4. Introduzione
Il presente lavoro è strutturato in tre parti, ciascuna delle quali
tratta una tematica differente, ma strettamente connessa alle altre.
Nel primo capitolo si è deciso di trattare l’interculturalità intesa
come visione del mondo contemporaneo, come progetto per un rin-
novamento della società odierna, in cui le differenze culturali riesca-
no non solo a convivere, ma anche e soprattutto a dialogare tra loro.
Vengono analizzate la cause, legate ai fenomeni dell’immigrazione e
della globalizzazione, che rendono questo progetto estremamente ne-
cessario, nonché gli obiettivi che ci si pone lavorando in questa pro-
spettiva. Viene messo in luce il forte legame che esiste tra la cultura e
il potere, legame che spesso causa discriminazioni e disuguaglianze
sociali.
Si rende quindi necessaria una riformulazione di quei concetti,
come “cultura” e “straniero”, che sono portatori di divisioni (intese
come confini rigidi e insuperabili). Grazie alla loro nuova enunciazio-
ne, tali concetti possono condurre a una valorizzazione delle differen-
ze (intese come ricchezze e confini in continuo mutamento) che per-
metta una corretta apertura al mondo e alla sua varietà e un adeguato
approccio a ciò che ci è straniero. Questo mutamento deve necessa-
riamente passare attraverso lo sviluppo di competenze relazionali e
cognitive, che consentano di avere flessibilità mentale e disponibilità
al dialogo. Tale è il compito della pedagogia interculturale, che si ri-
volge non solo agli stranieri, ma a tutti i soggetti che vivono in un
contesto multiculturale. Vengono analizzati i tre principali approcci
utilizzati, individuandone pregi e difetti, e indicando il modello plura-
lista/integrazionista come quello più corretto. La finalità di tale ap-
proccio è la costruzione dell’identità personale, attraverso l’ascolto e
la comunicazione che portano alla valorizzazione delle differenze,
nonché al superamento di pregiudizi e stereotipi mediante il decen-
tramento culturale.
Il secondo capitolo tratta della didattica interculturale dell’arte e
della sua utilità sia per lo studio dell’arte, sia per la pedagogia, sia per
il dialogo interculturale. La complessità del mondo artistico, infatti,
4
5. permette lo sviluppo di capacità cognitive indispensabili alla pedago-
gia interculturale. Viceversa, l’interculturalità apporta nuove letture e
nuovi punti di vista allo studio dell’arte. Vengono inoltre analizzati i
quattro metodi utili a costruire un percorso che, a partire dalla nostra
stessa cultura, permetta, a stranieri e autoctoni insieme, di raggiun-
gere quella che è la finalità ultima di questa didattica: l’acquisizione
di competenze che permettano di vivere nel mondo multiculturale in
cui ci troviamo. Il primo metodo, quello ludico-laboratoriale, permet-
te un approccio iniziale all’opera di tipo emotivo, creando un terreno
comune a tutti e consentendo di mettere in campo sensazioni ed
emozioni, per scoprire affinità e differenze con quelle degli altri. Il se-
condo metodo, quello autobiografico, consente di collegare queste
sensazioni a esperienze vissute e conoscenze pregresse, aiutando così
a sviluppare capacità comunicative e di ascolto, portando alla consa-
pevolezza della limitatezza di ogni singolo punto di vista e della ne-
cessità di aprirsi agli altri e alle loro culture personali. Infine, il meto-
do comparativo consente di utilizzare le competenze acquisite per ac-
costarsi alle forme artistiche delle culture straniere.
Nel terzo e ultimo capitolo, viene analizzato il rapporto tra patri-
monio culturale e interculturalità. Anche in questo caso si tratta di un
legame positivo e produttivo per entrambi: il patrimonio ha l’occasio-
ne di rinnovarsi (diventando più aperto, dialogico, dinamico) attra-
verso la nuova lettura datagli dall’interculturalità, mentre quest’ulti-
ma riceve nuovi linguaggi e nuovi materiali.
Occorre quindi partire dalla consapevolezza del ruolo sociale del
museo e di come esso debba rendersi accessibile e fruibile da tutti.
Vengono poi analizzate le iniziative sviluppate dai musei in questo
ambito, differenziando quelle che intendono l’interculturalità come
fine dell’attività didattica museale (attraverso progetti di sviluppo al-
l’accesso, di integrazione delle culture immigrate e di programmazio-
ne culturalmente specifica) da quelle che invece la considerano un
mezzo (attraverso la promozione di una partecipazione attiva di ogni
tipo di pubblico, sia nella fruizione che nella produzione della cultu-
ra). È quest’ultima categoria quella che risulta più utile dal punto di
vista dell’interculturalità. I progetti appartenenti a quest’ultima sono
contraddistinti da alcune caratteristiche comuni: la formazione di
5
6. mediatori culturali per la rilettura del nostro patrimonio attraverso la
loro esperienza personale e la loro cultura d’origine, il coinvolgimen-
to attivo di gruppi misti, la sperimentazione di nuovi metodi, la colla-
borazione con artisti contemporanei e l’attivazione di collaborazioni
interistituzionali.
Un accenno viene infine riservato alla pedagogia del territorio,
come strumento per aiutare la coesione sociale attraverso la condivi-
sione degli spazi e dei beni culturali che vi si trovano.
A conclusione della trattazione ho incluso un'appendice con le
schede di analisi di alcuni musei d’arte italiani, ognuna con i relativi
progetti legati all’interculturalità, che sono risultati di fondamentale
importanza per lo sviluppo del terzo capitolo.
6
7. Indice
I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale 11
1.1 L'interculturalità 11
Obiettivi e cause dell'interculturalità 13
Il concetto di cultura 17
Cultura e potere 21
Il concetto di straniero 24
Immigrati e minoranze 25
I tre modelli di incontro con lo stato straniero 29
1.2 Pedagogia interculturale 34
Modelli pedagogici 37
La valorizzazione delle differenze
e la pedagogia dell'ascolto 45
Accoglienza e inserimento degli stranieri 48
Comunicazione interculturale 50
Costruzione dell'identità 51
Superamento di pregiudizi e stereotipi e decentramento
culturale 53
Tematiche 55
La situazione in Italia 56
II. Didattica interculturale dell'arte 58
2.1 Aspetti interculturali dell'arte 59
2.2 Importanza dell'interculturalità per l'arte 65
Comprensione dell'arte straniera 69
2.3 Importanza dell'arte per l'interculturalità 71
Conoscere attraverso le emozioni 72
2.4 Approcci e metodi didattici 76
7
8. Il gioco come metodo 78
Il metodo autobiografico 83
Il metodo comparativo 87
La Ricerca-Azione 93
2.5 Ipotesi di laboratorio interculturale 94
III. Patrimonio culturale e interculturalità in Italia 101
3.1 Il Patrimonio 101
3.2 Patrimonio e inclusione sociale 104
Il modello di sviluppo all’accesso 106
3.3 Il dialogo 110
3.4 Vecchi approcci 111
3.5 Nuove sperimentazioni 113
I mediatori culturali 114
Il coinvolgimento di gruppi misti 118
La sperimentazione di nuovi metodi 119
La collaborazione con artisti contemporanei 120
L'attivazione di collaborazioni interistituzionali 121
Percorsi didattici che danno molta importanza alla
formazione degli insegnanti 123
3.6 Quale cultura? 124
3.7 Valutazione dei progetti interculturali 125
3.8 Pedagogia del territorio 128
Conclusione 133
Esperienze di didattica interculturale
nei musei d'arte italiani 136
8
9. Castello di Rivoli (Rivoli, Torino) 136
Iniziative legate all’interculturalità presenti nel museo 136
Sul Tappeto Volante 136
PROGETTO ABI-TANTI.
La moltitudine migrante 147
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino) 150
Iniziative legate all’interculturalità presenti nel museo 150
A vision of my own 157
City Telling 162
Galleria d'arte moderna (Gallarate) 168
Iniziative legate all’interculturalità presenti nel museo 168
Galleria d'Arte Moderna (Torino) 173
Iniziative legate all’interculturalità presenti nel museo 173
GAMeC (BERGAMO) 176
PROGETTO OspitiDONOre 177
Corso di formazione per mediatori museali 181
MAMbo (BOLOGNA) 186
Iniziative legate all’interculturalità presenti nel museo 186
Museo Pecci (Prato) 193
Iniziative legate all’interculturalità presenti nel museo 193
Pinacoteca di Brera (Milano) 199
Iniziative legate all’interculturalità presenti nel museo 200
Istituzioni e progetti legati all'interculturalità 207
Patrimonio e Intercultura – Fondazione ISMU 207
ECCOM 208
ERICarts 208
Museums Tell Many Stories 209
9
10. MAP for ID 210
Educard 211
Bibliografia 212
Bibliografia generale 212
Bibliografia specifica 213
Documenti giuridici 216
Riviste 217
Sitografia 217
10
11. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
1.1 L'interculturalità
Nel mondo sempre più globalizzato in cui viviamo, caratterizzato
da un’accelerazione continua delle comunicazioni, delle informazioni
e delle trasformazioni, in cui lo spazio sembra restringersi a livello
planetario, sempre più spesso sentiamo parlare di multiculturalità e
interculturalità, termini dal sapore un po’ esotico e “alternativo”, che
sembrano usciti dal manifesto programmatico di qualche gruppo pa-
cifista, ma che invece toccano da vicino ognuno di noi.
I termini multiculturalità e interculturalità spesso vengono usati
come sinonimi, ma in realtà essi rimandano a significati e a modelli
educativi diversi.
Multiculturale è un aggettivo usato per descrivere le situazioni di
coesistenza tra diverse culture. È quindi un termine neutro, descrive
una realtà “senza alcun riferimento al modo in cui s’intende interve-
nire per favorire l’incontro..”. 1
Nell’ambito della pedagogia, descrive la posizione di chi opera per
favorire la coesistenza dei gruppi e delle culture le une accanto alle al-
tre come in un mosaico. Benché abbia come scopo la convivenza paci-
fica e quindi appaia a prima vista un modello positivo, corre però il
rischio di trasformare la coesistenza in separazione. È comunque la
situazione più frequente, riscontrabile nella maggior parte delle gran-
di città, nelle quali si trovano inevitabilmente persone di provenienze
diverse, che cercano di coesistere in comunità le une accanto alle al-
tre. È inevitabile che ciò accada, in quanto i nuovi arrivati cercano i
propri “conterranei” o connazionali, coi quali stabilire dei forti rap-
porti che consentano di inserirsi nella vita della città. È ciò che acca-
de per esempio a Milano, città in cui la comunità cinese, stabilitasi
nella zona di via Paolo Sarpi, e le comunità latino-americana, rumena
1
D. Bobisut, (a cura di), Interarte, laboratori di civiltà europea e identità nazio-
nale alla sfida della multiculturalità, PensaMultimedia, Lecce, 2008, p. 57.
11
12. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
e medio-orientale (per citare quelle più numerose), vivono fianco a
fianco con la popolazione autoctona (che in realtà è essa stessa costi-
tuita da italiani provenienti da regioni diverse), riuscendo però rara-
mente a stabilire dei contatti e degli scambi duraturi e profondi.
Una società multiculturale può evolversi in due direzioni: optare
per un mantenimento delle differenze, oppure svilupparsi nella dire-
zione dell’interculturalità.2
Il termine interculturale ha una connotazione progettuale: è scam-
bio e arricchimento reciproco. “Nel progetto interculturale è insita
l’intenzione di creare occasioni di incontro assumendo consapevol-
mente il ‘rischio’ che scambio e incontro comportino contaminazio-
ne”.3
È un termine dinamico che rimanda a un progetto e denota la vo-
lontà di rivolgersi verso gli altri, verso ciò che è sconosciuto. 4 Non si
vuole solamente convivere pacificamente, ma ci si vuole arricchire
dall’incontro col vicino. Con tutti i rischi che tale confronto può por-
tare.
L’interculturalità è tema di studio e di analisi anche da parte delle
istituzioni che ne hanno percepito l’importanza, soprattutto a livello
internazionale.
Per esempio l’Unesco ne ha dato una definizione molto chiara: “chi
dice interculturale dice necessariamente- se dà tutto il significato al
prefisso inter – interazione, scambio, apertura, reciprocità, solida-
rietà obiettiva. Dice anche, dando pieno valore al termine cultura,
riconoscimento dei valori, dei modi di vita, delle rappresentazioni
simboliche alle quali si riferiscono gli esseri umani, individui e so-
cietà, nelle loro relazioni con l’altro e nella loro comprensione del
mondo, riconoscimento delle loro diversità, riconoscimento delle in-
terazioni che intervengono di volta in volta tra i molteplici registri
di una stessa cultura e fra differenti culture, nello spazio e nel tem-
po".5
2
A. Aluffi Pentini, Laboratorio interculturale. Accoglienza, comunicazione e confronto in
contesti educativi multiculturali, Junior ed., Azzano San Paolo (BG), 2002, p. 9.
3
Ibidem.
4
D. Bobisut (a cura di), op. cit., p. 57.
5
Ibidem.
12
13. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Ecco quindi emergere i due concetti fondamentali dell’intercultu-
ralità: l’interazione e la cultura, ai quali fanno riferimento gli obiettivi
fondamentali di questa pratica.
Obiettivi e cause dell'interculturalità
“Il tuo Cristo è ebreo e la tua democrazia è greca. La tua scrittura
è latina e i tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese e il tuo
caffè è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman è co-
reano. La tua pizza è italiana e la tua camicia hawaiana. Le tue va-
canze sono turche, tunisine o marocchine… Cittadino del mondo,
non rimproverare al tuo vicino di essere straniero”. (Anonimo)
Secondo i due studiosi Antonio Genovese 6 e Francesca Gobbo7,
l’interculturalità persegue i seguenti obiettivi:
- la relazione tra le diverse culture;
- la convivenza e il reciproco rapporto fra punti di vista diversi;
- la collaborazione solidale, ma rispettosa fra le culture e le perso-
ne;
- la riduzione dei possibili conflitti e il loro superamento in direzio-
ne della negoziazione e non della deflagrazione violenta;
- una visione critica del “pregiudizio economicistico e tecnologico”
caratterizzante le politiche dei paesi cosiddetti avanzati;
- la promozione di una sempre più inclusiva partecipazione dei
nuovi venuti e delle minoranze interne alla vita sociale, culturale e
politica del paese che li accoglie.
Questi obiettivi non riguardano esclusivamente i “nuovi venuti”, in
quanto tutti gli sforzi, gli studi e i progetti sull’interculturalità parto-
no dalla convinzione della sua importanza sia per gli autoctoni, cioè
per gli appartenenti alla cosiddetta “cultura dominante”, sia per gli
6
A. Genovese, Modulo di pedagogia interculturale, Scuola di specializzazione
per l’insegnamento secondario, Università di Bologna, a.a. 2002/03, p. 6.
7
F. Gobbo, Pedagogia interculturale, il progetto educativo nelle società com-
plesse, Carocci, Roma, 2000, pp. 9-10.
13
14. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
alloctoni, cioè coloro che, provenienti da un’altra cultura, si inserisco-
no in quella dominante.
Da un lato, quindi, l’approccio interculturale permette di comuni-
care, agire, stabilire relazioni con persone di origine, credenze, lin-
gua, abitudini differenti dalle nostre, permettendo così di sviluppare
nuove conoscenze, nuove competenze relazionali e perciò di arric-
chirsi; dall’altro, consente di dare il giusto riconoscimento, culturale
e politico, alla domanda di giustizia, di diritti, di solidarietà, prove-
niente da immigrati e da minoranze. 8
Questi due aspetti dell’interculturalità si ritrovano nella Conferen-
za dell’UE sul dialogo interculturale, svoltasi a Bruxelles nel marzo
2002, all’interno della quale, nella dichiarazione che tratta della poli-
tica del dialogo interculturale, si legge (punto 2.) che tale dialogo “è
uno strumento efficace per prevenire e gestire i conflitti […] e favo-
rire l’arricchimento e la comprensione reciproca”, garantendo una
“riflessione attiva e costante sul rispetto dei diritti umani, sul fun-
zionamento della democrazia e sulle radici della violenza e del ter-
rorismo”.9
Non si tratta perciò solamente di aiutare i migranti a inserirsi nelle
società di accoglimento, ma anche di mettere in discussione, rivedere
e relativizzare nozioni fondamentali e principi comuni sia alla cultura
dominante sia a quella di minoranza, in modo da costruire una nuova
cultura.
Occorre fermarsi a riflettere sul perché si parla sempre più di mul-
ticulturalità.
È sotto gli occhi di tutti che la nostra realtà si sta trasformando
sempre più in direzione multiculturale.
Una delle cause è senz’altro il fenomeno delle migrazioni, che negli
ultimi tempi sta vedendo l’arrivo in Europa di persone provenienti da
zone problematiche del mondo. In realtà la nostra preoccupazione
per questo evento è molto influenzata dall’informazione massmedia-
tica, che ne amplifica le problematiche rendendolo un’emergenza co-
stante e continua. Tale paura potrebbe invece essere attutita dalla ri-
8
Ibidem, p. 10.
9
Unione Europea, Conferenza sul dialogo interculturale, Bruxelles, 20-21 marzo
2002.
14
15. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
flessione su alcuni “pregiudizi” che riguardano tale fenomeno. Prima
di tutto il fenomeno migratorio non è né un fatto nuovo né totalmen-
te negativo, in quanto flussi di popolazioni migranti hanno sempre
caratterizzato, con modalità e tempi diversi, lo sviluppo dell’umanità,
portando innovazioni e idee rivoluzionare da una civiltà all’altra. In
secondo luogo il fenomeno dell’immigrazione non riguarda solo i
paesi ricchi e industrializzati, non esiste un’unica direzione del flusso
dal paese povero al paese ricco, ma anche i paesi poveri si trovano co-
stretti ad accogliere molte persone migranti, oltretutto con mezzi e in
situazioni economiche peggiori di quelle di cui dispongono gli stati
industrializzati. Non si tratta quindi di una “invasione”, come invece
spesso viene visto l’arrivo di migranti.
Nell’analisi di questo fenomeno, Antonio Genovese 10 mostra come
la migrazione sia tutt’altro che semplice sia da vivere, sia da gestire.
Le cause dei flussi migratori, infatti, sono decisamente varie e
complesse: non si emigra quasi mai per scelta soggettiva, personale,
ma molto spesso per cause oggettive che impediscono di continuare
la propria vita in un determinato luogo (cause economiche, sociali,
politiche, religiose, guerre, calamità, ecc…).
In Italia, per esempio, nel 1997 iniziarono ad arrivare in massa
profughi provenienti dall’Albania che scappavano da una situazione
insostenibile di anarchia, che aveva portato alcuni gruppi di civili a
prendere il controllo del paese con la forza. Causa di questa ribellione
violenta fu la crisi economica che investì il paese dopo la caduta nel
1989 del Muro di Berlino e del Comunismo.
Anche oggi il nostro paese vede arrivare popolazioni in fuga da si-
tuazioni economiche o politiche drammatiche: è il caso dei profughi
africani, che pur di scappare dai loro paesi martoriati da guerre e crisi
economiche, affrontano un viaggio lunghissimo, estenuante e anche
molto pericoloso, prima ammassati su camion attraverso le zone de-
sertiche del loro continente, poi stipati su gommoni e barconi per
raggiungere le coste italiane.
Il tema della multiculturalità, però, non va affrontato guardando
solo alle problematiche legate al fenomeno migratorio, benché sia
quello più evidente e “scomodo”. Ci sono infatti anche fattori che, al-
10
A. Genovese, op. cit., p. 5.
15
16. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
l’interno della nostra società, sviluppano processi multiculturali indi-
pendentemente dalla presenza di immigrati stranieri nel nostro pae-
se11. La globalizzazione dei mercati, con lo spostamento di merci,
mezzi di produzione, capitali e persone da un paese all’altro; la cresci-
ta del turismo e delle comunicazioni di massa, grazie allo sviluppo del
web, che ci mette in contatto con l’altro non solo fisicamente, ma so-
prattutto virtualmente; l’avanzata dei processi di integrazione econo-
mica e politica fra i diversi Stati, nel nostro caso la costruzione dell’U-
nione Europea, sono tutti fenomeni che rendono inevitabili i contatti
con culture e persone straniere. La stessa condizione di immigrato
(cioè una persona nata in un paese, ma che vive in un altro) caratte-
rizzerà in futuro un numero sempre maggiore di persone, a causa del-
la mobilità che ormai molti lavori richiedono.
È quindi chiaro che al giorno d’oggi è pressoché impossibile non
avere contatti e scambi con l’esterno e quindi con altre culture.
È sempre più difficile pensare le nostre società come caratterizzate
da una cultura omogenea e condivisa ugualmente da tutti i cittadini
in cui le culture degli immigrati farebbero “irruzione” (citando l’e-
spressione usata da Francesca Gobbo) producendo complessità e plu-
ralità culturale, questo perché la nostra stessa cultura è sempre più
variegata al proprio interno.
Non esistono più quelle che Stefano Piazza 12 definisce le culture
create dal nazionalismo: un nazionalismo che non si fondava su real-
tà comunitarie, etniche, culturali, sociali o politiche preesistenti, ma
che anzi le distruggeva per imporre una cultura omogenea e un’edu-
cazione nazionale, entrambe funzionali alla modernizzazione indu-
striale.
Questo modello generale di società nazionale e di integrazione so-
ciale non corrisponde più alla realtà sociale odierna, o meglio, la no-
stra realtà sociale non è più in grado di adattarvisi, come invece le so-
cietà investite dalla rivoluzione industriale nei secoli scorsi furono in
grado di fare.
Quali sono i vantaggi e i rischi di una prospettiva interculturale?
11
Ibidem, p. 6.
12
S. Piazza, F. Toscani, Cultura europea e diritti umani (nella società globale del
rischio), CLEUP, Padova, 2003, p. 112.
16
17. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Da un lato vi è il riconoscimento positivo della diversità culturale,
il cui risvolto sta nel riconoscimento di una comune umanità.
Dall’altro la credenza che si possa fare un discorso sulla comunica-
zione, sulla comprensione, sullo scambio e sulle relazioni culturali
senza tenere conto che esiste la dimensione del potere e che esistono
non solamente le differenze culturali, ma anche differenziali di potere
tra una cultura e l’altra.13 In pratica bisogna tenere il discorso inter-
culturale saldamente ancorato alla realtà.
L’interculturalità, benché stimolata da motivi concreti, non è sol-
tanto un’esigenza pratica, dovuta a fattori economici e sociali, ma an-
che una necessità dal punto di vista culturale.
L’omogeneità culturale, infatti, oltre a essere sempre più o meno
un’imposizione, porta più svantaggi che vantaggi, in quanto, come
analizzato anche da Francesca Gobbo, una prospettiva centrata etni-
camente o culturalmente in primo luogo riduce l’esperienza umana
ed educativa, dato che non è riconosciuta l’importanza per ciascuno
di noi delle esperienze, credenze e idee delle altre persone; in secondo
luogo l’importanza data a ciò che è noto e già conosciuto porta a sot-
tovalutare l’imprevedibilità e quindi a rendere impreparati all’incon-
tro con essa; infine “lo spirito critico, la capacità di valutare e deci-
dere in maniera indipendente non sopravvivono se l’esigenza di
porre in questione e di indagare è limitata da valori e credenze”14
che per definizione non possono essere messi in discussione.
Il concetto di cultura
Prima di parlar di interculturalità occorre analizzare il concetto di
cultura, cercando di liberarci da pregiudizi e stereotipi.
Nella Pronuncia sull’Educazione Interculturale del Consiglio Na-
zionale della Pubblica Istruzione del 23 aprile 1992, si legge: “secon-
do il punto di vista interculturale, le culture non debbono essere in-
tese come corazze che impediscono la crescita né venerate come
13
F. Gobbo, op. cit., p. 15.
14
Ibidem, p. 43.
17
18. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
santuari intoccabili, perché esse sono pur sempre un prodotto uma-
no e la loro funzione non è solo quella di proteggere, ma anche di
sorreggere lo sforzo che ogni uomo deve fare per affrancarsi dalle
condizioni di partenza, allargando lo sguardo non solo alla varietà
dei modelli di umanità esistenti, ma anche a quelli possibili”. 15
Si tratta perciò di abbandonare l’idea di cultura come di un conte-
nitore all’interno del quale si situano le persone, come un recinto che
le delimita e le differenzia; va invece considerata come uno strumen-
to per la crescita dell’individuo, come un bagaglio di conoscenze e
competenze che egli può sfruttare a proprio piacimento per realizzar-
si pienamente come persona.
Dalle molte analisi che psicologi, sociologi e antropologi hanno svi-
luppato attorno a questo concetto apparentemente semplice emerge
la sua vasta complessità.
Occorre prima di tutto rendersi conto che ognuno di noi possiede
una cultura “stratificata”, che Aluffi Pentini divide in quattro livelli 16:
cultura privata, cultura operativa, cultura generalizzata e cultura pub-
blica.
Si intende per cultura privata una combinazione unica e indivi-
duale di standard, ovvero ciò che ha a che fare con la persona, con la
sua famiglia, con le abitudini quotidiane di vita in una dimensione
privata.
Si intende per cultura operativa quell’insieme di conoscenze e
comportamenti scelti sulla base della cultura privata che vengono uti-
lizzati per muoversi in determinate interazioni o situazioni.
Si intende per cultura generalizzata una modalità di interazio-
ne tra le persone diffusa e consolidata, che riguarda gruppi e contesti
più o meno ampi, e si configura come spazio trasversale alle diverse
modalità di agire e di essere, standardizzato e che permette loro di in-
teragire.
Si intende per cultura pubblica uno spazio di consenso più am-
pio, esplicito o implicito, sulle culture generalizzate e che allo stesso
15
Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, Pronuncia sull’Educazione Inter-
culturale, 23 aprile 1992.
16
A. Aluffi Pentini, op. cit., p. 25.
18
19. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
tempo sostiene o depotenzia le diverse manifestazioni di cultura ge-
neralizzata di cui sopra. Questo livello si configura come livello uffi-
ciale sovraordinato agli altri e quindi in ultima analisi prevalente, in
ambito appunto pubblico, in caso di conflitti tra i vari livelli.
Questa varietà di livelli è dovuta al fatto che la società contempora-
nea è molto segmentata e variegata, anche indipendentemente dal fe-
nomeno migratorio: interessi, professioni, idee politiche, tradizioni
fanno sì che anche all’interno di una singola “cultura pubblica” ci sia-
no moltissime altre suddivisioni. Ogni individuo deve perciò sapersi
adattare ai variegati ambiti culturali con cui viene a contatto.
È evidente che in qualsiasi fascia di età le influenze e i condiziona-
menti derivanti dai vari livelli si combinano in modo diverso e orien-
tano più o meno direttamente le scelte dei soggetti coinvolti in una
relazione interculturale. Ci appare quindi sempre più difficile dare
una definizione di cultura, così come creare delle rigide distinzioni
tra una cultura e l’altra.
È importante, quando si parla di intercultura, interrogarsi su quali
e quanti di questi livelli siano coinvolti e dove si collochi rispetto a
loro l’incontro culturale. Nella maggior parte dei casi, sottolinea Aluf-
fi Pentini, è importantissimo lavorare interculturalmente a livello
della cultura privata. Bisogna arrivare a intendere l’interculturalità in
modo più ampio e complesso, che non il semplice scambio e confron-
to tra individui di “etnie” e “culture” diverse. Va intesa anche e so-
prattutto come capacità di riconoscere le identità molteplici di cui
ciascuno di noi è portatore.
Il concetto di cultura, oltre a essere diversificato al suo interno, è
anche aperto a cambiamenti e a contaminazioni, in continuo sviluppo
e rivolto contemporaneamente al passato e al futuro. L’antropologo
Hannerz17 descrive la cultura attraverso la metafora di un flusso, in
continuo movimento e mutazione, ma anche dipendente dal processo
continuo in cui ogni azione, ogni espressione del pensiero e dei valori
dell’individuo, rimanda e si fonda su esempi antecedenti. La cultura è
quindi strettamente connessa al passato, ma in continua evoluzione
verso il futuro.
17
U. Hannerz, Cultural complexity. Studies in the Social Organization of Mean-
ing, Columbia University Press, New York, 1992, p. 4.
19
20. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Francesca Gobbo, infatti, formula così la nozione di cultura:
“…essa non definisce solo ciò che si trasmette o si eredita dal pas-
sato (…) e per cui un gruppo si è un tempo distinto, bensì quello che
nel presente stimola e consente ai soggetti di costruire insieme una
prospettiva unitaria, ma sfaccettata, sul piano culturale, sociale,
politico, aperta ad ulteriori confronti e rielaborazioni”. 18
Occorre tenere sempre presente, inoltre, che nessuna cultura può
vantare un fondamento naturale e scientifico, grazie al quale legitti-
mare la propria superiorità rispetto alle altre. Francesca Gobbo mette
in evidenza tale convenzionalità della cultura, affermando che spesso
la differenza culturale non nasce da una necessità istintiva di un
gruppo, ma rappresenta una scelta di carattere sociale e/o politico,
che ha lo scopo di mantenere le differenze tra un gruppo e l’altro. 19
I gruppi, pertanto, spesso scelgono di sottolineare alcuni aspetti
della propria cultura che vengono assunti a simbolo dell’intera comu-
nità, con lo scopo di mantenere la coesione al proprio interno e diffe-
renziarsi dai gruppi vicini.
Il parere di alcuni antropologi è che la cultura sia direttamente le-
gata al processo di apprendimento, quindi non sia un’eredità ricevu-
ta, ma qualcosa che si può acquisire. Per esempio secondo l’antropo-
logo Goodenough “se con [il termine] cultura facciamo riferimento
alla comprensione delle cose e alle aspettative reciproche che i mem-
bri di una società sembrano condividere, allora una teoria della cul-
tura richiede che si considerino i processi attraverso i quali i singoli
membri giungono a tale condivisione”.20
I processi di apprendimento, appunto. All’interno di ogni cultura,
inoltre, ci sono differenti ruoli e situazioni che richiedono ciascuno
l’apprendimento di una diversa cultura.
Questa idea collega la “competenza culturale” al potere: le varie
culture vengono considerate come risorse il cui accesso può essere
utilizzato nelle relazioni di potere. E proprio la cultura e l’accesso a
18
F. Gobbo, op. cit., p. 42.
19
Ibidem, p. 37.
20
W.H. Goodenough, Multiculturalism as the Normal Human Experience, in
“Anthropology and Education Quarterly”, 1976.
20
21. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
essa, vengono spesso usati per escludere dal potere determinati grup-
pi (etnie, classi sociali,ecc…).
Cultura e potere
La riflessione attorno a un approccio interculturale al mondo,
quindi, non è una questione meramente teorica e filosofica, utile sol-
tanto ad antropologi e filosofi, ma ha a che fare con questioni concre-
te e spesso legate a situazioni di disagio materiale.
La diversità culturale, infatti, è spesso servita (e tuttora viene usata
in tal modo) per legittimare la presa di potere di un determinato
gruppo e l’esclusione di altri.
Piazza21 individua tre tipologie di reazione alla conflittualità etnica
e razziale, legate all’acquisizione o meno del potere sociale, politico
ed economico.
Ci possono essere situazioni di esclusione-rifiuto-espulsione, in cui
il gruppo che prende il potere, fa in modo che gli altri ne siano esclu-
si, attraverso leggi o violenza. In questi casi non sono ammissibili (né
tanto meno cercati) il dialogo e la cooperazione tra gli attori sociali,
ma solo l’aggressione e la lotta. È ciò che è accaduto in Sudafrica con
l’Apartheid, la politica di segregazione razziale che a partire dal 1948
e fino al 1994 fu messa in atto dal Governo di etnia bianca nei con-
fronti della popolazione nera. Attraverso una serie di leggi, ai neri
venne vietato l’ingresso in alcune aree urbane, l’utilizzo delle struttu-
re pubbliche riservate ai bianchi, venne ostacolato il loro accesso all'i-
struzione e infine venne tolta la cittadinanza sudafricana e i diritti a
essa connessi a tutti gli abitanti dei bantustan, i ghetti riservati alla
popolazione nera, ufficialmente indipendenti, ma in realtà sottoposti
al controllo del Governo sudafricano.
Ci sono invece situazioni di inclusione subordinata. Si tratta di una
strategia economicistica: viene offerto lavoro agli immigrati, in quan-
to necessari all’economia, ma in campo civile viene applicata “la de-
fezione, non riconoscendo lo statuto di cittadino all’immigrato lavo-
21
S. Piazza, F. Toscani, op. cit., p. 100.
21
22. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
ratore”22. Si tratta della situazione più ricorrente nella storia dei rap-
porti dell’occidente con il resto del mondo. Anche questa soluzione
porta spesso al conflitto, infatti quanto più gli immigrati si integrano
nel tessuto sociale grazie al loro inserimento nel mondo del lavoro,
tanto meno sono disposti ad accettare un’esclusione dalla cittadinan-
za politica.
Di recente abbiamo assistito a un caso di questo genere, nelle vi-
cende di rivolte di immigrati africani nella campagna calabrese. Da
anni essi vengono sfruttati come manodopera dalla criminalità orga-
nizzata e ormai sono così numerosi da mandare avanti il comparto
agricolo del Sud col proprio lavoro. “I migranti africani e arabi non
regolarizzati sono una presenza fondamentale per l'economia del
Sud, senza i quali fallirebbe questo comparto, affonderebbero le eco-
nomie di parecchie regioni e non vedremmo più arrivare i fondi eu-
ropei di sostegno all'agricoltura” 23 spiega lo studioso dei fenomeni
mafiosi Antonello Mangano. Le condizioni di lavoro, com’è facilmen-
te intuibile, sono al limite della schiavitù e questi lavoratori vengono
mantenuti nell’illegalità, una condizione accentuata dalle recenti nor-
me contenute nel Decreto sicurezza che rende reato la condizione di
immigrato irregolare. Sempre Mangano afferma che “le leggi razziste
volute dalla Lega non mirano a espellere gli immigrati, vogliono
mantenerli in una condizione servile, sotto ricatto. La fascia di im-
migrazione irregolare che lavora nei campi non accetterebbe mai
condizioni tanto dure in presenza di un'alternativa; inizierebbe ad
organizzarsi ed a rivendicare diritti: sanno di essere in dispensabili
e di sostenere un intero settore economico. Senza loro tante lande
del Meridione sarebbero condannate allo spopolamento. Dunque
che rimangano a lavorare, ma da schiavi”.24
Alla fine del dicembre 2009, però, un’aggressione da parte di due
teppisti (probabilmente legati alla criminalità organizzata) che hanno
sparato su un gruppo di africani, provocando la morte di due di loro,
22
Ibidem.
23
G.Ursini, Gli africani di Rosarno, in
http://it.peacereporter.net/articolo/19556/Gli+africani+di+Rosarno,
31/12/2009.
24
Ibidem.
22
23. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
ha fatto sì che questi immigrati si siano ribellati a una tale insosteni-
bile situazione, scatenando una serie di proteste sfociate poi, qualche
giorno dopo, in violenza. A Rosarno, in provincia di Reggio Calabria,
le ribellioni hanno portato devastazione e violenza e sono state segui-
te da una feroce ritorsione da parte dei cittadini che hanno dato vita a
una vera e propria “caccia al nero”, com’è stata definita da più giorna-
li, fomentata da agguati e aggressioni mafiose.
C’è poi una terza via, quella della “cittadinizzazione”25, forse la più
complessa da seguire, in quanto coinvolge non solo le dinamiche so-
ciali, ma anche il diritto, le scienze politiche e l’ideologia, perseguen-
do il fine di integrare i nuovi arrivati in tutti gli aspetti della vita so-
ciale e politica. Si tratta anche del più difficile da incontrare, proprio
a causa di questa sua complessità.
Per quanto riguarda il nostro Paese, la situazione italiana si pre-
senta variegata, con molte situazioni in cui in cui l’inclusione subor-
dinata è il modello dominante (si pensi alle centinaia di badanti in at-
tesa di essere regolarizzate, o ai tantissimi operai e muratori mante-
nuti nell’illegalità), alcune altre in cui la “cittadinizzazione” sta
faticosamente raggiungendo un buon livello, ma persistono ancora
occasioni di esclusione, rifiuto ed espulsione.
A questi atteggiamenti gli immigrati e le minoranze solitamente ri-
spondono in tre modi: rifiutando la propria identità etnica pur di ve-
nire accettati dalla società, accettandola ma considerandola in modo
negativo (poiché è causa della loro esclusione o parziale
integrazione), oppure accettandola in modo positivo attraverso il raf-
forzamento della propria appartenenza a un gruppo etnico. È que-
st’ultimo l’atteggiamento auspicato dalla teoria interculturale, nono-
stante sia quello che comporta i maggiori rischi, in quanto il rafforza-
mento delle identità etniche può portare più facilmente a estremismi
e quindi allo scontro con la cultura dominante. Si tratta anche del
modello più complesso da analizzare e studiare, dal momento che
l’accettazione e la riaffermazione della propria identità producono
25
Cfr. A. Bastenier, F. Dassetto, Nodi conflittuali conseguenti all’insediamento
definitivo delle popolazioni immigrate nei paesi europei, in AA. VV. Italia, Eu-
ropa e nuove immigrazioni, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Tori-
no, 1990, specialmente pp. 17-26.
23
24. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
una vasta gamma di risposte individuali al problema dell’integrazio-
ne.
Il concetto di straniero
Se si vuole sviluppare un positivo dialogo interculturale occorre
prima di tutto riflettere su se stessi e sull’atteggiamento che abbiamo
nei confronti di ciò che ci è straniero. L’integrazione culturale, infatti,
non è compito esclusivo dei migranti che arrivano nella nostra socie-
tà, ma si tratta di un dovere condiviso con noi autoctoni.
Innanzitutto occorre capire cos’è che rende qualcuno o qualcosa
“straniero” ai nostri occhi.
Si possono individuare due livelli di estraneità: l’estraneità intesa
come stranezza, che si trova al livello emozionale e descrive la reazio-
ne spontanea davanti a ciò che ci appare non familiare. È il caso per
esempio di manufatti, abiti tradizionali e rituali religiosi appartenenti
a culture a noi lontane e che quindi appaiono ai nostri occhi bizzarri e
insoliti, estranei appunto.
Oppure l’estraneità intesa come inaccessibilità e che si riferisce a
ciò a cui non si ha accesso, a un sistema e a un modo di vita diverso
dal proprio, che non è compatibile con le regole usuali, o almeno lo è
solo in parte. È il caso delle lingue straniere, o dei codici di comporta-
mento di altre culture.
L’estraneità culturale è distribuita su entrambi i livelli: una cultura
straniera mi stupisce perché insolita e non familiare e allo stesso tem-
po mi è inaccessibile, o lo è solo in parte.
In entrambi i casi si tratta di concetti relazionali, nel senso che
sono validi in relazione a ciò che mi è familiare e conosciuto.
È visibile quindi la doppia valenza del concetto di estraneità: nel-
l’incontro tra due culture, ciascuna risulta “straniera” per l’altra.
L’estraneità, inoltre, è prima di tutto un’impressione soggettiva,
che può essere accresciuta e addirittura creata ad arte. Ecco allora
che l’estraneità viene usata come etichetta, che viene appiccicata a chi
viene da fuori, nel tentativo di rinsaldare il gruppo a cui si appartie-
ne. Qui non è definito straniero ciò che è diverso, ma ciò che viene
24
25. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
reso diverso. Alcuni segni (colore della pelle, origine, razza, ecc…)
vengono caricati simbolicamente e viene loro assegnato un significato
negativo. A questo punto non si cerca certo la comprensione, ma si
vuole piuttosto aumentare la distanza esistente, fino a farla diventare
estraneità e addirittura inimicizia. Queste delimitazioni sono sintomo
di un’identità traballante, che ha bisogno di ristabilire rigidamente i
propri confini, poiché pensa di averli perduti. Al contrario “un’identi-
tà certa di se stessa accetta di aprire i confini”.26
Immigrati e minoranze
Nella società contemporanea lo straniero con cui i rapporti sono
più problematici è l’immigrato.
Poiché è visto come un intruso, un elemento estraneo che arriva a
disturbare l’equilibrio, difficilmente ci si sofferma a riflettere sulle
condizioni in cui si trova.
L’evento migratorio infatti sconvolge completamente la vita di chi
ne è protagonista, investendo la sfera emotiva, fisica e cognitiva, met-
tendo in gioco molteplici fattori. Sono quindi molte le domande da
porsi per cercare di comprendere meglio il fenomeno.
Anche la semplice definizione di chi sia l’immigrato e delle sue ca-
ratteristiche, mostra la complessità dell’argomento, dato che non ci
sono risposte univoche e nessuno ha l’autorità necessaria per dire
quale sia quella giusta.
Quando inizia l’evento migratorio? Da pedagogista, Aluffi Pentini
afferma che il viaggio inizia per il bambino tre volte: quando ne sente
parlare, quando parte da casa, quando arriva in un nuovo “mondo” e
inizia un viaggio di scoperta.
Quando si conclude la migrazione? Sempre secondo Aluffi Pentini,
l’evento migratorio può dirsi concluso quando si progetta il proprio
futuro nel luogo dove ci si trova e/o quando non ci sono più le condi -
zioni di precarietà e spaesamento dovute allo spostamento. Questo
26
T. Sundermeier, Comprendere lo straniero. Una ermeneutica interculturale,
Queriniana, Brescia, 1999, p. 161.
25
26. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
può anche non avvenire mai, perché non è detto che l’obiettivo del
migrante sia di stabilirsi definitivamente nel nuovo paese.
Proprio lo spaesamento è il sentimento che caratterizza l’evento
migratorio: spaesamento fisico, culturale ed emotivo. Può essere do-
vuto alle difficoltà nel trovare modalità di ambientamento e nell’inte-
grare soggettivamente i cambiamenti oggettivi che si sono verificati.
Questo spaesamento viene influenzato, in particolare, da una va-
riabile oggettiva nel rapporto col paese di arrivo, che riguarda la rego-
larità o meno dell’ingresso e le chance in senso lato di accesso a op-
portunità e servizi. Il mancato raggiungimento del benessere sperato
infatti rischia di protrarre a lungo tale spaesamento. La pedagogia in-
terculturale cerca quindi di assumersi anche l’obiettivo di facilitare la
capacità del bambino e della sua famiglia di trovare un nuovo equili-
brio, integrando soggettivamente e come nucleo familiare il vecchio e
il nuovo.27
È da tener presente che la migrazione può aver portato sì un mi-
glioramento materiale delle condizioni di vita, ma contemporanea-
mente può aver provocato un brusco e profondo peggioramento del
benessere psicologico ed emotivo. Bisogna perciò evitare che le nuove
positive condizioni materiali spingano a minimizzare la portata delle
conseguenze psicologiche di questo cambiamento di vita.
Paradossalmente, proprio queste persone, spaesate e in situazioni
precarie, fanno paura, inducono gli altri a restare a distanza. Il circolo
vizioso di diffidenze reciproche speculari è in agguato in una situazio-
ne di spaesamento.
Per questo i luoghi per i bambini sono importanti, perché se il
bambino trova un luogo in cui vivere e in cui star bene, questa dina-
mica rasserena i genitori e aiuta anche loro a vivere nel luogo in cui si
trovano. Quindi l’intervento interculturale, per Aluffi Pentini, consi-
ste inizialmente nel creare luoghi nei quali le modalità di accoglienza
rendano possibile l’instaurarsi di relazioni positive e significative.
Ovviamente non si può pretendere che l’intervento educativo in-
terculturale venga caricato della piena responsabilità del benessere
degli allievi immigrati, ma sicuramente gioca un ruolo importante.
27
A. Aluffi Pentini, op. cit., p. 22.
26
27. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Le minoranze rappresentano un “problema” leggermente diverso
da quello posto dagli immigrati, in quanto si tratta di gruppi di perso-
ne presenti sul territorio da molto più tempo e solitamente in numero
maggiore.
Spesso questi gruppi etnici “si richiamano alla loro distintività
culturale non per conservatorismo o tradizionalismo, ma piuttosto
come mezzo per ottimizzare gli interessi di gruppo” 28.
Come i gruppi di immigrati, le minoranze mettono in atto varie
strategie nei loro rapporti con la cultura dominante. Esistono forme
di resistenza passiva, prodotte dalla convinzione diffusa all’interno
del gruppo minoritario di non essere in grado di modificare il proprio
status. Si ha quindi un atteggiamento prevalentemente fatalistico di
“rassegnazione” e di ripiegamento, che può portare, all’estremo, al-
l’autodissoluzione del gruppo.
Vi è poi l’accettazione del proprio stato di inferiorità; in questo
caso la distanza dalla cultura dominante viene vissuta in modo nega-
tivo, a causa dell’interiorizzazione di pregiudizi e stereotipi derivati
da essa.
Esistono invece le cosiddette forme di resistenza attiva, accomuna-
te da una valutazione positiva della propria appartenenza etnica. Al-
cuni gruppi, ritenendo immutabili i rapporti asimmetrici di potere,
tendono a limitare al massimo sia la frequenza che la qualità delle re-
lazioni coi gruppi locali; si tratta di forme attive di azione collettiva,
in quanto richiedono “la costruzione di pratiche sociali sottratte al
controllo del gruppo dominante”.29
Infine, le minoranze possono arrivare a una “mobilitazione politi-
camente organizzata, finalizzata al mutamento dei rapporti di forza
politici e agli assetti istituzionali”.30 Questi movimenti politici posso-
no assumere almeno tre forme diverse: “movimenti per l’integrazio-
ne, movimenti per l’inclusione che mantenga, però, la distinzione del
gruppo etnico di appartenenza, movimenti di rottura con le società
28
M. A. Gibson, Introduction. Anthropological Perspectives on Multi-Cultural
Education, in “Anthropology and Education Quarterly”, 1976, p. 12.
29
S. Piazza, F. Toscani, op. cit., p. 101.
30
Ibidem, p. 102.
27
28. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
locali”.31 Quest’ultimo è il caso dei vari movimenti indipendentisti
presenti in varie parti del mondo, la maggior parte dei quali è conno-
tato da un approccio violento e bellicoso. Per esempio nei Paesi Ba-
schi, provincia autonoma spagnola, agisce l’ETA (acronimo di “Eu-
skadi Ta Askatasuna” cioè “paese basco e libertà”), un’organizzazio-
ne indipendentista che propugna l'indipendenza politica della
comunità basca e la creazione di uno Stato socialista denominato Eu-
skal Herria. Fu creata alla fine degli anni Cinquanta come associazio-
ne studentesca clandestina, per affiancare il Partito Nazionalista Ba-
sco (PNV) nella lotta per l'indipendentismo basco e per contrastare
l’azione repressiva del regime franchista che aveva tolto ai baschi
ogni diritto di autonomia e voleva estinguerne la cultura attraverso la
chiusura delle loro scuole e il divieto di parlare la loro lingua. In quel
periodo fu addirittura vietato l’uso di nomi e cognomi baschi e parla-
re in euskera (così viene chiamata la lingua basca) in pubblico com-
portava l’arresto o l’uccisione. L’ETA si è accostata alla lotta armata
verso la metà degli anni Sessanta e da allora ha perseguito i suoi
obiettivi attraverso atti terroristici e di intimidazione nei confronti di
luoghi turistici ma anche della popolazione locale. Per quanto la mag-
gior parte della popolazione non ne approvi i metodi, ne condivide
però gli scopi. La strada politica purtroppo finora non ha portato a
molti risultati: ufficialmente i Paesi Baschi godono di un’autonomia
che ha portato alla formazione di un parlamento e un governo locali,
ma rimangono sotto un ferreo controllo dello Stato Centrale, attuato
attraverso una massiccio stanziamento di forze di polizia, spesso ac-
cusate di utilizzare metodi molto poco ortodossi, come tortura e con-
trolli provocatori, come rilevato anche da associazioni umanitarie in-
ternazionali (per esempio Amnesty International). La censura inoltre
è molto praticata, infatti anche l'unico quotidiano integralmente in
lingua basca, Egunkaria, è stato chiuso. Anche il principale partito
politico indipendentista, Batasuna, è stato messo fuori legge nel
2003, perché accusato di essere il “braccio politico” dell’ETA. Se da
una parte quindi la violenza del terrorismo è da condannare, viene da
chiedersi quale reale alternativa possa avere questo popolo, che da
decenni viene ostacolato o ignorato dallo stato spagnolo.
31
Ibidem.
28
29. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Un esempio pacifico di mobilitazione per l’indipendenza è il caso
dell’Alto Adige, nel quale l’8 giugno 2006 i due movimenti “Union
für Südtirol” e “Süd-Tiroler Freiheit” hanno presentato il progetto di
legge costituzionale 592/XV32 per l'autodeterminazione del Land
Südtirol o Provincia autonoma di Bolzano. Esso richiedeva un refe-
rendum con il quale gli abitanti della provincia interessata avrebbero
potuto scegliere tra: continuare a far parte della Repubblica italiana;
costituirsi in Stato indipendente, libero e sovrano, chiedere l’annes-
sione da parte della Repubblica d’Austria o chiedere l’annessione da
parte della Repubblica federale di Germania. Assegnato alla 1ª Com-
missione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente il 20
giugno 2006, non è ancora stato però discusso.33
I tre modelli di incontro con lo stato straniero
Una volta stabilito che è inevitabile venire a contatto con persone,
oggetti e idee “straniere”, occorre analizzare il nostro modo di porci
nei loro confronti, per individuare gli errori e le mancanze che impe-
discono un reale scambio culturale.
Theo Sundermeier, nel suo “Comprendere lo straniero” 34, indivi-
dua tre modelli di incontro con lo straniero, ricorrenti nel corso della
storia. Si tratta di tre modi differenti di vedere, considerare e giudica-
re ciò o chi è estraneo.
Il primo è il modello dell’uguaglianza. L’idea che sta alla base
di questo modello è che l’estraneità va negata, in quanto tutte le “per-
sone umane” 35 sono uguali. Può apparire un modello positivo, ma la
storia ha mostrato che non è così, dato che le sue conseguenze sono
32
Senato della Repubblica Italiana, Disegno di legge N. 592. Riconoscimento del
diritto di autodeterminazione al Land Südtyrol – Provincia Autonoma di Bol-
zano, 8 giugno 2006.
33
Parlamento Italiano, Atto Senato n. 592 XV Legislatura, in
http://www.senato.it/leg/15/BGT/Schede/Ddliter/25588.htm.
34
T. Sundermeier, op. cit.
35
Ibidem, p. 79.
29
30. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
state ambivalenti. Questo modello era il più diffuso all’inizio dell’era
moderna, quando i conquistatori europei si trovarono davanti a po-
polazioni totalmente sconosciute. Si posero quindi il problema di sta-
bilire se questi stranieri fossero persone umane o no. A seconda della
risposta che veniva data si aveva una di queste tre conseguenze:
Se lo straniero era una persona umana, il problema della compren-
sione non si poneva, occorreva solo trovare un accordo in senso lin-
guistico, per rispondere a esigenze pratiche.
Se era una potenziale persona umana, bisognava renderlo tale, con
la religione e la civilizzazione.
Se non era riconosciuto una persona umana, entrava a far parte
della categoria delle cose e come tale poteva essere tranquillamente
ucciso o venduto come schiavo.
Questo modello non tiene in considerazione le differenze culturali,
non le valorizza e non ne trae nessun vantaggio. È il modello di chi, a
dispetto di tutte le dichiarazioni di uguaglianza, osserva gli altri da un
“gradino più in alto”, convinto della propria superiorità, di essere au-
tosufficiente e quindi di non aver bisogno dell’altro per crescere cul-
turalmente.
Il secondo è il modello dell’alterità, speculare al precedente.
In questo caso lo straniero è considerato come totalmente altro da
me, come lo straniero sospetto, che provoca paura e inquietudine.
Contemporaneamente, però, attrae e stimola, soprattutto se appare
in veste esotica. Anche qui ci sono tre reazioni:
Lo straniero è nemico e va annientato. La comprensione sarebbe in
questo caso pericolosa perché minimizzerebbe i contrasti. Questo
modello invece vive di contrasti e non li vuole indebolire perché raf-
forzano l’identità.
Lo straniero è così attraente da indurre ad abbandonare la propria
cultura. La comprensione è necessaria, ma poi non viene più trasmes-
sa ad altri, perché i ponti con la vecchia cultura vengono demoliti.
L’incontro con lo straniero si riduce a un sottoporsi all’altro, a un
abbassarsi, in qualsiasi forma ciò accada.
Il terzo è il modello della complementarità, quello predomi-
nante nella società occidentale contemporanea.
30
31. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
In questo modello, l’incontro con lo straniero produce tre diversi
tipi di comportamento:
Lo straniero mi completa. L’incontro con lo straniero mi fa cono-
scere i miei limiti e serve ad arricchirmi, in quanto viene assimilato,
adattato e incorporato. Viene insomma utilizzato per “scopi persona-
li”.
L’incontro con lo straniero è un sentiero verso me stesso, non vie-
ne percepito per se stesso, ma come specchio, il tu che rinforza l’io.
La fatica del comprendere è filtrata attraverso l’egocentrismo del sog-
getto percepente. In questo modello sono da annoverare le esperienze
di alcuni artisti moderni che si sono esposti agli influssi di un’altra
cultura.
Lo straniero viene percepito per se stesso. Si arriva alla compren-
sione dello straniero, se è rispettata la permanente affinità costitutiva
di entrambi e lo straniero non viene strumentalizzato, né incasellato
entro i propri schemi, né assimilato. Sundermeier considera questo
atteggiamento il più giusto, ma constata che finora sono riconoscibili
solamente accenni di questo comportamento.
Questi tre modelli portano a differenti approcci in ambito socio-
politico (come già visto), ma anche in ambito pedagogico (come verrà
più avanti analizzato).
Sundermeier elabora poi un quarto modello, prendendo dai tre
precedenti ciò che secondo lui è irrinunciabile per una corretta “er-
meneutica dello straniero”.
Dal primo modello eredita il principio di uguaglianza: tutti godono
della stessa dignità che è intoccabile.
Dal secondo modello deriva l’idea che la diversità dell’altro dev’es-
sere rispettata, senza voler universalizzare un solo modello di vita fa-
cendo violenza agli altri. Si tratta di “percepire la molteplicità e in
essa accettare la diversità dell’altro, iniziando un processo di com-
prensione”36, senza però arrivare all’espropriazione dello straniero,
né alla perdita della propria identità.
Del terzo modello, infine, riprende il concetto che l’io non è pensa-
bile senza l’altro e che l’autocoscienza non può sorgere senza un ter-
36
Ibidem, p. 144.
31
32. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
reno sociale, evitando però di ridurre l’altro a un mero specchio di noi
stessi.
Da queste premesse, Sundermeier va alla ricerca di un modello di
incontro con lo straniero che porti alla comprensione, mantenendo
fermi tre aspetti: “l’identità di coloro che si incontrano, la loro inne-
gabile coappartenenza e un reciproco rimando che porta al ricono-
scimento”.37
Per sviluppare un simile modello, si rifà al disegno di Seiichi Yagi
che spiega la struttura relazionale tra sé e il mondo.
La linea p delinea il primo spazio e costituisce entrambi gli spazi A
e B. Li costituisce, separandoli e collegandoli nello stesso tempo. “Ciò
che mi costituisce mi separa dall’altro”.38 Questa parete però non è
fissa, ma può muoversi ed essendo comune a entrambi gli spazi dà
luogo a uno scambio vicendevole, ma non a una sintesi, né a un me-
scolamento. Questo scambio è definito “osmotico” e ha il potere di
rinvigorire e proteggere me stesso e l’altro. Allo stesso modo se la mia
identità è minacciata lo è anche quella dell’altro. L’ego esiste attraver-
so e con l’altro, viene spodestato, ma non annullato. La persona è qui
determinata dalla relazione, “l’altro (…) non è un casuale ornamento
della mia esistenza. Gli stranieri sono in vario modo mie parti costi-
tutive. Siamo vicendevolmente e reciprocamente dipendenti”.39. Allo
stesso tempo anche tutte le altre “pareti” sono contemporaneamente
interno ed esterno di altri spazi e in questo modo si può vedere come
gli scambi siano tantissimi, perché tantissime sono le relazioni con
cui abbiamo a che fare.
37
Ibidem, p. 146.
38
Ibidem, p. 148.
39
Ibidem, pp. 149-150.
32
33. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Come scrive anche Francesca Gobbo: “i confini non rappresenta-
no una barriera alla comunicazione e alla comprensione
reciproca…”40
A questo quarto modello di incontro viene dato il nome di model-
lo omeostatico.
1.2 Pedagogia interculturale
La società contemporanea, caratterizzata da una forte multicultu-
ralità, richiede un pensiero complesso capace di interpretare e spie-
gare una realtà diversificata, articolata e multidimensionale, grazie al
quale “realizzare un’educazione all’ascolto attivo, all’autoconsape-
volezza delle proprie emozioni per poter gestire in modo creativo
anche i possibili conflitti”.41
Spesso invece ci troviamo di fronte a un pensiero semplicistico e
monodimensionale, il cosiddetto pensiero riduzionista, che ignora e
dissolve gli insiemi complessi e multidimensionali, limitando tutto al
misurabile e quantificabile.
Si delinea quindi la necessità di mettere in atto una pedagogia in-
terculturale, cioè quel settore del pensiero dell’educazione che deli-
nea le strategie migliori perché soggetti portatori di culture e origini
culturali diverse possano imparare a comunicare fra loro, indipen-
dentemente dalle differenze culturali, linguistiche e comportamenta-
li.
L’agire educativo quindi non può più essere inteso come la sempli-
ce trasmissione di valori legati esclusivamente a una cultura, a una
lingua e a una nazione, ma deve tener conto dei cambiamenti sociali
legati alla modernizzazione e alla globalizzazione.
Ciò non deve tuttavia portare a sottovalutare l’importanza della
propria cultura, ma casomai stimolare un desiderio di conoscere cri-
ticamente la propria storia e quella delle altre culture attraverso altre
prospettive.
40
F. Gobbo, op. cit., p. 37.
41
D. Bobisut (a cura di), op. cit., p. 60.
33
34. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
La pedagogia interculturale non è quindi rivolta soltanto al mondo
della scuola (sebbene esso abbia un ruolo predominante) con l’acco-
glienza e l’inserimento degli alunni stranieri, ma si rivolge all’intera
società, situando i problemi riguardanti l’interculturalità in una pro-
spettiva teorica più ampia.
Questo perché la pedagogia interculturale parte dall’idea che i pro-
blemi che si generano siano dovuti non tanto, o meglio non solo, alle
difficoltà o diversità di determinati soggetti o gruppi, quanto al fatto
che l’organizzazione sociale e la cultura dei paesi di accoglimento
“non sono abituate a vedersi e ad ascoltarsi come insieme di regole,
modi, aspettative culturali” 42, non rendendosi così conto della pro-
pria rigidità e incapacità di adattarsi a nuove situazioni.
Quindi la didattica interculturale apre il discorso sulla diversità in
generale (non solo quella che caratterizza gli immigrati) e indica
quanto le stesse culture e società di accoglimento ne siano intrise. Va
però tenuto presente che “non è possibile educare al dialogo tra i po-
poli e le culture in assenza di un’educazione alla comunicazione in-
terpersonale”43, infatti chi non è in grado di relazionarsi in modo po-
sitivo con le persone che lo circondano abitualmente, non riuscirà di
certo a dialogare con chi gli è totalmente estraneo. Le culture, essen-
do costituite da persone reali, per dialogare necessitano perciò che i
propri appartenenti sappiano in primo luogo relazionarsi tra di loro.
Occorre quindi iniziare un percorso di analisi e di riflessione sulla
nostra stessa identità e diversità, sui nostri modi di rapportarci agli
altri, per arrivare poi a confrontarci con la diversità di chi ci è stranie-
ro.
Nella conferenza dell’UE sul dialogo interculturale 44, all’interno
della dichiarazione che tratta della politica del dialogo interculturale,
si individua come campo di azione prioritario l’educazione dei giova-
ni alla tolleranza, alla comprensione e rispetto reciproco, all’apertura
all’altro e alla sua scoperta, alla comprensione delle molteplici forme
42
F. Gobbo, op. cit., p. 13.
43
D. Bobisut (a cura di), op. cit., p. 59.
44
UE, Dichiarazione della Conferenza dell’Unione Europea sul dialogo intercul-
turale, Bruxelles, 20-21 marzo 2002, punto 4-a.
34
35. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
della modernità, al superamento della tendenza all’assolutizzazione
delle identità collettive.
Seguendo queste linee guida, la pedagogia interculturale, secondo
Antonio Genovese45 si propone di:
- rendere più fluide e reciproche le comunicazioni fra gli individui
appartenenti a etnie eterogenee;
- favorire l’incontro tra le culture diverse, facilitando la messa in
relazione di comportamenti e valori che possono anche collocarsi su
piani non allineati o addirittura divergenti, per contrastare così ogni
forma di xenofobia e razzismo, attraverso l’abbattimento di stereotipi
e pregiudizi culturali;
- sottolineare i cambiamenti che si producono all’interno delle cul-
ture durante la loro evoluzione e portare alla luce il nuovo che nasce
dall’interazione con le altre, cioè valorizzare tutti quegli elementi che
concorrono ad arricchire le rispettive identità;
- sottolineare i meccanismi per la produzione di una nuova cultu-
ra;
- contrastare i rischi di omologazione e di massificazione;
- valorizzare le differenze;
- costruire un’identità personale aperta al pluralismo culturale e
capace di rapportarsi agli altri sulla base della reciprocità 46.
Una corretta pedagogia interculturale, secondo Aluffi Pentini, deve
tener conto di tre aspetti di uguale importanza, ma complementari:
l’unicità individuale, la diversità di gruppo e il concetto di pensiero
inclusivo. Occorre fare attenzione che l’impostazione educativa o le
attività proposte non siano squilibrate verso uno di questi tre aspetti.
Il concetto di unicità individuale fa riferimento alla centralità
della persona nella sua irripetibilità ed è quindi legato a un approccio
pedagogico di tipo generale, che si interessa dell’educazione di tutti e
di ognuno, senza particolari distinzioni legate alle appartenenze cul-
turali. Benché teoricamente questo metodo potrebbe apparire da solo
sufficiente alla realizzazione di una pedagogia interculturale, nella
pratica quotidiana questo concetto di unicità individuale rischia di
essere utilizzato per sostenere che tutti hanno esigenze identiche,
45
A. Genovese, op. cit., p. 7.
46
Ibidem, p. 17.
35
36. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
ignorando le differenze che invece esistono e le influenze che le varie
culture portano nella formazione di ognuno e legittimando una
“omogeneizzazione dell’offerta formativa”.47
Il concetto di diversità di gruppo consente di porre l’attenzione
sull’appartenenza delle persone a uno o più gruppi e sulle loro diffe-
renze, contrastando l’idea di una presunta omogeneità fra gli indivi-
dui. Nella pratica educativa occorre essere aperti a ciò che questa ap-
partenenza comporta, data la sua grande influenza nel processo di
formazione dell’identità personale. Bisogna perciò riconoscerne le
espressioni e non ignorarla rischiando di svalorizzarla. Questo aspet-
to è quello più strettamente legato al discorso dell’educazione inter-
culturale e benché abbia il pregio di tenere in alta considerazione le
differenze culturali, spesso rischia di “voler definire e fissare rigida-
mente appartenenze fluide”48 senza riconoscere l’importanza dell’u-
nicità dell’individuo e delle sue caratteristiche specifiche.
Il concetto di pensiero inclusivo si riferisce all’esigenza di inclu-
dere, cioè di garantire l’accesso a servizi e opportunità in modo con-
creto. La parità quindi non deve consistere solo nel riconoscimento
della cultura dello straniero, ma anche nel riconoscimento di pari di-
gnità e pari opportunità di ascesa sociale. Dal punto di vista pedago-
gico questo atteggiamento è strettamente legato alla pedagogia anti-
razzista, che ha l’obiettivo di sviluppare in ognuno le competenze e la
consapevolezza necessarie a identificare e smantellare le pratiche raz-
ziste, implicite ed esplicite, attuate sia a livello personale che dalle
istituzioni.
Anche questo aspetto però, se viene privilegiato rispetto ai prece-
denti due concetti, rischia di ridurre la pedagogia a “una arida anali-
si di responsabilità che facilmente genererebbe sensi di colpa, o co-
munque un’analisi di situazioni che rendono difficoltosa la convi-
venza tra persone di culture diverse”.49 Si perderebbe così di vista
tutto ciò che concerne le culture e i loro bagagli di significati ed emo-
tività.
47
A. Aluffi Pentini, op. cit., p. 14.
48
Ibidem, p. 15.
49
Ibidem.
36
37. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Modelli pedagogici
A seconda del grado di equilibrio tra i tre concetti precedentemen-
te analizzati, si possono individuare delle tipologie di intervento nella
pratica pedagogica interculturale, tra le quali Genovese 50 identifica
due modelli principali situati ai due poli opposti della vasta gamma di
opinioni pedagogiche interculturali.
Il primo modello viene definito assimilazionista: in questo
modello il processo di socializzazione è inteso fondamentalmente
come un percorso di omologazione e di adattamento al nuovo conte-
sto sociale e culturale.
Le differenze non hanno rilievo pedagogico, anzi, si cerca di attu-
tirle e di eliminarle, in quanto la loro esistenza viene vista come un
potenziale pericolo.
Viene fuori un modello fondato sul “dover essere” in cui l’inse-
gnante ha un ruolo ispiratore: “l’azione pedagogica si basa sull’e-
sempio, sulla parola e sull’esortazione”.51
Ci si trova di fronte a una visione non interventista sul piano didat-
tico e poco flessibile dal punto di vista della programmazione: le atti-
vità non si devono modificare perché non bisogna mettere in rilievo
una presenza che potrebbe essere percepita dai bambini autoctoni
come diversa e invasiva.
Dal punto di vista pratico il problema viene affrontato prevalente-
mente sul piano degli apprendimenti linguistici e delle regole di com-
portamento, con l’obiettivo di un inserimento non conflittuale nella
società, attuando la cosiddetta pedagogia compensativa, che ha l’o-
biettivo di compensare le lacune a livello linguistico e di contenuti.
Per quanto a prima vista appaia un metodo valido, che mette tutti
sullo stesso piano, in realtà non valorizza le differenze personali,
ignorando la loro influenza nei processi di apprendimento e nello svi-
luppo dei bambini. Francesca Marianna Consonni della GAM di Gal-
larate52 mette in evidenza questo aspetto quando parla di alcuni bam-
50
A. Genovese, op. cit., p. 7.
51
Ibidem.
52
Intervista effettuata a F. M. Consonni, GAM, Gallarate, 3 dicembre 2009.
37
38. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
bini che hanno partecipato alle attività didattiche organizzate dal mu-
seo. Alcuni allievi provenienti dal Sud America, cresciuti nella zona
della foresta amazzonica e quindi abituati a un ambiente caratterizza-
to da forti contrasti di luce e ombra, hanno mostrato di avere una
percezione visiva diversa, più sensibile alle differenze di luminosità,
rispetto agli altri allievi più abituati a concentrasi sulle forme degli
oggetti.
Questo metodo, perciò, oltre a non trarre alcun vantaggio dalle dif-
ferenze, rischia di renderle ancora più evidenti, proprio perché le
considera un impedimento e un handicap. Si tratta inoltre di un me-
todo impositivo, in cui le conoscenze e le competenze, vengono stabi-
lite dall’alto senza tener conto delle capacità personali di chi vi è “sot-
toposto”. È lo stesso tipo di atteggiamento che Sundermeier, in quello
che definisce “modello dell’uguaglianza” 53, attribuisce ai conquistato-
ri europei che, all’inizio dell’era moderna, incontravano nuove popo-
lazioni totalmente sconosciute.
A questo modello fa riferimento la scuola prodotta dal cosiddetto
“modello repubblicano”, riscontrabile in Francia, in cui la scuola ha il
compito di formare il cittadino francese, qualunque sia la sua prove-
nienza. Questo tipo di modello ha le sue radici nel rapporto della
Francia con le sue colonie e si basa su un patto di scambio tra lo stato
laico e democratico da un lato e, dall’altro, i lavoratori migranti che,
se accettano le regole, grazie al patto diventano soggetti di diritti. 54
Questa acquisizione di diritti ovviamente non si traduce automatica-
mente in parità sociale: anzi, solitamente questi immigrati, pur otte-
nendo la cittadinanza, continuano a vivere in condizioni disagevoli e
precarie. Si viene così a creare una separazione tra cittadini di serie B
e di serie A. Questa situazione è stata messa in luce dalla rivolta delle
banlieu francesi nel 2005. Le difficoltà dei sobborghi francesi hanno
le loro radici nei piani di ricostruzione che sono stati attuati dopo la
seconda guerra mondiale. Durante il 1950 una carenza di abitazioni
portò alla creazione di baraccopoli per accogliere giovani lavoratori
provenienti dalle colonie, prevalentemente dall'Africa del Nord e del-
l'Ovest. Il paese accolse con gioia l’arrivo di queste persone, chiamate
53
T. Sundermeier, op. cit., p. 79.
54
A. Aluffi Pentini, op. cit., p. 16.
38
39. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
per aiutare la ricostruzione. A un’accoglienza per così dire teorica,
non corrispose però un’altrettanta accoglienza pratica, in quanto le
zone abitate dagli immigrati furono sempre più abbandonate a se
stesse, in balia del degrado e dell’illegalità, lasciando che si trasfor-
massero in ghetti. Col passare del tempo il malcontento tra la popola-
zione è cresciuto al punto da esplodere in episodi di violenza, i più
noti dei quali sono quelli del 2005. Le istituzioni, da parte loro, han-
no sempre assunto un comportamento altalenante tra il contenimen-
to della povertà e dell'isolamento sociale e il rafforzamento dei con-
trolli effettuati dalle forze dell’ordine, per ristabilire l’ordine e la lega-
lità. Spesso però questi ultimi hanno ottenuto l’effetto contrario a
quello voluto, infatti gli agenti di polizia sono frequentemente accusa-
ti di avere un atteggiamento di molestia e provocazione nei confronti
degli abitati delle periferie.
Secondo lo scrittore Amar Henni55, tra i principali fattori scatenan-
ti della rivolta non ci sono stati solo il bisogno di rispetto e dignità,
ma anche una sorta di competizione tra le zone implicate ad aggiudi-
carsi il titolo di area "più violenta" sfruttando la visibilità data dai
media, i quali sembrano quindi giocare un ruolo importante nella
propagazione delle violenze.
Henni spiega che gli scontri erano diretti verso la gente della stessa
condizione sociale, perché gli aggressori non erano né organizzati, né
politicamente educati e non sapevano come raggiungere i propri
obiettivi in maniera legale.
Il secondo modello si trova all’opposto ed è definito differen-
zialista/separatista: le differenze culturali sono ritenute non com-
patibili fra di loro e in grado di produrre un conflitto distruttivo nel
momento della loro interazione. In questo modello, mentre si cerca di
rinsaldare i legami nei gruppi etnici di appartenenza attraverso la va-
lorizzazione della cultura di origine, si mira in realtà alla creazione di
comunità che si contrappongono e che riescono a tollerarsi reciproca-
mente, ma che non comunicano fra loro. Questo modello spinge alla
separazione delle culture, ma soprattutto delle comunità e degli indi-
vidui.56
55
A. Henni, “Libération”, 5 novembre 2005.
56
A. Genovese, op. cit., p. 19.
39
40. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Il modello differenzialista è quello dominante nel mondo anglosas-
sone, in cui si mira alla costituzione di comunità etniche autonome in
assenza però di qualsiasi tipo di scambio culturale. Sono esemplari i
casi della famosa Chinatown a San Francisco e della numerosa comu-
nità indiana in Inghilterra.
I limiti di questo modello (così come di quello precedente) sono
evidenti: attraverso la “valorizzazione” unilaterale e assoluta della
propria cultura si vogliono creare mondi separati e incomunicabili fra
loro. Forse più sottili, perché meno evidenti, ma ugualmente negative
per l’interculturalità, sono quelle separazioni che fanno riferimento a
realtà e dati “oggettivi”, come la non conoscenza linguistica, la diffe-
renza di comportamento, ecc… tutte separazioni che trovano spesso
la soluzione più “adeguata” nella formazione di luoghi “formativi” se-
parati, cioè di ghetti.
Un esempio non molto lontano lo si rintraccia nella pratica della
“pedagogia per stranieri” che si è concretizzata nella formazione di
scuole, classi e programmi differenziati.
In Italia la Lega Nord, attraverso una mozione proposta nell’otto-
bre del 2008, ha proposto la costituzione delle cosiddette “classi pon-
te” per l’inserimento degli alunni immigrati nel sistema scolastico ita-
liano. La mozione identifica la presenza di allievi immigrati come
causa di “difficoltà oggettive d'insegnamento per i docenti e di ap-
prendimento per gli studenti”57 e prevede l’introduzione di un test
linguistico e di una valutazione generale dello studente straniero, che
se non è reputato capace di stare al passo degli altri in una classe nor-
male va a finire in una “classe di inserimento”. Inizialmente approva-
ta, seppur con un minimo scarto tra maggioranza a opposizione, que-
sta mozione ha scatenato una moltitudine di polemiche, da parte di
esponenti di entrambi gli schieramenti politici, del mondo cattolico e
di esperti dell’educazione, che l’hanno accusata di essere uno stru-
mento di discriminazione. Il ministro Mariastella Gelmini ha assunto
alcuni dei concetti di questa mozione e li ha inseriti nella Circolare
Ministeriale n.2 dell’8 gennaio 2010, che fissa al 30 per cento il nu-
57
Camera dei Deputati, Mozione 1-00033, 14 ottobre 2008.
40
41. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
mero massimo di alunni con cittadinanza non italiana che sarà possi-
bile inserire nelle classi.58
Si tratta di un provvedimento che, se da un lato evita la creazione
di “classi ghetto”, crea comunque delle discriminazioni. L’errore sot-
teso a questo provvedimento sta nella frase del Ministro Gelmini che
ha dichiarato “non è certo un problema di razzismo ma un problema
soprattutto didattico: lo sanno le molte mamme che vedono la clas-
se dei loro figli procedere a due velocità di crescita formativa, con
alcuni studenti che rimangono indietro ed altri che riescono ad an-
dare avanti meglio”59. È evidente che i bambini stranieri possono
avere maggiori difficoltà, ma è fatto normalissimo che in una classe i
bambini abbiano velocità di crescita formativa differenti. Gli inse-
gnanti hanno proprio il compito di gestire queste differenze; la moti-
vazione di voler diminuire le difficoltà d’insegnamento per i docenti e
di apprendimento per gli studenti appare come un pretesto per sod-
disfare le esigenze di quei genitori che ancora non vedono di buon oc-
chio la presenza di bambini stranieri nelle scuole dei propri figli, per-
ché preoccupati che ciò li rallenti nell’apprendimento. Seguendo que-
sto ragionamento, bisognerebbe individuare le caratteristiche
dell’allievo standard (che esiste solo nella teoria) e separare tutti
quelli che vi si discostano. Dato che nella pratica la maggior parte de-
gli allievi presenta qualche “scomodità”60, si dovrebbero sviluppare
un gran numero di classi che separino i bambini a seconda delle loro
capacità, del loro livello e velocità di apprendimento, creando classi il
più possibile omogenee. Questo ragionamento però non tiene conto
del fatto che i bambini imparano moltissimo osservando anche i com-
pagni e che un ambiente omogeneo offre molti meno stimoli e di con-
seguenza non accelera lo sviluppo di un bambino con difficoltà di ap-
prendimento. Bisogna infatti ricordare che sono molte le conoscenze
(informazioni, regole, comportamenti, linguaggi) che si apprendono
dagli altri, senza che essi ne abbiano avuto l’intenzione o se ne siano
resi conto. Il comportamento dei compagni autoctoni risulta molto si-
58
Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, Circolare Ministeriale
n.2, 8 gennaio 2010, punto n.3.
59
S. Intravaia, “La Repubblica”, 09 gennaio 2010.
60
A. Aluffi Pentini, op. cit., p.12.
41
42. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
gnificativo per il bambino straniero, che impara a vivere nella nuova
società proprio osservando i compagni che vi appartengono dalla na-
scita.
Per quanto riguarda le difficoltà linguistiche, basta ricordare che il
metodo migliore per imparare una lingua è trovarvisi immersi (per
esempio grazie ai numerosi viaggi-studio), per capire come la separa-
zione non sia il metodo migliore.
Per superare queste due visioni e avvicinarsi a una prospettiva ve-
ramente interculturale, si deve guardare a un terzo modello, quello
che promuove l’integrazione delle differenze, cioè tendente alla loro
valorizzazione, ma in un’ottica di confronto. Si tratta di costruire mo-
menti d’interazione fra le diverse culture e di far emergere sia i tratti
comuni, sia i fattori portatori di diversità, senza costruire barriere in-
sormontabili e contrasti non risolvibili.
Questo modello pluralista/integrazionista è a nostro avviso il
migliore dal punto di vista interculturale. Nella pratica pedagogica
esso tenta di collegare i processi di apprendimento e di socializzazio-
ne con le diverse esperienze dei bambini e, nel caso di bambini stra-
nieri, di conciliare gli obiettivi scolastici con le aspettative familiari.
Si tratta di contemperare i percorsi formativi con il rispetto dell’iden-
tità culturale ed etnica dei diversi soggetti, anzi traendone spunti in-
teressanti per l’arricchimento di tutti.
In questo modello pluralista si trova una relativa ricchezza di pro-
poste didattiche, dovuta anche al fatto che, proprio per via di questa
attenzione ai singoli individui, non si possono stabilire a priori attivi-
tà che vadano bene in qualunque contesto, ma occorre progettare
specificatamente per la situazione in cui ci si trova.
Solitamente il modulo organizzativo che viene privilegiato nelle at-
tività che si rifanno a questo modello è il piccolo gruppo, dato che
esso permette maggiori interazioni e più coesione tra i partecipanti.
L’obiettivo principale di queste attività diventa il rispetto dell’identità
culturale del bambino migrante e autoctono, che può passare attra-
verso la memoria e la valorizzazione delle tradizioni, delle feste e dei
significati simbolici di atti e avvenimenti importanti nelle diverse cul-
42
43. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
ture, ma anche attraverso il confronto di fiabe, usi alimentari, modi
di abitare, di vestirsi, ecc…61
La difficoltà di attuazione di questo metodo è dovuta anche al fatto
che è necessario rivedere la programmazione didattica e mettere in
atto nuove strategie per lo sviluppo di competenze relazionali, attra-
verso metodologie che consentano la partecipazione anche dei bam-
bini che ancora non sono pienamente padroni della lingua. Gli inse-
gnanti purtroppo non sempre sono in grado (o hanno voglia) di at-
tuare questi cambiamenti, forse anche perché essi richiedono
competenze che non fanno parte del loro bagaglio culturale, acquisito
durante il loro percorso formativo. Il primo passo da fare verso una
corretta pedagogia interculturale è, quindi, proprio la formazione de-
gli insegnanti.
Genovese mette in guardia dagli approcci pedagogici che tendono
a sottovalutare le conseguenze emotive e affettive legate al cambia-
mento del contesto sociale e ambientale cui viene sottoposto il bam-
bino migrante e che, pertanto, tendono a dare scarso peso alla ricadu-
ta del processo di sradicamento culturale sul piano cognitivo. 62
In realtà, in questi processi di apprendimento che rimettono in di-
scussione non solo i contenuti, ma anche e soprattutto, il modo in cui
il soggetto organizza i contenuti stessi, ha una grossa rilevanza il rap-
porto emozione/conoscenza, perché questo cambiamento radicale è
quasi sempre imposto e porta a uno scompaginamento delle mappe
concettuali e alla perdita del contesto di riferimento. Questo “strania-
mento” non capita solo all’infanzia migrante, ma a chiunque vive in
contesti multiculturali, come succede ormai a quasi tutti i bambini.
Lo stesso apprendimento della lingua parlata nel paese di arrivo,
non è, in questo caso, il semplice studio di una lingua straniera, la
semplice acquisizione di uno strumento per comunicare con “stranie-
ri”, ma è una lingua che “veicola emozioni, che permette di dare nuo-
vi nomi ai luoghi e agli avvenimenti e che consente la partecipazio-
ne a relazioni affettive rilevanti. Si tratta cioè di apprendere una
lingua per una comunicazione piena dal punto di vista affettivo, so-
61
A. Genovese, op. cit., p. 8.
62
Ibidem.
43
44. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
ciale e relazionale”.63 Se dunque il problema viene affrontato a questo
livello, è chiaro che esso implica la messa in campo di percorsi forma-
tivi capaci di fare i conti con la complessità e la socialità necessarie
alla comunicazione.
È fondamentale che il modello pedagogico diventi più ampio e ac-
quisisca una valenza interattiva, perché deve permettere fluidità, fles-
sibilità e reciprocità. È quindi utile riferirsi a un modello esplicativo e
orientativo che accetti l’esistenza del pluralismo culturale e punti al-
l’integrazione (cioè alla relazione senza sradicamento) dei diversi
soggetti e delle differenti culture, un modello capace di aprirsi anche
al confronto e, soprattutto, al contrasto che non esplode in violenza.
L’educazione interculturale va quindi intesa come un unico proces-
so che va in due direzioni: da un lato, verso una socializzazione im-
prontata alla solidarietà e tesa a costruire relazioni affettive aperte
verso l’altro; dall’altro lato, verso la realizzazione di esperienze d’ap-
prendimento capaci di superare gli stereotipi culturali che tutti noi
largamente utilizziamo per la descrizione e interpretazione della real-
tà.
Per raggiungere questi obiettivi, esistono alcuni temi che assumo-
no maggiore rilevanza in una prospettiva didattica orientata all’inter-
culturalità: l’accoglienza e la valorizzazione delle differenze attraverso
l’ascolto e il dialogo, il decentramento e la conseguente costruzione
dell’identità.
La valorizzazione delle differenze e la pedagogia dell'ascolto
La nostra società, pur ricca di diversità, va altresì incontro a un
processo di omologazione culturale causata anche dai media che
esportano in tutto il mondo il cosiddetto “modello occidentale” di vita
(benché si tratti spesso di un modello di vita irreale). Risulta così dif-
ficile considerare l’alterità come un valore e la diversità delle idee
come un arricchimento reciproco. Occorre invece rendersi conto che
noi stessi siamo portatori di differenze, e abbandonare il nostro inna-
63
Ibidem, p. 21.
44
45. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
to egocentrismo, in quanto le differenze interessano anche gli appar-
tenenti alla cultura dominante: interessi, competenze, gusti, variano
da un individuo all’altro anche tra gli autoctoni. Lo si vede nella stes-
sa definizione di Italiani, che comprende persone provenienti da re-
gioni con tradizioni e stili di vita anche molto differenti. Il problema è
che queste differenze vengono percepite come meno “ingombranti”
rispetto a quelle che riscontriamo negli stranieri.
Assistiamo perciò a un paradosso in cui, nonostante la diversità e
la varietà delle attitudini e delle esperienze degli individui e delle col-
lettività appaiano una condizione indispensabile all’innovazione e
allo sviluppo, si è però ancora lontani dal dare il giusto valore, o
quanto meno il dovuto rispetto alle diversità e alle varietà individuali
e collettive.
Bisogna imparare a dare il giusto riconoscimento a ciò che è diver-
so da noi: “Il modello di vita altrui non [va] considerato come disor-
dine e caos, come barbarico e pericoloso, ma come ordinamento di
un altro”.64
Nella prospettiva interculturale la differenza va perciò assunta
“non come un limite ma come una ricchezza come cammino verso il
superamento delle condizioni esistenti, verso il superamento del li-
vellamento e dell’egualitarismo forzato che impoverisce dei talenti
che ognuno ha. La diversità vissuta come possibilità porta alla con-
quista della differenza”.65
Spesso tutti noi tendiamo a leggere e a interpretare le differenze
secondo uno schema “noi/loro” di tipo rigido (stranieri contro autoc-
toni) e scarsamente modificabile, per cui lo scambio culturale non
viene percepito come una componente importante della vita di tutti,
ma funzionale solo all’inserimento del bambino/ragazzo migrante.66
Secondo la pedagogia interculturale la differenza andrebbe intesa
come un criterio regolativo e riorganizzatore delle attività didattiche,
dei rapporti interpersonali, come una qualità che riguarda e investe
tutti i partecipanti al processo formativo, per cui tutti dovrebbero im-
parare a riconoscerla, a convivere con essa e a usarla positivamente.
64
Sundermeier, op. cit., p. 159.
65
D. Bobisut (a cura di), op. cit., p. 60.
66
A. Genovese, op. cit., p. 8.
45
46. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Invece ciò accade molto raramente: nelle nostre convinzioni più pro-
fonde è quasi sempre lo straniero che deve cogliere le differenze. In
questo modo lo schema “noi/loro”, diventa fisso e le differenze si cri-
stallizzano e si trasformano in diversità inconciliabili.
Al contrario, se il gioco delle differenze porta a comporre e scom-
porre continuamente i gruppi che formano il “noi” e il “loro”, appare
chiaro che le differenze non sono cristallizzate, ma cambiano in rap-
porto ai parametri che utilizziamo e, di volta in volta, ognuno di noi
può trovarsi collocato in versanti diversi e può interpretare ruoli dif-
ferenti nelle relazioni interpersonali. 67
Questo “gioco delle differenze” può portare ad acquisire la consa-
pevolezza che proprio dallo scambio e dall’interazione nascono ele-
menti innovativi accanto a ciò che permane e resiste: passato e pre-
sente, tradizione e innovazione.
Il riconoscimento delle differenze di cui ogni allievo è portatore
passa anche attraverso la scoperta delle sue capacità, grazie a una pe-
dagogia dell’ascolto, che consente di sentire e interpretare i bisogni di
ogni bambino, al fine di valorizzare le capacità di tutti loro, stranieri e
autoctoni.
Chi non è in grado o non è disposto a prestare ascolto all’altro, fini-
sce inevitabilmente col richiudersi nei propri stereotipi e nelle pro-
prie idee.
Un problema che ha bisogno di essere affrontato con una disponi-
bilità di questo genere è quello relativo all’apprendimento della se-
conda lingua per il bambino migrante. Un atteggiamento didattico
non aperto all’ascolto e alla valorizzazione dell’alunno porta a inter-
pretare, o per meglio dire a etichettare, la condizione del bambino
straniero come un “non alfabetizzato”, quando in realtà si tratta di
soggetti che non solo parlano bene la loro lingua (o addirittura anche
una seconda, come spesso accade), ma soprattutto sono già scolariz-
zati con un altro linguaggio.
Anche la diversa concezione del tempo è un fattore che spesso por-
ta l’alunno straniero ad apparire agli occhi dell’insegnante molto len-
to nell’esecuzione dei compiti assegnatigli e per questo giudicato ne-
gativamente dal punto di vista didattico, come se fosse lento perché
67
Ibidem, p. 9.
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47. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
incapace di eseguire il compito, quando invece la sua lentezza molto
probabilmente deriva da una diversa concezione della temporalità.
Non in tutte le culture, infatti, il tempo viene visto come qualcosa da
“occupare” il più possibile e i compiti devono essere svolti nel minor
tempo necessario per essere giudicati positivamente. Questo frain-
tendimento in buona fede è dovuto a una scarsa capacità di mettersi
nei panni dell’altro, per cui invece di ipotizzare che un dato compor-
tamento delle persone è ragionevole per loro in quanto è motivato da
un differente sistema di norme culturali, spesso riteniamo che siano
state violate intenzionalmente delle convenzioni condivise, o che co-
munque si tratti di mancanze e incapacità.
Su questi terreni può essere utile ricorrere alle esperienze delle
pratiche nonviolente, per creare una situazione in cui vengono attiva-
ti meccanismi legati allo sviluppo della fiducia reciproca e in cui si
fanno vivere esperienze di solidarietà o di ribaltamento di ruoli, che
solitamente si presentano rigidi e prefissati. Si tratta di giochi e attivi-
tà che cercano di far nascere elementi di cambiamento non solo nel
pensiero, ma anche nel vissuto degli individui coinvolti.
Il saper ascoltare i bisogni dell’altro si misura anche nel momento
dell’accoglienza del nuovo alunno. In tale situazione viene messa in
evidenza la capacità di instaurare una relazione in profondità con l’al-
tro ed è possibile analizzare i vari rapporti che nell’ambito scolastico
s’instaurano tra l’insegnante e gli alunni e tra gli alunni stessi: se essi
sono in grado di interagire con un loro coetaneo nuovo, se sono aperti
all’accoglienza o se la loro prima reazione è la chiusura, se l’insegnan-
te è in grado di mediare tra gli alunni nuovi e quelli già presenti. Si
tratta insomma di una buona “cartina tornasole” per verificare le ca-
pacità relazionali della classe.
Accoglienza e inserimento degli stranieri
Benché rivolta a tutti, la pedagogia interculturale si occupa anche
del caso specifico di alunni (bambini o adolescenti) stranieri e del
loro inserimento nella scuola e di conseguenza nella società.
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48. I. L’interculturalità e la pedagogia interculturale
Per far ciò deve assolutamente tener conto delle difficoltà materia-
li, ma soprattutto emotive che i giovani stranieri incontrano nell’inse-
rirsi in una società nuova, a volte diversissima da quella di origine.
Molti insegnanti, inoltre, dimenticano che la scuola stessa ha una
propria cultura, formata da regole e codici di comportamento non
scritti, e che spesso questa è molto lontana dall’ambiente culturale da
cui proviene il bambino straniero. Il bambino, quindi, non solo deve
imparare una nuova lingua per apprendere nuove conoscenze disci-
plinari, ma deve anche imparare a essere un allievo.
Lo spaesamento, che viene definito anche sradicamento, è il senti-
mento che più caratterizza l’esperienza della migrazione in un paese
straniero; il termine sradicamento fa comprendere bene la situazione
di chi è stato distaccato violentemente dal proprio contesto per essere
trapiantato in un nuovo luogo, lo spaesamento mette in luce lo stato
d’animo di chi ha perso i propri punti di riferimento. Per questo i luo-
ghi sono importanti: è necessario che i bambini trovino un ambiente
rassicurante che diventi loro familiare e in cui star bene, per potersi
poi inserire mano a mano in tutti gli altri “luoghi” che costituiscono la
società. È in questo senso che l’intervento interculturale inizialmente
consiste, secondo Aluffi Pentini, nel creare luoghi nei quali gli stra-
nieri si sentano accolti e nei quali sia possibile l’instaurarsi di relazio-
ni positive e significative. Uno di questi luoghi può essere costituito
proprio dal museo e dall’arte, come verrà più avanti mostrato.
Aluffi Pentini mette inoltre in luce il fatto che “l’approccio inter-
culturale può bastare laddove gli interlocutori appartenenti a cultu-
re diverse si collocano su un piano di parità dal punto di vista socia-
le, economico e culturale” 68. Ciò significa che la parità non deve con-
sistere solo nel riconoscimento della cultura dello straniero, ma
anche nel riconoscimento di pari dignità e pari opportunità di ascesa
sociale. Significa che non vi deve essere rischio di sopraffazione, né
senso di inferiorità. Per questo occorre evitare che qualcuno diventi
“il diverso” per definizione e venga messo su un gradino più basso ri-
spetto agli altri. Inizialmente quindi l’evitare di mettere in evidenza le
differenze di cui il nuovo arrivato è portatore può essere il metodo
migliore per consentirgli di acclimatarsi nel nuovo contesto della
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A. Aluffi Pentini, op. cit., p. 12.
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