controllo sociale sia una conseguenza della devianza, per cui “chi
devia sottoposto a controllo sociale”.
Tuttavia, già la sociologia classica aveva rigettato la logica causale
per i processi sociologici, vedendo questi processi non come
semplici rapporti causa-effetto, ma come situazioni che scaturiscono
da un’innumerevole serie di fattori correlati tra di loro. La
criminologia, al contrario, sembra essere rimasta ferma, fino circa
alla metà degli anni Ottanta, a questo tipo di luoghi comuni.25
24
  Ibidem, pag. 9
25
  In verità esistono numerose correnti critiche della criminologia che
rigettarono a tempo debito il nesso causale dei processi sociali, come ad
esempio le labelling theory (teorie dell’etichettamento) che vedono la



                                                                            29
Inoltre, una dimensione importante del controllo sociale è quella
temporale: infatti i suoi dispositivi sono sempre proiettati nel futuro,
tendono a voler neutralizzare comportamenti possibili nell’arco
temporale successivo a quello della propria messa in opera.
Ora, se l’idea intuitiva di controllo sociale è sicuramente immediata,
non è tale la sua definizione in termini scientifici; numerosi sociologi
hanno dato le più svariate definizioni del termine, e tutte peraltro con
un’accezione differente.
Quella che mi sembra più azzeccata, rispetto al discorso che stiamo
trattando, è quella di Alessandro De Giorgi (di chiara ispirazione
foucaultiana), contenuta in un saggio il cui tema principale è proprio
il controllo sociale:

Il controllo sociale è senza dubbio definibile come un insieme di funzioni
attribuite a certi apparati o a certe strutture storicamente determinate, la cui
caratteristiche mutano nello spazio e nel tempo. Queste funzioni, in una
lettura molto semplificata, consistono nel ridurre le possibilità di
comportamento di un individuo, determinando quindi vincoli, dispositivi di
scoperta dell’infrazione e di punizione.26

La criminologia recente ha subito un brusco cambiamento per quanto
concerne lo studio e la prevenzione delle devianze: negli anni a
cavallo fra il 1960 e il 1980 la devianza, come dicevamo, era
sostanzialmente concepita come l’effetto di una o più cause (di volta
in volta psicologiche, sociali, ecc…). Le varie teorie si
differenziavano soltanto per l’attribuzione della preminenza delle
cause a fattori individuali o sociali.
Ciò che senz’altro ci lasciano questo tipo di teorie è il fatto di
sostenere la possibilità di un intervento di eliminazione delle cause
che fanno scaturire il comportamento deviante come risoluzione di

devianza come il prodotto di un complicato processo di definizioni da parte
degli altri individui o della collettività. Per una rassegna delle principali
teorie criminologiche si veda: Augusto Balloni, Criminologia in
prospettiva, Bologna, Clueb, 1983 oppure il più recente Dario Melossi,
Stato, controllo sociale, devianza, Milano, Bruno Mondadori, 2002
26
   Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 23



30
questo tipo di problematiche. Ancora, le diverse teorie, dibattevano
se non fosse meglio modificare i contesti sociali all’interno dei quali
avvenivano i comportamenti devianti, oppure trasformare gli
individui affinché venisse neutralizzata la propria carica deviante.
Si assiste, in pratica, alla diffusione del “modello correzionale”, un
modello per il quale la penalità, che rimaneva comunque necessaria
per sanzionare i comportamenti criminali, avrebbe dovuto mantenere
una funzione dominante: quella riabilitativa.
E questo divenne presto il paradigma dominante sia in criminologia,
quanto in politica.
Infatti, per quanto concerne le politiche di welfare, esse tendevano
alla diminuzione della popolazione delle istituzioni totali (carceri,
manicomi, ecc…) e al trattamento dei devianti all’interno di altre
istituzioni, come la famiglia, il servizio sociale, il lavoro e via
dicendo.

La diffusione di queste politiche produce, da un lato, una considerevole
riduzione della popolazione carceraria, che in Italia (ma anche negli Stati
Uniti) conosce i suoi minimi storici nei primissimi anni Settanta; dall’altro,
un allargamento di fatto delle reti del controllo, nel senso che sempre più
individui sono soggetti a qualche forma di trattamento, di gestione da parte
di istituzioni o strutture dell’assistenza sociale, dell’intervento comunitario,
della libertà vigilata.27

Con il finire degli anni Settanta, il modello correzionale entra in
crisi, essenzialmente per due ordini di ragioni: da un lato questo tipo
di modello sembra non funzionare, dall’altro la società viene
investita da una crisi delle finanze statali che comporta una drastica
riduzione delle spese sociali, in barba al modello keynesiano fino ad
allora dominante.
Sul perché questo modello sembra non funzionare, la spiegazione è
molto semplice: gli unici parametri adottati dalle istituzioni statali
per valutare il buon funzionamento o meno di queste strategie,
risultavano essere i tassi di recidiva. In base a questi dati, la cui

27
     Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., corsivo mio.



                                                                            31
pecca era tuttavia quella di non tenere conto degli innumerevoli
mutamenti sociali che stavano investendo le società occidentali in
quegli anni, la criminalità non solo non era diminuita, per giunta
aumentavano i crimini di strada e il conseguente senso di insicurezza
sociale percepito.
La crisi delle finanze statali ha dato il colpo di grazia definitivo a
questo modello: a fronte della crisi si sviluppano infatti politiche di
drastica riduzione dei fondi destinati ai servizi sociali e più in
generale alle politiche di welfare, di conseguenza si preferisce
finanziare soltanto gli interventi immediati e repressivi nei confronti
della criminalità.
Si sviluppa allora una nuova scuola di criminologi28 che abbandona
del tutto il paradigma causale (l’eziologia) della devianza. Per questi
studiosi il criminale è un individuo, dotato di normali capacità
intellettive, che decide razionalmente di compiere un atto deviante.
Le condizioni sociali, lo status economico, il contesto nel quale il
soggetto agisce non hanno di colpo più alcuna importanza.
Una conseguenza più che scontata di questo nuovo tipo di approccio
è data dal fatto che se prima si ricorreva alla pena a scopo
riabilitativo, ora la pena ha valore deterrente e intimidatorio.29
Questo nuova ondata di teorie si basa semplicemente sull’analisi
costi-benefici tipica del mondo economico. Una strategia è valida se
comporta costi bassi e guadagni (in termini di abbassamento dei tassi
di criminalità) elevati.
28
   Si vedano ad esempio: Ernest Van Den Haag, Punishing criminals, New
York, Basic Books, 1975 e James Q.Wilson, Thinking about crime, New
York, Vintage, 1977 (tra l’altro quest’ultimo è stato anche consigliere del
presidente degli USA Ronald Reagan)
29
   “…i malvagi esistono. La sola cosa che si può fare è separarli dagli
innocenti. E molti, che non si trovano né in una categoria né nell’altra, ma
che, in disparte, osservano e fanno calcolo delle proprie opportunità,
soppesano attentamente la nostra reazione alla malvagità come un segnale
di ciò che essi potrebbero, con profitto, intraprendere. Noi non abbiamo
considerato con la dovuta attenzione i malvagi, ci siamo presi beffa degli
innocenti e abbiamo incoraggiato i calcolatori” Ernest Van Den Haag,
Punishing criminals, cit., pag.240



32
Gli stessi istituti preposti alla verifica dei risultati, non guardano più
soltanto ai livelli di criminalità, ma anche ai costi sostenuti.
Ora, come nota giustamente De Giorgi, considerare il delinquente
come homo economicus, razionale, che soppesa rischi e profitti della
sua attività criminale equivale a far sì che

le politiche punitive [siano] tanto più efficaci, quanto meno chi ne è
destinatario dispone di risorse di potere. Ciò che nell’ottica della criminalità
imprenditoriale costituisce solo un costo aggiuntivo dell’attività d’impresa,
da punto di vista del microcriminale di strada è invece un danno grave. […]
questa teoria si rivolge comunque alla criminalità dei deboli piuttosto che a
quella dei potenti. 30

La pena diventa quindi il modo attraverso il quale chi detiene il
potere di punire lo esercita allo scopo di eliminare il soggetto dallo
contesto sociale; questo tipo di sanzione viene legittimata dal fatto
che il soggetto artefice di un comportamento criminale merita il
castigo.
La funzione riabilitativa è definitivamente scomparsa.
Questo per quanto riguarda la punizione del soggetto che avviene in
seguito ad un comportamento criminale.
Ma a ben vedere, queste teorie, affrontano anche il nodo della
prevenzione del crimine in special modo, della violenza urbana.
La teoria più in voga su questo tema è senz’altro quella ereditata
dalla coppia di tutori dell’ordine e fautori della zero tolerance
rappresentata da Rudolph Giuliani (sindaco di New York tra il 1994
e il 2001) e il commissario del New York Police Department Bill
Bratton.
La coppia Giuliani-Bratton ha applicato appieno, nella New York dei
loro mandati, il concetto di zero tolerance: controlli severi ad ogni
angolo della strada, superpoteri alla polizia, controllo delle gangs,
tutela del decoro urbano e via dicendo.
La broken windows theory è stata la “bibbia” dei fautori della
tolleranza zero: questa teoria - più che una teoria è in verità un

30
     Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 32



                                                                            33
semplice articolo su una rivista scritto da uno scienziato della
politica e da un criminologo statunitensi, George L. Kelling e il già
citato James Q. Wilson - avanza l’ipotesi che eliminare il degrado
urbano in una città sia la chiave di volta per eliminare la vera e
propria criminalità.31
Secondo gli autori, un territorio sporco, degradato, disordinato (la
metafora della “finestra rotta” è così spiegata) contribuisce ad
aumentare la criminalità, questo a causa di un sentimento di
percezione di lontananza delle autorità che si instaurerebbe nelle
persone che vivono nell’ambiente degradato.
Per questa ragione gli interventi della polizia newyorkese, durante
l’amministrazione Giuliani-Bratton, che più rappresentarono il
“modello New York” furono diretti all’eliminazione dei
comportamenti di “devianza non criminale”, come ad esempio il
lavaggio dei vetri delle vetture ai semafori, i graffiti, il barbonaggio,
l’elemosina e via dicendo.
I dati sulla criminalità sembrerebbero aver dato ragione alla coppia
Bratton-Giuliani32, ma in verità ad un’attenta lettura, gli stessi dati
dimostrano che la criminalità a New York era già in netto calo da
almeno tre anni prima dell’applicazione dei precetti della tolleranza
zero. Inoltre, non solo a New York, ma in tutti gli Stati Uniti, anche
nelle città e negli stati in cui non è stata applicata la teoria delle
finestre rotte e la tolleranza zero, la criminalità è diminuita, il che fa
pensare più a una regressione fisiologica dei crimini che ai miracoli
della zero tolerance.
Inoltre, risulta difficile immaginare come, date le risorse a
disposizione della polizia del NYPD, possano essere stati applicati
31
   La broken windows theory è apparsa la prima volta in forma di articolo
sulla rivista “Monthly Rewiew” del marzo 1982. Si può visionare l’articolo
originale dall’archivio della rivista (
http://www.theatlantic.com/doc/198203/broken-windows )
32
   Complessivamente nel periodo 1994-1996 i reati denunciati a New Yok
sono calati del 30%, mentre gli omicidi sarebbero diminuiti addirittura del
40%. Allo stesso tempo il 73% degli abitanti di New York si dichiarano
soddisfatti dell’operato della polizia e dicono di sentirsi più sicuri, dato che
supera del 32% la media nazionale.



34
alla lettera i precetti della zero tolerance e della broken windows
theory; ora, è senz’altro veritiero che la polizia newyorkese abbia
riorientato i propri obiettivi verso l’ottica di tutelare l’ambiente fisico
dal degrado, cosa che prima non era deputata a fare, ma il rapporto
causa-effetto così come presentato dagli apologeti della tolleranza
zero non è dimostrabile. Infatti è più probabile che la polizia abbia
potuto orientare la propria attenzione verso il disordine proprio
perché i crimini di strada erano già in netto calo dai periodi
precedenti. In definitiva, sembra più probabile che non siano i
precetti della zero tolerance ad aver ridotto la criminalità, bensì la
riduzione (già in atto) della criminalità ad aver permesso
l’applicazione della tolleranza zero.
Per verificare il funzionamento dell’applicazione della tolleranza
zero e della “finestra rotta”, bisognerebbe confermare tre ipotesi: 1)
che nella New York di Giuliani-Bratton si siano realmente applicate
queste disposizioni, 2) che il calo della criminalità si sia verificato
esattamente in corrispondenza dell’applicazione di questo
orientamento e 3) che il calo della criminalità si sia verificato
soltanto a New York. Come abbiamo visto nessuna delle tre ipotesi
può essere confermata.
Tuttavia, uno sguardo al dibattito politico italiano attuale, soprattutto
per quanto riguarda le talvolta stravaganti ordinanze delle
amministrazioni comunali sparse sui territori in merito alle strategie
di contenimento della criminalità e del degrado, dà l’idea di quanto la
portata di questo tipo di teorie si rifletta anche sulla nostra società,
pur essendosi ormai consolidata come fallimento in altre parti del
mondo.
Le stesse parole di Jack Maple, braccio destro di Bratton presso il
NYPD, riportate fedelmente da Wacquant, dimostrano come la teoria
delle finestre rotte sia soltanto un’invenzione politico-mediatica tesa
ad aumentare la percezione di sicurezza e di vicinanza delle autorità
verso la popolazione:

“[In seguito a numerosi] reportage che registrano un sensibile calo della
criminalità violenta a New York, molti ne hanno attribuito il merito alla
nozione della “finestra rotta”, secondo la quale i malviventi avrebbero




                                                                        35
improvvisamente ritrovato la retta via perché respiravano un’aria di civiltà.
Non è così che funziona. Gli stupratori e gli assassini non si spostano verso
un'altra città quando si accorgono che nella metropolitana scompaiano i
graffiti. Lo squeegeman [il lavavetri] qualunque non si mette ad accettare
omicidi su commissione quando percepisce una maggiore tolleranza per la
sua attività. Chiedere l’elemosina non apre la strada agli assassini. […] La
politica di “qualità della vita” riduce il crimine perché consente di catturare
i delinquenti quando non sono all’opera, come quando un esercito attacca
gli aerei del nemico prima ancora del decollo” (Jack Maple) .33




1.3 Europa e Italia come banchi di prova (e di tenuta) dei
nuovi paradigmi sicuritari.

Sarebbe forse sorpreso Jack Maple nel leggere i quotidiani e
ascoltare le notizie dei telegiornali italiani ed europei. Quelle teorie e
prassi che egli stesso ha bollato come “inutili”, sono oggi all’ordine
del giorno nelle agende politiche degli amministratori locali e dei
governi dei principali paesi europei, con l’Italia a fare da capofila.
Non a caso, i leitmotiv dei quotidiani e dei telegiornali nazionali,
caratteristica comune a quasi tutti i paesi europei, non perdono
occasione per tracciare mappe catastrofiste delle violenze urbane,
accomunano bullismo da cortile di scuola, scippatori, omicidi e
migranti clandestini in un unico calderone mediatico sensazionalista,
attento allo scoop, al retroscena e spettacolare. La “pornografia
sicuritaria” citata in precedenza è, in Europa, la punta di diamante
del giornalismo di cronaca.
Venendo al caso italiano, si può notare, in perfetta armonia con le
tendenze degli altri paesi europei34, che gli effetti di questo tipo di
trattamento delle notizie di cronaca nera si riflette (con i meccanismi
33
   Jack Maple e Chris Mitchell, The crime figher: how you can make your
community crime-free, New York, Broadway Books, 1999 pp.154-155 cit.
in: Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit., pag.260
34
   Come, ancora una volta, evidenziato da Loïc Wacquant nel capitolo “Fac-
simile europeo” di Punire i poveri,cit., pp.241-282



36
che vedremo in parte anche nel capitolo successivo) pesantemente
sull’agenda e sul discorso dei politici.
Questo fa sì che ad oggi esista un super-schieramento ideologico che
abbraccia l’intero arco parlamentare (ricordiamo che i partiti di
estrema sinistra parlamentare, gli unici che si sono opposti insieme ai
movimenti sociali e sindacali all’implementazione di queste politiche
sicuritarie, sono usciti dal Parlamento con le elezioni politiche del
2008) dedito alla promozione e al sostegno delle politiche di zero
tolerance, seppur con sfumature differenti.35
Tutto questo clamore suscitato dalla presunta emergenza criminalità
in Italia è contraddetto nei numeri da un’importante inchiesta di una
serie di istituzioni internazionali preposte allo studio della
vittimizzazione nei vari paesi europei (ICVS, International Crime
Victimization Survey).
Questo studio36 mostra come i livelli di criminalità, o meglio, la
percentuale di persone che sono state vittime di un crimine in Italia
sia in costante diminuzione dal 1992 ad oggi: infatti se nel 1992 la
percentuale di persone vittime di uno tra i 10 crimini considerati più
comuni era di oltre il 20%, il valore si è attestato stabilmente intorno
al 12% nel 2004.
I livelli di criminalità nel nostro paese sono sotto la media della
maggioranza degli altri paesi europei, ad esclusione di Spagna,
Ungheria, Portogallo, Francia, Austria, Grecia.
La percentuale di popolazione vittima di un reato37 in Italia nel 2004
è intorno al 12%, quando la media europea si attesta intorno al 15%.
35
   Sulla svolta punitiva degli schieramenti progressisti europei: per il caso
italiano di rinnovamento della sinistra in materia penale è utile citare
Salvatore Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo stato penale,
Roma, Odradek, 2002.
36
   L’ultima inchiesta, datata 2004, è disponibile in versione integrale al sito
http://www.europeansafetyobservatory.eu/downloads/EUICS_The
%20Burden%20of%20Crime%20in%20the%20EU.pdf
37
   I reati presi in considerazione dall’indagine ICVS citata sono: furti di
veicoli, rapine, furti, truffe, violenze sessuali, atti di violenza, frodi. Ho
citato questa indagine perché incentrata proprio sul modello della vittima
come esempio di cittadino.



                                                                            37
Questi dati, seppur parziali, testimoniano come i roboanti proclami
sul disastro della sicurezza in Italia perpetuati costantemente da mass
media e politici, sembrino infondati.
Al pari degli Stati Uniti, vera mecca per i manager dell’ordine
pubblico nostrani, è probabile che il modello della tolleranza zero,
non porti significativi miglioramenti sul piano della riduzione della
criminalità, o, per lo meno, non ne sia una causa diretta.
Come abbiamo visto in precedenza, infatti, il “modello New York”
tanto decantato anche dai politici italiani, lascia aperti innumerevoli
dubbi sulla sua efficacia, a detta degli stessi suoi promotori ed
esecutori.
Il caso che mi sembra paradigmatico rispetto allo sviluppo e
attuazione di queste politiche in Italia al giorno d’oggi è quello del
controllo sulle popolazioni migranti.
Partendo dai dati a nostra disposizione38 vediamo come la
percentuale della popolazione immigrata residente in Europa sia pari
al 6,2% sul totale dei residenti, mentre il dato italiano si attesta
intorno al 6.5%, quindi senza particolari differenze rispetto al dato
europeo.
Già questo dovrebbe far pensare alle quotidiane esagerazioni dei
politici italiani (in special modo degli esponenti della Lega Nord) sul
presunto “stato d’assedio” nel quale si troverebbe il nostro paese.
Ora, i processi, le cause e le trasformazioni dei flussi
dell’immigrazione sono molto complessi e non è questa la sede per
una disamina completa di questo tipo di dinamiche, certo è che il
sentore di un’esagerazione mediatica ad opera di una certa parte
politica, soprattutto nei toni dei propri discorsi, rispetto al tema
dell’immigrazione è molto forte.
Un altro dato interessante riguarda il fatto che oltre 6 italiani su 10
pensano che la presenza degli immigrati in Italia sia la causa di un
aumento della criminalità.39

38
   Di cui il “Dossier statistico 2009” a cura di Caritas/Migrantes rappresenta
forse la fonte più completa e aggiornata
39
   Dati confermati dalle ricerche di Transcrime (centro inter-universitario di
studio sulla criminalità transazionale dell’Università di Trento e della



38
Questo dato, che rappresenta un sentore comune, seppur supportato
da alcuni studi statistici, tra cui quello commissionato dal Ministero
dell’Interno curato da Marzio Barbagli40, ci fa capire come il tema
dell’immigrazione sia percepito in stretta correlazione con il tema
della criminalità.
Infatti, una lettura parziale dei dati statistici ci consegna
un’immagine di un rapporto sproporzionato tra le percentuali degli
stranieri residenti, e delle stime sulla presenza di irregolari, (6,5%) e
le percentuali di crimini commessi da stranieri rispetto al totale dei
crimini commessi (33,4%).
Ora, esistono numerosi studi a tal proposito che rigettano in toto
l’ipotesi che l’immigrazione sia di per sé la causa di un aumento
della criminalità.41 Una ricerca in particolare, commissionata nel
2008 dalla Banca d’Italia, basata sulle statistiche del Ministero
dell’Interno dal 1990 al 2003, testimonia “l’assenza di una relazione
causale diretta tra immigrazione e crimine”.42
Secondo Melossi43 è in atto un processo di etichettamento o di stigma
fondato ad estendere agli immigrati la stessa considerazione che un
tempo veniva riservata ai poveri.


Cattolica di Milano), di Ismu-Eurisko, di Makno per il Ministero
dell’Interno e della Demos con la Coop.
40
   Si vedano a proposito: Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in
Italia, Bologna, Il Mulino, 2008 e Marzio Barbagli (a cura di), Rapporto
sulla criminalità in Italia, 2008 (scaricabile dal sito
http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0900_
rapporto_criminalita.pdf )
41
   Per esempio gli studi di Dario Melossi (uno su tutti Dario Melossi, Il
giurista, il sociologo e la “criminalizzazione” dei migranti: cosa significa
etichetta mento oggi?, in: Subordinazione informale e criminalizzazione dei
migranti. Studi sulla questione criminale, III, 3/208, 9-23) sono un esempio
di un approccio moderno alle labelling theory criminologiche.
42
   Paolo Bonanno e Paolo Pinotti, “Do immigrants cause crime?” in: Paris
School of Economics Working Paper N. 2008-05
43
   Dario Melossi, Il giurista, il sociologo e la criminalizzazione” dei
migranti: cosa significa etichettamento oggi?, cit.



                                                                           39
Certo è che il tasso di presenza dei migranti nelle carceri italiane è
incredibilmente sovra-rappresentato rispetto all’incidenza sulla
popolazione: gli immigrati rappresentano il 37% dell’intera
popolazione carceraria italiana, contro una percentuale di residenti
del 6,5% sul totale.
Viene dunque da chiedersi se esiste o no un parallelismo o meno tra
la connotazione razziale delle carceri americane così come
evidenziata da Loïc Wacquant e le carceri italiane.
Viene naturale chiedersi, insomma, perché

in Italia, in Europa e negli Stati Uniti il carcere è sempre più nero. 44

Le politiche restrittive sull’immigrazione, ricordiamo non da ultima
l’introduzione del “reato di clandestinità” già giudicato
anticostituzionale da diverse sentenze, fanno sì che si crei un
abbondante numero di persone che vengono stigmatizzate a
prescindere dal fatto che esse abbiano compiuto o meno un reato.
Per capire la portata di questo tipo di provvedimento legislativo, il
reato di clandestinità, basta riportare che, dalla sua entrata in vigore,
pochi mesi or sono, oltre il 20% sul totale della popolazione
carceraria di origine straniera si trova in carcere per aver
contravvenuto a questo provvedimento.45
Questo da un lato tende ovviamente a favorire l’entrata di queste
persone nelle economie illegali di strada come uniche fonti di reddito
e di sopravvivenza, dall’altro crea ampi margini di sfruttamento
economico per chi decide comunque di impegnarsi in un’attività
lavorativa “sommersa”, quella del lavoro nero. Il migrante è spesso
costretto a lavorare “in nero”, per pochi spiccioli e con margini di
ricattabilità enormi: se ci si ribella allo sfruttamento, ecco pronta
l’espulsione o, dall’emanazione del Pacchetto Sicurezza, il carcere
per immigrazione clandestina.
Il tutto, ovviamente, accompagnato da una sorta di processo
mediatico continuo nei confronti delle popolazioni migranti. L’idea
44
     Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 50
45
     Fonte: Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria



40
di base sembra essere quella di enfatizzare da un lato i crimini
quando commessi da immigrati, dall’altro sottolineare i casi di
integrazione dell’immigrato con reportage e servizi speciali, per
mostrare “quanto è bravo questo immigrato” (che è un caso isolato, a
differenza della maggior parte dei suoi conterranei).
È forte dunque il dubbio che la creazione di questo “nemico interno”
sia decisamente funzionale a distogliere l’opinione pubblica dai reali
problemi della società e della politica.

Oltre alla questione migrante, sicuramente più articolata e complessa
di come è stata trattata in questo testo, ma che serve dare spunti di
riflessione e non ad una trattazione completa del tema, nuove
normative sicuritarie hanno investito gli altri strati della società.
La recente approvazione del “Pacchetto Sicurezza” ha in sé tutte le
caratteristiche della propaganda mediatico-politica delle parole
d’ordine della zero tolerance.
Nonostante questo tipo di norme si sia dimostrato di dubbia utilità
negli Stati Uniti ecco che con quasi vent’anni di ritardo si tenta una
loro applicazione alla legislazione italiana.
Quindi vediamo possibilità di sanzioni pesanti per chi sporca i luoghi
pubblici con graffiti o prodotti fisiologici, la possibilità di
sperimentare la “sicurezza partecipata” (le cosiddette ronde), viene
punito l’accattonaggio, sono aggravate le pene per furti e rapine, e
così via.



Conclusioni

Possiamo allora affermare che, ancora una volta, i temi e le azioni di
governo, e più in generale della politica, tendono ancora a non tener
conto delle migliaia di pagine spese in studi sociologici, statistici e
criminologici sull’impatto negativo dei nuovi paradigmi sicuritari
sulla democrazia.




                                                                    41
Il teatrino morale scatenato di volta in volta dagli episodi di violenza
urbana, piuttosto che dal rumeno che ubriaco alla guida investe e
uccide una ragazza, o dai drammi famigliari, è all’ordine del giorno,
si sprecano le interviste ai leader politici che infiammano le piazze
(mediatiche) chiedendo maggior severità e repressione.
I periodici pullulano di inchieste sulle “zone proibite della città” o
sulle “mappe della criminalità”, mischiando sensazionalismo e
moralismo.
Dappertutto, dai bar di quartiere al Parlamento, si sentono ripetere i
soliti discorsi su quanto siano inadeguate le politiche lassiste e
garantiste della magistratura, sull’indignazione e insicurezza dei
cittadini perbene di fronte all’ondata criminale e così via.
Abbiamo visto come le emergenze mediatiche impattano sull’agenda
politica e come la politica assorbe queste questioni facendone un
proprio cavallo di battaglia teso ad aumentare, sul piano simbolico,
l’autorità dello Stato in un momento di crisi della forma-stato stessa
scaturita dai dettami neoliberali.
Il populismo che stravince dentro alle cabine elettorali è la chiave di
volta di questi processi demistificatori e semplicisti, verso i quali
sembra ormai legittimo il sospetto di loro utilizzo “altro” rispetto
all’aumento della sicurezza urbana nelle nostre città.
Sembra che la politica adotti la strategia “legge e ordine” come
meccanismo di semplificazione delle problematiche, di ben altra
portata, scaturite dall’avvento dei paradigmi postfordisti prima e
dalla crisi finanziaria planetaria oggi.
Detto questo non posso che auspicare un cambiamento di rotta negli
anni che si susseguiranno al nuovo scenario globale che ci si
prospetta davanti, qualora la crisi venga superata. Già il nuovo corso
della politica statunitense, dopo quasi 10 anni di populismo
autoritario targato Bush jr., lascia aperti margini di cambiamento,
verso un approccio alla criminalità, alla devianza e più in generale
alla politica, serio e preciso nell’analizzare i cambiamenti sociali ed
economici della popolazione e che non si serva di feticci quali i
“nemici interni” e le presunte emergenze criminalità per legittimare
l’estensione delle pratiche di dominio sulle classi meno abbienti.




42
CAPITOLO 2
      Comunicazione, sistema politico e cittadini


Introduzione

La società moderna, quella per intenderci nata dopo la Rivoluzione
Industriale, è stata da molti definita come la società
dell’informazione. Se in precedenza il ruolo delle comunicazioni era
essenzialmente circoscritto ad uno spazio dialogico tra élite politiche
e sociali, al giorno d’oggi rappresenta la possibilità di connettere
strati differenti delle popolazioni, annullare le distanze fisiche,
abbattere i limiti temporali dei flussi di informazione.
Si pensi soltanto al ruolo decisivo che ha avuto la televisione italiana
nel processo di alfabetizzazione delle classi sociali inferiori, o alla
moderna funzione di Internet come strumento che permette
(virtualmente) di connettere luoghi fisicamente lontanissimi
attraverso, appunto, i flussi di informazione.
Questi esempi solo per rendere l’idea della potenza del sistema dei
media nella nostra società.
I rapporti tra mass-media, sistema politico e cittadino rientrano
nell’analisi complessa del filone della “comunicazione politica”.
Se si vuole indagare il contesto entro il quale le nuove tendenze
sicuritarie si inseriscono e se, come è mia intenzione, vogliamo
sviluppare un ragionamento intorno alla drammatizzazione della
criminalità e al perché assistiamo a una sempre più marcata
creazione dell’insicurezza tra i cittadini, non si può non affrontare
seppure in modo sintetico il nodo dei rapporti tra il sistema delle
comunicazioni e il sistema politico, nonché il rapporto tra questi e i
cittadini.
Proprio perché queste nuove tendenze sono amplificate e
ampiamente trattate dai quotidiani e dalle televisioni, credo sia
necessario fermarsi un momento a riflettere sul ruolo delle




                                                                     43
comunicazioni nel contesto politico istituzionale e, soprattutto, sui
suoi effetti nella popolazione.
Dopo aver definito i concetti di comunicazione politica e aver
presentato attori e modelli della comunicazione politica, andrò ad
esaminare i rapporti e i flussi comunicativi che permettono a questi
attori di interagire all’interno dello spazio pubblico (mediatizzato).
Infine esaminerò le ultime tendenze nel campo della comunicazione
politica, per tracciare una panoramica più moderna e
immediatamente riscontrabile del ruolo dell’informazione sugli altri
due sistemi.
Questo capitolo vuole essere una sorta di ponte che collega la parte
specificatamente teorica affrontata nel capitolo precedente, che è
andata ad esaminare la nascita di concetti come zero tolerance e le
nuove politiche di trattamento delle devianze alla luce dei
cambiamenti sociali ed economici avvenuti nel mondo occidentale
negli ultimi 30 anni, con il capitolo di ricerca empirica sulla città di
Reggio Emilia, città sotto questo aspetto particolare per due motivi:
da un lato vediamo come quella da sempre definita come “fortezza
rossa”, esempio del buon governo della sinistra, sia assediata dalla
minaccia Lega Nord, che fa della retorica populista e sicuritaria il
proprio cavallo di battaglia.
Dall’altro lato notiamo la tendenza, da parte degli amministratori di
centrosinistra, ad abbracciare le logiche della tolleranza zero a fronte
della minaccia di un’insicurezza (e quindi di un giudizio elettorale
negativo nei confronti del governo della città) percepita diffusamente
dai cittadini.
Intendo questo breve capitolo, dunque, come inquadramento teorico-
pratico della ricerca che presenterò nella terza parte di questo testo,
come una sintetica traccia utile a definire le linee guida del lavoro
empirico successivo, ossia utile a cogliere appieno, anche se in
estrema sintesi, i meccanismi che regolano la comunicazione
politica.




44
2.1 Il campo della comunicazione politica

A questo proposito è utile iniziare con alcune definizioni dei tre
attori principali di qualsiasi modello della comunicazione politica:
sistema politico, sistema dei media e cittadini, infatti, sono soggetti
le cui differenti modalità di intreccio vanno a configurare diversi
aspetti del problema che si vuole trattare in questo testo.
Lo sviluppo del concetto di comunicazione politica (le cui
caratteristiche di interdisciplinarità lo rendono ancora un concetto
dagli incerti confini) deriva dall’evoluzione e dalla trasformazione di
quel modello di sfera pubblica borghese, nell’accezione di Jurgen
Habermas, che vede nel pubblico dei cittadini il depositario delle
strutture e dei processi della democrazia, riconoscendo nel modello
della polis greca l’ideale di partecipazione del pubblico alla sfera
politica democratica.
Un primo fondamentale tratto del concetto di comunicazione politica
va dunque ricercato nella profondità del suo legame con la
democrazia.
Gli esperimenti totalitari o dittatoriali, così come i regni, i principati
o le monarchie, non possono dunque essere considerati come sistemi
al cui interno viene sviluppata una vera e propria comunicazione
politica, poiché prevedono un modello di pubblico senza voce,
inerme di fronte alle scelte del leader.
Ora, numerose critiche possono essere mosse alla concezione
habermasiana di sfera pubblica borghese che presuppone un pubblico
di cittadini ben informati, culturalmente attivi, critici e partecipanti a
pieno titolo nell’esperienza politica democratica, cosa che sembra
ovvio non essere, ma possiamo mantenere valido il concetto come
strumento euristico.46
Mi sembra altresì ragionevole rigettare le pessimistiche critiche,
pervenute soprattutto dalla scuola francofortese, che vedono il
cittadino inerme di fronte alla potenza manipolatrice dei mass media
(vedi ad esempio le teorie ipodermiche della comunicazione
46
  Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, Laterza,
2008 (prima ed. originale del 1962)



                                                                         45
massificata), così come le teorie lazarsfieldiane sugli effetti limitati
dei media che non colgono appieno le dinamiche di
influenza/ricezione dei media sul pubblico. Credo essere più centrata
un’analisi che vede nel sistema dei media un attore importante della
comunicazione politica, un mediatore non neutrale della dialettica tra
politica e cittadini, in grado di trasformare quello che storicamente
(prendendo l’agorà greca come esempio paradigmatico) era lo
spazio pubblico, in spazio pubblico mediatizzato.
All’interno dello spazio pubblico mediatizzato

i media vengono ad occupare il ruolo di perno della comunicazione
ascendente e discendente tra il pubblico dei cittadini e sistema della politica
[…]. Lo spazio pubblico dei mass media non esaurisce, tuttavia, lo spazio
pubblico perché esiste un territorio, quello della “società civile” al cui
interno nascono sensibilità verso issues (per esempio la pace, il nucleare, il
terzo mondo, il femminismo e le questioni etniche), si sviluppa un dibattito
tra intellettuali, piccoli gruppi, viene raccolto e diffuso da associazioni e da
una stampa specializzata, si trasforma lentamente in movimenti e nuove
subculture e finalmente raggiunge per mezzo dei mass media l’opinione
pubblica più ampia, interessando lo spazio pubblico generale.47

Abbiamo dunque circoscritto il campo di azione della comunicazione
politica ad un limitato e ben preciso contesto, lo spazio pubblico
mediatizzato.
A tal proposito, prima di vedere quali sono i due principali modelli
teorici della comunicazione politica, conviene definire sinteticamente
gli attori che in questi modelli agiscono e interagiscono:

1) Sistema politico: per sistema politico in generale si intende
quell’insieme di istituzioni politiche che costituiscono lo scheletro
della vita politica di un paese. Per il caso italiano dunque parliamo di
membri del sistema politico quando ci riferiamo al parlamento, al
governo, al presidente della repubblica, la magistratura, enti questi
che solitamente producono comunicazione istituzionale.
47
  Gianpietro Mazzoleni, La comunicazione politica, Bologna, Il Mulino,
2004, pag. 19



46
Ma non trascuriamo nemmeno i partiti, i sindacati, i movimenti
sociali e di base, i single issue movements, e via dicendo che
rientrano anch’essi a pieno titolo nel sistema politico, ma che
producono un altro tipo di comunicazione: quella “politico-partitica”.

2) Sistema dei media: quando parliamo di sistema dei media ci
riferiamo a tutte quelle istituzioni mediali che svolgono attività di
produzione e distribuzione del sapere (informazioni, idee, cultura).48
Ovviamente rientrano in questa categoria i mass media tradizionali, i
nuovi media (come Internet e le nuove infrastrutture informatico -
comunicative), i periodici, i quotidiani di partito, ecc.

3) Cittadini: rientrano in questa categoria tutte le persone che
risiedono nel paese, questa categoria è forse la più problematica da
definirsi perché estremamente disomogenea, il che fa emergere
notevoli difficoltà quando si tratta di definire un concetto come
quello di opinione pubblica49.




2.2 Modelli della comunicazione politica

I due principali modelli della comunicazione sono quello
«pubblicistico-dialogico» e quello «mediatico».
Il primo, oggi ormai contraddetto dalle evidenze empiriche sul
concetto di comunicazione politica, vede i tre attori principali in un
continuo scambio dialettico e dialogico tra di loro: esistono
essenzialmente quattro spazi di comunicazione: a) tra sistema
politico e sistema dei media, b) tra sistema dei media e cittadini, c)
tra sistema politico e cittadini e d) lo spazio politico mediatizzato che
risulta dall’interazione tra tutti e tre questi sistemi.
48
   Denis McQuail, Sociologia dei media, IV ed. aggiornata, Bologna, Il
Mulino, 2001
49
   Per una panoramica dei principali contributi teorici sul tema: Stefano
Cristante, L’onda anonima, Roma, Meltemi, 2004



                                                                            47
Questo modello risulta, dicevamo, contraddetto dai fatti, in favore
del secondo tipo di modello che vede ogni scambio comunicativo tra
sistema politico e cittadini inserito all’interno del sistema dei media
il che tiene conto dell’ormai comprovato peso specifico maggiore dei
media rispetto agli altri due attori (l’avvento della televisione è un
esempio emblematico a riguardo).
Il modello «mediatico» dunque tiene conto della concettualizzazione,
già fatta in precedenza, di spazio pubblico mediatizzato, ossia del
fatto che i media sono il veicolo principale del dibattito politico.
Secondo alcuni, addirittura, l’arena politica corrisponde in toto al
sistema dei media, non ci sono altri spazi di dialettica politica.

Tengo a precisare che questi tipi di modelli, riflettono una
concezione, derivata chiaramente dalla teoria dei sistemi sociali di
Niklas Luhmann50, che sembrerebbe vedere ognuno di questi sistemi
e le relazioni che creano tra di essi come perfettamente equilibrati e
omogenei al loro interno. Ovviamente si tratta di una concezione
teoricamente limpida e formalmente ineccepibile, salvo poi non
corrispondere esattamente a ciò che accade nella realtà.
Lo stesso Luhmann denuncia questo rischio, prevedendo comunque
la possibilità di conflitti all’interno degli stessi sistemi e
confermando come le situazioni di equilibrio sono fortemente
instabili e mutevoli.51

Ci resta dunque da vedere in che modo si articolano i rapporti tra
questi tre attori politici e, soprattutto, quali sono le nuove tendenze in
fatto di comunicazione politica (mediatizzata).
Per articolare un discorso esauriente sulle nuove politiche sicuritarie
parto dall’ipotesi, immediatamente riscontrabile nel senso comune,
che siano i mass media ad amplificare le voci degli attori politici che

50
   La teoria dei sistemi sociali di Luhmann è presente in tutta la sua opera,
possiamo citare, come maggiormente pertinente al tema che stiamo
trattando: Niklas Luhmann, La realtà dei mass media, Milano, Franco
Angeli, 2000
51
   Niklas Luhmann, La realtà dei mass media, cit.



48
tendono a creare allarmismi sulle (vere o presunte) emergenze-
sicurezza/ordine pubblico.
Per fare ciò credo che soffermarsi sui rapporti tra sistema dei media e
sistema politico (in entrambe le direzioni dei flussi comunicativi) e
tra sistema dei media e cittadini (nei termini di ricezione/influenza)
sia sufficiente per dare una base teorica alla presentazione dei
risultati della ricerca condotta sulla città di Reggio Emilia.
Decido consapevolmente di tralasciare il discorso del rapporto diretto
tra sistema politico e cittadini perché facilmente concepibile come
flusso comunicativo che in una direzione è rappresentato dalle
comunicazioni istituzionali, dalla propaganda e dalle campagne
elettorali, mentre dall’altro consiste essenzialmente nel voto come
mezzo di partecipazione dei cittadini alla politica.
Per un’esauriente trattazione di questo, come degli altri temi presenti
in questo capitolo, rimando ancora all’esauriente testo di Mazzoleni.
52




2.3 Sistema dei media e sistema politico (ovvero gli effetti
sistemici della mediatizzazione della politica)

Il processo, oramai ampiamente riconosciuto dalla comunità
scientifica, della cosiddetta «mediatizzazione della politica», ovvero
l’interdipendenza del sistema politico e del sistema dei media nei
termini di reciproco scambio e di costante ricerca di equilibrio tra
politica e «fourth branch of governement»53, è una diretta
conseguenza della potenza dei media anche come istituzione che si
sostituisce alle tradizionali agenzie di socializzazione (chiesa, scuola,
partiti).
52
  Giampiero Mazzoleni, La comunicazione politica, cit.
53
  Concetto efficacemente spiegato in: Timothy E. Cook, Governing with
the news, Chicago, Chicago University Press, 1998, oppure in:
Bartholomew J. Sparrow, Uncertain guardians, Baltimore, Johns Hopkins
University Press, 1999



                                                                      49
Dobbiamo dunque ricercare l’origine della mediatizzazione della
politica nella mediatizzazione della società: è un processo ormai
normale quello che si verifica nelle società a capitalismo avanzato,
dove persino alcune relazioni sociali sono mediatizzate (si pensi
all’utilizzo in continua espansione dei social networks o delle chat-
lines).
Abbiamo volutamente parlato di interdipendenza del sistema politico
e del sistema dei media: infatti, ad oggi, nessuno dei due sistemi è
riuscito (o ha avuto l’intenzione di) sopraffare l’altro; il sistema
politico ha bisogno del sistema dei media per veicolare le proprie
informazioni non meno di quanto il sistema dei media ha bisogno di
un sistema politico che produca informazioni politiche da veicolare.
Niklas Luhmann identifica il potere nella comunicazione come
«facoltà di influenzare la selezione dei simboli e degli atti»
all’interno delle interazioni sociali54, intendendo la comunicazione
del sistema politico al sistema dei media come espressione di un
rapporto di potere con il quale il sistema politico intende influenzare
il sistema dei media attraverso processi di regolamentazione (leggi
mirate a governare i media), media e news management (tentato
condizionamento delle attività dei media).
Al contempo il sistema dei media si protegge da queste influenze con
i processi di mediatizzazione (imposizione del linguaggio dei media
ai linguaggi della politica), watch dogging (media come “cani da
guardia” nei confronti del sistema politico e a favore delle istanze dei
cittadini).
Seguendo ancora Mazzoleni55 possiamo suddividere gli effetti
sistemici del sistema dei media sul sistema politico (e viceversa) in
due categorie:
     1) Effetti mediatici e 2) effetti politici.

Per quanto concerne la prima categoria possiamo elencare
sinteticamente questo tipo di effetti in spettacolarizzazione, agenda

54
   Niklas Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore,
1979
55
   Giampiero Mazzoleni, La comunicazione politica, cit.



50
setting/agenda building e frammentazione dell’informazione
politica.
Parlando di spettacolarizzazione della politica, possiamo già
intuitivamente capire di cosa si tratta, ovvero di una
drammatizzazione della retorica, dei simboli, dei linguaggi e dei riti
della politica, sempre sotto l’occhio vigile dei media (soprattutto
della televisione).
La frammentazione dell’informazione politica si riferisce al
fenomeno di impoverimento del discorso politico in virtù delle
esigenze dei media: si pensi ad esempio ad un comune telegiornale,
difficilmente si riesce a comprendere appieno un discorso politico,
alle volte anche molto complesso, tramite servizi di 60-120 secondi.
La frammentazione dell’informazione politica comporta un
impoverimento e “banalizzazione” della politica agli occhi degli
spettatori/lettori.
L’effetto forse più interessante per quel che riguarda il fenomeno di
deriva sicuritaria che stiamo cercando di analizzare consiste
senz’altro nella costruzione dell’agenda politica. I mass media
influenzano in maniera decisiva quanti e quali temi verranno trattati
dal sistema politico e saranno a loro volta al centro del dibattito
pubblico.
I politici sono così obbligati a fare dichiarazioni, interventi sui temi
scottanti dell’agenda costruita dal sistema dei media. Nel nostro
caso, i direttori di quotidiani e telegiornali sanno bene che il
trattamento di eclatanti casi di cronaca nera, di presunti allarmi
criminalità, possono fare impennare le vendite dei propri prodotti
mediali; sono questioni che entrano nell’intimo dei cittadini che si
vedono così costretti a confrontarsi con le proprie paure più
recondite, quelle che entrano nel recinto della propria vita privata e
della propria incolumità percepita.
I politici e gli amministratori devono necessariamente intervenire sui
dibattiti intorno alla sicurezza e, quasi sempre, intervengono
richiedendo o promettendo di attuare misure drastiche di contrasto
alla criminalità, sottolineando bene ai cittadini-elettori che questo
può avere un costo anche sull’esercizio delle libertà individuali.




                                                                     51
Il linguaggio politico (inteso in senso foucaultiano come sistema di
pratiche linguistiche che contribuiscono alla costruzione sociale
della realtà) viene così centrato sui temi dettati dai media, con toni
allarmistici, spettacolari e drammatizzanti.

Per quanto concerne, invece, l’altra tipologia di effetti che il sistema
dei media ha sul sistema politico (i cosiddetti effetti politici),
possiamo definirla come quell’insieme di effetti che si ripercuotono
sulle interazioni tra le componenti del sistema politico stesso.
Essi sono consistono essenzialmente in tre processi: leaderizzazione,
personalizzazione e selezione delle élite.
La personalizzazione e la leaderizzazione della politica sono due
facce della stessa medaglia: la logica dei media prevede un interesse
maggiore alle gesta di un personaggio o di un leader piuttosto al
noioso discorso politico. L’insieme di questi due effetti produce
alcune delle sfumature più evidenti del populismo, fenomeno
importantissimo della realtà politica italiana dal post-tangentopoli ad
oggi.
Il sistema premia i candidati più carismatici, telegenici e dalla battuta
pronta, rispetto a politici magari più preparati, ma con scarsa
personalità e poca attitudine al mondo dello spettacolo.




2.4 Sistema dei media e cittadini (ovvero gli effetti
psicosociali della mediatizzazione della politica)

Se vogliamo, per concludere, tracciare un percorso completo sulla
comunicazione politica non possiamo tralasciare gli effetti della
mediatizzazione della politica sul cittadino-elettore.
Proprio perché, nelle democrazie, è il cittadino che funge da
depositario e garante delle regole democratiche, attraverso la
rappresentanza, è necessario indagare al fine di cogliere questo tipo
di effetti, rimanendo in equilibrio tra le teorie pessimistiche che
vedono nei media un potente manipolatore (a sua volta manipolato



52
dalle élite politiche) dei cittadini e le teorie, come ad esempio quelle
di Lazarsfield, che predicano gli effetti minimi (di rinforzo di
predisposizioni già esistenti) dei media sui cittadini.56
Nei modelli della comunicazione politica visti in precedenza, il
cittadino-elettore ha un peso nettamente minore rispetto a sistema
politico e sistema dei media, ma questo non significa comunque
negare in toto l’importante ruolo che svolge all’interno dello spazio
politico mediatizzato.
Infatti, è generalmente il “popolo” che elegge i politici che
gestiranno poi il potere, ed è lo stesso “popolo” che legittima, sceglie
e dà fiducia ai media attraverso il consumo di prodotti mediali.
Nella scienza politica moderna, poi, si parla giustamente di “crisi
della rappresentanza”, concetto che meriterebbe un adeguato
approfondimento, per il quale possiamo comunque rimandare ad un
saggio di Giovanni Sartori che traccia le linee guida del dibattito
sulla rappresentanza.57

Gli effetti più importanti dei media sul cittadino sono riassumibili in:
effetti sulla socializzazione politica, effetti sulla conoscenza politica
ed effetti sulla partecipazione politica.
Per quanto riguarda il primo tipo di effetti, è innanzitutto necessario
definire il concetto di socializzazione politica, come quel processo
attraverso il quale i bambini apprendono le norme valoriali e
comportamentali rispetto alla politica.
I mass media, in questo senso, rivestono un ruolo importante:
abbiamo già detto che nella fase sociale e politica nella quale ci
56
   Per quanto riguarda il primo tipo di teorie sugli effetti dei media (teorie
ipodermiche) si veda: Charles Wright Mills, Power, politics and people,
New York, Oxford University Press, 1967. Per il secondo tipo di teorie
(degli effetti minimi) si veda: Paul F. Lazarsfeld et al., The people’s choice:
the media in a political campaign, New York, Columbia University Press,
1944; oppure: Paul F. Lazarsfeld e Elihu Katz, L’influenza personale nelle
comunicazioni di massa, Torino, Eri, 1968. Per una esauriente panoramica
sulle teorie di sociologia della comunicazione: Sara Bencivenga, Teorie
delle comunicazioni di massa, Roma-Bari, Laterza, 2003
57
   Giovanni Sartori, Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino, 1995



                                                                            53
troviamo, essi si sostituiscono sempre più alle tradizionali agenzie di
socializzazione primaria (chiesa, scuola, partiti, ecc...) e ovviamente
questo avviene anche nell’ambito della socializzazione politica.
Dai mass media i bambini e gli adolescenti ricevono un “imprinting”
importante soprattutto riguardo ai toni e alle modalità di fare politica
(la dinamica urlata del talk show, per intenderci) piuttosto che sulle
issues vere e proprie.
Il secondo tipo di effetti, quello che concerne la conoscenza politica,
è forse quello che ci interessa maggiormente. Donatella Campus, in
uno studio dal titolo «L’elettore pigro»58, ci rivela come l’elettore
non sia quel prototipo di homo economicus che le democrazie liberali
esaltano, bensì sia un soggetto che viene a conoscenza delle
problematiche e delle tematiche politiche attraverso “scorciatoie
informative”, tipiche della mediatizzazione della politica vista in
precedenza.
Il cittadino moderno dunque riceve stimoli incompleti e parziali e
soltanto a partire da questi forma la propria conoscenza politica.
A questo tipo di conoscenza concorre senz’altro l’attuale crisi che sta
attraversando la forma-partito: negli anni di massima espressione
della potenza dei partiti, il cittadino era maggiormente informato
(attraverso il partito nel quale militava, seppur con differenti
intensità), mentre oggi si parla di un cittadino che sceglie le
“informazioni pratiche” che gli servono maggiormente in un
determinato momento59 e che derivano da un ambiente informativo
ampio e diversificato.

Il cittadino è dunque sottoposto ad una serie potenzialmente infinita
di flussi informazione (non solo i media, ma anche le relazioni
personali, la famiglia, ecc... anche se sicuramente i mass media sono
l’ente che contribuisce maggiormente alla formazione degli
orientamenti politici) tra i quali deve “scegliere” quelli che ritiene


58
  Donatella Campus, L’elettore pigro, Bologna, Il Mulino, 2000
59
  Pippa Norris, A virtuous circle. Political communications in
postindustrial societies, Cambridge, Cambridge University Press, 2000



54
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Sicurezza o libertà? Mediatizzazione e uso politico dell'insicurezza diffusa

  • 1. Università degli studi di Modena e Reggio Emilia Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione a.a. 2008/2009 Tesi di laurea Sicurezza o libertà? Mediatizzazione e uso politico dell’insicurezza diffusa Relatore: Prof. Andrea Rapini Laureando: Emiliano Martinelli
  • 2. 4
  • 3. Ringraziamenti Desidero ringraziare, in ordine sparso: la mia compagna Silvia Basini per la pazienza e per aver degnamente sopportato la condizione stressante del mio lavoro, la mia famiglia per il supporto che non è mai venuto a mancare, il prof. Andrea Rapini per la disponibilità, i preziosissimi suggerimenti e per avermi aperto gli occhi sul giusto modo di affrontare alcune questioni, infine i fratelli e le sorelle del Laboratorio Aq16 per darmi sempre nuovi stimoli e incanalare positivamente la mia rabbia. Dedico questo lavoro a quelli che stanno ai margini della società e a quelli che trovano giusto ribellarsi, in nome della libertà 5
  • 4. 6
  • 5. Indice Ringraziamenti......................................................................p.5 I. L’epopea sicuritaria: origini e sviluppi da una sponda all’altra dell’Atlantico..........................................................p.9 Introduzione (p.9) – 1.1 War on crime (p17) – 1.2 La trasformazione da Stato Sociale a Stato Penale (p.29) – 1.3 Europa e Italia come banchi di prova (e di tenuta) dei nuovi paradigmi sicuritari (p.36) – Conclusioni (p.41) II. Comunicazione, sistema politico e cittadini................................................................................p.43 Introduzione (p.43) – 2.1 Il campo della comunicazione politica (p.45) – 2.2 Modelli della comunicazione politica (p.47) – 2.3 Sistema dei media e sistema politico (p.49) – 2.4 Sistema dei media e cittadini (p.52) – Conclusioni (p.55) III. Reggio Emilia: da città dell’accoglienza a città della paura?..................................................................................p.57 Introduzione (p.57) – 3.1 La sicurezza paga nelle urne? (p.58) – 3.2 Reggio Emilia è davvero un nuovo Bronx? (p.66) - 3.3 Profili criminali (p.72) – Conclusioni (p.76) Bibliografia..........................................................................p.81 7
  • 6. 8
  • 7. CAPITOLO 1 L’epopea sicuritaria: origini e sviluppi da una sponda all’altra dell’Atlantico Introduzione «Emergenza sicurezza. Pronte misure drastiche dall’esecutivo», «Tolleranza zero verso stupratori e immigrati clandestini», «Recintato il parco dello spaccio, soddisfazione dei residenti». Questi sono soltanto esempi a titolo indicativo di decine e decine di titoli che ci capita di scorgere ogni giorno leggendo i quotidiani. Se ci guardassimo bene indietro, se facessimo ricerche tra gli archivi dei quotidiani o recuperassimo i servizi dei notiziari televisivi, ci renderemmo conto che fino a qualche tempo fa in Italia, fino grossomodo alla fine degli anni Ottanta, i problemi ai quali venivano riservati gli spazi maggiori nelle politiche di newsmaking, erano prevalentemente di tipo politico, sociale, economico. Ora il clima è diverso: assistiamo ogni giorno ad uno stillicidio mediatico sull’insicurezza diffusa, sui problemi della microcriminalità, il tutto corredato da interviste ai cittadini su quanto si sentano insicuri a passeggiare nelle proprie città. Fanno parte dell’esperienza quotidiani di ciascuno di noi servizi nei telegiornali e intere pagine dei quotidiani sulle misure di sicurezza predisposte da questo o quel governo o dalle amministrazioni locali, dalle sempre più fantasiose ordinanze dei sindaci delle grandi città fino ad arrivare ai più piccoli comuni, il tutto condito con una salsa di compiacimento e plauso dei cittadini per il ristabilimento dell’ordine in zone degradate. I fatti di cronaca nera sembrano ormai gli unici per i quali valga la pena di spendere pagine e pagine di approfondimenti catastrofistici. Certo, si può tranquillamente obiettare che la cronaca nera esiste da quando esiste la carta stampata, ed è sicuramente vero. 9
  • 8. Ma perché da qualche anno a questa parte il tema della sicurezza domina le pagine dei quotidiani e i servizi dei telegiornali? Perché abbiamo avuto un’impennata della percezione dei pericoli che ci circondano (o che ci potrebbero circondare)? Se guardiamo con attenzione alle statistiche sulla criminalità non vediamo aumenti dei tassi di delittuosità così marcati da giustificare un tale allarmismo. E nel corso di questo capitolo lo vedremo ancora meglio. Citando Zygmunt Bauman possiamo concordare sul fatto che ogni epoca della storia si è differenziata dalle altre per aver conosciuto forme particolari di paura; o piuttosto, ogni epoca ha dato un nome di propria invenzione ad angosce conosciute da sempre1 e possiamo tranquillamente affermare che anche la nostra epoca ha le proprie peculiarità in questo senso. In un mondo che mai come ora sta conoscendo nuovi scenari di instabilità a livello planetario (terrorismo internazionale, crisi finanziaria, mutamenti climatici) e a livello individuale (precarizzazione del mercato del lavoro, desocializzazione del salario), ecco che si delinea una società che ha un estremo bisogno di forme di rassicurazione materiale e simbolica. Quale miglior rassicurazione allora che la concentrazione verso i “nemici interni”, quelli più vicini e immediatamente percepibili come minacce alla nostra incolumità e a quella dei nostri cari? Qual è la soluzione più semplice se non pensare alla propria esistenza come una quotidiana lotta per la sopravvivenza fisica, minacciata da orde barbariche pronte ad assalirci e a darci la caccia per puro divertimento o per due soldi? Il rischio è sempre stato una componente dell’agire umano, dall’economia alla vita sociale quotidiana, la differenza sta nel fatto che oggi minacce come la microcriminalità e la violenza urbana, che in ogni società e in ogni tempo sono state presenti seppur con 1 Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999, pag.99 10
  • 9. intensità e tassi di incidenza diversi, sono trattate dai mass-media con toni a dir poco catastrofistici. Di fronte all’emergere di nuovi rischi ancora non conosciuti (si pensi ai cambiamenti climatici, al terrorismo internazionale, alle mutazioni genetiche, alle pandemie virali, alle prospettive nefaste causate dalla crisi economica globale, ecc…) chi detiene il potere legittima se stesso reinventandosi problematiche già conosciute attraverso linguaggi, stili e forme nuove, declinando così vecchi problemi in nuovi termini, allo scopo di esercitare quello che in sociologia viene comunemente detto “controllo sociale”. Queste tesi potrebbero sembrare rivelatrici di un approccio catastrofista, o peggio ancora, mi si passi il termine, complottista, ma non è così. Indagare sulle nuove forme dell’insicurezza sociale equivale a chiedersi perché, di fronte ad emergenze che sembrano puramente mediatiche, si risponde con un agire politico che di mediatico ha ben poco, ripercuotendosi immediatamente sulle vite dei cittadini. Ma non voglio andare oltre in questa introduzione, sperando che le ipotesi qui accennate possano avere riscontro nelle pagine che seguono. Nel corso di questo capitolo esporrò lo “stato dell’arte” delle ricerche nel campo dell’insicurezza sociale e delle politiche che ne conseguono. Sono diverse le prospettive attraverso le quali gli studiosi che più si sono concentrati su questo tipo di problematiche hanno analizzato il problema. Mi concentro su tre autori in particolare che mi sembrano fondamentali per capire l’oggetto di studio di questa tesi, Loïc Wacquant, David Garland e Jonathan Simon. Di questi autori ho apprezzato particolarmente la critica radicale, nei termini di rapporto tra politiche sicuritarie e democrazia, che apportano alla visione attualmente dominante delle politiche criminologiche e della devianza dei paesi occidentali. Seppur con sfumature differenti tutti e tre questi autori denunciano i pericoli che questo tipo di politiche penali e ordine di pubblico rappresentano alla struttura democratica 11
  • 10. degli stati occidentali, talvolta alla luce dei cambiamenti economico- sociali derivati dall’avvento e dallo sviluppo dell’orientamento cosiddetto neoliberista. Loïc Wacquant, studioso francese, allievo di Pierre Bourdieu e docente all’università di Berkeley in California, propone di combinare l’analisi materialista di stampo marxista-engelsiana (che propone di studiare l’insorgenza del discorso sicuritario alla luce dei radicali e moderni cambiamenti dei sistemi di produzione capitalista) e l’analisi dei simboli, mutuata da Émile Durkheim e Pierre Bourdieu (volta a determinare come lo Stato adotta simboli, linguaggi e metodi di persuasione per tracciare e determinare i confini della realtà)2. Wacquant vede un legame strutturale tra il sistema di produzione postfordista, e dunque del neoliberismo, e la nascita di uno “stato penale” che sorgerebbe dalla ceneri dello stato sociale. L’autore riassume le caratteristiche di questo cambiamento nel sistema economico e del lavoro: precarizzazione del lavoro, desocializzazione del salario, intensificazione dello sfruttamento nei confronti dei settori più marginali e dequalificati della forza lavoro, espansione della povertà nelle inner cities statunitensi. L’ipertrofia del sistema carcerario e l’ascesa del nuovo stato penale viene dunque letta alla luce di questi cambiamenti, come un paradigma di governo delle popolazioni urbane povere e delle minoranze razziali (da qui il titolo del testo “Punire i poveri”). Proprio sull’aspetto razziale delle nuove politiche delle pena americane si concentra Wacquant, che spiega come l’emergenza criminalità si sia sviluppata definitivamente come reazione alle lotte per i diritti civili che hanno infiammato i ghetti urbani per un decennio tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. 2 Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Milano, Feltrinelli, 2000; Loïc Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, DeriveApprodi, 2006 12
  • 11. In un testo pubblicato nel 20013 (e tradotto per la prima volta in Italia nel 2004), David Garland, attuale docente di sociologia presso la New York University School of Law, adotta una prospettiva “culturalista”, che mette in relazione i cambiamenti in materia di politica della pena e della sanzione enfatizzando la dimensione sociale delle devianze. Un altro interessante aspetto osservato da Garland è dato dalla correlazione tra l’attuale costruzioni sociali delle devianze (e di conseguenza il loro trattamento) e i complicati processi di trasformazione culturale osservabili nelle società occidentali contemporanee. Queste trasformazioni (disgregamento del valore della famiglia, stili di vita non conformisti, flessibilizzazione del lavoro, ecc…) creerebbero, secondo l’ipotesi di Garland, una situazione di percezione dell’insicurezza diffusa e un orientamento dei governi rispetto alle politiche della pena di tipo anti-welfarista. Questi orientamenti anti-welfaristi sarebbero riconducibili da un lato alla rottura del compromesso politico e, soprattutto, fiscale sul quale si reggeva lo stato sociale, dall’altro da un’insoddisfazione diffusa nei confronti di quelle strategie tipiche dell’assistenzialismo dello stato, causata a sua volta da un aumento dei tassi di criminalità registrata proprio negli anni di massimo sviluppo del trattamento sociale delle devianze. Per questa serie di ragioni i saperi criminologici e le tecnologie rivolte al trattamento e al recupero dei criminali sono stati ampiamente riconsiderati in un’ottica penalista. I fattori così considerati creerebbero una nuova “cultura del controllo” (dalla quale, appunto, il titolo del libro) che declina il crimine come un fenomeno normale – con il quale, cioè siamo costretti a fare i conti nella quotidianità – e al contempo mostruoso. Si svilupperebbe così una sorta di “criminologia della vita quotidiana” (aspetto normale della criminalità) che pervaderebbe ogni aspetto del vivere civile e sociale e una “criminologia dell’altro” dai caratteri fortemente neo-autoritari (aspetto mostruoso della criminalità). 3 David Garland, La cultura del controllo, Milano, Il Saggiatore, 2004 13
  • 12. Le tecniche che derivano da questa “criminologia della vita quotidiana”, per esempio i sistemi di videosorveglianza, i metal detector nei luoghi pubblici o le gated communities residenziali, svolgono la funzione di controllo sociale discreto, ma continuo, inserito nell’ordinato fluire delle esistenze delle persone in quanto produttori e consumatori. Questo primo aspetto delle nuove politiche sicuritarie abituerebbero il cittadino, secondo l’autore, a considerare la criminalità come un rischio endemico, come il traffico o le malattie. Le politiche che derivano dalla “criminologia dell’altro”, sembrano entrare in contraddizione con i dettami neoliberali di alleggerimento dello Stato, mostrando apertamente il volto severo e punitivo della legge. Secondo Garland il principio che ispira queste politiche penali non è più la riabilitazione, bensì la vendetta nei confronti di chi commette il crimine. I linguaggi che supportano questo tipo di pratiche esibiscono, come è facile immaginare, i tratti tipici dei discorsi neo-autoritari, quali la ristabilizzazione dell’ordine e della difesa della società minacciata dal male. Garland prende dunque in esame alcuni delle tecniche penali che si rifanno alla “criminologia dell’altro”: la reintroduzione in alcuni stati della pena di morte anche per i malati psichiatrici, la reintroduzione dei lavori forzati, la pubblicazione di elenchi con i nominativi degli ex detenuti per reati sessuali, il three strikes and you’re out4, ecc. Garland conclude, in accordo con l’approccio “culturalista” del quale è fautore, che tale insieme di politiche hanno un significato fortemente simbolico: da un lato tendono a offrire una rassicurazione ai cittadini e dall’altro vanno in controtendenza rispetto ai dettami neoliberali di cui sopra. Per questo motivo Garland rifiuta una lettura causale, al contrario ad esempio di Loïc Wacquant, del rapporto tra nuove politiche sicuritarie e processi di ristrutturazione capitalista in senso neoliberale. 4 Misura legislativa che impone ai giudici statali di condannare a un periodo obbligatorio e prolungato di carcere persone che siano state condannate per un reato penale grave in tre o più distinte occasioni. 14
  • 13. Un terzo tipo di approccio è quello riconducibile a Jonathan Simon, situato a un livello distante a entrambi gli altri due approcci. Simon, infatti, compie un’accurata analisi sociologica, giuridica e politica delle razionalità di governo consolidatesi negli Stati Uniti dall’assunzione di centralità della questione criminale nell’opinione pubblica e nel discorso politico. L’ipotesi di Simon è di un governo attraverso la criminalità analizzato attraverso i differenti piani dei processi di governo (in senso foucaultiano di “condotta di condotta”) consolidatisi dopo l’acquisizione di centralità della questione criminale. Citando direttamente Simon: Quando governiamo attraverso la criminalità, rendiamo il crimine e le forme di sapere a esso storicamente associate – diritto penale, letteratura popolare sulla criminalità, criminologia – disponibili al di là del loro limitato ambito d’origine, facendone uno strumento efficace con il quale interpretare e inquadrare tutte le forme di azione sociale come questioni di governance.5 Il testo di Simon ripercorre le tappe fondamentali dello sviluppo di questo governo attraverso la criminalità, passando in rassegna alcuni momenti fondamentali per la storia dei discorsi politici6 (cita ad esempio le cicliche guerre alla criminalità di Nixon, Reagan, Bush padre, fino alla war on terror di Bush figlio). Questi processi discorsivi porterebbero, secondo l’ipotesi di Simon, a individuare nuove pratiche di governance i cui scopi ultimi sarebbero l’individuazione e la neutralizzazione del rischio criminale. 5 Jonathan Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, Milano, Cortina Raffaello, 2008, pag. 22 6 Ancora una volta il riferimento a Michel Foucault è evidente, Simon considera il discorso politico come atto linguistico, capace di descrivere (e prescrivere) la realtà, dando luogo a pratiche, tecniche e razionalità di governo. 15
  • 14. Simon analizza poi i diversi ambiti di applicazione di questo paradigma di governance: potere esecutivo, giurisprudenza, famiglie, scuole, luoghi di lavoro. Dal lato del potere esecutivo, ad esempio, queste pratiche politiche creerebbero un modello di autorità e di rappresentanza che l’autore definisce “complesso accusatorio”, nel quale la leadership politica si configura come estensione e diretta emanazione della “pubblica accusa”; ognuno di queste cariche politiche, in questo contesto, deve quotidianamente ricercare e segnalare le fonti di rischio criminale e una volta individuate commissionare (e quando non è possibile, invocare) sanzioni adeguate. Dall’altro lato, quello del cittadino comune, emerge la tendenza a considerare, e dunque a considerarsi, una vittima: la vittima del crimine è diventata il modello principale di cittadino. Questo fa si che il bene della vittima (e dunque per estensione del cittadino) porti al concetto di pena come vendetta, che deve essere dura e degradante, per ottenere quella forma simbolica di rassicurazione della popolazione già descritta da David Garland. In questo contesto, e grazie soprattutto all’ascesa del modello di “complesso accusatorio”, viene quasi naturale constatare come la funzione che dovrebbe essere propria dei tutori della legge, la funzione “giudicante”, è costantemente sotto attacco: infatti, ricorda Simon, nelle cicliche guerre alla criminalità, l’autonomia dei giudici è sempre stata attaccata duramente. I giudici vengono considerati, all’interno del discorso politico sicuritario, come “complici” dei criminali e lassisti in virtù del loro ruolo istituzionale, ovvero quello di soppesare la ragioni della vittima e del presunto criminale. Le legislazioni three strikes7 e i minimi di pena obbligatori, ad esempio, sono espressione della volontà di limitare l’autonomia dei giudici e delle corti di giustizia statunitensi. Il quadro tracciato da Simon è quindi quello di una svolta punitiva considerata non soltanto come episodio storico circoscritto, bensì come processo sociale, politico e istituzionale capace di 7 Vedi nota n. 4, infra 16
  • 15. un’autopoiesi teoricamente infinita attraverso le relazioni quotidiane tra gli individui. Passerò dunque in rassegna prima il contesto storico nel quale si sono sviluppate queste nuove tendenze in termini di politiche della pena, ovvero negli Stati Uniti nella a cavallo tra la fine degli Sessanta e la metà degli anni Settanta, in seguito cercherò di approfondire alcuni elementi-chiave di queste nuove strategie sicuritarie. Il tutto cercando di utilizzare i tre approcci precedentemente citati al fine di cogliere gli elementi che mi sembrano più salienti della svolta punitiva americana e confrontarli con quelli che si riversano sulla società e la politica italiana, vero focus di questo testo. Bisogna infatti ricordare che tutti e tre gli autori presi in esame svolgono un’analisi approfondita del sistema penale e politico statunitense, che rappresenta i tratti di un’incubatrice del discorso sicuritario poi tramandatosi nella maggior parte dei sistemi occidentali, ma al contempo presenta alcune differenze strutturali e culturali con i modelli europeo ed italiano. Un paragrafo a parte sarà poi destinato a quello che con De Giorgi possiamo chiamare paradigma attuariale della criminologia penale, che vede lo svilupparsi di correnti di pensiero criminologico che danno vita ad uno Stato sempre meno sociale e sempre più penale. Concluderò il capitolo con uno sguardo più approfondito verso la realtà italiana, prendendo quello che mi sembra il caso paradigmatico di declinazione del discorso sicuritario nei nostri territori: il caso della criminalizzazione mediatica dei migranti irregolari. 1.1 War on crime: politiche di controllo e criminalizzazione della società americana Dalla metà degli anni ’70 negli Stati Uniti è nata una nuova emergenza: la criminalità, specialmente quella di strada e quella 17
  • 16. percepita come problema che potrebbe toccare, con buona probabilità, indistintamente ciascuno dei membri della middle class. Il contesto storico nel quale nasce questa emergenza criminalità negli Stati Uniti è il periodo immediatamente successivo alle rivolte razziali degli afroamericani dei ghetti per l’ottenimento dei diritti civili. È anche il periodo nel quale entra in crisi il modello del New Deal, nel quale sembra insomma vacillare la capacità del governo federale nel mantenere una gestione economica che negli anni Cinquanta e Sessanta causò un incremento del benessere. Questi due elementi possono dare, secondo la lettura di Jonathan Simon, una chiave di lettura in senso storico dell’emersione del problema. Per quanto riguarda il primo di questi fattori, si assistette, negli anni a cavallo tra il 1950 e il 1970 ad importanti sviluppi riguardanti la segregazione razziale negli Stati Uniti. I movimenti per i diritti civili delle minoranze afroamericani ottennero importanti vittorie presso la Corte Suprema e il Congresso, vittorie concretizzatesi poi con l’emanazione del Civil Rights Act del 1964. Alcuni studiosi8 individuano proprio nella questione razziale la lacuna più importante del New Deal: infatti il presidente Franklin D. Roosevelt aveva deliberatamente escluso gli afroamericani dalla principali protezioni sociali del nuovo corso americano (questo per non inimicarsi le correnti democratiche del Sud, sicuro bacino di voti, per le quali la questione razziale era ancora un tabù). Lo stesso presidente Lyndon B. Johnson, succeduto a Kennedy dopo l’assassinio di Dallas del 1963, si schierò a favore del movimento per i diritti civili promettendo di impegnarsi per realizzarne il programma. Bisogna ricordare, tuttavia, che buona parte dei politici statunitensi guardavano con sospetto, quando non addirittura tentarono di ostacolare esplicitamente, i progressi ottenuti dal movimento per i diritti civili. Infatti i primi a strumentalizzare la criminalità, dandole i connotati di una prerogativa degli 8 Ad esempio Katherine Beckett, Making crime pay: law and order in contemporary American politics, New York, Oxford University Press, 1997 18
  • 17. afroamericani, furono politici bianchi del Sud in cerca di argomenti più validi per contrastare il movimento afroamericano, di quanto fossero le ragioni segregazioniste. L’incendiaria campagna elettorale di Barry Goldwater, candidato repubblicano per le presidenziali del 1964, incentrata sui temi dell’anticomunismo e della guerra alla criminalità ne è un esempio lampante. Se le conseguenze del movimento contro la segregazione razziale contribuiscono a fare emergere la criminalità come stato emergenziale, è la crisi del modello del New Deal a fare da scenario allo sviluppo delle “emergenze criminali”. Il New Deal fu, sinteticamente, quella serie di misure statali predisposte dal presidente Roosevelt per risollevare gli Stati Uniti dalla crisi finanziaria del 1929. L’intervento statale nell’economia con la realizzazione di importanti infrastrutture, la creazione di un welfare state in grado di sostenere i lavoratori che persero il lavoro, e una serie di misure che permisero di rilanciare l’economia in stagnazione, furono il cardine degli interventi della presidenza Roosevelt. Questo modello entra in crisi con l’avvicinarsi agli anni Settanta, in concomitanza con l’emergere del problema criminalità come uno dei più importanti problemi che la politica avrebbe dovuto affrontare. Così abbiamo un forte depotenziamento dello stato sociale, causato secondo Wacquant da una reazione ai movimenti progressisti degli anni Sessanta. L’ipotesi di Simon9 è che la nascita dell’emergenza criminalità sia da leggere all’interno di questi due fenomeni storici, come risposta dei politici a questi avvenimenti che rischiavano, di fatto, di rendere ingovernabile il paese. Dopo la sua nascita, dunque, la nuova emergenza criminalità viene poi sempre più frequentemente spettacolarizzata ed esaltata dai mass media, così come gli interventi di war on crime delle classi dirigenti del paese. 9 Jonathan Simon, Il governo della paura, cit. 19
  • 18. La mediatizzazione della criminalità (e dei relativi provvedimenti per contrastarla) ha una duplice funzione: da un lato è funzionale ad accrescere la percezione di insicurezza delle classi medie americane che si sentono così costantemente minacciate e sotto assedio; dall’altro emerge la faccia severa e punitiva dei governi contro i criminali così come quella protettiva e paternale verso le “vittime”. Si tratta di quello che Wacquant definisce come “pornografia penale”, ovvero quel processo per cui il crimine e le azioni sicuritarie devono essere mostrati, esibiti e ritualizzati, al pari degli amplessi nelle produzioni pornografiche. Assistiamo così ai roboanti proclami dei tutori dell’ordine, agli inseguimenti in diretta televisiva, alle dichiarazioni di tolleranza zero, alle continue lodi alle forze dell’ordine e ai biasimi nei confronti dei giudici (ormai ultimo baluardo del trattamento sociale delle devianze) definiti lassisti e quasi “complici” dei criminali. La sicurezza e la guerra alla criminalità sono state il leitmotiv delle campagne elettorali da Nixon in avanti, di volta in volta declinate in base a quella che viene percepita come la minaccia presente più pericolosa; nel mondo del presente il tema principe risulta essere, ovviamente, la war on terror inaugurata dall’amministrazione di George W. Bush. I tratti distintivi di queste nuove politiche sicuritarie sembrano essere comuni a tutte le esperienze del genere sia negli Stati Uniti che in Europa10; in primo luogo esse attaccano frontalmente il crimine, considerato soltanto come devianza immorale e spostando il focus dalle cause che lo creano alle persone che lo commettono: così il “criminale” è un deviante irrecuperabile (lo vedremo meglio quando parleremo del paradigma attuariale del trattamento delle devianze) la cui unica prospettiva deve essere il carcere, pena il disordine sociale e l’insicurezza generalizzata. Ancora, è ben visibile il proliferare di dispositivi di controllo inimmaginabili fino a pochi anni fa: telecamere per la videosorveglianza, comitati di quartiere (le italiane “ronde”, 10 Questa affermazione trova il suo fondamento nell’analisi di Wacquant sul “Fac-simile europeo”, contenuta in Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit. 20
  • 19. recentemente entrate prepotentemente nel dibattito politico), profiling genetico dei criminali, maggior potere e risorse alle forze dell’ordine, centri di detenzione specializzati, test antidroga nelle scuole, ecc… Un altro tratto distintivo di queste politiche è il fatto di suddividere nei discorsi politici (intesi nel senso tramandatoci da Foucault come atti linguistici, capaci di segmentare e ridefinire la realtà) i cittadini- vittime, quelli buoni per intenderci, dai cittadini-criminali, dei quali si può già intuire un profilo base: neri, provenienti dai quartieri popolari in declino, tossicodipendenti e via dicendo. Di conseguenza il carcere non è più visto come passaggio penale verso il reinserimento in società, al contrario, l’amministrazione carceraria è ormai considerata soltanto una contabilità di flussi in entrata e uscita e dei relativi costi di gestione. Questo tipo di politiche sono sostenute ed alimentate da una rete di discorsi pubblici allarmisti e catastrofisti, tesi a tracciare una descrizione dei centri urbani come “zone di guerra” (non a caso il lessico militare è quello prediletto dai mass media nel trattare i problemi della criminalità e della sicurezza) e l’intervento dei tutori dell’ordine come il pugno di ferro del potere senza il quale non vi sarebbe risoluzione dei conflitti; i rimedi proposti sono drastici ma al contempo semplicistici, generalizzano le questioni sociali della devianza e appiattiscono i livelli di problematicità insiti nel trattare un tema tanto delicato, quanto complesso come la criminalità. Ultimo tratto distintivo, e in parte conseguenza diretta di quelli trattati poco sopra, è il rafforzamento delle reti poliziesche, l’incremento vertiginoso delle popolazioni carcerarie e la volontà di accelerare i tempi della giustizia. Questa serie di pratiche politiche trovano l’appoggio indiscriminato di tutti gli schieramenti politici, quasi a sottolineare che non vi è altra via d’uscita, se non le politiche sicuritarie, alla presunta emergenza criminalità. Ora, se si analizzano le statistiche criminali del periodo nel quale questi discorsi si sviluppano, non ci sono tassi di crescita della 21
  • 20. criminalità tali da giustificare il proliferare di questo tipo di misure di controllo sociale11. Riporto due dati che mi sembrano i più rilevanti per capire la portata di quello che da trent’anni a questa parte sta succedendo negli Stati Uniti. Il primo di questi dati riguarda il numero di persone sottoposte a qualche tipo di misura penale (carcere, libertà vigilata, libertà condizionale): se nel 1980 il totale di queste persone era di circa 1 milioni e 842 mila, nel 1995 sono diventate 5 milioni e 343 mila, con un aumento del 190% in quindici anni.12 L’altro dato fondamentale riguarda i tassi di criminalità registrati nel periodo 1975-1995: il tasso nazionale di omicidi è rimasto stabile (8 casi ogni 100.000 abitanti), i furti con aggressione oscillavano tra i 200 e 250 casi su 100.000 abitanti (questi dati non rivelano una tendenza all’aumento né alla diminuzione), il tasso di vittime di lesione è rimasto stabile al valore di 30 casi su 100.000 abitanti, la frequenza della violenze si è abbassata da 12 a 9 su 100.000. I crimini contro la proprietà sono nettamente calati, scendendo dai 550 su 100.000 abitanti del 1975 a meno di 300 vent’anni dopo.13 Questi dati testimoniano che l’insorgenza e lo sviluppo del discorso sicuritario non sono in alcun modo collegati ad un aumento della criminalità. Va ricordato, infatti, che le principali misure legislative orientate alla war on crime, in particolare il modello New York del sindaco Rudolph Giuliani, vengono attuate dopo il 1994, quando, come abbiamo visto, la criminalità era già in netto calo da oltre vent’anni, per di più manifestando una concreta tendenza a un’ulteriore diminuzione. 11 Si vedano, ad esempio, le statistiche del Bureau of Justice Statistics del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America (www.ojp.usdoj.gov/bjs) 12 Bureau of Justice Statistics, Correctional populations in the United States 1995, Washington, Governement Printing Office, 1997 13 Bureau of Justice Statistics, Criminal victimization in the United States 1975-1995, Washington, U.S. Governement printing office, 1997 22
  • 21. I dati così presentati fanno legittimamente pensare che questi processi siano allora effettivamente utili a qualche cosa d’altro. Se, infatti, andiamo a vedere, con una semplificazione estrema, quello che sul piano materiale e simbolico si sta sviluppando con l’ascesa dei nuovi paradigmi neoliberisti del mercato e della società possiamo intravedere una possibile spiegazione dell’insorgenza del discorso sicuritario. Partendo dal piano prettamente simbolico, vediamo come nella società teorizzata dai massimi esponenti del neoliberismo, del quale l’America è punta di diamante, lo Stato deve avere un ruolo sempre più marginale all’interno del panorama politico-economico e sociale. Gli interventi statali devono essere ridotti ai minimi termini, non interferire con i processi economici se non in termini normativi, lo Stato deve diventare uno stato “leggero”, sempre meno presente e visibile, il suo ruolo deve essere relegato a quello di mero supervisore di processi autopoietici che vivono già di vita propria. Lo Stato verrebbe così a perdere quella funzione di autorità superiore che tradizionalmente aveva acquisito nelle democrazie occidentali, perde in ultima analisi le sue funzioni proprie, perde di potere e autorità. Ecco allora che uno Stato forte contro il crimine e le devianze riafferma la propria autorità in ambito sociale, restituendoci un’immagine che legittima e controbilancia l’amputazione del braccio economico statale dettata dall’avvento del neoliberismo. Sempre rimanendo sul piano simbolico, la progressiva erosione di valori quali la famiglia patriarcale, il lavoro stabile e continuativo, lo stesso indebolimento dello stato-nazione hanno contribuito a delegittimare il sistema di strategie di governo dei problemi sociali legate al welfare, dunque anche della stessa devianza. Lo stesso welfare è ormai percepito dai cittadini statunitensi come un sistema assistenzialista inutile, sprecone e che “premia chi non se lo merita”. Questo ha fatto sì che la criminalità non fosse più percepita come un qualcosa da arginare riabilitando i devianti, bensì un qualcosa da eliminare con politiche repressive dure e inflessibili. Queste politiche hanno un alto valore simbolico, dunque, perché, come detto in 23
  • 22. precedenza, riaffermano un valore autoritario dello Stato, in controtendenza rispetto ai dettami neoliberisti.14 Passando sinteticamente al piano prettamente materialistico non possiamo che soffermarci sui profondi cambiamenti che hanno investito il mondo dell’economia, tipicamente negli aspetti della flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro che il nuovo ordine economico è venuto a creare. Secondo Wacquant l’irresistibile ascesa dello stato penale americano non contraddice certo il progetto neoliberale di deregolamentazione e snellimento del settore pubblico, anzi si potrebbe dire che ne rappresenta il negativo – in senso fotografico, rilevatore ma “al contrario” – in quanto esprime una politica di criminalizzazione della misera funzionale all’imposizione della condizione salariale precaria e sottopagata come obbligo di cittadinanza e alla concomitante riformulazione dei programmi sociali in senso punitivo.15 Per lo studioso francese, così come ad esempio per l’italiano Alessandro De Giorgi16, esiste un nesso “verticale” di causalità tra politiche della pena e nuovo ordine economico neoliberista (o postfordista nel lessico di De Giorgi). Questa causalità e data dalla sostituzione dello stato sociale (welfare) con uno stato penale teso a inserire forzatamente i cittadini più poveri nel sistema di produzione capitalista del lavoro salariato flessibile e desocializzato (workfare). Questi processi altro non fanno se non contribuire ad un governo della vasta popolazione urbana, povera e in larga maggioranza non bianca, resa economicamente superflua dalla crisi del modello di 14 David Garland, La cultura del controllo, cit. 15 Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero, cit., 2000, pag. 70 16 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo,Roma, Derive Approdi, 2000; oppure in: Alessandro De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, Verona, Ombre Corte, 2002 24
  • 23. produzione fordista e socialmente vulnerabile dalla distruzione delle residue protezioni sociali a questo associate.17 Si delineerebbe dunque un complesso sistema commercial- carcerario-assistenziale, secondo la stessa definizione di Wacquant, il cui compito è di triplice valenza: da un lato deve sorvegliare le popolazioni povere che non vogliono rientrare nei nuovi modelli di produzione lavorativa postfordisti, dall’altro deve soggiogare queste stesse classi povere e infine punire e neutralizzare chi devia dal nuovo ordine economico-sociale. Probabilmente l’intuizione più azzeccata di Wacquant consiste nel mettere l’accento sulle connotazioni razziali e di classe del sistema penale, che replicano in toto le disuguaglianze sociali della popolazione urbana. Ad oggi oltre 2 milioni di persone su 275 milioni di cittadini statunitensi sono in carcere, e il numero aumenta se consideriamo i cittadini sottoposti a un qualche tipo di tutela penale (probation, parole, ecc…) il numero aumenta a oltre 6 milioni. Questo significa che oltre il 2% della popolazione statunitense è sotto l’egida del controllo penale. Questa ipertrofia denota, come sottolineato da Wacquant, una dimensione razzista e classista del sistema penale: infatti, statistiche del 1995 dicono che su 22 milioni di neri maggiorenni, 767mila erano in prigione, 999mila in libertà vigilata e 325 rilasciati sulla parola. Oltre il 60% della popolazione carceraria è composta da minoranze etniche e i dati su questo punto si sprecano. Wacquant arriva addirittura a sostenere che la prigione è diventata ormai un sostituto del ghetto, infatti, secondo lo studioso francese il ghetto funge da prigione etno-razziale: chiude in gabbia, per così dire, un gruppo privo d’onore e riduce drasticamente le possibilità di vita dei suoi 17 Alessando De Giorgi, Prefazione in: Jonathan Simon, Il governo della paura, cit. 25
  • 24. membri per garantire al gruppo dominante che risiede nei paraggi la “monopolizzazione dei beni e delle opportunità materiali e spirituali”.18 Un carcere, a sua volta, serve a tenere sotto controllo una popolazione denigrata, funge da “preservativo urbano” contro l’infamia che provocherebbe il venire a contatto con la popolazione colpevole di aver commesso un crimine. Il ghetto servirebbe anche ad «agevolare lo sfruttamento economico della categoria segregata»19, così come la prigione che costringe la popolazione carceraria ai lavori forzati e al successivo reinserimento negli strati più bassi del nuovo lavoro salariato precario. Non bisogna poi dimenticare, altre conseguenze, prettamente economiche, dell’insorgenza del discorso sicuritario e della persecuzione delle politiche di zero tolerance e war on crime sviluppatesi negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Da un lato l’industria carceraria americana produce una tale quantità di ricchezza, stimata intorno ai 20 miliardi di dollari all’anno, che si compone di oltre 100 imprese edili che si occupano esclusivamente di costruzione e manutenzione di prigioni, le carceri private sono oltre 160 in continua espansione. Questi pochi dati soltanto per rendere l’idea della mole di affari del “Correctional Business”: ovviamente politiche della pena sempre più severe comportano ancora maggiori ricchezze per gli operatori dell’economia carceraria. Dall’altro lato la marcata diffusione del senso di insicurezza tra i cittadini della middle class ha fatto sì che si sia sviluppato un florido e redditizio mercato della sicurezza privata, nuova branca del business dell’insicurezza sociale; non è un caso che proprio negli Stati Uniti in questi ultimi trent’anni siano cresciute a dismisura le spese per la sicurezza privata, dalle guardie armate per sorvegliare le imprese o gli accessi alle gated communities (interi quartieri i cui accessi sono sbarrati per i non residenti), fino agli impianti di videosorveglianza privati. Solo per riportare alcuni dati a supporto di queste affermazioni, si pensi che nel solo anno 1990, negli Stati Uniti 18 Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit., pag. 210 19 Ibidem, pag. 210 26
  • 25. sono stato spesi oltre 52 miliardi di dollari in sicurezza privata, contro i 30 miliardi spesi per le forze di polizia federali; più di 10.000 compagnie di private security impiegano 1 milione e 500 mila guardie, circa il triplo rispetto ai 554 mila uomini delle forze dell’ordine federali e locali.20 Una conseguenza culturale importante dello sviluppo e attuazione delle politiche sicuritarie consiste nella cosiddetta “vittimizzazione del cittadino”. Negli USA, il cittadino non è più visto come un attore sociale nel senso classico del termine: il cittadino ora è una potenziale vittima di un crimine, seguendo Simon: La democrazia americana è minacciata anche dall’emergere della vittima del crimine come modello dominante del cittadino in quanto rappresentante della gente comune, i cui bisogni e le cui capacità definiscono la missione del governo rappresentativo. Una serie di nuove forme di conoscenza porta adesso la “verità” delle vittime all’interno del sistema penale e al di là di questo. Le verità di queste vittime sono potenti, e spesso travolgono il significato emotivo di altre questioni. Esse minano le forme di solidarietà e di responsabilità necessarie alle istituzioni democratiche.21 L’esame di questi autori delinea dunque il quadro di un’America che si riscopre in qualche misura razzista e classista, insicura e dominata da un discorso politico dai caratteri fortemente neo-autoritari, nel quale le ragioni dell’economia neoliberale hanno la meglio rispetto a quelle sociali e del welfare-state. Le conseguenze, delineate efficacemente da Jonathan Simon, di questo Governo attraverso la criminalità, sulla democrazia sono enormi: 20 Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Milano, Elèuthera, 1996 21 Jonathan Simon, Il governo della paura, cit., pag. 9 27
  • 26. che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi.22 In primo luogo la trasformazione dal cosiddetto “stato sociale” allo “stato penale” a causa delle ingenti risorse finanziare tolte al sistema welfaristico e dirottate verso il sistema punitivo e penale; inoltre il distaccamento dai principi neoliberali di uno stato “leggero” in favore di uno stato forte e autoritario. L’ipertrofia del sistema penale e la sua connotazione razziale sono anch’esse parte delle conseguenze della war on crime tanto decantata da questo o da quel governo. Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute incarcerazioni, oppure delle conseguenze a lungo termine di una condanna penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende da quegli schiavi liberati.23 Tutto ciò poi, e questo è il dato forse più importante, non ha prodotto alcun tipo di risultato in termini di riduzione dei tassi di criminalità o di percezione dell’insicurezza tra i cittadini: come si evince dai dati riportati precedentemente, la criminalità negli Stati Uniti è in netto e continuo calo dalla metà degli anni Settanta ad oggi. L’unico risultato conseguito è stato quello di stigmatizzare una popolazione già vessata dalla povertà. Anche la middle class, come già accennato prima, subisce conseguenze importanti: con la “vittimizzazione dei cittadini” essi si sentono assediati e vivono in un continuo stato di tensione emotiva e di paura dell’altro; non a caso numerose ricerche testimoniano come decisioni importanti della vita famigliare, come ad esempio dove mandare i figli a scuola o dove lavorare, sono prese in base al rischio percepito. 22 Ibidem, pag. 7 23 Ibidem, pag. 8 28
  • 27. Inoltre, sempre a proposito delle gated communities e della privatizzazione della sicurezza un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde.24 1.2 La trasformazione da Stato Sociale a Stato Penale: excursus storico sul trattamento delle devianze e sul controllo sociale. Quando, nella maggior parte degli studi criminologici effettuati prima dell’avvento dei nuovi paradigmi sicuritari, si studia il rapporto tra devianza e controllo sociale, si tende a mantenere un nesso causale con una doppia direzione: da un lato viene ricercata una causa della devianza (che può essere la situazione sociale, la malvagità individuale, povertà, ecc…). Dall’altro lato si pensa che il controllo sociale sia una conseguenza della devianza, per cui “chi devia sottoposto a controllo sociale”. Tuttavia, già la sociologia classica aveva rigettato la logica causale per i processi sociologici, vedendo questi processi non come semplici rapporti causa-effetto, ma come situazioni che scaturiscono da un’innumerevole serie di fattori correlati tra di loro. La criminologia, al contrario, sembra essere rimasta ferma, fino circa alla metà degli anni Ottanta, a questo tipo di luoghi comuni.25 24 Ibidem, pag. 9 25 In verità esistono numerose correnti critiche della criminologia che rigettarono a tempo debito il nesso causale dei processi sociali, come ad esempio le labelling theory (teorie dell’etichettamento) che vedono la 29
  • 28. Inoltre, una dimensione importante del controllo sociale è quella temporale: infatti i suoi dispositivi sono sempre proiettati nel futuro, tendono a voler neutralizzare comportamenti possibili nell’arco temporale successivo a quello della propria messa in opera. Ora, se l’idea intuitiva di controllo sociale è sicuramente immediata, non è tale la sua definizione in termini scientifici; numerosi sociologi hanno dato le più svariate definizioni del termine, e tutte peraltro con un’accezione differente. Quella che mi sembra più azzeccata, rispetto al discorso che stiamo trattando, è quella di Alessandro De Giorgi (di chiara ispirazione foucaultiana), contenuta in un saggio il cui tema principale è proprio il controllo sociale: Il controllo sociale è senza dubbio definibile come un insieme di funzioni attribuite a certi apparati o a certe strutture storicamente determinate, la cui caratteristiche mutano nello spazio e nel tempo. Queste funzioni, in una lettura molto semplificata, consistono nel ridurre le possibilità di comportamento di un individuo, determinando quindi vincoli, dispositivi di scoperta dell’infrazione e di punizione.26 La criminologia recente ha subito un brusco cambiamento per quanto concerne lo studio e la prevenzione delle devianze: negli anni a cavallo fra il 1960 e il 1980 la devianza, come dicevamo, era sostanzialmente concepita come l’effetto di una o più cause (di volta in volta psicologiche, sociali, ecc…). Le varie teorie si differenziavano soltanto per l’attribuzione della preminenza delle cause a fattori individuali o sociali. Ciò che senz’altro ci lasciano questo tipo di teorie è il fatto di sostenere la possibilità di un intervento di eliminazione delle cause che fanno scaturire il comportamento deviante come risoluzione di devianza come il prodotto di un complicato processo di definizioni da parte degli altri individui o della collettività. Per una rassegna delle principali teorie criminologiche si veda: Augusto Balloni, Criminologia in prospettiva, Bologna, Clueb, 1983 oppure il più recente Dario Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Milano, Bruno Mondadori, 2002 26 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 23 30
  • 29. questo tipo di problematiche. Ancora, le diverse teorie, dibattevano se non fosse meglio modificare i contesti sociali all’interno dei quali avvenivano i comportamenti devianti, oppure trasformare gli individui affinché venisse neutralizzata la propria carica deviante. Si assiste, in pratica, alla diffusione del “modello correzionale”, un modello per il quale la penalità, che rimaneva comunque necessaria per sanzionare i comportamenti criminali, avrebbe dovuto mantenere una funzione dominante: quella riabilitativa. E questo divenne presto il paradigma dominante sia in criminologia, quanto in politica. Infatti, per quanto concerne le politiche di welfare, esse tendevano alla diminuzione della popolazione delle istituzioni totali (carceri, manicomi, ecc…) e al trattamento dei devianti all’interno di altre istituzioni, come la famiglia, il servizio sociale, il lavoro e via dicendo. La diffusione di queste politiche produce, da un lato, una considerevole riduzione della popolazione carceraria, che in Italia (ma anche negli Stati Uniti) conosce i suoi minimi storici nei primissimi anni Settanta; dall’altro, un allargamento di fatto delle reti del controllo, nel senso che sempre più individui sono soggetti a qualche forma di trattamento, di gestione da parte di istituzioni o strutture dell’assistenza sociale, dell’intervento comunitario, della libertà vigilata.27 Con il finire degli anni Settanta, il modello correzionale entra in crisi, essenzialmente per due ordini di ragioni: da un lato questo tipo di modello sembra non funzionare, dall’altro la società viene investita da una crisi delle finanze statali che comporta una drastica riduzione delle spese sociali, in barba al modello keynesiano fino ad allora dominante. Sul perché questo modello sembra non funzionare, la spiegazione è molto semplice: gli unici parametri adottati dalle istituzioni statali per valutare il buon funzionamento o meno di queste strategie, risultavano essere i tassi di recidiva. In base a questi dati, la cui 27 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., corsivo mio. 31
  • 30. pecca era tuttavia quella di non tenere conto degli innumerevoli mutamenti sociali che stavano investendo le società occidentali in quegli anni, la criminalità non solo non era diminuita, per giunta aumentavano i crimini di strada e il conseguente senso di insicurezza sociale percepito. La crisi delle finanze statali ha dato il colpo di grazia definitivo a questo modello: a fronte della crisi si sviluppano infatti politiche di drastica riduzione dei fondi destinati ai servizi sociali e più in generale alle politiche di welfare, di conseguenza si preferisce finanziare soltanto gli interventi immediati e repressivi nei confronti della criminalità. Si sviluppa allora una nuova scuola di criminologi28 che abbandona del tutto il paradigma causale (l’eziologia) della devianza. Per questi studiosi il criminale è un individuo, dotato di normali capacità intellettive, che decide razionalmente di compiere un atto deviante. Le condizioni sociali, lo status economico, il contesto nel quale il soggetto agisce non hanno di colpo più alcuna importanza. Una conseguenza più che scontata di questo nuovo tipo di approccio è data dal fatto che se prima si ricorreva alla pena a scopo riabilitativo, ora la pena ha valore deterrente e intimidatorio.29 Questo nuova ondata di teorie si basa semplicemente sull’analisi costi-benefici tipica del mondo economico. Una strategia è valida se comporta costi bassi e guadagni (in termini di abbassamento dei tassi di criminalità) elevati. 28 Si vedano ad esempio: Ernest Van Den Haag, Punishing criminals, New York, Basic Books, 1975 e James Q.Wilson, Thinking about crime, New York, Vintage, 1977 (tra l’altro quest’ultimo è stato anche consigliere del presidente degli USA Ronald Reagan) 29 “…i malvagi esistono. La sola cosa che si può fare è separarli dagli innocenti. E molti, che non si trovano né in una categoria né nell’altra, ma che, in disparte, osservano e fanno calcolo delle proprie opportunità, soppesano attentamente la nostra reazione alla malvagità come un segnale di ciò che essi potrebbero, con profitto, intraprendere. Noi non abbiamo considerato con la dovuta attenzione i malvagi, ci siamo presi beffa degli innocenti e abbiamo incoraggiato i calcolatori” Ernest Van Den Haag, Punishing criminals, cit., pag.240 32
  • 31. Gli stessi istituti preposti alla verifica dei risultati, non guardano più soltanto ai livelli di criminalità, ma anche ai costi sostenuti. Ora, come nota giustamente De Giorgi, considerare il delinquente come homo economicus, razionale, che soppesa rischi e profitti della sua attività criminale equivale a far sì che le politiche punitive [siano] tanto più efficaci, quanto meno chi ne è destinatario dispone di risorse di potere. Ciò che nell’ottica della criminalità imprenditoriale costituisce solo un costo aggiuntivo dell’attività d’impresa, da punto di vista del microcriminale di strada è invece un danno grave. […] questa teoria si rivolge comunque alla criminalità dei deboli piuttosto che a quella dei potenti. 30 La pena diventa quindi il modo attraverso il quale chi detiene il potere di punire lo esercita allo scopo di eliminare il soggetto dallo contesto sociale; questo tipo di sanzione viene legittimata dal fatto che il soggetto artefice di un comportamento criminale merita il castigo. La funzione riabilitativa è definitivamente scomparsa. Questo per quanto riguarda la punizione del soggetto che avviene in seguito ad un comportamento criminale. Ma a ben vedere, queste teorie, affrontano anche il nodo della prevenzione del crimine in special modo, della violenza urbana. La teoria più in voga su questo tema è senz’altro quella ereditata dalla coppia di tutori dell’ordine e fautori della zero tolerance rappresentata da Rudolph Giuliani (sindaco di New York tra il 1994 e il 2001) e il commissario del New York Police Department Bill Bratton. La coppia Giuliani-Bratton ha applicato appieno, nella New York dei loro mandati, il concetto di zero tolerance: controlli severi ad ogni angolo della strada, superpoteri alla polizia, controllo delle gangs, tutela del decoro urbano e via dicendo. La broken windows theory è stata la “bibbia” dei fautori della tolleranza zero: questa teoria - più che una teoria è in verità un 30 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 32 33
  • 32. semplice articolo su una rivista scritto da uno scienziato della politica e da un criminologo statunitensi, George L. Kelling e il già citato James Q. Wilson - avanza l’ipotesi che eliminare il degrado urbano in una città sia la chiave di volta per eliminare la vera e propria criminalità.31 Secondo gli autori, un territorio sporco, degradato, disordinato (la metafora della “finestra rotta” è così spiegata) contribuisce ad aumentare la criminalità, questo a causa di un sentimento di percezione di lontananza delle autorità che si instaurerebbe nelle persone che vivono nell’ambiente degradato. Per questa ragione gli interventi della polizia newyorkese, durante l’amministrazione Giuliani-Bratton, che più rappresentarono il “modello New York” furono diretti all’eliminazione dei comportamenti di “devianza non criminale”, come ad esempio il lavaggio dei vetri delle vetture ai semafori, i graffiti, il barbonaggio, l’elemosina e via dicendo. I dati sulla criminalità sembrerebbero aver dato ragione alla coppia Bratton-Giuliani32, ma in verità ad un’attenta lettura, gli stessi dati dimostrano che la criminalità a New York era già in netto calo da almeno tre anni prima dell’applicazione dei precetti della tolleranza zero. Inoltre, non solo a New York, ma in tutti gli Stati Uniti, anche nelle città e negli stati in cui non è stata applicata la teoria delle finestre rotte e la tolleranza zero, la criminalità è diminuita, il che fa pensare più a una regressione fisiologica dei crimini che ai miracoli della zero tolerance. Inoltre, risulta difficile immaginare come, date le risorse a disposizione della polizia del NYPD, possano essere stati applicati 31 La broken windows theory è apparsa la prima volta in forma di articolo sulla rivista “Monthly Rewiew” del marzo 1982. Si può visionare l’articolo originale dall’archivio della rivista ( http://www.theatlantic.com/doc/198203/broken-windows ) 32 Complessivamente nel periodo 1994-1996 i reati denunciati a New Yok sono calati del 30%, mentre gli omicidi sarebbero diminuiti addirittura del 40%. Allo stesso tempo il 73% degli abitanti di New York si dichiarano soddisfatti dell’operato della polizia e dicono di sentirsi più sicuri, dato che supera del 32% la media nazionale. 34
  • 33. alla lettera i precetti della zero tolerance e della broken windows theory; ora, è senz’altro veritiero che la polizia newyorkese abbia riorientato i propri obiettivi verso l’ottica di tutelare l’ambiente fisico dal degrado, cosa che prima non era deputata a fare, ma il rapporto causa-effetto così come presentato dagli apologeti della tolleranza zero non è dimostrabile. Infatti è più probabile che la polizia abbia potuto orientare la propria attenzione verso il disordine proprio perché i crimini di strada erano già in netto calo dai periodi precedenti. In definitiva, sembra più probabile che non siano i precetti della zero tolerance ad aver ridotto la criminalità, bensì la riduzione (già in atto) della criminalità ad aver permesso l’applicazione della tolleranza zero. Per verificare il funzionamento dell’applicazione della tolleranza zero e della “finestra rotta”, bisognerebbe confermare tre ipotesi: 1) che nella New York di Giuliani-Bratton si siano realmente applicate queste disposizioni, 2) che il calo della criminalità si sia verificato esattamente in corrispondenza dell’applicazione di questo orientamento e 3) che il calo della criminalità si sia verificato soltanto a New York. Come abbiamo visto nessuna delle tre ipotesi può essere confermata. Tuttavia, uno sguardo al dibattito politico italiano attuale, soprattutto per quanto riguarda le talvolta stravaganti ordinanze delle amministrazioni comunali sparse sui territori in merito alle strategie di contenimento della criminalità e del degrado, dà l’idea di quanto la portata di questo tipo di teorie si rifletta anche sulla nostra società, pur essendosi ormai consolidata come fallimento in altre parti del mondo. Le stesse parole di Jack Maple, braccio destro di Bratton presso il NYPD, riportate fedelmente da Wacquant, dimostrano come la teoria delle finestre rotte sia soltanto un’invenzione politico-mediatica tesa ad aumentare la percezione di sicurezza e di vicinanza delle autorità verso la popolazione: “[In seguito a numerosi] reportage che registrano un sensibile calo della criminalità violenta a New York, molti ne hanno attribuito il merito alla nozione della “finestra rotta”, secondo la quale i malviventi avrebbero 35
  • 34. improvvisamente ritrovato la retta via perché respiravano un’aria di civiltà. Non è così che funziona. Gli stupratori e gli assassini non si spostano verso un'altra città quando si accorgono che nella metropolitana scompaiano i graffiti. Lo squeegeman [il lavavetri] qualunque non si mette ad accettare omicidi su commissione quando percepisce una maggiore tolleranza per la sua attività. Chiedere l’elemosina non apre la strada agli assassini. […] La politica di “qualità della vita” riduce il crimine perché consente di catturare i delinquenti quando non sono all’opera, come quando un esercito attacca gli aerei del nemico prima ancora del decollo” (Jack Maple) .33 1.3 Europa e Italia come banchi di prova (e di tenuta) dei nuovi paradigmi sicuritari. Sarebbe forse sorpreso Jack Maple nel leggere i quotidiani e ascoltare le notizie dei telegiornali italiani ed europei. Quelle teorie e prassi che egli stesso ha bollato come “inutili”, sono oggi all’ordine del giorno nelle agende politiche degli amministratori locali e dei governi dei principali paesi europei, con l’Italia a fare da capofila. Non a caso, i leitmotiv dei quotidiani e dei telegiornali nazionali, caratteristica comune a quasi tutti i paesi europei, non perdono occasione per tracciare mappe catastrofiste delle violenze urbane, accomunano bullismo da cortile di scuola, scippatori, omicidi e migranti clandestini in un unico calderone mediatico sensazionalista, attento allo scoop, al retroscena e spettacolare. La “pornografia sicuritaria” citata in precedenza è, in Europa, la punta di diamante del giornalismo di cronaca. Venendo al caso italiano, si può notare, in perfetta armonia con le tendenze degli altri paesi europei34, che gli effetti di questo tipo di trattamento delle notizie di cronaca nera si riflette (con i meccanismi 33 Jack Maple e Chris Mitchell, The crime figher: how you can make your community crime-free, New York, Broadway Books, 1999 pp.154-155 cit. in: Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit., pag.260 34 Come, ancora una volta, evidenziato da Loïc Wacquant nel capitolo “Fac- simile europeo” di Punire i poveri,cit., pp.241-282 36
  • 35. che vedremo in parte anche nel capitolo successivo) pesantemente sull’agenda e sul discorso dei politici. Questo fa sì che ad oggi esista un super-schieramento ideologico che abbraccia l’intero arco parlamentare (ricordiamo che i partiti di estrema sinistra parlamentare, gli unici che si sono opposti insieme ai movimenti sociali e sindacali all’implementazione di queste politiche sicuritarie, sono usciti dal Parlamento con le elezioni politiche del 2008) dedito alla promozione e al sostegno delle politiche di zero tolerance, seppur con sfumature differenti.35 Tutto questo clamore suscitato dalla presunta emergenza criminalità in Italia è contraddetto nei numeri da un’importante inchiesta di una serie di istituzioni internazionali preposte allo studio della vittimizzazione nei vari paesi europei (ICVS, International Crime Victimization Survey). Questo studio36 mostra come i livelli di criminalità, o meglio, la percentuale di persone che sono state vittime di un crimine in Italia sia in costante diminuzione dal 1992 ad oggi: infatti se nel 1992 la percentuale di persone vittime di uno tra i 10 crimini considerati più comuni era di oltre il 20%, il valore si è attestato stabilmente intorno al 12% nel 2004. I livelli di criminalità nel nostro paese sono sotto la media della maggioranza degli altri paesi europei, ad esclusione di Spagna, Ungheria, Portogallo, Francia, Austria, Grecia. La percentuale di popolazione vittima di un reato37 in Italia nel 2004 è intorno al 12%, quando la media europea si attesta intorno al 15%. 35 Sulla svolta punitiva degli schieramenti progressisti europei: per il caso italiano di rinnovamento della sinistra in materia penale è utile citare Salvatore Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo stato penale, Roma, Odradek, 2002. 36 L’ultima inchiesta, datata 2004, è disponibile in versione integrale al sito http://www.europeansafetyobservatory.eu/downloads/EUICS_The %20Burden%20of%20Crime%20in%20the%20EU.pdf 37 I reati presi in considerazione dall’indagine ICVS citata sono: furti di veicoli, rapine, furti, truffe, violenze sessuali, atti di violenza, frodi. Ho citato questa indagine perché incentrata proprio sul modello della vittima come esempio di cittadino. 37
  • 36. Questi dati, seppur parziali, testimoniano come i roboanti proclami sul disastro della sicurezza in Italia perpetuati costantemente da mass media e politici, sembrino infondati. Al pari degli Stati Uniti, vera mecca per i manager dell’ordine pubblico nostrani, è probabile che il modello della tolleranza zero, non porti significativi miglioramenti sul piano della riduzione della criminalità, o, per lo meno, non ne sia una causa diretta. Come abbiamo visto in precedenza, infatti, il “modello New York” tanto decantato anche dai politici italiani, lascia aperti innumerevoli dubbi sulla sua efficacia, a detta degli stessi suoi promotori ed esecutori. Il caso che mi sembra paradigmatico rispetto allo sviluppo e attuazione di queste politiche in Italia al giorno d’oggi è quello del controllo sulle popolazioni migranti. Partendo dai dati a nostra disposizione38 vediamo come la percentuale della popolazione immigrata residente in Europa sia pari al 6,2% sul totale dei residenti, mentre il dato italiano si attesta intorno al 6.5%, quindi senza particolari differenze rispetto al dato europeo. Già questo dovrebbe far pensare alle quotidiane esagerazioni dei politici italiani (in special modo degli esponenti della Lega Nord) sul presunto “stato d’assedio” nel quale si troverebbe il nostro paese. Ora, i processi, le cause e le trasformazioni dei flussi dell’immigrazione sono molto complessi e non è questa la sede per una disamina completa di questo tipo di dinamiche, certo è che il sentore di un’esagerazione mediatica ad opera di una certa parte politica, soprattutto nei toni dei propri discorsi, rispetto al tema dell’immigrazione è molto forte. Un altro dato interessante riguarda il fatto che oltre 6 italiani su 10 pensano che la presenza degli immigrati in Italia sia la causa di un aumento della criminalità.39 38 Di cui il “Dossier statistico 2009” a cura di Caritas/Migrantes rappresenta forse la fonte più completa e aggiornata 39 Dati confermati dalle ricerche di Transcrime (centro inter-universitario di studio sulla criminalità transazionale dell’Università di Trento e della 38
  • 37. Questo dato, che rappresenta un sentore comune, seppur supportato da alcuni studi statistici, tra cui quello commissionato dal Ministero dell’Interno curato da Marzio Barbagli40, ci fa capire come il tema dell’immigrazione sia percepito in stretta correlazione con il tema della criminalità. Infatti, una lettura parziale dei dati statistici ci consegna un’immagine di un rapporto sproporzionato tra le percentuali degli stranieri residenti, e delle stime sulla presenza di irregolari, (6,5%) e le percentuali di crimini commessi da stranieri rispetto al totale dei crimini commessi (33,4%). Ora, esistono numerosi studi a tal proposito che rigettano in toto l’ipotesi che l’immigrazione sia di per sé la causa di un aumento della criminalità.41 Una ricerca in particolare, commissionata nel 2008 dalla Banca d’Italia, basata sulle statistiche del Ministero dell’Interno dal 1990 al 2003, testimonia “l’assenza di una relazione causale diretta tra immigrazione e crimine”.42 Secondo Melossi43 è in atto un processo di etichettamento o di stigma fondato ad estendere agli immigrati la stessa considerazione che un tempo veniva riservata ai poveri. Cattolica di Milano), di Ismu-Eurisko, di Makno per il Ministero dell’Interno e della Demos con la Coop. 40 Si vedano a proposito: Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008 e Marzio Barbagli (a cura di), Rapporto sulla criminalità in Italia, 2008 (scaricabile dal sito http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0900_ rapporto_criminalita.pdf ) 41 Per esempio gli studi di Dario Melossi (uno su tutti Dario Melossi, Il giurista, il sociologo e la “criminalizzazione” dei migranti: cosa significa etichetta mento oggi?, in: Subordinazione informale e criminalizzazione dei migranti. Studi sulla questione criminale, III, 3/208, 9-23) sono un esempio di un approccio moderno alle labelling theory criminologiche. 42 Paolo Bonanno e Paolo Pinotti, “Do immigrants cause crime?” in: Paris School of Economics Working Paper N. 2008-05 43 Dario Melossi, Il giurista, il sociologo e la criminalizzazione” dei migranti: cosa significa etichettamento oggi?, cit. 39
  • 38. Certo è che il tasso di presenza dei migranti nelle carceri italiane è incredibilmente sovra-rappresentato rispetto all’incidenza sulla popolazione: gli immigrati rappresentano il 37% dell’intera popolazione carceraria italiana, contro una percentuale di residenti del 6,5% sul totale. Viene dunque da chiedersi se esiste o no un parallelismo o meno tra la connotazione razziale delle carceri americane così come evidenziata da Loïc Wacquant e le carceri italiane. Viene naturale chiedersi, insomma, perché in Italia, in Europa e negli Stati Uniti il carcere è sempre più nero. 44 Le politiche restrittive sull’immigrazione, ricordiamo non da ultima l’introduzione del “reato di clandestinità” già giudicato anticostituzionale da diverse sentenze, fanno sì che si crei un abbondante numero di persone che vengono stigmatizzate a prescindere dal fatto che esse abbiano compiuto o meno un reato. Per capire la portata di questo tipo di provvedimento legislativo, il reato di clandestinità, basta riportare che, dalla sua entrata in vigore, pochi mesi or sono, oltre il 20% sul totale della popolazione carceraria di origine straniera si trova in carcere per aver contravvenuto a questo provvedimento.45 Questo da un lato tende ovviamente a favorire l’entrata di queste persone nelle economie illegali di strada come uniche fonti di reddito e di sopravvivenza, dall’altro crea ampi margini di sfruttamento economico per chi decide comunque di impegnarsi in un’attività lavorativa “sommersa”, quella del lavoro nero. Il migrante è spesso costretto a lavorare “in nero”, per pochi spiccioli e con margini di ricattabilità enormi: se ci si ribella allo sfruttamento, ecco pronta l’espulsione o, dall’emanazione del Pacchetto Sicurezza, il carcere per immigrazione clandestina. Il tutto, ovviamente, accompagnato da una sorta di processo mediatico continuo nei confronti delle popolazioni migranti. L’idea 44 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 50 45 Fonte: Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria 40
  • 39. di base sembra essere quella di enfatizzare da un lato i crimini quando commessi da immigrati, dall’altro sottolineare i casi di integrazione dell’immigrato con reportage e servizi speciali, per mostrare “quanto è bravo questo immigrato” (che è un caso isolato, a differenza della maggior parte dei suoi conterranei). È forte dunque il dubbio che la creazione di questo “nemico interno” sia decisamente funzionale a distogliere l’opinione pubblica dai reali problemi della società e della politica. Oltre alla questione migrante, sicuramente più articolata e complessa di come è stata trattata in questo testo, ma che serve dare spunti di riflessione e non ad una trattazione completa del tema, nuove normative sicuritarie hanno investito gli altri strati della società. La recente approvazione del “Pacchetto Sicurezza” ha in sé tutte le caratteristiche della propaganda mediatico-politica delle parole d’ordine della zero tolerance. Nonostante questo tipo di norme si sia dimostrato di dubbia utilità negli Stati Uniti ecco che con quasi vent’anni di ritardo si tenta una loro applicazione alla legislazione italiana. Quindi vediamo possibilità di sanzioni pesanti per chi sporca i luoghi pubblici con graffiti o prodotti fisiologici, la possibilità di sperimentare la “sicurezza partecipata” (le cosiddette ronde), viene punito l’accattonaggio, sono aggravate le pene per furti e rapine, e così via. Conclusioni Possiamo allora affermare che, ancora una volta, i temi e le azioni di governo, e più in generale della politica, tendono ancora a non tener conto delle migliaia di pagine spese in studi sociologici, statistici e criminologici sull’impatto negativo dei nuovi paradigmi sicuritari sulla democrazia. 41
  • 40. Il teatrino morale scatenato di volta in volta dagli episodi di violenza urbana, piuttosto che dal rumeno che ubriaco alla guida investe e uccide una ragazza, o dai drammi famigliari, è all’ordine del giorno, si sprecano le interviste ai leader politici che infiammano le piazze (mediatiche) chiedendo maggior severità e repressione. I periodici pullulano di inchieste sulle “zone proibite della città” o sulle “mappe della criminalità”, mischiando sensazionalismo e moralismo. Dappertutto, dai bar di quartiere al Parlamento, si sentono ripetere i soliti discorsi su quanto siano inadeguate le politiche lassiste e garantiste della magistratura, sull’indignazione e insicurezza dei cittadini perbene di fronte all’ondata criminale e così via. Abbiamo visto come le emergenze mediatiche impattano sull’agenda politica e come la politica assorbe queste questioni facendone un proprio cavallo di battaglia teso ad aumentare, sul piano simbolico, l’autorità dello Stato in un momento di crisi della forma-stato stessa scaturita dai dettami neoliberali. Il populismo che stravince dentro alle cabine elettorali è la chiave di volta di questi processi demistificatori e semplicisti, verso i quali sembra ormai legittimo il sospetto di loro utilizzo “altro” rispetto all’aumento della sicurezza urbana nelle nostre città. Sembra che la politica adotti la strategia “legge e ordine” come meccanismo di semplificazione delle problematiche, di ben altra portata, scaturite dall’avvento dei paradigmi postfordisti prima e dalla crisi finanziaria planetaria oggi. Detto questo non posso che auspicare un cambiamento di rotta negli anni che si susseguiranno al nuovo scenario globale che ci si prospetta davanti, qualora la crisi venga superata. Già il nuovo corso della politica statunitense, dopo quasi 10 anni di populismo autoritario targato Bush jr., lascia aperti margini di cambiamento, verso un approccio alla criminalità, alla devianza e più in generale alla politica, serio e preciso nell’analizzare i cambiamenti sociali ed economici della popolazione e che non si serva di feticci quali i “nemici interni” e le presunte emergenze criminalità per legittimare l’estensione delle pratiche di dominio sulle classi meno abbienti. 42
  • 41. CAPITOLO 2 Comunicazione, sistema politico e cittadini Introduzione La società moderna, quella per intenderci nata dopo la Rivoluzione Industriale, è stata da molti definita come la società dell’informazione. Se in precedenza il ruolo delle comunicazioni era essenzialmente circoscritto ad uno spazio dialogico tra élite politiche e sociali, al giorno d’oggi rappresenta la possibilità di connettere strati differenti delle popolazioni, annullare le distanze fisiche, abbattere i limiti temporali dei flussi di informazione. Si pensi soltanto al ruolo decisivo che ha avuto la televisione italiana nel processo di alfabetizzazione delle classi sociali inferiori, o alla moderna funzione di Internet come strumento che permette (virtualmente) di connettere luoghi fisicamente lontanissimi attraverso, appunto, i flussi di informazione. Questi esempi solo per rendere l’idea della potenza del sistema dei media nella nostra società. I rapporti tra mass-media, sistema politico e cittadino rientrano nell’analisi complessa del filone della “comunicazione politica”. Se si vuole indagare il contesto entro il quale le nuove tendenze sicuritarie si inseriscono e se, come è mia intenzione, vogliamo sviluppare un ragionamento intorno alla drammatizzazione della criminalità e al perché assistiamo a una sempre più marcata creazione dell’insicurezza tra i cittadini, non si può non affrontare seppure in modo sintetico il nodo dei rapporti tra il sistema delle comunicazioni e il sistema politico, nonché il rapporto tra questi e i cittadini. Proprio perché queste nuove tendenze sono amplificate e ampiamente trattate dai quotidiani e dalle televisioni, credo sia necessario fermarsi un momento a riflettere sul ruolo delle 43
  • 42. comunicazioni nel contesto politico istituzionale e, soprattutto, sui suoi effetti nella popolazione. Dopo aver definito i concetti di comunicazione politica e aver presentato attori e modelli della comunicazione politica, andrò ad esaminare i rapporti e i flussi comunicativi che permettono a questi attori di interagire all’interno dello spazio pubblico (mediatizzato). Infine esaminerò le ultime tendenze nel campo della comunicazione politica, per tracciare una panoramica più moderna e immediatamente riscontrabile del ruolo dell’informazione sugli altri due sistemi. Questo capitolo vuole essere una sorta di ponte che collega la parte specificatamente teorica affrontata nel capitolo precedente, che è andata ad esaminare la nascita di concetti come zero tolerance e le nuove politiche di trattamento delle devianze alla luce dei cambiamenti sociali ed economici avvenuti nel mondo occidentale negli ultimi 30 anni, con il capitolo di ricerca empirica sulla città di Reggio Emilia, città sotto questo aspetto particolare per due motivi: da un lato vediamo come quella da sempre definita come “fortezza rossa”, esempio del buon governo della sinistra, sia assediata dalla minaccia Lega Nord, che fa della retorica populista e sicuritaria il proprio cavallo di battaglia. Dall’altro lato notiamo la tendenza, da parte degli amministratori di centrosinistra, ad abbracciare le logiche della tolleranza zero a fronte della minaccia di un’insicurezza (e quindi di un giudizio elettorale negativo nei confronti del governo della città) percepita diffusamente dai cittadini. Intendo questo breve capitolo, dunque, come inquadramento teorico- pratico della ricerca che presenterò nella terza parte di questo testo, come una sintetica traccia utile a definire le linee guida del lavoro empirico successivo, ossia utile a cogliere appieno, anche se in estrema sintesi, i meccanismi che regolano la comunicazione politica. 44
  • 43. 2.1 Il campo della comunicazione politica A questo proposito è utile iniziare con alcune definizioni dei tre attori principali di qualsiasi modello della comunicazione politica: sistema politico, sistema dei media e cittadini, infatti, sono soggetti le cui differenti modalità di intreccio vanno a configurare diversi aspetti del problema che si vuole trattare in questo testo. Lo sviluppo del concetto di comunicazione politica (le cui caratteristiche di interdisciplinarità lo rendono ancora un concetto dagli incerti confini) deriva dall’evoluzione e dalla trasformazione di quel modello di sfera pubblica borghese, nell’accezione di Jurgen Habermas, che vede nel pubblico dei cittadini il depositario delle strutture e dei processi della democrazia, riconoscendo nel modello della polis greca l’ideale di partecipazione del pubblico alla sfera politica democratica. Un primo fondamentale tratto del concetto di comunicazione politica va dunque ricercato nella profondità del suo legame con la democrazia. Gli esperimenti totalitari o dittatoriali, così come i regni, i principati o le monarchie, non possono dunque essere considerati come sistemi al cui interno viene sviluppata una vera e propria comunicazione politica, poiché prevedono un modello di pubblico senza voce, inerme di fronte alle scelte del leader. Ora, numerose critiche possono essere mosse alla concezione habermasiana di sfera pubblica borghese che presuppone un pubblico di cittadini ben informati, culturalmente attivi, critici e partecipanti a pieno titolo nell’esperienza politica democratica, cosa che sembra ovvio non essere, ma possiamo mantenere valido il concetto come strumento euristico.46 Mi sembra altresì ragionevole rigettare le pessimistiche critiche, pervenute soprattutto dalla scuola francofortese, che vedono il cittadino inerme di fronte alla potenza manipolatrice dei mass media (vedi ad esempio le teorie ipodermiche della comunicazione 46 Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, Laterza, 2008 (prima ed. originale del 1962) 45
  • 44. massificata), così come le teorie lazarsfieldiane sugli effetti limitati dei media che non colgono appieno le dinamiche di influenza/ricezione dei media sul pubblico. Credo essere più centrata un’analisi che vede nel sistema dei media un attore importante della comunicazione politica, un mediatore non neutrale della dialettica tra politica e cittadini, in grado di trasformare quello che storicamente (prendendo l’agorà greca come esempio paradigmatico) era lo spazio pubblico, in spazio pubblico mediatizzato. All’interno dello spazio pubblico mediatizzato i media vengono ad occupare il ruolo di perno della comunicazione ascendente e discendente tra il pubblico dei cittadini e sistema della politica […]. Lo spazio pubblico dei mass media non esaurisce, tuttavia, lo spazio pubblico perché esiste un territorio, quello della “società civile” al cui interno nascono sensibilità verso issues (per esempio la pace, il nucleare, il terzo mondo, il femminismo e le questioni etniche), si sviluppa un dibattito tra intellettuali, piccoli gruppi, viene raccolto e diffuso da associazioni e da una stampa specializzata, si trasforma lentamente in movimenti e nuove subculture e finalmente raggiunge per mezzo dei mass media l’opinione pubblica più ampia, interessando lo spazio pubblico generale.47 Abbiamo dunque circoscritto il campo di azione della comunicazione politica ad un limitato e ben preciso contesto, lo spazio pubblico mediatizzato. A tal proposito, prima di vedere quali sono i due principali modelli teorici della comunicazione politica, conviene definire sinteticamente gli attori che in questi modelli agiscono e interagiscono: 1) Sistema politico: per sistema politico in generale si intende quell’insieme di istituzioni politiche che costituiscono lo scheletro della vita politica di un paese. Per il caso italiano dunque parliamo di membri del sistema politico quando ci riferiamo al parlamento, al governo, al presidente della repubblica, la magistratura, enti questi che solitamente producono comunicazione istituzionale. 47 Gianpietro Mazzoleni, La comunicazione politica, Bologna, Il Mulino, 2004, pag. 19 46
  • 45. Ma non trascuriamo nemmeno i partiti, i sindacati, i movimenti sociali e di base, i single issue movements, e via dicendo che rientrano anch’essi a pieno titolo nel sistema politico, ma che producono un altro tipo di comunicazione: quella “politico-partitica”. 2) Sistema dei media: quando parliamo di sistema dei media ci riferiamo a tutte quelle istituzioni mediali che svolgono attività di produzione e distribuzione del sapere (informazioni, idee, cultura).48 Ovviamente rientrano in questa categoria i mass media tradizionali, i nuovi media (come Internet e le nuove infrastrutture informatico - comunicative), i periodici, i quotidiani di partito, ecc. 3) Cittadini: rientrano in questa categoria tutte le persone che risiedono nel paese, questa categoria è forse la più problematica da definirsi perché estremamente disomogenea, il che fa emergere notevoli difficoltà quando si tratta di definire un concetto come quello di opinione pubblica49. 2.2 Modelli della comunicazione politica I due principali modelli della comunicazione sono quello «pubblicistico-dialogico» e quello «mediatico». Il primo, oggi ormai contraddetto dalle evidenze empiriche sul concetto di comunicazione politica, vede i tre attori principali in un continuo scambio dialettico e dialogico tra di loro: esistono essenzialmente quattro spazi di comunicazione: a) tra sistema politico e sistema dei media, b) tra sistema dei media e cittadini, c) tra sistema politico e cittadini e d) lo spazio politico mediatizzato che risulta dall’interazione tra tutti e tre questi sistemi. 48 Denis McQuail, Sociologia dei media, IV ed. aggiornata, Bologna, Il Mulino, 2001 49 Per una panoramica dei principali contributi teorici sul tema: Stefano Cristante, L’onda anonima, Roma, Meltemi, 2004 47
  • 46. Questo modello risulta, dicevamo, contraddetto dai fatti, in favore del secondo tipo di modello che vede ogni scambio comunicativo tra sistema politico e cittadini inserito all’interno del sistema dei media il che tiene conto dell’ormai comprovato peso specifico maggiore dei media rispetto agli altri due attori (l’avvento della televisione è un esempio emblematico a riguardo). Il modello «mediatico» dunque tiene conto della concettualizzazione, già fatta in precedenza, di spazio pubblico mediatizzato, ossia del fatto che i media sono il veicolo principale del dibattito politico. Secondo alcuni, addirittura, l’arena politica corrisponde in toto al sistema dei media, non ci sono altri spazi di dialettica politica. Tengo a precisare che questi tipi di modelli, riflettono una concezione, derivata chiaramente dalla teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann50, che sembrerebbe vedere ognuno di questi sistemi e le relazioni che creano tra di essi come perfettamente equilibrati e omogenei al loro interno. Ovviamente si tratta di una concezione teoricamente limpida e formalmente ineccepibile, salvo poi non corrispondere esattamente a ciò che accade nella realtà. Lo stesso Luhmann denuncia questo rischio, prevedendo comunque la possibilità di conflitti all’interno degli stessi sistemi e confermando come le situazioni di equilibrio sono fortemente instabili e mutevoli.51 Ci resta dunque da vedere in che modo si articolano i rapporti tra questi tre attori politici e, soprattutto, quali sono le nuove tendenze in fatto di comunicazione politica (mediatizzata). Per articolare un discorso esauriente sulle nuove politiche sicuritarie parto dall’ipotesi, immediatamente riscontrabile nel senso comune, che siano i mass media ad amplificare le voci degli attori politici che 50 La teoria dei sistemi sociali di Luhmann è presente in tutta la sua opera, possiamo citare, come maggiormente pertinente al tema che stiamo trattando: Niklas Luhmann, La realtà dei mass media, Milano, Franco Angeli, 2000 51 Niklas Luhmann, La realtà dei mass media, cit. 48
  • 47. tendono a creare allarmismi sulle (vere o presunte) emergenze- sicurezza/ordine pubblico. Per fare ciò credo che soffermarsi sui rapporti tra sistema dei media e sistema politico (in entrambe le direzioni dei flussi comunicativi) e tra sistema dei media e cittadini (nei termini di ricezione/influenza) sia sufficiente per dare una base teorica alla presentazione dei risultati della ricerca condotta sulla città di Reggio Emilia. Decido consapevolmente di tralasciare il discorso del rapporto diretto tra sistema politico e cittadini perché facilmente concepibile come flusso comunicativo che in una direzione è rappresentato dalle comunicazioni istituzionali, dalla propaganda e dalle campagne elettorali, mentre dall’altro consiste essenzialmente nel voto come mezzo di partecipazione dei cittadini alla politica. Per un’esauriente trattazione di questo, come degli altri temi presenti in questo capitolo, rimando ancora all’esauriente testo di Mazzoleni. 52 2.3 Sistema dei media e sistema politico (ovvero gli effetti sistemici della mediatizzazione della politica) Il processo, oramai ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica, della cosiddetta «mediatizzazione della politica», ovvero l’interdipendenza del sistema politico e del sistema dei media nei termini di reciproco scambio e di costante ricerca di equilibrio tra politica e «fourth branch of governement»53, è una diretta conseguenza della potenza dei media anche come istituzione che si sostituisce alle tradizionali agenzie di socializzazione (chiesa, scuola, partiti). 52 Giampiero Mazzoleni, La comunicazione politica, cit. 53 Concetto efficacemente spiegato in: Timothy E. Cook, Governing with the news, Chicago, Chicago University Press, 1998, oppure in: Bartholomew J. Sparrow, Uncertain guardians, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1999 49
  • 48. Dobbiamo dunque ricercare l’origine della mediatizzazione della politica nella mediatizzazione della società: è un processo ormai normale quello che si verifica nelle società a capitalismo avanzato, dove persino alcune relazioni sociali sono mediatizzate (si pensi all’utilizzo in continua espansione dei social networks o delle chat- lines). Abbiamo volutamente parlato di interdipendenza del sistema politico e del sistema dei media: infatti, ad oggi, nessuno dei due sistemi è riuscito (o ha avuto l’intenzione di) sopraffare l’altro; il sistema politico ha bisogno del sistema dei media per veicolare le proprie informazioni non meno di quanto il sistema dei media ha bisogno di un sistema politico che produca informazioni politiche da veicolare. Niklas Luhmann identifica il potere nella comunicazione come «facoltà di influenzare la selezione dei simboli e degli atti» all’interno delle interazioni sociali54, intendendo la comunicazione del sistema politico al sistema dei media come espressione di un rapporto di potere con il quale il sistema politico intende influenzare il sistema dei media attraverso processi di regolamentazione (leggi mirate a governare i media), media e news management (tentato condizionamento delle attività dei media). Al contempo il sistema dei media si protegge da queste influenze con i processi di mediatizzazione (imposizione del linguaggio dei media ai linguaggi della politica), watch dogging (media come “cani da guardia” nei confronti del sistema politico e a favore delle istanze dei cittadini). Seguendo ancora Mazzoleni55 possiamo suddividere gli effetti sistemici del sistema dei media sul sistema politico (e viceversa) in due categorie: 1) Effetti mediatici e 2) effetti politici. Per quanto concerne la prima categoria possiamo elencare sinteticamente questo tipo di effetti in spettacolarizzazione, agenda 54 Niklas Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 1979 55 Giampiero Mazzoleni, La comunicazione politica, cit. 50
  • 49. setting/agenda building e frammentazione dell’informazione politica. Parlando di spettacolarizzazione della politica, possiamo già intuitivamente capire di cosa si tratta, ovvero di una drammatizzazione della retorica, dei simboli, dei linguaggi e dei riti della politica, sempre sotto l’occhio vigile dei media (soprattutto della televisione). La frammentazione dell’informazione politica si riferisce al fenomeno di impoverimento del discorso politico in virtù delle esigenze dei media: si pensi ad esempio ad un comune telegiornale, difficilmente si riesce a comprendere appieno un discorso politico, alle volte anche molto complesso, tramite servizi di 60-120 secondi. La frammentazione dell’informazione politica comporta un impoverimento e “banalizzazione” della politica agli occhi degli spettatori/lettori. L’effetto forse più interessante per quel che riguarda il fenomeno di deriva sicuritaria che stiamo cercando di analizzare consiste senz’altro nella costruzione dell’agenda politica. I mass media influenzano in maniera decisiva quanti e quali temi verranno trattati dal sistema politico e saranno a loro volta al centro del dibattito pubblico. I politici sono così obbligati a fare dichiarazioni, interventi sui temi scottanti dell’agenda costruita dal sistema dei media. Nel nostro caso, i direttori di quotidiani e telegiornali sanno bene che il trattamento di eclatanti casi di cronaca nera, di presunti allarmi criminalità, possono fare impennare le vendite dei propri prodotti mediali; sono questioni che entrano nell’intimo dei cittadini che si vedono così costretti a confrontarsi con le proprie paure più recondite, quelle che entrano nel recinto della propria vita privata e della propria incolumità percepita. I politici e gli amministratori devono necessariamente intervenire sui dibattiti intorno alla sicurezza e, quasi sempre, intervengono richiedendo o promettendo di attuare misure drastiche di contrasto alla criminalità, sottolineando bene ai cittadini-elettori che questo può avere un costo anche sull’esercizio delle libertà individuali. 51
  • 50. Il linguaggio politico (inteso in senso foucaultiano come sistema di pratiche linguistiche che contribuiscono alla costruzione sociale della realtà) viene così centrato sui temi dettati dai media, con toni allarmistici, spettacolari e drammatizzanti. Per quanto concerne, invece, l’altra tipologia di effetti che il sistema dei media ha sul sistema politico (i cosiddetti effetti politici), possiamo definirla come quell’insieme di effetti che si ripercuotono sulle interazioni tra le componenti del sistema politico stesso. Essi sono consistono essenzialmente in tre processi: leaderizzazione, personalizzazione e selezione delle élite. La personalizzazione e la leaderizzazione della politica sono due facce della stessa medaglia: la logica dei media prevede un interesse maggiore alle gesta di un personaggio o di un leader piuttosto al noioso discorso politico. L’insieme di questi due effetti produce alcune delle sfumature più evidenti del populismo, fenomeno importantissimo della realtà politica italiana dal post-tangentopoli ad oggi. Il sistema premia i candidati più carismatici, telegenici e dalla battuta pronta, rispetto a politici magari più preparati, ma con scarsa personalità e poca attitudine al mondo dello spettacolo. 2.4 Sistema dei media e cittadini (ovvero gli effetti psicosociali della mediatizzazione della politica) Se vogliamo, per concludere, tracciare un percorso completo sulla comunicazione politica non possiamo tralasciare gli effetti della mediatizzazione della politica sul cittadino-elettore. Proprio perché, nelle democrazie, è il cittadino che funge da depositario e garante delle regole democratiche, attraverso la rappresentanza, è necessario indagare al fine di cogliere questo tipo di effetti, rimanendo in equilibrio tra le teorie pessimistiche che vedono nei media un potente manipolatore (a sua volta manipolato 52
  • 51. dalle élite politiche) dei cittadini e le teorie, come ad esempio quelle di Lazarsfield, che predicano gli effetti minimi (di rinforzo di predisposizioni già esistenti) dei media sui cittadini.56 Nei modelli della comunicazione politica visti in precedenza, il cittadino-elettore ha un peso nettamente minore rispetto a sistema politico e sistema dei media, ma questo non significa comunque negare in toto l’importante ruolo che svolge all’interno dello spazio politico mediatizzato. Infatti, è generalmente il “popolo” che elegge i politici che gestiranno poi il potere, ed è lo stesso “popolo” che legittima, sceglie e dà fiducia ai media attraverso il consumo di prodotti mediali. Nella scienza politica moderna, poi, si parla giustamente di “crisi della rappresentanza”, concetto che meriterebbe un adeguato approfondimento, per il quale possiamo comunque rimandare ad un saggio di Giovanni Sartori che traccia le linee guida del dibattito sulla rappresentanza.57 Gli effetti più importanti dei media sul cittadino sono riassumibili in: effetti sulla socializzazione politica, effetti sulla conoscenza politica ed effetti sulla partecipazione politica. Per quanto riguarda il primo tipo di effetti, è innanzitutto necessario definire il concetto di socializzazione politica, come quel processo attraverso il quale i bambini apprendono le norme valoriali e comportamentali rispetto alla politica. I mass media, in questo senso, rivestono un ruolo importante: abbiamo già detto che nella fase sociale e politica nella quale ci 56 Per quanto riguarda il primo tipo di teorie sugli effetti dei media (teorie ipodermiche) si veda: Charles Wright Mills, Power, politics and people, New York, Oxford University Press, 1967. Per il secondo tipo di teorie (degli effetti minimi) si veda: Paul F. Lazarsfeld et al., The people’s choice: the media in a political campaign, New York, Columbia University Press, 1944; oppure: Paul F. Lazarsfeld e Elihu Katz, L’influenza personale nelle comunicazioni di massa, Torino, Eri, 1968. Per una esauriente panoramica sulle teorie di sociologia della comunicazione: Sara Bencivenga, Teorie delle comunicazioni di massa, Roma-Bari, Laterza, 2003 57 Giovanni Sartori, Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino, 1995 53
  • 52. troviamo, essi si sostituiscono sempre più alle tradizionali agenzie di socializzazione primaria (chiesa, scuola, partiti, ecc...) e ovviamente questo avviene anche nell’ambito della socializzazione politica. Dai mass media i bambini e gli adolescenti ricevono un “imprinting” importante soprattutto riguardo ai toni e alle modalità di fare politica (la dinamica urlata del talk show, per intenderci) piuttosto che sulle issues vere e proprie. Il secondo tipo di effetti, quello che concerne la conoscenza politica, è forse quello che ci interessa maggiormente. Donatella Campus, in uno studio dal titolo «L’elettore pigro»58, ci rivela come l’elettore non sia quel prototipo di homo economicus che le democrazie liberali esaltano, bensì sia un soggetto che viene a conoscenza delle problematiche e delle tematiche politiche attraverso “scorciatoie informative”, tipiche della mediatizzazione della politica vista in precedenza. Il cittadino moderno dunque riceve stimoli incompleti e parziali e soltanto a partire da questi forma la propria conoscenza politica. A questo tipo di conoscenza concorre senz’altro l’attuale crisi che sta attraversando la forma-partito: negli anni di massima espressione della potenza dei partiti, il cittadino era maggiormente informato (attraverso il partito nel quale militava, seppur con differenti intensità), mentre oggi si parla di un cittadino che sceglie le “informazioni pratiche” che gli servono maggiormente in un determinato momento59 e che derivano da un ambiente informativo ampio e diversificato. Il cittadino è dunque sottoposto ad una serie potenzialmente infinita di flussi informazione (non solo i media, ma anche le relazioni personali, la famiglia, ecc... anche se sicuramente i mass media sono l’ente che contribuisce maggiormente alla formazione degli orientamenti politici) tra i quali deve “scegliere” quelli che ritiene 58 Donatella Campus, L’elettore pigro, Bologna, Il Mulino, 2000 59 Pippa Norris, A virtuous circle. Political communications in postindustrial societies, Cambridge, Cambridge University Press, 2000 54