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Un sogno per la vita
Entrai nella grande stanza con il cuore in gola e le mani in preda ad un fremito incontrollabile.
Quando il professore mi squadrò dall'alto in basso con un'aria presuntuosa e saccente, notai nel suo
sguardo una nota di disprezzo. Tuttavia non mi lasciai impressionare: mi sedetti davanti alla
commissione e, malgrado le gambe che stentavano a sostenermi e la vergogna per l'inadeguatezza
del mio abito, cominciai a parlare con disinvoltura. Quando l'esame terminò, non avevo quasi più
voce per l'emozione. Tutti i docenti si erano complimentati e quello che mi aveva accolta con
riluttanza sembrava non credesse possibile che una come me, una “zingara”, fosse capace di dare
esami in modo ancora più brillante degli altri studenti. Quando pronunciò quel 110 e lode, le sue
parole si dissolsero ancor prima che avessi il tempo di reagire, il peso che mi portavo dietro da tanto
tempo si sciolse in una miriade di frammenti invisibili. Mi allontanai dalla facoltà di Medicina
volando. Mi sentii improvvisamente leggera, perché il sogno di una vita, tanto ostacolato e
contestato, era finalmente diventato realtà. Ripensai a tanto tempo prima, quando ancora non avevo
iniziato l'Università, accorgendomi che la mia vita era cambiata completamente da allora.
La passione per la medicina era sorta nel campo rom dove ho trascorso tutta la mia infanzia. Mia
madre faceva di tutto perché io potessi crescere felice, per non farmi notare troppo la differenza tra
me e gli altri bambini, ma non sempre ci riusciva. Ho sei fratelli e non ho mai conosciuto mio padre.
Lui non c'è mai stato, ma ogni tanto vedevo la mamma accanto ad un altro uomo. La vita nel campo
non è mai stata semplice: dormire in una baracca tutti insieme, cucinare all'aperto, sia d'estate che
d'inverno. Tuttavia io non conoscevo alternative: per me quello era tutto ciò di cui avessi bisogno.
Un giorno mia madre andò in città insieme ad altre donne per cercare di racimolare qualche soldo.
Invece di rimanere insieme agli altri bambini, quel giorno decisi di andare di nascosto in centro per
assaporare un momento di libertà e vedere cosa facevano i miei coetanei. Vagai a lungo per le
strade, ammirando ogni dettaglio della città. Scoprii un mondo nuovo pieno di vita e di benessere,
di svago e di divertimento. Mi scontrai per la prima volta con una realtà completamente diversa da
quella che conoscevo e mi sentii improvvisamente a disagio, come se per secoli mi avessero tenuta
lontano dal mio stesso mondo. Mentre pensavo a tutto ciò, mi si parò davanti una bambina dai
capelli rosso vivo e dal sorriso luminoso.
– Come ti chiami?
La sua domanda sincera e ingenua mi lasciò perplessa. Non avevo mai conosciuto nessun altro se
non i miei fratelli e gli altri ragazzini della comunità, che erano come dei cugini per me. Dopo un
po' di esitazione, risposi timidamente:
– Miriam. E tu?
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Lei mi prese la mano sorridendo. Sentii un calore improvviso in tutto il corpo, come una scossa
elettrica che partiva da quella mano timida e arrivava dritta al cuore. Veronica mi condusse verso il
parco e restammo lì fino all'ora di pranzo, giocando e scherzando. Non mi ero mai divertita così
tanto in vita mia. Ricordo ancora la gioia di quel momento speciale e la curiosità che mi animò
quando Veronica mi rivelò della scuola. Non avevo idea di cosa si trattasse, ma lei ne parlò così
dettagliatamente che dopo la conversazione era come se ci fossi stata da una vita. Ero attratta dalle
sue parole come da una forza magnetica, Veronica mi aveva aperto una finestra sul mondo. Volevo
conoscere, volevo studiare, volevo creare sogni e aspettative per un futuro che finalmente mi
apparteneva. Con mia madre e i miei fratelli stavo bene, ma non ero mai riuscita a guardare oltre il
campo rom. Improvvisamente mi sentivo padrona della mia vita, libera di decidere e di fare dei
progetti. Quando suo padre la portò a casa, trattenni a stento le lacrime. Temevo che non l'avrei mai
più rivista. Ma sapevo con certezza che quell'incontro avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
Nei mesi che seguirono fino alla fine della scuola, non persi mai l'occasione di tornare in città per
incontrare Veronica. Spesso la seguivo anche a scuola, mi nascondevo dietro ai cespugli del cortile
e assistevo alla lezione ascoltando dalla finestra. Quando suonava la campanella, Veronica mi
raccontava con precisione quello che aveva spiegato la maestra, mi faceva vedere libri e quaderni,
mi informava persino di cosa facevano durante la ricreazione. Io seguivo con attenzione e,
nonostante le difficoltà, mi sforzavo di seguire e capire ogni parola. Per fortuna, una mia zia mi
aveva insegnato a leggere e a scrivere quando ero ancora piccola. Io lo consideravo un immenso
privilegio, anche perché mia madre era analfabeta e nel campo era molto raro trovare qualcuno in
grado di trasmettere un minimo di istruzione. Alla mia famiglia non importava più di tanto, così non
avevo mai parlato del mio amore per la scuola. Un Sabato, dopo molti mesi passati a sbirciare di
nascosto le lezioni di Veronica, mi avvicinai timidamente a mia madre e le dissi che desideravo con
tutto il cuore andare a scuola e imparare, come tutti gli altri bambini.
– Tesoro, te l'ho detto: a parte i soldi per i libri e il materiale scolastico che ti serviranno, non
ho mai potuto iscriverti a scuola perché ci siamo sempre spostati un po' ovunque. E poi, nella nostra
condizione, sarebbe utile che tu cominciassi presto a lavorare.
Quella risposta, che non ammetteva repliche, freddò in un attimo la speranza che mi animava da
mesi. Scoppiai in lacrime e, ignorando lo sguardo dispiaciuto di mia madre, fuggii senza guardarmi
indietro nell'unico posto dove mi sentivo al sicuro: da Veronica, nel parco dove ci eravamo
conosciute. Senza farmi scrupoli, affondai in un pianto disperato tra le sue braccia, raccontandole
ciò che mi era successo. Dopo avermi rincuorato con una carezza, Veronica mi disse:
– Non devi abbatterti: lo sai che se tua madre parlasse con il preside potresti ricevere tutti i
libri gratis?
Io la guardai come se avessi visto in lei un angelo sceso sulla Terra per proteggermi.
– Dici davvero? Sarebbe fantastico! Ma non è solo quello: come potrei fare per comprare i
quaderni, pagare l'iscrizione e comprare tutto il resto?
– Per questo non ti devi preoccupare... ora vai, parla con tua madre e dille di venire qui: mio
padre vorrebbe farci una chiacchierata!
Io non aspettavo altro: corsi verso il campo e abbracciai mia madre. Le parlai di Veronica, del padre
e di ciò che mi aveva detto. Le spiegai che l'istruzione è un diritto – come diceva sempre la mia
amica – e come tale deve essere garantito a tutti ugualmente. Mia madre mi guardava allibita, come
se a parlare non fosse più la sua bambina ma una donna capace e determinata. Quando terminai i
mio discorso, mi abbracciò forte e mi promise in lacrime che avrebbe fatto tutto il possibile per
farmi studiare. Ci presentammo mano nella mano davanti al padre di Veronica. Era un uomo
distinto, con abiti eleganti e puliti. Ci accolse con calore e disse che sua figlia parlava moltissimo di
me e della mia passione per lo studio. Io li lasciai parlare e mi allontanai con Veronica,
ringraziandola mille volte per quello che faceva per me. Come sempre, aprimmo libri e quaderni e
studiammo insieme per il lunedì successivo. Questa volta sentivo che il mio primo giorno di scuola
sarebbe arrivato presto. Qualche settimana dopo, il padre di Veronica aveva accompagnato mia
madre dal preside della scuola media: avevo ottenuto tutti i libri di testo gratuitamente e mi avevano
iscritto al primo anno, nella classe della mia migliore amica. La famiglia di Veronica, inoltre, mi
aveva regalato per il mio compleanno un kit completo di materiale scolastico. Il primo giorno di
scuola fu il più emozionante della mia vita. Mi sentivo sperduta e confusa tra quella massa di
ragazzini undicenni che gridavano, giocavano e parlavano tra loro; ma allo stesso tempo ero forte e
determinata. E poi c'era Veronica che stava sempre accanto a me e mi proteggeva. I professori
rimasero tutti stupiti della mia preparazione, ma ovviamente dovetti cominciare subito dei corsi di
recupero. I compagni mi guardavano curiosi e diffidenti, tra molti di loro già si era sparsa la voce
che fossi una rom. Quando uscimmo da scuola, un gruppo di prepotenti si mise ad insultarmi,
ridendo dei miei vestiti.
– Guarda cosa ti sei messa addosso, sei una zingara e rimarrai sempre una zingara! - gridò uno
di loro sghignazzando.
– Se fossi in te mi preoccuperei di studiare un po' di più, piuttosto che ridere per come si
vestono gli altri... ah, dimenticavo: voi siete degli ignoranti e rimarrete sempre degli ignoranti!
Il ragazzo che aveva parlato rimase senza parole e se ne andò senza dire niente. Veronica mi fece
l'occhiolino e insieme tornammo a casa.
Il periodo delle medie passò in un batter d'occhio. Per fortuna la famiglia di Veronica non aveva mai
smesso di sostenermi e così, quando io e Veronica volevamo iscriverci al liceo scientifico, anche da
parte di mia madre non ci furono resistenze. Ormai aveva imparato ad apprezzare il mio amore per
lo studio ed era contenta dei miei brillanti risultati. Anche al Liceo mantenni una media altissima, e
questo mi garantì una borsa di studio fino al quinto anno. Tutti i professori erano estasiati dalle mie
capacità e molte persone si offrirono di aiutarmi anche economicamente. Fu il periodo più bello
della mia vita, anche se le difficoltà con i compagni non mancavano mai: c'era sempre qualche
invidioso che non perdeva mai il vizio di prendermi in giro. Arrivò presto il momento in cui avrei
voluto iniziare l'università. Lo desideravo con tutte le forze, ma sapevo che non sarebbe stato facile.
Questa volta avrei dovuto contare solo su me stessa, non potevo più chiedere aiuto a Veronica. Così,
iniziai a lavorare per guadagnarmi i soldi di libri e iscrizione. Di giorno in un negozio di scarpe, di
sera in un bar. Il giorno del mio compleanno, tornata dal lavoro esausta, trovai una scatola di
cartone davanti al mio letto. Nel buio della sera la aprii e trovai tutti i libri di testo che mi servivano
per iniziare l'Università. All'improvviso uscirono fuori mia madre e le altre donne che mi gridarono
gli auguri di buon compleanno, mentre io le abbracciavo tutte con le lacrime agli occhi. Avevo
deciso: volevo studiare medicina, per aiutare le persone malate e dare loro un nuovo futuro dopo la
guarigione. Ed ora, grazie agli sforzi di mia madre e al mio lavoro, potevo finalmente dedicarmi
agli studi di medicina.
Un giorno, dopo essere tornata dall'Università, trovai mia madre e altre donne del campo che
stavano tutte attorno ad una bambina seduta per terra che stentava a respirare. Appena arrivai, mi
tempestarono di preghiere e invocazioni:
– Miriam, ti prego, sei l'unica che può fare qualcosa: mia figlia sta male, non riesce a respirare
bene. Aiutaci!
Io non me lo feci ripetere due volte: corsi vicino a quella bambina indifesa e cercai di capire cosa
avesse. Subito mi accorsi che si trattava di una crisi d'asma, molto frequente nei soggetti allergici.
Per fortuna non era necessario chiamare l'ambulanza, visto che non sembrava un attacco grave.
Tuttavia agli occhi della madre e delle altre donne doveva essere uno shock immenso vedere una
bambina in simili condizioni. Non persi tempo: per fortuna avevo conservato nella borsa uno spray
adatto alle crisi asmatiche e lo diedi tempestivamente alla bambina. Lei tornò subito tranquilla,
ricominciando a respirare regolarmente.
– Ora va meglio, vero? Non ti devi preoccupare, sono cose che capitano. È tutto passato.
Le accarezzai dolcemente la fronte e lei sfoderò un sorriso sincero, luminoso e ingenuo come quelli
che solo i bambini sanno fare.
Da quel giorno, dopo i ringraziamenti di tutte le donne del campo, decisi che una situazione del
genere non sarebbe più dovuta accadere. Il campo rom era molto distante dalla città e i telefoni che
possedevamo spesso non funzionavano bene. Non era pensabile che, se fosse avvenuta un'altra
emergenza, nessuno avrebbe saputo gestire la situazione. Così, man mano che perfezionavo i miei
studi, decisi di dare lezioni pratiche di medicina generale a tutte le donne del campo. In seguito
andai sempre avanti, arrivando a fare la stessa cosa negli altri campi nomadi vicini alla città. Una
volta a settimana incontravo altre persone e le aiutavo ad affrontare con un minimo di preparazione
quelli che – come era successo a me – erano le difficoltà e i rischi quotidiani e si potevano risolvere
grazie alla medicina. Ripensandoci, il “mio mondo” è cambiato radicalmente da quando è nata la
mia passione per lo studio. O meglio, l'ho cambiato io da quando ho avuto il coraggio di credere
nelle mie capacità. Ora che ho ottenuto la laurea vorrei fare una specializzazione e continuare ad
aiutare le persone in difficoltà: mi piacerebbe iscrivermi ad associazioni come Medici senza
frontiere. Veronica, invece, che mi ha sempre sostenuto, ora è un brillante avvocato. Ho imparato
che una vita senza sogni è come una barca che vaga senza meta in mezzo all'oceano. Ma un sogno
senza vita è anche peggio: un iceberg che ferisce e affonda i nostri progetti gettandoli nel buio
dell'incertezza, un freno che aspetta solo di essere allentato dall'intraprendenza di una nuova scelta.
Chi mi disse che ero solo una zingara e sarei sempre rimasta una zingara aveva ragione. Ma io non
me ne vergogno. Così come non ho paura di mostrare al mondo la mia diversità. Non dobbiamo
avere timore del giudizio delle persone. L'unica cosa di cui dovremmo vergognarci è di aver
sprecato la nostra vita cercando di mostrare agli altri quello che non siamo, invece di proseguire per
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Un sogno per la vita

  • 1. Un sogno per la vita Entrai nella grande stanza con il cuore in gola e le mani in preda ad un fremito incontrollabile. Quando il professore mi squadrò dall'alto in basso con un'aria presuntuosa e saccente, notai nel suo sguardo una nota di disprezzo. Tuttavia non mi lasciai impressionare: mi sedetti davanti alla commissione e, malgrado le gambe che stentavano a sostenermi e la vergogna per l'inadeguatezza del mio abito, cominciai a parlare con disinvoltura. Quando l'esame terminò, non avevo quasi più voce per l'emozione. Tutti i docenti si erano complimentati e quello che mi aveva accolta con riluttanza sembrava non credesse possibile che una come me, una “zingara”, fosse capace di dare esami in modo ancora più brillante degli altri studenti. Quando pronunciò quel 110 e lode, le sue parole si dissolsero ancor prima che avessi il tempo di reagire, il peso che mi portavo dietro da tanto tempo si sciolse in una miriade di frammenti invisibili. Mi allontanai dalla facoltà di Medicina volando. Mi sentii improvvisamente leggera, perché il sogno di una vita, tanto ostacolato e contestato, era finalmente diventato realtà. Ripensai a tanto tempo prima, quando ancora non avevo iniziato l'Università, accorgendomi che la mia vita era cambiata completamente da allora. La passione per la medicina era sorta nel campo rom dove ho trascorso tutta la mia infanzia. Mia madre faceva di tutto perché io potessi crescere felice, per non farmi notare troppo la differenza tra me e gli altri bambini, ma non sempre ci riusciva. Ho sei fratelli e non ho mai conosciuto mio padre. Lui non c'è mai stato, ma ogni tanto vedevo la mamma accanto ad un altro uomo. La vita nel campo non è mai stata semplice: dormire in una baracca tutti insieme, cucinare all'aperto, sia d'estate che d'inverno. Tuttavia io non conoscevo alternative: per me quello era tutto ciò di cui avessi bisogno. Un giorno mia madre andò in città insieme ad altre donne per cercare di racimolare qualche soldo. Invece di rimanere insieme agli altri bambini, quel giorno decisi di andare di nascosto in centro per assaporare un momento di libertà e vedere cosa facevano i miei coetanei. Vagai a lungo per le strade, ammirando ogni dettaglio della città. Scoprii un mondo nuovo pieno di vita e di benessere, di svago e di divertimento. Mi scontrai per la prima volta con una realtà completamente diversa da quella che conoscevo e mi sentii improvvisamente a disagio, come se per secoli mi avessero tenuta lontano dal mio stesso mondo. Mentre pensavo a tutto ciò, mi si parò davanti una bambina dai capelli rosso vivo e dal sorriso luminoso. – Come ti chiami? La sua domanda sincera e ingenua mi lasciò perplessa. Non avevo mai conosciuto nessun altro se non i miei fratelli e gli altri ragazzini della comunità, che erano come dei cugini per me. Dopo un po' di esitazione, risposi timidamente: – Miriam. E tu? – Veronica e ho undici anni. Ti va di giocare?
  • 2. Lei mi prese la mano sorridendo. Sentii un calore improvviso in tutto il corpo, come una scossa elettrica che partiva da quella mano timida e arrivava dritta al cuore. Veronica mi condusse verso il parco e restammo lì fino all'ora di pranzo, giocando e scherzando. Non mi ero mai divertita così tanto in vita mia. Ricordo ancora la gioia di quel momento speciale e la curiosità che mi animò quando Veronica mi rivelò della scuola. Non avevo idea di cosa si trattasse, ma lei ne parlò così dettagliatamente che dopo la conversazione era come se ci fossi stata da una vita. Ero attratta dalle sue parole come da una forza magnetica, Veronica mi aveva aperto una finestra sul mondo. Volevo conoscere, volevo studiare, volevo creare sogni e aspettative per un futuro che finalmente mi apparteneva. Con mia madre e i miei fratelli stavo bene, ma non ero mai riuscita a guardare oltre il campo rom. Improvvisamente mi sentivo padrona della mia vita, libera di decidere e di fare dei progetti. Quando suo padre la portò a casa, trattenni a stento le lacrime. Temevo che non l'avrei mai più rivista. Ma sapevo con certezza che quell'incontro avrebbe cambiato per sempre la mia vita. Nei mesi che seguirono fino alla fine della scuola, non persi mai l'occasione di tornare in città per incontrare Veronica. Spesso la seguivo anche a scuola, mi nascondevo dietro ai cespugli del cortile e assistevo alla lezione ascoltando dalla finestra. Quando suonava la campanella, Veronica mi raccontava con precisione quello che aveva spiegato la maestra, mi faceva vedere libri e quaderni, mi informava persino di cosa facevano durante la ricreazione. Io seguivo con attenzione e, nonostante le difficoltà, mi sforzavo di seguire e capire ogni parola. Per fortuna, una mia zia mi aveva insegnato a leggere e a scrivere quando ero ancora piccola. Io lo consideravo un immenso privilegio, anche perché mia madre era analfabeta e nel campo era molto raro trovare qualcuno in grado di trasmettere un minimo di istruzione. Alla mia famiglia non importava più di tanto, così non avevo mai parlato del mio amore per la scuola. Un Sabato, dopo molti mesi passati a sbirciare di nascosto le lezioni di Veronica, mi avvicinai timidamente a mia madre e le dissi che desideravo con tutto il cuore andare a scuola e imparare, come tutti gli altri bambini. – Tesoro, te l'ho detto: a parte i soldi per i libri e il materiale scolastico che ti serviranno, non ho mai potuto iscriverti a scuola perché ci siamo sempre spostati un po' ovunque. E poi, nella nostra condizione, sarebbe utile che tu cominciassi presto a lavorare. Quella risposta, che non ammetteva repliche, freddò in un attimo la speranza che mi animava da mesi. Scoppiai in lacrime e, ignorando lo sguardo dispiaciuto di mia madre, fuggii senza guardarmi indietro nell'unico posto dove mi sentivo al sicuro: da Veronica, nel parco dove ci eravamo conosciute. Senza farmi scrupoli, affondai in un pianto disperato tra le sue braccia, raccontandole ciò che mi era successo. Dopo avermi rincuorato con una carezza, Veronica mi disse: – Non devi abbatterti: lo sai che se tua madre parlasse con il preside potresti ricevere tutti i libri gratis? Io la guardai come se avessi visto in lei un angelo sceso sulla Terra per proteggermi.
  • 3. – Dici davvero? Sarebbe fantastico! Ma non è solo quello: come potrei fare per comprare i quaderni, pagare l'iscrizione e comprare tutto il resto? – Per questo non ti devi preoccupare... ora vai, parla con tua madre e dille di venire qui: mio padre vorrebbe farci una chiacchierata! Io non aspettavo altro: corsi verso il campo e abbracciai mia madre. Le parlai di Veronica, del padre e di ciò che mi aveva detto. Le spiegai che l'istruzione è un diritto – come diceva sempre la mia amica – e come tale deve essere garantito a tutti ugualmente. Mia madre mi guardava allibita, come se a parlare non fosse più la sua bambina ma una donna capace e determinata. Quando terminai i mio discorso, mi abbracciò forte e mi promise in lacrime che avrebbe fatto tutto il possibile per farmi studiare. Ci presentammo mano nella mano davanti al padre di Veronica. Era un uomo distinto, con abiti eleganti e puliti. Ci accolse con calore e disse che sua figlia parlava moltissimo di me e della mia passione per lo studio. Io li lasciai parlare e mi allontanai con Veronica, ringraziandola mille volte per quello che faceva per me. Come sempre, aprimmo libri e quaderni e studiammo insieme per il lunedì successivo. Questa volta sentivo che il mio primo giorno di scuola sarebbe arrivato presto. Qualche settimana dopo, il padre di Veronica aveva accompagnato mia madre dal preside della scuola media: avevo ottenuto tutti i libri di testo gratuitamente e mi avevano iscritto al primo anno, nella classe della mia migliore amica. La famiglia di Veronica, inoltre, mi aveva regalato per il mio compleanno un kit completo di materiale scolastico. Il primo giorno di scuola fu il più emozionante della mia vita. Mi sentivo sperduta e confusa tra quella massa di ragazzini undicenni che gridavano, giocavano e parlavano tra loro; ma allo stesso tempo ero forte e determinata. E poi c'era Veronica che stava sempre accanto a me e mi proteggeva. I professori rimasero tutti stupiti della mia preparazione, ma ovviamente dovetti cominciare subito dei corsi di recupero. I compagni mi guardavano curiosi e diffidenti, tra molti di loro già si era sparsa la voce che fossi una rom. Quando uscimmo da scuola, un gruppo di prepotenti si mise ad insultarmi, ridendo dei miei vestiti. – Guarda cosa ti sei messa addosso, sei una zingara e rimarrai sempre una zingara! - gridò uno di loro sghignazzando. – Se fossi in te mi preoccuperei di studiare un po' di più, piuttosto che ridere per come si vestono gli altri... ah, dimenticavo: voi siete degli ignoranti e rimarrete sempre degli ignoranti! Il ragazzo che aveva parlato rimase senza parole e se ne andò senza dire niente. Veronica mi fece l'occhiolino e insieme tornammo a casa. Il periodo delle medie passò in un batter d'occhio. Per fortuna la famiglia di Veronica non aveva mai smesso di sostenermi e così, quando io e Veronica volevamo iscriverci al liceo scientifico, anche da parte di mia madre non ci furono resistenze. Ormai aveva imparato ad apprezzare il mio amore per lo studio ed era contenta dei miei brillanti risultati. Anche al Liceo mantenni una media altissima, e
  • 4. questo mi garantì una borsa di studio fino al quinto anno. Tutti i professori erano estasiati dalle mie capacità e molte persone si offrirono di aiutarmi anche economicamente. Fu il periodo più bello della mia vita, anche se le difficoltà con i compagni non mancavano mai: c'era sempre qualche invidioso che non perdeva mai il vizio di prendermi in giro. Arrivò presto il momento in cui avrei voluto iniziare l'università. Lo desideravo con tutte le forze, ma sapevo che non sarebbe stato facile. Questa volta avrei dovuto contare solo su me stessa, non potevo più chiedere aiuto a Veronica. Così, iniziai a lavorare per guadagnarmi i soldi di libri e iscrizione. Di giorno in un negozio di scarpe, di sera in un bar. Il giorno del mio compleanno, tornata dal lavoro esausta, trovai una scatola di cartone davanti al mio letto. Nel buio della sera la aprii e trovai tutti i libri di testo che mi servivano per iniziare l'Università. All'improvviso uscirono fuori mia madre e le altre donne che mi gridarono gli auguri di buon compleanno, mentre io le abbracciavo tutte con le lacrime agli occhi. Avevo deciso: volevo studiare medicina, per aiutare le persone malate e dare loro un nuovo futuro dopo la guarigione. Ed ora, grazie agli sforzi di mia madre e al mio lavoro, potevo finalmente dedicarmi agli studi di medicina. Un giorno, dopo essere tornata dall'Università, trovai mia madre e altre donne del campo che stavano tutte attorno ad una bambina seduta per terra che stentava a respirare. Appena arrivai, mi tempestarono di preghiere e invocazioni: – Miriam, ti prego, sei l'unica che può fare qualcosa: mia figlia sta male, non riesce a respirare bene. Aiutaci! Io non me lo feci ripetere due volte: corsi vicino a quella bambina indifesa e cercai di capire cosa avesse. Subito mi accorsi che si trattava di una crisi d'asma, molto frequente nei soggetti allergici. Per fortuna non era necessario chiamare l'ambulanza, visto che non sembrava un attacco grave. Tuttavia agli occhi della madre e delle altre donne doveva essere uno shock immenso vedere una bambina in simili condizioni. Non persi tempo: per fortuna avevo conservato nella borsa uno spray adatto alle crisi asmatiche e lo diedi tempestivamente alla bambina. Lei tornò subito tranquilla, ricominciando a respirare regolarmente. – Ora va meglio, vero? Non ti devi preoccupare, sono cose che capitano. È tutto passato. Le accarezzai dolcemente la fronte e lei sfoderò un sorriso sincero, luminoso e ingenuo come quelli che solo i bambini sanno fare. Da quel giorno, dopo i ringraziamenti di tutte le donne del campo, decisi che una situazione del genere non sarebbe più dovuta accadere. Il campo rom era molto distante dalla città e i telefoni che possedevamo spesso non funzionavano bene. Non era pensabile che, se fosse avvenuta un'altra emergenza, nessuno avrebbe saputo gestire la situazione. Così, man mano che perfezionavo i miei studi, decisi di dare lezioni pratiche di medicina generale a tutte le donne del campo. In seguito andai sempre avanti, arrivando a fare la stessa cosa negli altri campi nomadi vicini alla città. Una
  • 5. volta a settimana incontravo altre persone e le aiutavo ad affrontare con un minimo di preparazione quelli che – come era successo a me – erano le difficoltà e i rischi quotidiani e si potevano risolvere grazie alla medicina. Ripensandoci, il “mio mondo” è cambiato radicalmente da quando è nata la mia passione per lo studio. O meglio, l'ho cambiato io da quando ho avuto il coraggio di credere nelle mie capacità. Ora che ho ottenuto la laurea vorrei fare una specializzazione e continuare ad aiutare le persone in difficoltà: mi piacerebbe iscrivermi ad associazioni come Medici senza frontiere. Veronica, invece, che mi ha sempre sostenuto, ora è un brillante avvocato. Ho imparato che una vita senza sogni è come una barca che vaga senza meta in mezzo all'oceano. Ma un sogno senza vita è anche peggio: un iceberg che ferisce e affonda i nostri progetti gettandoli nel buio dell'incertezza, un freno che aspetta solo di essere allentato dall'intraprendenza di una nuova scelta. Chi mi disse che ero solo una zingara e sarei sempre rimasta una zingara aveva ragione. Ma io non me ne vergogno. Così come non ho paura di mostrare al mondo la mia diversità. Non dobbiamo avere timore del giudizio delle persone. L'unica cosa di cui dovremmo vergognarci è di aver sprecato la nostra vita cercando di mostrare agli altri quello che non siamo, invece di proseguire per la nostra strada fiduciosi nelle nostre capacità e sempre alla ricerca di nuovi sogni.