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PREMESSA


I racconti di questo volume, non sempre corrispondono a fatti realmente
accaduti. Alcuni sono frutto della fantasia e del “sentito dire”. Altri ancora
veramenti accaduti, sono conditi con un po’ di umorismo personale, tra il
serio e il faceto, per stimolarne la lettura.
Così dicasi per i nomi e soprannomi dei personaggi. Chiedo scusa se mai
qualcuno si identifica in essi. Il mio intento e solo quello di raccontare il con-
tenuto di un segmento dell’anello che tiene unito il presente al passato nella
Bassa Reggiana. Ciò che è accaduto nei cinquant’anni a partire dal primo
quarto dopo il 1900.
                                                                         L’autore




                                     pag - 2
Ho conosciuto Sergio Subazzoli nel 1995, qualche mese dopo la mia elezione
a sindaco di Novellara. Già in quel primo incontro compresi che in Sergio
c’era un fuoco interiore che ardeva e anelava a testimoniare e tramandare
frammenti di memoria, tradizioni, passioni, conoscenze e abilità intellettive e
manuali e, ancor più, a favorire un modo di stare insieme che l’individualismo
d’oggi è lungi dall’incoraggiare, stimolare, rendere autentico. Successivamen-
te parlammo di progetti, interventi per ravvivare San Bernardino e accennò
all’intenzione di pubblicare un libretto di poesie dialettali che aveva scritto.
In Sergio Subazzoli ho conosciuto una persona ricca di valori, entusiasmo,
generosità, voglia di fare, umanità. Ho scoperto una persona straordinariamen-
te modesta e di grande cultura. Un uomo dotato di una straordinaria abilità
manuale che esprime arte e con un cuore, carico di sentimenti e passioni,
che rendono i suoi scritti lievi, sensibili, delicati.
Ho trovato in Sergio Subazzoli un amico e insieme condividiamo la respon-
sabilità e il privilegio di essere al servizio della nostra comunità. Sergio sente
molto il ruolo di consigliere comunale e lo interpreta bene, con dedizione,
rispetto e la pazienza di uno che non si sente arrivato, anche se è un sicuro
riferimento per tanti di noi. Alcuni dei progetti che avevamo pensato si sono
realizzati:
l’atelier artistico, la scuola di scultura, la pubblicazione di questo libretto; altri
sono ancora da condurre in porto.
Il lavoro non ti spaventa e le capacità non ti difettano. Perciò caro Sergio,
complimenti per questo bel volumetto e grazie per il tuo saper volare alto,
anche se il brevetto di pilota l’anagrafe (ma solo quella) non ti consente di
rinnovarlo.
Con affetto, amicizia e stima,

                                                                    Sergio Calzari
                                                              Sindaco di Novellara




                                       pag - 3
I sentimenti dell’uomo nella poesia
E’ una parola che sta in poco posto ma racchiude un valore immenso, in quanto ha
la capacità di rappresentare i sentimenti dell’uomo.
Il poeta è colui che attraverso i suoi componimenti sa esprimere vicende o ricordi
vissuti di sé dei suoi stati d’animo e anche delle persone a lui più vicine e care.
Leggendo così per caso alcune poesia di Subazzoli, tipico cittadino Novellarese, posso
definirlo un poeta autodidatta, attraverso la sua semplicità, verità e naturalezza ha
saputo rielaborare i ricordi della sua giovinezza di miseria e di povertà, ma anche di
vita contemporanea caotica e rumoreggiante.
Traspare nei suoi versi una profonda ricchezza di valori umani e di stati d’animo in
cui oggi non ci riconosciamo, perché sono svaniti, sono cambiati i tempi e i modi di
pensare, prevale l’indifferenza, il potere e l’egoismo ed è scomparso il buon senso.
   Il poeta nella raccolta delle sue opere ha preso in esame i ritratti dei personaggi
conosciuti dai Novellaresi, ma sopratutto dai S.Bernardinesi, per il loro aspetto fisi-
co, dette macchiette o per l’attività che svolgono, tipico l’ambulante o al scarpolein,
oppure quadri riguardanti certe casate familiari numerose o benestanti.
Descrive i loro profili e i loro comportamenti in modo così verosimile che le rende
riconoscibili a tutti quelli che hanno avuto l’occasione di conoscerle anche solo per
sentito dire. I miei complimenti e auguri.
Sergio scriva ancora.
                                                         Ins. Maria Codeluppi Rosselli


                                    *** *** ***

Bene ha detto Bolondi: uomo semplice, curioso sempre di sapere, buono, amante
della natura e della vita.
Scultore naif ma uomo del suo tempo e poeta.
Un vero poeta, ho trovato versi in un suo plico, degni di stare in un volume di Leo-
pardi. Non li conoscevo, credevo di sapere tutto di lui, invece ho avuto la conferma
di quanto poco si conoscono gli uomini.
Sono felice e onorato di conoscere Subazzoli, qui nel silenzio del mio giardino, mentre
leggo le sue poesie dialettali, veri peana d’un tempo passato, sento aleggiare attorno
il suo pensiero, il suo desiderio di lasciare agli uomini, l’Orma del suo passo terreno,
il suo amore per tutto quanto lo circonda e, mi pare di vederlo, a spalle insaccate
scivolare via timido e silenzioso.
Leggere le poesie di Sergio fa bene al cuore.

                                                                     prof. Vito Guatteri




                                        pag - 4
Ringraziamenti

Agli autori dei disegni compresi in questo volume

                  Sara Bendin
                Adriana Pecoraro
                  Valerio Paglia
                 Lorenzo Davoli
                  Marco Portioli
                 Denis Riccardi
                  Mario Pavesi



                Agli sponsors

    Tutto per l’inballo - S.Giacomo Guastalla
Bonetti pubblicità di Bonetti Lorenzo e C. snc (RE)
     Palmieri & C. Arredamenti - Novellara
   Poliglass di Pavarini Domenico - Novellara




                      pag - 5
I putèi cech ed ier e d’incoo
Pogee su du cavalèt e d’i’asi,                       Proverbio: Brot in fasa, bel in piasa.
lighee come salam
da cap a pee col fasi
e infrucee in dal portinfant.
Da comodena e da parapèt
doo scrani spaiedi ed fianch -al lèt,
cun al bochél e-l basiot
per i bisògn d’la not.
I s’in sempr-arcmandee:
Se a vrii ch’in d-venten mea goben,
chi resten drét e mea sgavlee,
da la testa ai pee fasei per ben.
...Adès,per tgnir avirt al gambi ben
not e dé un panolen,
per al cul e al brusor de schina,
pomata e vaselina,
per al fiee cativ
un digestiv
e per mea cucer tant
un bel purgant.
Però saveri alimenter
s’fà sensa fasceri
e sensa tgniri a lèt,
i cumimcen prest a-nder
e va vea tant difèt .
Rispèt a-lora
scapés cl’è ammei adès:
S’à prés torner putèl
l-am tornaré-n-der ben listès.


Poggiati su due cavalletti con un piano formato da delle tavole di legno, fasciati dal
collo fino alla punta dei piedi, come mummie, con delle apposite striscie o lembi
di stoffa, poi infilati nel porta infante. Due comodine e due sedie spagliate poste di
fianco al letto fungevano da arredo e da protezione con sopra i triangoli di stoffa di
canapa (tripins) e sotto il pitale e la bacinella per i bisogni fisiologici. Gli anziani, alle
giovani madri, raccomandavano sempre di fasciarli per bene da “capo a piedi”, come
ingessati, per scongiurare al nascituro il pericolo di diventare gibboso, o che gli arti
si svergolassero.
Ora, per tenere la gambine divaricate, notte e giorno un morbido pannolino, per il
rossore della pelle pomata o vaselina, se ha l’alito cattivo un digestivo, quand’è stitico,
un blando purgantino. Saperli alimentare correttamente crescono robusti senza peri-
coli di deformazioni, non si fasciano più (era una credenza errata dovuta a carenza
vitaminica), possono stare eretti e tentare di camminare presto . Rispetto ad allora,
si capisce che è migliore l’attuale metodo e conoscenza. Personalmente se potessi
ritornare giovane, riaccetterei in cambio, tale sacrificio subito.


                                          pag - 6
Richin al straser
Filastrocca che usava recitare a voce alta quando arrivava in prossimità delle case, per
attirare l’attenzione soprattutto della “resdora”: Passafini , passaforti, passanastri, filiforti
coloratii, fazzoletti da naso, da culo, da notte ....donne, donne ghe-l cinciaiolooo.

Al gleva semper per tot ‘na bona parola           Epigramma dello straccivendolo.
al scarseva, al zugheva, al canteva,              Chi potrà mai capire cosa costasse
o-al cunteva ‘na fola.                            a costui, il ridere e il suo far ridere.
Però naseva un dòbi che-l-feva penser;
che-l so reder, o ‘l-fer reder
recitee per mester , Dio sol sa
col cagh doveva coster .
A la matena-l partiva prest, as deva da fer,
per vender, cumprer, barater,
ma-l dop mesdé, pian pianen,
al cambieva umor, per aver abusee
ed trop quarten ‘d-ven.
In dal sot sira al torneva indre
zaquee a pansa in su,
sul cianfrusagli catedi su.
Quacee la facia da un capèl ‘d-paia,
quasi al svergognés come-l fos ‘na canaia:
Sighevel, pensevel, dormivel ?,
ma !, sol lo e-l Pedreteren
i saieven dal soo inferen ! .
Forse-l fogheva i ricord d’un brot spavent,
quand per dover vers la Patria,
in dal stès moment
la pers una gamba e per poch anch un occ.
Decoree con un tetol
quater paroli e promès ‘na pension:
“na vera miseria ‘d-soportasion“.
Forse-l penseva a la so cavalena
ch-la steva impee apene apena,
impicheda-l stanghi dai finiment;
l’era tresta e megra stleda,
senseter anca lee la gheva a dos quel,
la feva tri pas dentr-a-un quadrèl.
Al dover ubidiensa vers al padron,
 pian pianen istintiva con un dietrofront
la torneva vers cà , pò las fermeva davanti-l porton,
silensiosa pasiinta cun i’occ strech
come s-la fos in meditasion,
squasand sol la còva ,per smarir i moscon .
 Per al ripos, la speteva-l so turen :
la speteva Richin cas liberes dai penser, o dai fom dal ven,
dòp finalment al gh-deva la mola
e per le vreva dir zaqueres in d’la paieda in dal so stalen.

                                            pag - 7
Enrico lo straccivendolo
L’aveva sempre una buona parola, scherzava, rideva e giocherellava con tutti. Ma
da un esame di coscienza faceva pensare che il suo sorriso e il suo far ridere reci-
tati per professione sicuramente avevano un costo, visto che affogava poi il tutto
con parecchi “quartini” di vino. Al mattino di buon’ora si dava da fare per vendere
barattare o comprare, al pomeriggio invece, al rientro, si distendeva supino, sugli
stracci raccolti, nascondendosi la faccia con un vecchio e logoro cappello di paglia.
Piangeva, pensava o dormiva ?, Solo lui e il Padreterno sapevano. Forse riaffiorava
alla mente il ricordo di un brutto momento quando per dovere verso la patria perse
una gamba e per poco anche un’occhio, liquidato poi con un titolo a quattro parole
e la promessa di una pensione adeguata. Forse pensava anche alla sua cavallina
che nel trainare il carretto si reggeva in piedi appena appena appesa alle stanghe dai
finimenti, perchè era triste, magra e malandata, sicuramente affetta da un qualcosa
che durante il cammino, la obbligava a fare quattro passi in un mattone, (In lingua
Italiana tale espressione ha poco senso, però in dialetto è tipico e molto espressiva,
soprattutto per raccontare, anche in modo folkloristico, di chi accorcia il passo).
Fedele ed ubbidiente al padrone, al pomeriggio, alla solita ora, partiva istintivamente
con un dietro front e si avviava verso casa. Giuntaci poi, si fermava davanti al portone
della stalla, silenziosa e paziente, con gli occhi chiusi, come fosse in meditazione,
agitando solamente la coda ogni tanto per liberarsi dagli insetti parassiti. Aspettava
che Enrico si liberasse da i pensieri ,o dai fumi del vino per poter finalmente entrare
nel suo ricovero per il meritato riposo, sul giaciglio di paglia.




                                        pag - 8
Al carsedi in dal caradon
Cun la còv-alveda                                            Proverbio:
la pans-adree tèra                                           L’è ammei averegh
la bava in spicolon,                                         al breghi ròti in dal cul,
ste povri vachini                                            che al cul ròt in dal breghi.
seguiven in silensi
al so padron,
cun in man un soghèt
e in cletr-un baston.
Davanti al tireva
come-l-vrés strangleri
a cul indree lo al
cuntinuev-a ciaméri.
Sul-let dal car,
ch’al feva da berca,
sè e nò al gheva
tre spani d’erba.
Doo carsedi profondi
i gneven scolpidi
in mesa a la melma,
come un tember:
un marchio ed-la fadiga
in dal caradon.
Incora impresi
in di ricord
ed la memoria,
perchè cosi veri
ed chi ha lavore i camp
sensa creer storia,
festa e bondé
cun poch o gnint
a volti anch content,
cun ‘na mis-ra pega,
da l’alvéda a la caschéda.



Le impronte delle ruote sulla carraia
Coda in alto, pancia a terra, lingua fuori penzoloni, quelle povere bovine, seguivano in
silenzio il loro padrone col canapo in una mano e nell’altra il bastone davanti a loro,
aizzandole, a ritroso, con un movimento di trazione quasi volesse strangolarle. Le
ruote sprofondavano nel fango fino all’assale. Nonostante trasportasse una minima
quantità d’erba, il letto del carro che faceva da barca, lasciava dietro di sè, due solchi
profondi come segno del marchio della fatica sulla carraia del povero lavoratore dei
campi mal retribuito, che in alcuni momenti, sembrava persino felice del duro lavoro,
giorno dopo giorno dall’alba al tramonto.




                                         pag - 9
pag - 10
Al scarpolen -’d-na volta
Pogee a la rinfusa
in -d’na casèta
sul portapach ‘d la biciclèta
la lesna, la pegla,
col spegh, al coram e di toch ed pèl,
i ciold, al pe-d-fèr e-l martèl;
un brev artigian,
ch’al loteva per viver, p’r-un toch ed pan.
Al justeva i sandei,
al feva-l-scherpi, al soleva i troclon,
l’er’un artesta ed còi bon da bon!,
l’era svelt e sicur,
cun al man l’era espert, al c-saieva fer:
come-l fus ‘dree zugher.
Noeter intoren al mireven
e ascolteven i proverbi, al sirudèli
e al notessji: sia bròti che bèli.
L’andeva da tòti in ogni cà,
come feva-l barber al straser,
al sert al frera, al marangon
 al polarol, e al marser,
jeren i nost’r’orghen d’informasion,
perchè ai temp d’alora....
al giornel e la radio
a gh-l’eva sol un quelch-don.



Il calzolaio di una volta
La lesina la pece e tanti altri attrezzi, come lo spago il cuoio, pezzetti di pelle, i chiodi il
piede di ferro e un martello adagiati alla rinfusa, in un’apposita cassetta appoggiata sul
portapacchi della bicicletta. Gran brava persona, un vero artigiano,che lottava giorno
dopo giorno, per vivere, per un pezzo di pane. Aggiustava sandali, faceva le scarpe,
risuolava gli zoccoli e lo sapeva fare con mano esperta come stesse giocando, mentre
noi tutt’intorno incuriositi guardavamo e ascoltavamo le sirudelle (specie di cantilene
di detti popolari in rima e non sempre), i proverbi dei vecchi e le ultime notizie, sia
brutte che belle. Andava da tutti, in tutte le case. Così facevano lo straccivendolo il
pollivendolo, e l’ambulante di stoffe. In mancanza della radio, dei giornali e della
televisione, erano gli unici organi d’informazione.




                                           pag - 11
pag - 12
L’arlòi dal contaden
                                      (Da un racconto fattomi dal sig. Umberto Sala)

A s’era servitor a cà d’un contaden                       Proverbio:
c’al gheva un somaren                                     An ghè badilas ch’al nè
che quand l’era mesdé, al-s-meteva a ragner               gabia-l soo mandgas.
e dop al so segnel, andev-na cà a disner.
A dir la veritee
a mesdé in punt, an-ch-siom pò mei andee,
ma a sentir la gent l’era tant inteligent
che col chi d-zeven lor
mè-l tuleva tut per bon: a s’era sol al servitor.
Un bel gioren è sucès che, tira e bestira
pasee-’n’ora dop ed cl’etra, è sopragiunt la sira
e-’n-s’è mia sentii mesdé.
Un schers acsè, a me nò vè somaron,
t’al ve po a fer al to padron !
Quand sun rivee a cà
ormai s-ghevdeva piò;
i’ho unt i moss al “ pèndol”
e g’ho carghee la mola
c-n-un manegh ‘d-palpignan,
a sun andee a usta,
acsè, un tant al bras,
ma-sved c’à gò ciapee,
l’ha cumincee a ragner
cativ come un danee
E’ arive-l-padron, l’ha vru saver c-sè stee
e-l marés rimproveree
e det dal mat per còl ch’i’ho fat,
alora-a-g-ho rispost: com-l’ha sonee mesdé
al n’era mia in dal contrat!.

                         L’orologio del contadino
Lavoravo come servitore a casa d’un contadino che possedeve un somaro che
quand’era mezzogiorno si metteva a ragliare dopo di che si andava a pranzo. Ad
onor del vero a mezzogiorno proprio non ci siamo mai andati, ma a parer suo era
così intelligente che non osavo contraddirlo, tanto ero solamente il servitore.....Un
giorno eravamo nei campi ed è successo che passarono le ore e giunse inesorabil-
mente sera senza sentire quel “mezzogiorno”. “Uno scherzo così non dovevi farlo
caro il mio somarone, lo fai poi al tuo padrone”. Quando arrivammo a casa ormai
non ci si vedeva più. Sono andato nel suo ripostiglio con un salice in mano, poi ho
cominciato a bastonare avanti e indietro simulando la carica della molla dell’orologio
per rinnovargli la memoria, oleandogli gli ingranaggi. Si vede che ho fatto centro,
ha cominciato a ragliare come un dannato, dopo di che si è presentato il titolare a
chiedermi spiegazioni, e a rimproverarmi. Mi qualificò come matto, allora vuotai il
sacco e gli risposi che come s’era comportato non era scritto nel contratto.


                                       pag - 13
pag - 14
La gòsa
Un gioren imprecisee,                                                 Proverbio:
l’acua la tèra e l’aria ‘an forme-l mond,                             Chi vive sperando,
ian cumincee, i sin cree, è nee la véta.                              muore...cantando?
...S-l’è stee per ches, n-al saròm mai.
Tut è precis, fedel, immobil, pasient:
a speter c-pasa-l temp e creer d’ievent:
un fiol, un frut, un fior
da doner con amor:
acsè è ste decis.
S’ral propria stee un ches?
S-a stacòm ‘na foia o-l-frut da un ram,
cla gòsa cas-forma
come una lacrima,
in dò l’òm tot vea,
chi sà sl’è dolor gioia o-’d-nostalgea?
l’è come priver una meder dal frut d’un at d’amor,
alora el un chez?
o el c’mè is-dizen, i predicator:
un segn dal Creator.
Per quant temp as spol ster sensa saver?
e al trop saver vinel dabòn per nozer?.
Curiosità: degh c-am piasrè ander insèma un pianeta talment luntan, anch di milion
d’an, per oserver l’ariv d’jimmagini riflèsi da la “tèra”ai temp di dinosauri, di noster
antenati, per vèder com’er’n-al dòni e i’òm, o, se eren tut un e si magnev’n-i pòm:
ma gher’n-i pòm?, o, ela una fola!
E’ tut perfèt, tut fat ben, è mai posebil che un gioren qualsiasi, un’atim dòp ed la véta
ach sea più gnint?, perchè alora tanta precision!; dòp, vedròmia dabon i dinosauri?,
intant a cumincc a spereregh!.

                                     La goccia
Un giorno imprecisato, l’acqua, la terra e l’aria, si sono creati; hanno incominciato a
formare il mondo, ed è nata la vita: se fu un caso, non lo sapremo mai.
Tutto è preciso, immobile, pazientemente fedele in attesa che passi il tempo, che
si creino eventi: un figlio, un frutto, un fiore da donare con amore, così fu deciso.
Sarà proprio stato un caso?, se togliamo da un ramo una foglia o un frutto, la goccia
che si formerà come una lacrima, sarà di gioia, di dolore o di nastalgia? Sarebbe
come privare una mamma dal frutto d’un atto d’amore!.
Allora il pensiero è sempre sulla casualità, o sarà come dicono i predicatori, un segno
del Creatore? Per quanto tempo dovremo restare all’oscuro di tutto, senza sapere e
il troppo sapere verrà poi veramente per nuocere?
Curiosità: quanto mi piacerebbe arrivare in un attimo su di un pianeta distante milioni
di anni luce per osservare l’arrivo delle immagini riflesse dalla terra quando ancora
vivevano i dinosauri; i nostri antenati, com’erano le donne e gli uomini, o se erano
tutt’uno e se mangiavano le mele: ma c’erano le mele? O è soltanto una bufala?
Tutto a proposito, tutto è perfetto, è mai possibile che un giorno qualsiasi per noi,
un’attimo dopo sia buio completo, non esista più vita? Perché allora tanta precisio-
ne?. Che sia l’opportunità di rivedere poi i dinosauri? Personalmente, incomincio a
sperare!...

                                        pag - 15
pag - 16
S’a fus-ste un’om
I’ho vest ‘na baionèta
ed cò da un sciop,
una ghegna da mel lavee
e do man sporchi
denter a una divisa nigra.
I’ho vest una facia d’Angelo
personera dal fèr puntee
cuntr-a-la pansa
al sètim mes ed gravidansa:
D’istinto i’ho reagi
e sun sbalsee inséma-un car
per saltergh-ados:
ma sun armes a bras avirti
immobile,
paralisee.
Nisun l’immagina
quant i’ho desideree
cul moment lè
èser ste un’om !
Fin d’alora l’era già me sorèla
e-l vintidu ‘d’lui
la cumpés i’an.
Ma, s’à fus-ste un’om,
s’rel ste listès
al so complean?




                                   pag - 17
pag - 18
Se fossi stato uomo
Ho visto una baionetta
innestata a un fucile,
imbracciato da
una faccia da lavativo
con due mani sporche
dentro una divisa nera.
Ho visto un viso d’Angelo
prigioniera del ferro premuto
contro il grembo al settimo mese
di gravidanza.
D’istinto scattai
e salii su un carro
per saltargli addosso,
ma rimasi immobile
a braccia aperte
come paralizzato.
Nessuno immagina
quanto avrei voluto
essere stato un’uomo
in quel momento.
Fin d’allora era gia mia sorella
e il ventidue Luglio è il suo compleanno.
Ma se fossi stato un uomo
sarebbe stato ugualmente
il suo compleanno?


Questo racconto purtroppo è realmente accaduto. Era l’anno 1944 ai primi di mag-
gio, non avevo ancora compiuto dieci anni. Facevo parte di una famiglia numerosa
di poveri contadini della Bassa Reggiana, per l’esattezza diciannove in tutto. Sedici
presenti tra donne bambini e la nonna vecchia, l’unico uomo mio padre. Dei miei
zii, al fronte in guerra chissà dove, non avevamo notizie.
Una mattina sentimmo arrivare nel cortile di casa nostra, il carrozzone delle brigate
nere in cerca di partigiani. Quando bussarono, si decise di mandare avanti mia madre
essendo incinta al settimo mese speranzosi di clemenza, visto il suo stato. Fu un
miracolo che non le abbiano sparato o affondata la baionetta nella pancia, come era
loro abitudine, lo fu anche perchè ero ancora un bambino, altrimenti le cose sarebbero
andate diversamente.Questo racconto è la pura verità di vita vissuta che ha lasciato
un segno profondo nel mio io e che ancora a distanza di sessant’anni, sembra stato
ieri. Conservo tutt’ora un odio spietato verso quegli individui.




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La lunga notte del 23/04/1945
Al man in elta pezi c-mel sel,
i pee deschelsa
i-sfurmigheven dal mel,
i-occ, eren stòff, ma spalanchee
e cunt-ra-la gola un sciop puntee.
Al lus ‘d-na candela al feva da spècc
in d’la cros uncineda e cuntr-a l’elmèt.
 -O te, o me al va melament ! -,
l’è ste-l-mee penser per tota la not
fisand al tognèt armee fin ai dent.
C-n- un scat fulmineo, g’ho branche-l- canalòs:
“Da perzoner sun d-ventee carcerier”
e j’ho spetee impasient col s-ciop in man,
c-pasa la not e ch’a riva al d-man.
Spunteva l’elba quand s’è senti in dal cortil
un stridor d-freno, fermer un motor
ciocher dal sportèli, di pas svelt sensa cadensa,
che in d’la pista, in-n’eren nè tedesch ne fasesta,
a l’improvis da un megafono t-gnu strech in man
un c-sè-r-cmandeva in perfèt Italian:
-Tedeschi e fasisti arrendetevi, siete circondati-,
min sun res cunt dal perecol scapee
ment-r-a termeva emosionee
content finalment e sicur
ed vèder al sol anch ed-man,
quand è gnu in cà i valoros Partigian.


“Questo racconto è veramente accaduto a mio papà la notte del 23-04-1945, quando
i nazifascisti ci fecero evacuare tutti di notte da casa nostra, in mezzo ai campi spa-
randoci poi alle spalle, trattenendo solo lui come ostaggio. Dal suo racconto l’incubo
finì all’alba quando arrivarono fortunatamente i valorosi Partigiani ed arrestarono il
maggiore che teneva in ostaggio mio padre, che poi divenne suo prigioniero approf-
fittando del fatto che tutti gli altri si erano addormentati ubriachi e radunati in un’altra
sala attigua. La paura che arrivassero dei loro rinforzi passò, quando, dopo un’attimo
di smarrimento ebbe la certezza che fortunatamente erano arrivati i liberatori”.

La lunga notte del 23/04/1945
Le mani in alto eran di piombo coi piedi ignudi dolenti e intorpiditi. Era ormai notte
e un foro nero puntato su di me, sempre pronto a sparger morte, mentre un vetro
tondo portato da un mostro con una divisa sanguinaria, facevami specchio del lume
riflesso da una candela agli occhi stanchi e impauriti. La lunga attesa m’improvvisò
serpe, poi colpii da prigionier fui poi guardiano, poi venne l’alba. Ruppesi il silenzio dal
rombo di un motore e tremavo di paura seppur col “freddo ferro” stretto fra le mani.
Fui libero poi finalmente, grazie all’arrivo dei valorosi Partigiani.
Era l’alba del 23-aprile-1945


                                         pag - 20
pag - 21
Don Luciano Pavesi
Dal gran c’l’era povrèt, ma povrèt cmè l’ai,               Non è un proverbio.
al parlev-in dialèt, in italian quasi mai.                 Mentre celebrava la S.Messa,
Nee in dal mantuan ma visuu in d-l’arzan,                  si voltava verso i fedeli, e
per lò-l-noster badil al s-ciameva pala,                   conoscendoli bene, diceva:
cmè dis-n a S.Roch e còi ed Guastala.                      Elvira di fior, Elvira dal buter,
La mèsa, ben o mel, al la d-zev-in laten,                  fem al piaser ed taser.
a la so manera,
Don Luciano Paves prior d-S.Bernarden
e d’la Maestee d’la Rivera.
Onest come al sol, semplice a la bona;
bon ed dir e bon d-fer de dmander e scrocher,
bon d-pergher ed-doner,
a la cesa a-i povrèt e a j-inferm’in un lèt.
S-al ciameven “don melta”
per la còpa-e-i-caii ch’al ghev’in dal man,
an vreva mea dir ch’al fus un melnètt,
l’andev-a test’elta, l’era piu che pulii,
sincer s-cèt e perfètt.
(In dal so ches valeva al proverbi: non è l’abito che fa il monaco).
Al soo guardaroba, l’era ed sol do vesti:
una nova p’r-al festi e p’r-i gior-important;
una vècia per l’ort e p’r-al-lavor di camp,
che a forsa ed pèsi
su pèsi, la pareva una quert’imbutida
e la steva impee da per lee, come un’armadura antiga.
Però còi ch’entreva per vèder la cesa,
s’incanteven tot quant, dal gran cl’era bèla, pulida-ordineda,
pina d’afresch,de sculturi, di queder ed dipint di noster sant.
L’insèm ed l’altari, meraviglios, pregee,
ed mermel d-Verona, finement progetee,
un mocc ‘d-candelabri, intaiee e doree,
al coro masécc, tot fat in nos
e un’orghen a mantice, antigh, cun tanti voz.
Lo l-d-zeva semper “pan al pan e ven al ven”.
D’zòm cl’era grès, poch rafinee
però al Pret al la saieva fer,
c’mè-l-sajeva c’mes-feva a predicher,
anch se a sembreva
ch’el fés più fadiga can-nè a lavorer.




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Don Luciano Pavesi
Talmente era povero, (povrèt c’mè l’ai) si pensava che parlasse in dialetto appunto
per quello. In italiano, difficilmente lo si sentiva dialogare. Nativo del Mantovano,
visse nel Reggiano. Quello che per noi si chiama badile, per lui è la pala, come dicono
a Guastalla e dintorni perché ne risentono già, per ragioni di vicinato, della cadenza
Mantovana. Il rito della Santa Messa, in un modo tutto suo, la celebrava in latino.
Don Luciano Pavesi, priore di S.Bernardino e della Maestà della tenuta Riviera. One-
sto come il sole, semplice, alla buona, conscio del dire e nel fare, coraggioso nel
chiedere e nell’elemosinare per poi donarlo ai poveri e ai bisognosi. Se bonariamente
fu chiamato “don melta”, per le ragadi e i calli che abbondavano nelle sue mani e
i vestiti sdrucidi, non voleva assolutamente dire che fosse una persona inaffidabile
o sporcacciona, tutt’altro. Per questo poteva andarne fiero e a testa alta ovunque e
dovunque. Era più che pulito, schietto, sincero e perfetto. Nel suo caso vale proprio
il proverbio “non è l’abito che fa il monaco”. Il suo guardaroba, constava di sole due
tonache: una nuova per le feste, i funerali e per i giorni più importanti, l’altra, per
l’orto e per i lavori dei campi, che a forza di toppe su toppe, sembrava una coperta
imbottita se non fosse stata nera. Si reggeva in piedi da sola, come un’armatura
antica. Però chi entrava per visitare la chiesa, rimaneva incantato, talmente era bella
ordinata pulita e per la buona conoscenza artistica nella scelta delle sculture sacre,
dei dipinti e degli affreschi murali, inerenti i nostri Santi. L’insieme dell’altare maggiore
era in marmo pregiato, finemente progettato e costruito dalla ditta Adani di Correggio
nel secondo quarto del secolo in corso.I candelabri sapientemente intagliati e dorati;
il coro in noce massiccio, un organo a mantice con tante voci. Diceva sempre “pane
al pane e vino al vino”, in modo grossolano, apparentemente poco raffinato, però
sull’operato non vi erano dubbi, anche se sembrava che si affaticasse meno a lavorare
che ad officiare la S.Messa.




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L’om e i sentiment.
Al mond, al cambia, continuament                     Proverbio:
e come al stagion, cambia anch la gent,              Al buzèi, i gan al gambi curti.
preval l’egoismo, e sparès al bon sens.
Còi svinant e-i colega, l’è semp’r-una bega,
per i’amigh e-i parent, an ghè più temp;
nison più canta, as-siòm semp’r-in-ascolt;
cronaca, percentueli, publicitee
e musica, semper più fort col volòm tut alsee.
Ho semper savu che:”La musica è l’arte dei suoni coi quali
si esprimono i diversi sentimenti dell’uomo”.
Come las sent, lè un martler da protesta,
oh!, l’è un dìret sacrosant,
ma fort acsè, lam-fà mel a i’orècc,
o sunia mè gnu trop vècc!
Al noti musicheli, in s-pianten mea in dal servèl
come un ciold in dal lègn cun un martèl.
Per còl c-pol capir la me ment,
a mè d-mand: in do ini stè sentiment,
e la melodea;
do paroli ben mési l’è vera, chi fan poesea,
ma, poesea, a la fa anch do, déti ben:
-Andee a cagher!-cun cal mod lè’d-protester.
Al breghi s-cianchi in di snocc,
anfibi e stivai anch d’istee,
i cavii coloree,
i’anèi e i’urcin
in di lobi, in dal cul e in dal boghi dal nez
e in do sdòm di bez, insèm ai tatuagg,
adès ch’i van ‘d-moda, lasòmi paser,
dato che al mond al nè spol: nè fermer nè cambier.
Quand a g-n’ho pin al scatli,
a smadòn’in silensi e me sfogh da per mè
e pò pens ai mirachei.
I mirachei, ien cosi impensedi,
come: Pio c-sangona, Maria c’la siga
un gob cas sdresa, o un plee cun la riga.
Se a la fin a sun trest
e inveci ‘d reder am vin da sigher,
l’invit ed prèma, g-al tor’n-a r-nòver.




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pag - 25
Il mondo cambia continuamente come le stagioni come noi, “gente”; prevale l’egoismo
e scompare il buon senso. Coi vicini di casa si è spesso in disaccordo, nascono delle
beghe, per gli amici e i parenti non c’è ormai più tempo; nessuno più canta, siamo
spesso in ascolto di percentuali, cronaca, pubblicità, poi musica sempre più forte a
tutto volume. E’ risaputo che la musica è l’arte dei suoni coi quali si esprimono i di-
versi sentimenti dell’uomo. Come la si ascolta ora è un martellare continuo, a guisa
di protesta. Sarebbe un sacrosanto diritto di espressione, in tal caso, ma così forte mi
dolgono le orecchie, a meno che non sia io così noioso, perchè troppo vecchio. Credo
però che le note musicali non si debbano conficcare nel cervello come un chiodo nel
legno col martello. Nei miei limiti mi chiedo: ma dove sono i sentimenti e la melodia?
Due paroline messe furbescamente, potrebbero anche diventare poesia; ma anche
due ben dette a volte non guastano: “andate a cagare col vostro modo di protestare”.
I pantaloni lacerati, gli anfibi o gli stivaletti anche d’estate, i capelli variegati, anelli e
orecchini ovunque, come alberi di Natale assieme ai tatuaggi ora che vanno di moda.
Lasciamo perdere, visto che il mondo non si può nè cambiare nè fermare. Quando
sono saturo, brontolo da solo, mi sfogo in un “fai da tè”, poi penso ai miracoli. Sono
dei fatti e delle fantasie impensate, come per esempio le stigmati di Padre Pio, la
Madonnina che lacrima, il sangue di S.Gennaro che si liquefà, un gibboso che si rad-
drizza, o,..... un calvo con la riga al centro. Se poi alla fine della carellata non riesco
a vincere il malcontento, invece di arrabbiarmi, li rimando dove ho detto prima e
buonanotte suonatore, tanto, l’alba del “domani”, arriva lo stesso.




                                          pag - 26
Al molen abandonee
La montagna l’ha donee-l sas
per fer la mola,
al bosch al lègn pregee,
l’hom al l’ha costrui
e-l fiom al l’ha ospitee.
pover al me vècc molen abandonee !
L’acua ,come un arciam
la cuntenua incòra come alora
la so corsa silensiosa,
ma l’hom al t’ha dét basta.
guai a te stet mov !
e te fedel, te spèt
cal t-toga vea al baston dal rod.
Dop d’aver dee la posibilitee
‘d-nutrires a diversi generasion,
dop èser stee
anch tant sfrutee,
vin a cateret sol un quelch viandant
per scaper via spaventee
dal trop silensi
rot din tant in tant
da un quelch scricchiolio,
come un veliero a la deriva.
M-ricord incòra
l’enorme roda girer
come controcorent,
quasi la vres fer la cunta d-l’acua ‘ch-pasa,
come fa-l pastor col pègri,
quasi la vrés risalir al fiòm,
come fa i salmon.
Come s-l’inalsès al cel al peli
in segn-d-salot per grasia ricevuda.
Te resistii al buferi
ai teremot, a la solitodin,
resest incòra vecchio mio
e te sree ricompensee
e porte in una piasa
o in un museo ed ‘na quelch sitee
come paladino e pioniere
d’un’antiga civiltee.




                                       pag - 27
pag - 28
Il mulino abbandonato
La montagna,
ha donato il sasso per far la macina,
il bosco,il legno pregiato,
l’uomo lo ha costruito
e il fiume lo ha ospitato.
Povero il mio vecchio mulino abbandonato.
L’acqua,come un richiamo continua ancora
come allora la sua corsa silenziosa,
ma l’uomo ti ha detto basta,
guai a te se ti muovi
e te fedele sei li che aspetti ancora
che ti tolga i bastoni dalle ruote.
Dopo aver dato la possibilità
di nutrirsi a diverse generazioni
e dopo essere anche stato
tanto sfruttato,
viene a trovarti qualche girovago
per scappare poi,dopo poco,
spaventato dal troppo silenzio,
rotto solamente da qualche scricchiolio
come fa un veliero alla deriva.
Mi ricordo ancora l’enorme ruota
girare come controcorrente,
quasi volesse risalire il fiume
come fanno i salmoni,
quasi volesse far la conta dell’acqua che passa,
come fanno i pastori con le pecore,
come se innalzasse al cielo le pale
in segno di saluto
per grazia ricevuta.
Hai resistito alle bufere,
ai terremoti e alla solitudine,
resisti ancora vecchio mio
e ne sarai ricompensato
e portato su una piazza,
o in un museo di una qualsiasi città,
come paladino e pioniere
di un’antica civiltà.




                                      pag - 29
Al mondeni ‘d S.Vitoria
                                  (acua ris e la so storia)
(Dopo trent’anni, le mondine di S.Vittoria sono tornate a visitare le località dove erano
state a lavorare e a sgobbare nelle risaie piemontesi. Il 7- Maggio 1989, alle sei in
punto sono partite con un pulmann dal piazzale antistante la Coop. della frazione,
alla volta di S.Germano, Salasco, Selve, Capriasco, passando dalla stazione ferroviaria
di Olcenengo, proseguendo poi per fare visita e accendere una candelina votiva alla”
Madonna della Fontana”. Appena partite, era già atmosfera d’allora sulla corriera: con
i canti tradizionali e con le imitazioni dei personaggi più significativi che si misero in
luce a quei tempi. Arrivati sul posto, cappelli di paglia in testa, proprio come allora,
aggiustati con una sola mossa, segno evidente di una precedente esperienza vissuta,
golf sui fianchi annodati sul davanti e a chi i fianchi erano scomparsi da tempo, sulle
spalle con le maniche annodate sotto il mento, a mò di cravatta. Poi con la fantasia,
l’immaginazione e la memoria sono scese metaforicamente in acqua. Facevo parte
anch’io della bella comitiva, e quello che seguirà nel racconto non sempre in rima,
è stata la mia impressione ,sentendo i loro discorsi e osservandone le mosse, gli
sguardi, le impressioni e la mimica, che nemmeno i veri attori possiedono.

I’arsnein priv ed geometrea
i feven da cornis intorn-a l’acua
con i soo incros a fantasea.
Acua a vesta d’occ, a volti crèspa pr-al vent
ch-andeva a sira, noios e insistent.
Acua a spècc da fer baler la vècia
pr-i ragg d’un sol sfacee
e un cel pulii, da vèd-gh’inà ‘n’eternitee.
Al silensi tot intoren, la monotonea,
l’era ròt di tant in tant, da un quelch oslen
che spaventee-’l voleva vea.
Sòt-una frunt rugosa, i’occ mès saree
per mett’r-a fogh la vésta, col guerda fés, come incantee,
i v-deven tut c’mè alora: l’identichit ed-la so storia:
col ch’an ghera d-nans a iocc, g-al zunteva la memoria.
Zò in d-l’acua fin ai snocc, sfondee i pee in dal pantan,
coi vistii tachee a-i galon e-l puidi ai dii dal man.
I segn dal zov portee ados,
i’eren in pert ricompensee, l’era-l fil c-tgneva lighee,
cun l’atmosfera di filos
Cun do cantedi in mès a l’era
quater selt tree-insèm dop sena
andev-na lèt col cor in pace, a durmir fin a mateina,
tant provee da la strachisia, as-sareva i’occ subèt
mentr-i laber per so cunt, i ridev’n-in dal stès temp
perchè-l cor l’era content.
Finii-l dé,finii-l lavor,a spuseven sè d-sudor,
dòp lavee, sol ed savon:
cun l’orgòi da «Vitorjin» tut onest e breva gent:
an-n’hom mei spusee-’d-coion !


                                        pag - 30
pag - 31
Le mondine di S.Vittoria
                               (acqua riso e la sua storia)

Gli argini privi di geometria, fungevano da cornice attorno all’acqua incrociandosi a
fantasia. Acqua a vista d’occhio a volte increspata dal vento proveniente da est verso
ovest, noioso e insistente.
Lo specchio d’acqua faceva ballare la vista colpita dai raggi diretti d’un sole sfacciato
in un cielo limpido che permetteva di vedere fino all’eternità.
Il silenzio tutt’intorno, la monotonia, erano rotti di tanto in tanto dal frullio d’ali di
qualche uccello che spaventato volava via. Sotto una fronte rugosa e gli occhi semi-
chiusi per mettere a fuoco la vista come incantati,riuscivano a rivedere tutto ciò che
vedevano allora rievocandone la sua storia. Quello che non c’era davanti agli occhi,
glielo aggiungeva la fantasia e la memoria.
Sprofondati in acqua fino alle ginocchia, i piedi stretti dalla melma, le gonne appiccicate
alle cosce e le piaghe alle estremità degli arti. I segni lasciati dal giogo in parte erano
momentaneamente dimenticati dai bei ricordi, dall’amicizia vera, dal dialogo sincero
nel dopo lavoro, e il bene che ci volevamo ci teneva stretti e uniti l’uno all’altra. (tucc
a ùna), detto Vittoriese. Dopo due canzoni, due canti improvvisati e quattro salti in
mezzo all’aia, dopo cena, andavamo a letto con il cuore in pace tranquilli fino all’alba
del giorno dopo, gli occhi per la stanchezza si chiudevano subito, mentre sulla bocca
rimaneva il sorriso permanente.
Finito il lavoro col finire della giornata potevamo puzzare sì di sudore, dopo lavati
forse anche di sapone, ma dopo aver svolto il nostro lavoro sinceramente eravamo
sicure e sicuri di non puzzare di coglione.
(Questo termine diffuso sopratutto nell’area Vittoriese,veniva usato dagli operai e
dalle mondine come vanto per essere stati fieri, abili e volenterosi nello svolgere il
proprio dovere. E’ un pò difficile spiegarne il significato in italiano e mi avvalgo del
proverbio che dice: a buon intenditor poche parole.




                                        pag - 32
Al mond di furub
Al mond lè bel perchè lè tond:
sol.. c’lè fat p’r’i furub.
E s’ì fòsen tuti furub ?,
ster mea mel che a ghe s-rà semper:
“al furub di furub
e al coion di furub”.
E sì fòsen tot coion ?
l’è listèss, ghe s-rà semper:
“Al più furub di coion
e al più coion di coion”.
In conclusion:
Sensa i furub an-spol ster,
an spré gnan governer;
ma gnan sensa coion:
se nò i furub
in s-ren nison,
in saren c-sà fer !.

Un proverbi al dis:
Se tut i coion i portesen i lampion,
“ Gesù Maria” che iluminasion.
A Novalera i lampion
ien fisee in d’iocc di portegh,
atach ai palon.
L’hani fat per vèder i furub ?
No no,
l’han dovu fer forsa, per mancansa ‘d-coion!.



                             Il mondo dei furbi
Il mondo è bello perché è tondo ( lo ripetiamo spesso), solamente che è fatto per
i furbi. E se fossimo tutti furbi ? Non preoccuparti che ci sarà sempre: “Il furbo dei
furbi e il coglione dei furbi”.
E se fossimo tutti coglioni ? E’ la stessa cosa, vi saranno sempre: il piu furbo dei
coglioni e il più coglione dei coglioni.
Concludendo: senza i furbi non non ci sarebbe ragione d’essere, non si potrebbe
vivere e nemmeno governare, e... neanche senza coglioni, sennò i furbi non sareb-
bero nessuno e non saprebbero come o cosa fare.




                                      pag - 33
L’Avtun
Adio istee, adio vegetasion,
cun al cheld fines
un’etra stagion.
Caschen al foii
inzalidi dal temp;
alseri e snèli,
l’ul’t-m alit ed vent
al-li-unés al sorèli,
tant proverbieli
ad ogni ocasion
ed cambier diresion.
Al so balèt,
la so libertee,
lè ste-l temp impieghe
ed river a tèra,
com’ha fat l’an prèma
‘na so sorèla.
ogni cambiament dal temp,
l’efèt tra la lus dal sol
e-l scur d’la not
creen semper un’emosion
e per un’anim dispost
a contempler,
 l’è semper un’amirasion rinoveda,
da ringrasier.


Addio estate, addio vegetazione, termina col caldo un’altra stagione. Cadono le foglie
ingiallite dal tempo e lacerate dal vento;leggere e snelle l’ultimo alitar di vento, le
unisce alle sorelle, tanto proverbiali nel mutar direzione. ad ogni occasione. Il loro
balletto e la libertà, è proporzionale al tempo impiegato per raggiungere il suolo. Ogni
mutare del tempo, il variare dalla luce del sole e il buio della notte, creano sempre
delle emozioni, per chi è attento e, se è un’animo disposto a contemplare, è sempre
un’emozione rinnovata da ringraziare.




                                       pag - 34
Dal Carobi a la Stasion
Stréda bianca,                                                Proverbio:
un fos d’impert,                                              Per S.Bernarden, ogni nèi
rivi verdi                                                    al g’ha-l so ozlen.
e sev de spen.
Un pàlon d’la luz
un magazen,
ogni tant un punt,
un cespòli ‘d’rasi
e un nèi d’ozlen.
Adèss:
Strèsia nigra cun gnint d’impert...
Vista da l’elta la dà l’impresion
d’un naster a lutto stéz su la frasion.




                        Dal Carrobbio alla Stazione
Strada bianca ghiaiata fiancheggiata dai fossi, con le rive verdi e le siepi di biancospino.
Un palo della luce il mucchio di ghiaia, ogni tanto un ponte (per accedere alle abita-
zioni) un cespuglio di rovi e un nido di uccelli. Ora: striscia nera con niente di fianco.
Vista dall’alto da l’impressione d’un nastro a lutto steso sulla Frazione, dalla Cascina
al Carrobbio facendo croce alla Stazione.




                                          pag - 35
pag - 36
Nadalèt (il guaritore)
Quand a steven al Stalon,                                    Proverbio:
in d’la cort ghev’n-un svinant                               Chi si accontenta gode
ch’al s-ritgniv-un medgon.                                   e le critiche non ode.
Ed nòm Nadalèt,
al cureva -’l-storti, al guariva i’artrosi,
al sfogh ‘d-S.Antòni e-l-vachi, cun al caghèt.
Prem ‘d-cumincer a deres da fer,
per garantir la guarigion: al doveva magner, e feres pagher.
La veritee l’era: l’hom semper savuu,
guariva sol: i foraster, o i sconosuu.
Un giorn-in d’la stala, g’hom avu-n problema:
al tor, i mansoo el vachi, i gheven tot al caghèt
e arésen ciamee Nadalèt, as siòm ritgnu fortunee:
l’ha fat più prest a river lè, che dir ‘d’sè.
La magnee e d-bu fin cl’à vru, c’mè dai pat dal contrat,
pò l’hom paghee e l’ha fat al so fat.
-Ste por tranqueii, dè piò o dè meno,
che tut s’r-à finii tra un per ed giornedi.
Fegh ed’jimpach ed’jinfus, di decot dal papeni, ma tòti al mateni!.
Oh !, a marcmand: an tirer mea d-madòni
e impiee un lus in d’la nècia ‘d S.Antòni-.
Dop c’l’ha finii al s’nè andee, cun al calès e-l cavalen
da un’etra famea ed-contaden.
La nona saggia, la s’è mésa-l-lavor,
la voiee su l-mandghi col cor gros dal dolor,
cun un penser cal g-rosgheva-l-màgon,
per capir al motiv e sercher ‘na ragion:
S’ral stee-l bevron, o è stee l’erba fresca,
o-l fen vècc opure i malghèt ?
Scaduu-l-temp c’l’eva dee, è nee tanti sospèt:
vot propria che-l-ven al files e-l-fus mea bon,
o al salam arans o quel d’avariee,
vest che l’efèt al nè ghè stee ?
La nona alora sensa penser,
la ciapee S.Antòni e sbatu in dal sorcher.
-Dat mò una mosa e dat da fer !,
sit cheghen in d’la ghégna
al compit l’è too, sat-voo feri fermer.
Sl’è vera c’mì disen, “ch’ed-tanti rasi spol fern-un fas”,
te, dal sorcher, at fines ed sicur in mès-a la mas
e finiré anch al timor e-l dolor
se at dimostress che at-tse tè-l protetor-.
.Cantand e sc-ifland, felice e beato, cun la pansa pina,
al partiva spèss col so caval e la birucina,
da una pert o cletra, garantii a limon,
al cateva semper da miner a mèsa un quelch don
al noster mèdgon.

                                      pag - 37
Natale Meglioli il guaritore

Quando abitavamo nel podere Stallone, un nostro vicino di casa, di nome Natale, si riteneva uno
stregone, un guaritore. Curava le distorsioni, guariva chi era affetto da artrosi (così prometteva),
lo sfogo di S.Antonio e soprattutto il bestiame affetto da diarrea. Perché la guarigione avvenisse,
prima di iniziare i suoi riti doveva mangiare a sazietà tutto quello che chiedeva, infine, essere
pagato in anticipo. La verità era, e l’abbiamo sempre saputo che guarivano sempre i forestieri
e gli sconosciuti. Un giorno nella stalla, sorse un problema con il bestiame, era tutto affetto da
diarrea. Chiamammo immediadamente il nostro stregone, che fu più svelto ad arrivare che a
dir di sì. Si mise subito a ta-
vola, presentandogli il menù
e poscia che fu satollo, pre-
tese il compenso in denaro
e si mise immediatamente
al lavoro (questo è vero)
e ci ritenemmo fortunati.
Terminata la procedura,
ci rassicurò che nel giro di
un paio di giorni tutto si
sarebbe normalizzato, a
patto che somministrassi-
mo ai bovini delle tisane e
degli infusi con delle erbe
medicamentose che ci fornì
personalmente, nonché
degli impacchi da applicare
in un certo posto tutte la
mattine, la promessa di non
bestemmiare assolutamen-
te, ed accendere infine una
luce votiva nella nicchia di
S.Antonio. Finito il lavoro, svegliò il cavallo che dormiva su tre gambe, salì sul calesse e andò
a sollevar lo spirito ad un’altra famiglia, tonta come noi, poco distante. La nonna saggia, si rim-
boccò le maniche e si mise immediatamente al lavoro, col cuore gonfio dalla preoccupazione,
cercando nella memoria una possibile causa di tale dispepsia. Sarà stato il pastone di cereali,
o l’erba troppo fresca, o il fieno vecchio o i culmi del mais giovane (malghèt)?, chiedeva a se
stessa. Passati i due giorni, l’effetto mancato fece crescere forti dubbi sul menù consumato:
poteva essere incompatibile al suo palato, perché sinceramente, se hanno la muffa i soldi, non
fa niente, però se c’é l’ha il salame, o il pane, ti fan sentire in colpa. La vecchia, in preda alla
disperazione andò nel corridoio della stalla, prese la foto del protettore e la gettò nel canalino
di scolo poi apostrofò: “datti mò una mossa e datti da fare, se vuoi che non ti caghino sulla
faccia prima o poi”. Se è vero che di tanti rovi se ne può fare un fascio, tè di sicuro dal sorcher,
finisci in mezzo alla merda nella concimaia. Così finirebbe l’incubo assieme al dolore, se tu
dimostrassi che sei il vero protettore. Cantando e fischiettando, felice e beato, con la pancia
piena, il nostro guaritore, non passava giorno senza che non dovesse partire, col calesse e la
sua cavalla e da una parte o dall’altra, (garantito a limone, non so perchè si dica così, ma si
dice), trovava sempre qualche pollo da spennare e da “menar il can per l’aia”.



                                            pag - 38
Teremot
Ment-r-al bilancer dal pèndol,
cun al so tich tach,
l’andev-avanti e indree
in tòta la soo corsa,
detsà o dedlà
per chi vers nord l’era voltee,
al mur al ghe andee a dree
e lo... al s’è fermee.
La tera, la saltee e po termee
cun un gran boato
dal sètim gred d’intensitee.
Ados a noet-r-Arzan
s’è stremnee-l panich,
tant spavent e un mucc ed dan.
L’ora ? undès e sinquantesee,
martedì quendes d’Otòber
méla-e-novsent-novantesee.
“Pianeta Tèra: cosa t’hòmia fat
boia d’un mond vigliach”!
Ch’at piesa mea al formai c’mal fòm,
o l’aze balsamich,
o al noster President Prodi
o forse-l -Tricolor
che in tut al mond is fan onor ?.
De mo su “amara Terra”
e dagh un tai
e va a sdaser al calderon
in do ghè nisòn...
Ch’at vègna mei piò in ment
d-rifer-s-un schers acsè!,
a l’improvis,c’mè der un sciaf a un
da incoo a d-man,
sol perchè an s-lamentòm mei
noet-r-Arzan.




                                       pag - 39
Terremoto
Mentre il bilancere del pendolo, come un metronomo, con il suo tic tac, andava avanti
e indietro in tutta la sua corsa, o destra e sinistra, per chi guardava a Nord, la parete
lo ha seguito neutralizzandola e il bilancere s’è fermato.
La Terra, ha tremato e saltellato con un gran boato del settimo grado (della scala
Mercalli) d’intensità.
Addosso a noi Reggiani si è diffuso il panico, tanto spavento e parecchi danni.
Erano le undici e cinquantasei di martedì quindici Ottobre 1996.
“Pianeta Terra” quale colpa abbiamo ? Non ti piace come facciamo il formaggio o
l’aceto balsamico* o il nostro presidente del consiglio prof. Prodi o forse il nostro (per
fortuna ancora nostro) Tricolore che in tutto il mondo ci fanno onore ?
Ascolta bene amara Terra: è ora di smetterla: dagli un taglio e va da un’altra parte a
movimentare il tuo pentolone dove non c’è anima viva.
Che non ti venga mai più in mente di ritornare a farci un tale scherzo, all’improvviso;
come schiaffeggiare una persona, così dall’oggi al domani, solo perchè siamo tranquilli
e non ci lamentiamo mai noi Reggiani.


* Fatto per la prima volta nel Reggiano poi passato ai vicini Modenesi, non so spie-
gare il motivo




                                        pag - 40
Al merel e al pètt ròss
Al paseva tut i de stè prèten                         Proverbio:
zo per la streda ed’S.Bernarden,                      Pret in capèla,
al steva a la man e l’era corèt,                      novitee bèla.
però.... a un quelch don al feva dispèt.
-Al n’è mea un sgnor s-l’è un ciclesta,
ma, an n’è gnan un comunesta.
Sè!,da ster che-l punt dal canel,
quand al riva,ach pens mè:
al mètt a la prova cal cornacc lè
ment-r-al va vers la stasion,
al sorpass po-gh-dagh na lesion!!..,
“ Bandiera ròsa” a tla fagh ascoltér,
l’è tèra ròsa det-che an spol scaper.-
Cul motiv lè s-cifle a brot grògn,
al l’ha disguste c’mè s’l’es ciapè un pògn.
L’è scatè sui pedei pò l’è tornee in tèsta,
l’ha-lvee su-l cul e tiree su la vèsta
e pò-l g’ha molee un gran scorzon:
“‘S’vèd che-l merel l’er-anch-un volpòn”,
-tin strèch pettirosso ‘d’S.Bernarden,
l’è tua e di to compagn dal Crèmlen.-
A stè pov’r òm, a ghè gnu da sigher
per la figura che al g’ha fat fér,
talment al s-nè tot e inghignee
al g’ha det ‘d’la robasa a lò
a tut al Clero e al so Vatican,
che i’en sol di leder e dal spèi ed i’American.
Cun ste insult grave e immorel,
l’ha pers al contròl anca-l-Clerichel.
I’abitant ieren fora, eren cors tut in streda
e i’han vèst e sentii com-l’er-andéda.
Quand in voléda ien rivee in stasiòn
polvrent sudorent, an parleva nisòn,
stòff sfinii i lanseven c’mè i can,
i’en smunte zò, spolvre i vistii guardee in d’i’occ
e de la man.
Perdend la voleda ho imparee ‘na lesion:
in fond in fond’l’m’ha insgne ster al mond.
Mai piu cun di Pret ‘na competision,
perchè ment’r-i povrèt i lavoren
lor i magnen i capòn !

Morale:
Bandiera ròsa,un bel scorzon,
una volèda dal canel a la stasiòn.



                                        pag - 41
pag - 42
Il merlo e il pettirosso
Passava tutti i giorni quel pretino giovane in bicicletta, per la strada di S.Bernardino.
Manteneva la sua destra (fin troppo asseriva un’osservatore), nonostante fosse serio
e corretto, a qualcuno faceva dispetto. Se usa la bicicletta per spostarsi, pensava,
non è certamente un ricco, però sicuramente non è neanche un comunista e sta
dalla parte dei signori. Lo metterò alla prova mentre va verso la stazione e voglio
fischiettargli in un orecchio Bandiera Rossa durante il sorpasso, così imparerà anche
un pò d’educazione visto che mi incrocia spesso ignorandomi. Si dà il caso che il
merlo, fosse anche un volpone più di quanto ci si immaginasse, tantè che quando
venne sorpassato a tempo di... marcia, fece uno scatto, balzò in testa poi si alzò sui
pedali si scoprì le chiappe, e ...trombò in faccia al malcapitato senza resa al mittente,
aggiungendo: è tutta tua e dei tuoi amici del Cremlino, pettirosso di S.Bernardino.
La robaccia che gli è stata attribuita Dio solo lo sà. Dalle maledizioni a lui e al suo
Vaticano, incolpandolo d’essere una spia al soldo degli Americani. Poi continuarono
a rincorrersi in silenzio, mentre gli abitanti del caseggiato vicino, chiamato non so il
perchè Borgo Emilio, corsi in strada videro e sentirono tutto dall’a alla z e seppero
così dell’accaduto. Il compagno fece brutta figura e se ne offese alquanto, come
pure il religioso (clericale), per l’inaspettata sorpresa.Giunti al capolinea in stazione,
si fermarono per riposarsi, tutti impolverati perchè la strada non era ancora asfalta-
ta, si strinsero la mano senza vinti nè vincitori appena scesi dalle biciclette prima di
accingersi ad asciugarsi il sudore che scendeva copiosamente e spolverarsi.Caro il
mio pretino La ringrazio per la risposta alla mia presunzione, in fondo in fondo mi
ha insegnato le buone maniere per stare al mondo e non farò mai più con un prete
una tal competizione, soprattutto in bicicletta, perché io sono indebolito e stressato
come tutti i lavoratori, mentre Voi ingrassate e irrobustite a suon di capponi, come
faranno sicuramente i vostri prelati in Vaticano.




                                        pag - 43
I bias cas feva la nona.
La nona la-s-feva i bias a noeter ragas,                      Proverbio:
-In fond in fond in eren pò eter che i’antenati               Gustand col c’à ghè,
d’iodieren omogeinizzati.-                                    as magna c’mè un Re.
La biaseva i grosten’d pan
da ster sduda in dal scranon
e còi du dii d’na man
la-i- pogeva sul grumbialon.
Per contenter tot quant,
la feva-l-”col longh”...,povrèta,
seg-sugheva-l canalòs,
 cun la testa c’mè-n sambot
l’andeva sù e zò,
come un ch’an dis mai ‘d-nò.
Quanti sacrifési sol p’r-amor
sensa mei feres pagher, mai avuu ‘d-pretesi,
cun nov ragas e desdot man semper tesi.
Provel a immaginer
quanta brisa e quant grosten
c’nal zunzei e sol un dent
l’impasteva, pian pianen.
Al tort c’a gheven, l’era sol d’èser povrèt,
ma la fam l’è uguela per tut, brut o bèi,
 pulii o melnèt, sgnor o povrèt
anch s’a s’eren di brut vilan, di contaden,
as sentev’n’orgoglios e as vreven tant ben,
e se despès a spuseven de stala, opure ‘d-sudor,
an-n’era mea un motiv d-disonor,
e sun sicur che nison, propia nison, preva dir c’à spusesen ed coion!


Mia nonna, ci faceva le palline col pane masticato, impastandole con la saliva, per
me e gli altri ragazzi , (i miei cugini componenti la stessa famiglia). Dette palline, non
erano poi altro che gli antenati degli odierni omogeinizzati. Li mangiavamo volentieri
e ci dispiaceva alquanto finirli, sapevamo che erano un nostro prezioso nutrimento.
Masticava i pezzi di pane, togliendo dalla bocca, con le sue stesse mani, le palline
formatesi e le deponeva nel grembiule steso sulle ginocchia, seduta stante dal suo
seggiolone. Masticarne per tutti, faceva il collo lungo (come si usa comunemente
dire), perché arrivava al punto di non avere più saliva sufficiente per amalgamare il
boccone cosicché era costretta a beccheggiare con la testa e il collo, coi movimenti
tipici di chi si ingozza. Tutto questo lo faceva per amore, senza compenso, senza
nulla pretendere, purché crescessimo sani e felici. Pensate che rosicchiava il pane
con un solo dente canino facendo miracoli poveretta; figuriamoci, a quei tempi con
nove ragazzi e diciotto mani tese... Eravamo poveri, sì: brutti villani, e contadini,
però ci volevamo infinitamente bene, consci di puzzare di stallatico, ma mai e poi
mai di coglione.



                                        pag - 44
pag - 45
Quand-deven l’acua a l’ova
Om, dòni e ragas, tuti quant mobolitee                   Proverbio:
per i’uter cun gambi e bras                              S-as près fer d’i’amzeder
e cun forsa d’volontee.                                  c-va-l cèso sensa magner,
A bilancer al pez dal bazel portee in spala              i padron i’à faren a cadena,
du s-cin pin, o du laton, un din-cò, in spicolon         o, i’à faren fer.
e s-doveva fer la spola tra la bòta e la cariola.
Pin d’acua per la vida armes-ceda cun fadiga,
cun ‘na sapa a forsa ‘d’bras in carera al carias.
Chi cucéva la cariola ‘l’gheva anca da pumper,
chi tgneva inveci-l zèt, tache ad cò-a-un baston,
sòt ed sover ben a pièt, al bagneva tut i plon.
L’impègn ‘d’porter da bever:
spèsi volti a g-leva-l dòni cun un bel piston pin ‘d-ven
e ‘na fiasca colma d’acua tgnu quacee e bagnee ben,
cun d’l’erba fresca, o dal fen
e-i ragas un po più cech, davanti ai boo cun un cavècc.
Stabiliva al resdor, come e quand fer i lavor,
sas droveva serietee, l-risultet l’era scunte;
col so motto semper prunt a tu per tu, quand tegh-ser ‘d-frunt:
- tùti a tirer al car, tùti a magner al gal- .


Quando si irrorava la vite col verderame,o “poltiglia Bordolese”. Uomini donne e
ragazzi, tutti quanti mobilitati a collaborare con braccia e gambe e con tanta forza di
volontà. Con un’apposito palo arquato (chiamato bazel) sulle spalle con all’estremità
due latte, (contenitori cubici da 20 litri per petrolio lampante o, ocelina o ucelina, era
poi una marca di una ditta commerciale petrolifera. All’interno erano stagnati e non
arrugginivano e per questo si usavano anche d’inverno, quando si uccideva il maiale,
per conservare lo strutto per l’annata, in mancanza dei “tregn”, vasi di terra cotta
smaltati con due manici a orecchio. Si faceva la spola avanti e indietro dalla botte
al carro (carias: un carro agricolo da cui si smontava il letto soprastante per inserivi
l’apposita botte cilindrica, usata sia per il verderame, che per trasportare e spandere
il pozzo nero), ferma sulla carraia, dove si teneva continuamente mescolata, di solito,
con una zappa e a forza di braccia. Chi spingeva la carriola, aveva anche il compito
di pompare la poltiglia, affinché chi usava la canna con l’apposito ugello a ventaglio,
potesse irrorare in modo seguente le frasche della vite, soprattutto nei punti in cui si
formavano i grappoli. L’impegno di dissetare i lavoranti, toccava alle ragazzine. In due
affiancate sorreggevano una grossa sporta di pàvera, (erba palustre), con dentro una
fiasca d’acqua e il pistone del vino ben coperti con erba fresca e bagnata per mantenerli
freschi (questo sistema era ”niente po pò di meno che”: il principio della borraccia
Sahariana: “evaporando, l’acqua, scaldandosi, si porta via le calorie in eccesso; ca-
pito i “villani” cosa sapevano ?) Ai maschietti, invece, spettava il compito di tenere
a bada le mucche o i buoi, standovi davanti con un bastone in mano. Era obbligo
del capofamiglia, dove vigeva, serietà ed obbedienza al comando,stabilire, come e
quando fare le cose, assegnandone poi i compiti a chi di dovere, non risparmiando
a nessuno il suo motto: “tutti a tirare il carro, tutti a mangiare il gallo”.


                                        pag - 46
pag - 47
Al baraten
Solament ch’a strèca iocc                               Proverbio:
a distansa ed sinquant’an,                              Quand al ven an n’è piò most,
al vèd incòr river:                                     al castagni-en boni a-rost.
vistii ed vlù maron,
al breghi a la zuava,
castòn ‘d’lana fin ai znocc e ai pee un per ‘d troclòn.
Al riveva dal carobi, col cavalen per man,
al t’gneva-l mèz d’la streda
tuta bianca e pina ‘d’nev,
come ‘l’fès lo la strazeda
stè pès d’òm, stè muntaner,
cun di sach sul careten
per gniri a barater cun i noster contaden,
i frut dal so montagni:
di sach pin cun dal castagni,
turacc bon e bèi maron
pari pez cun dal forment,
dal patati o formenton.
Tuti i’an, l’era puntuel:
un po dòp S.Lucea,
un po prèm ‘ch’rivèss Nadel.




                          Lo scambiatore di merce
Solamente che chiuda gli occhi a distanza di cinquantanni, lo vedo ancora arrivare
con la giacca di velluto marrone,i pantaloni alla zuava, i calzettoni di lana e gli zoccoli
di legno.
Arrivava dal Carrobbio, tenendo per mano il cavallo battendo la mezzeria della stra-
da bianca, tutta innevata, quasi volesse tracciare un sentiero libero dietro di sè per
agevolare i nostri spostamenti, sto montanaro, tutto d’un pezzo.
Sul carretto portava i frutti della sua montagna, come merce di scambio, con noi
della bassa. Si trattava di turaccioli, castagne, marroni; in cambio di mais, frumento
di farine varie e patate.
Tutti gli anni era puntuale, a cavallo tra S.Lucia e la vigilia del Santo Natale.




                                        pag - 48
pag - 49
I selta fos
L’era prest quand siòm rivee, ghera incora tut la guasa           Proverbio:
l’era là stè brota v-ciasa, coi pagn bagn in spicolon             Tanto va la gatta al lardo
la-i-stendeva sul filon:-Delinquent e lazaron !-                  che ci lascia lo zampino.
l’ha cumincee a sbrajer ch’s’er’n-icora adree river,
-an ghii gnan un po ‘d’rispètt per i’ansian e per i vècc,
a si tut ed jignorant, di balos, di selta fos !-
Adèsa basta !, hom rispost:
quand a gnii per robèr l’òva, t’gniv in ment d’salter’l- al fos:
as vanseva d’romprers l’asa, d’ander zo in dal canalen,
e-d-bagneruv come un’oca, da-i sgarlèt fin al còpen.
E penser c’la s’arc’mandeva c’mè s’la fùsa roba sua:
-ien i’oslen ch’a-v-magna l’ùva,
bisògna cas-s-ciflèdi e ch’à fedi un mocc’d-fracas, i me brev e bon ragas!-.
S’era gnu al bocaroli, ghev-n-i laber tut rustii,
ma -l-tirèli al gneven vodi e noter piò avilii.
Al s’à dèt un vecc per ben, testimoni oculer,
c’l’era un saggio ed còi fat ben, -Un consèli v’al vòi der,
av vin mea al sospèt d’fer per gninto tant casen?
Storei, merei e tut i’ozlen, in van mea avanti a pièt !,
c-fà da punt ai du confin, ‘d’sov’r-al fos a ghè un’àsa,
agh fe-n tai cun al resghin,
andee zo fin a metee e pò dop a la giree
e d-sicur che-l prèm c’fà-l pas al ghè-r-magn atach al gras
e d’matena i me putèi impare c’rasa d’ozeii
ch’av magna l’uva in dal tirèli
e i mètt’n-a scher i gramosten in mèz a l’era cun al pèli.-
Infati acsè l’è andéda. Dop d’alora an n’hom piò vest
la so èra imbandida con i frut d’la nostra vida.
E cun l’ùva ‘d’Subazlen, l’han n’ha mei piò fat dal ven,
nè dal “sugh” e gnan d’la “saba”, ancor meno di “savor”,
ringrasiand al vecc per ben, p’r-al coragg e-l so bon cor.


Quando noi siamo arrivati la vecchia arpia deambulante era ancora intenta a stendere
su un’apposito filo teso i panni ad asciugare. “Delinquenti, lazzaroni”, ha cominciato
ad inveire, appena ci scorse, non avete pietà nemmeno per i vecchi, ignoranti balordi
e salta fossi. Adesso basta rispondemmo.
- Quando ritornerete a rubare l’uva ricordatevi di saltare anche voi il fosso, così evite-
rete di cadere in acqua per la rottura dell’asse e bagnarvi da capo a piedi-. E pensare
che spesso si raccomandava, con falso bonismo,come se si trattasse di roba sua, di
fischiare piu forte e fare tanto chiasso se no gli uccelli vi mangiano tutta l’uva. A tutti
noi, si erano arrossate e screpolate le labbra, con le ragadi ai bordi della bocca a forza
di mettere in atto i suoi consigli, mentre sparivano sempre più i grappoli dalla vite e
noi sempre più avviliti. Un bel giorno il saggio, testimone oculare di quanto ci succe-
deva, persona di quelle fatte bene, stanco del continuo turlupinio al quale eravamo
sottoposti, ci disse: ragazzi voi pensate propri che gli uccelli quando mangiano l’uva
stacchino anche le graspe e le portino a seccare sull’aia della dirimpettaia? Allora se

                                         pag - 50
volete le prove di tutto ciò, ascoltate quanto vi dico: dovete prendere quell’asse che
fa da ponte alle rive sul fosso tra i due confini, tagliate trasversalmente lo spessore
fino a metà con il seghetto, poi rigiratela col taglio sotto,in modo che non si veda. Di
sicuro domattina saprete chi è il merlo che vi ruba l’uva e poi mette ad essicare i resti
sull’aia in bella vista. Infatti così fu e da allora non abbiamo più visto l’aia imbandita
coi prodotti dei nostri campi. Con la frutta e l’uva di Subazzoli non solo non ha più
fatto il vino, ma nemmeno il sugo, ne il sapore.




           Suggerimenti per fare i sughi d’uva, i sapori
               l’aceto balsamico e la saba in casa
Il sugo d’uva, si ottiene schiacciando gli acini per bene, poi con un colino si separano i
vinaccioli e le pelli e tutte le impurità. Si porta in ebollizione continuando a schiumare,
indi, si aggiunge quel tanto di farina bianca (un cucchiaio da tavola, ogni bicchiere
da un quinto di mosto), sufficiente per fare una crema densa che poi solidifica nel
raffreddarsi.
La saba: Si prende il mosto ottenuto dalla pigiatura, lo si filtra attentamente con un
colino fine, o meglio ancora con un canovaccio, poi si fa bollire affinchè due terzi se ne
siano evaporati. (Un modo empirico, ma sicuro, per sapere il punto giusto di cottura,
usato spesso dalla resdora, consisteva nel versare una goccia di liquido sull’unghia
del pollice, se rimaneva unita e non si spandeva, voleva dire che la saba era cotta
al punto giusto), il rimanente lo si lascia raffreddare poi si conserva in appositi con-
tenitori, meglio se di vetro a chiusura stagna. Un tempo d’inverno, si serviva come
secondo piatto, sul pane o con la polenta arrostita e perché no, anche per preparare
granite con la neve fresca. Con la saba si preparavano anche bibite dissetanti ag-
giungendola in piccole dosi all’acqua fresca.Con lo stesso procedimento della saba si
può fare anche l’aceto balsamico. Basta mettere la terza parte rimanente del mosto a
riposare, lasciandone depositare i sedimenti, poi si versa in una damigiana e si lascia
inacidire possibilmente al caldo. Attenzione però che il livello non superi la metà del
contenitore, per permettere una buona ossigenazione, affinchè gli appositi enzimi si
sviluppino meglio e trasformino il tutto in acido acetico.
Il “sapore” (al savor): Si prendono diverse qualità di frutta comprese le mele cotogne e
volendo anche del mosto, poi si fa bollire per diverse ore, anche un giorno addirittura,
fino a quando si è ottenuta una marmellata abbastanza solida e consistente. Una
cosa molto importante per tutte le operazioni di cottura di detti prodotti: quando si
effettuavano dentro ai paioli, o alle pentole di rame, se non erano stagnate, era usanza
metterci una chiave di ferro, (di solito quella grossa del portone principale), affinchè
neutralizzasse il sapore di rame che contaminava il sugo, la saba, o il “sapore”. Fino
a che punto tutto ciò fosse veritiero ed efficace, non sono in grado di provarlo, però
funzionava. Di sicuro sò, che usare un bel cucchiaio di bicarbonato di soda come si
fa ora, l’effetto è garantito, essendo un buon neutralizzante.




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La barberea ‘d’Caméel
Davanti a Bacaran, voltéda vers la stréda,                     Proverbio:
‘na baraca fata ‘d’lègn, c’l’era vècia e mel andeda,           L’ezen c’l’ha fam,
ed dodez meter queder, al sostgneva-l-seo Peder.               al-s-contenta d’ogni stram.
Entrer’gh’in barberea,
as-paseva apena apena, perchè la so portena
l’era strèta cas-sà mea.
A l’inter’n-un taca pagn, cun d’sòta un porta ombrèli,
tre scrani p’r-i client, cun i sedii d’asi: bèli.
I cavii cun ‘na granera, in un mucc in dal canton,
‘na fnèstra a do anteni, al tècc fat cun di còp bon.
Sòta-l spècc do mensoleni cun i’usvéii dal so mester:
una broca un caldaren,
tut didlent un per ‘d-bicer, d’fianch a lor un lèter ‘d’ven.
Da Camèlo ‘d-Pisarola, “Figaròo ‘d’S.Bernarden”.
Col cal v’deva al gh-feva gola,
l’era leff come un cagnas, al magneva un tant al bras
pò-l spiantéva du dii in gola.
Tra ‘na d’buda e ‘na magneda, l’ocasion per ‘na canteda
e in dal mèz anch ‘na piseda.
Al spècc fissee al center, l’era tanto fumanent:
da ster sdu in d’la poltrona, guardér menter al-toseva,
‘l’t’feva gnir un sveniment:
‘t’sembrev n’eter cat-guardeva!.
Anebiee dai trop quarten,
i so occ i feven scur,
da i znocc, ander in su, l’era semper insicur,
gh’era ‘l-rèscc d’un quelch tàiten:
un contròl davanti al spècc l’er’un tèst per zov’n-e vècc.
Dòp finii la prestasion
 cun la bòca pina d’acua as proveva a fer presiòn,
se per ches la feva dan, ‘d-tamponev coi dii dal man,
perchè alora i cèrot, as-siinsonieven anch ed not.
Come tanta gent c’mè lor, tut onest e galantòm,
cun l’umor c’và su e zò eren più ed’còl c-pensòm,
(pér’l ed còi d’S.Bernarden,schiavisee dal bicer ‘d’ven).
Col ‘d’pugners-al nez de spèss,
perchè ‘alveven su ‘l-»gombèt»,
gnan pensér ch’i fùsen fèss !,
Un astèmio per esempi,
erel semp’r-acsè perfèt ?

-Tutti mi vogliono, tutti mi chiamano, sono un barbiere di qualità
quand’ho bevuto a sazietà...........-.
A imiter i Tajaven (Franco e Ferruccio)
cun l’ugola sincerament,
al s’la caveva abastansa ben.


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Camillo Tondelli barbiere di S.Bernardino
La barberia era ubicata nel piazzale antistante il fabbricato di proprietà della famiglia
Baccarani che gestiva contemporaneamente al negozio di generi alimentari, anche
l’osteria, punto d’incontro molto importante e considerato a quei tempi, sia dai
residenti che dalla gente di passaggio. Era diventato un posto nel quale si doveva
per forza fare una tappa, ristorarsi e scambiare quattro chiacchiere in compagnia.
S.Bernardino...... era “S.Bernardino”.
Detta baracca fatta d’assi di legno, era rivolta ad est verso la strada principale. Era
vecchia e malandata, di dodici metri quadri, più o meno, di superficie, cosi sosteneva
il sig. Bigi Pietro (“seo Peder”, factotum molto attivo e utile nel borgo).
All’interno un piccolo attaccapanni, sotto un porta ombrelli, alcune sedie per i clienti
col sedile ligneo, abbastanza belle. I capelli recisi, in un mucchietto nell’angolo assieme
alla scopa di saggina, una sola finestra a due ante e il soffitto con tegole vere (còp).
Sotto lo specchio, all’interno, due mensoline per i ferri del mestiere, una brocca, un
secchio e un paio di bicchieri con le impronte delle dita, con a fianco come guardia
del corpo, una bottiglia di buon lambrusco della casa.
Camillo Tondelli il Figaro di S.Bernardino, era goloso come un mastino, tutto ciò
che vedeva di commestibile, lo tentava, e, a forza di trangugiare, era poi costretto a
infilarsi due dita in gola per togliersi il peso dallo stomaco; sicchè tra una mangiata,
una bevuta e una romanza, alla fine si faceva anche una bella pisciatina.
Lo specchio fissato alla parete interna, di fronte alla poltrona, era talmente offuscato
e deformante che a chi si guardava mentre gli tagliava i capelli, gli sorgeva il dubbio
di assomigliare a un’altra persona.
Annebbiati dai troppi quartini di vino, ad un certo punto, i suoi occhi vedevano
malamente e dalle ginocchia in su il resto del corpo diventava insicuro, col rasoio in
mano. (Era sorprendente l’abilità e la velocità con la quale affilava la lama del rasoio
nel palmo della mano, o sulla coramella, anche quando sembrava inidoneo).
Un controllo davanti allo specchio, con la bocca piena d’acqua era un test consiglia-
bile per i clienti pazienti; facendo pressione si potevano scorgere eventuali perdite.
Se malauguratamente così era, con la punta delle dita o un ferma sangue si com-
primeva finche non si fosse coagulato, perchè i cerotti c’erano sì nelle farmacie, ma
secondo una nostra mentalità era merce da “americani”.
Com’era lui, purtroppo, c’erano anche altre persone, più di quante immaginassimo,
tutti galantuomini e onesti, ai quali lo stato d’animo oscillava perché schiavizzati dal
bicchiere di vino, (parlo dei S.Bernardinesi) alzando spesso il gomito. Non era neanche
da pensare che così facendo fosse gente di poco rispetto, anzi, tutt’altro.
Siamo proprio certi che una persona, solo perché è astemia, sia sempre perfetta in
tutto?




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Vint’an com’in luntan
I me dzeven da putèll:                                               Proverbio:
t’in dev magner di grosten d’pan                                     Scampa caval
sat vo ch’riva prest vint’an.                                        che l’erba la crès.
Vint’an, in riveven méi,
ho cuntee i dè, i mez e i’an
e un bel gioren finalment
tra un det e un fat,
acsè pian pian,
ho cumpii i me vint’an.
Dòp ed poch: un’eter vint,
ma in mete temp
e an min sun mea acort
c’l’è stee un tradiment.
Vot scomèter, ch’a riv as-santa
prèm d’rendrum cunt
ch’à n’hò già cumpii sinquanta ?
... e s’ha fus ande più pian
a magner i grosten ‘d’pan !



                      Vent’anni come sono lontani
Mi dicevano da ragazzino, ne devi mangiare dei crostini di pane, se vuoi che arrivino
alla svelta e al più presto vent’anni. Infatti i vent’anni non arrivavano mai, facevo la
conta dei giorni, dei mesi e degli anni, poi un bel giorno finalmente tra un detto e un
fatto, mi sono trovato a compiere i miei vent’anni. Dopo poco altri venti, ma in metà
tempo, senza accorgermene, quasi fosse stato un tradimento. Vuoi scommettere,
ho pensato, che arrivo a sessanta senza rendermene conto che ne ho già compiuti
cinquanta ? Non era meglio che fossi andato più piano a mangiare sti benedetti
crostini di pane?




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pag - 57
La batdura in piasa a Novalera
Che meravea vèder tut ste furmigher                            Proverbio:
a Novalera l’ot ed lui d’l’otantequater                        S’a piov per S.Cassian:
per ricorder incòra l’uz dal med’r-el bater,                   più meel, mòst e gran.
còi mez d’alora e l’esperiensa ed chi-l sà fer.
as vèd propia che a ghè la volonte
ed tut i’abitant , che cun bravura
i doben i negosi per la batdura
fedeii a la tradision ed i’an pasee.
Ghè pin ed gint tanta umanitee
gnuda per l’ocasion da la sitee
a vèder come s’féva dal spighi ‘d’forment
separeregh l’esensa p’r-al noster nutriment.
Infati i più ansian ien sodisfat cas sà mea
i tornen col penser indre in dal temp
cun tanta nostalgea,
cuntent anch dal progrèss ch’i-à liberee
d’un lavor dur ,òmil e mel paghee.
N’etra categorea ed gint ‘d’meza etee
alora ragas,ma al bater l’han pratiche.
 Per pagher’s i vèsi ,durant l’ora ed la gabanèla
i cateven su-l forment c’a ghè-rmagneva in tèra,
o dòp d’aver picee i cov un a un cun un baston
prèm ch’i rivèsen insèma-l trabatoi,
sperand ed ferla franca cun al milit e c’n-al padron
I zoven, al dòni, i vècc e i’amigh in compagnea
i’en tut content e i sbrasen prèma d’ander vea.
Ad red’r-insèm tut quant, pochi volti è capitee ,
las pol cunter insèma-i dii ‘d’na man sta raritee,
perchè un quelch don ‘d’na cert’etee
adès al rèed, ma alora l’ha anch sighee.
La dovu tirer la sèngia al s’è catee a la disperasion
...l’era un operaio e al dipendeva spèss dal so padron.

Per la cronaca:
In Piasèta, pan frèsch e gnoch frètt per sasiér al pòblich l’apetèt.
Per sasierel a còi d’alora
l’era compit ‘d’la Resdora
‘d’mèt’r-a coser a la matena,
n’oca un nader e ‘na galena.




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Trebbiatura in piazza
Che meraviglia vedere tutto sto formicaio di gente in piazza a Novellara l’otto Luglio
1984, per ricordare ancora l’uso e il modo di trebbiare il grano, con i mezzi d’allora
e l’esperienza degli operatori che si sono prestati abilmente.
Si è notata anche la volontà non solo degli organizzatori ma anche di tutti, i cittadini
e gli esercenti che hanno collaborato addobbando con bravura i negozi affinché la
tradizione fosse rispettata fedelmente. C’è tutto esaurito, tutto pieno il paese di gente
che con tanta umanità sono è venuta per vedere e rivedere come si separano i chicchi
di grano dalle spighe per ricavarne il buon pane, nutrimento essenziale. Infatti i più
anziani erano doppiamente soddisfatti; primo perché col pensiero tornando indietro
nel tempo, si rivedevano ancor giovani; secondo, perchè si erano liberati d’un lavoro
pesante a volte umiliante e spesso mal retribuito. Un’altra categoria di gente di mezza
età, allora ragazzini, che però ricordano perfettamente il sacrificio dei loro genitori e
anche il loro, perché non stavano a guardare, ma collaboravano al bilancio familiare.
Uno degli espedienti, diciamo, per pagarsi i vizi, era quello di raccattare il frumento
che si spandeva a terra o sul fienile, magari dopo aver battuto con dei bastoni sulle
spighe, di nascosto naturalmente, all’insaputa del milite, se era tempo di guerra, o del
Fattore o caporale fiduciario del padrone. Poi si metteva assieme al resto che si riusciva
a reperire con la spigolatura nei campi dopo la mietitura. Col ricavato pur essendo
estraneo al bilancio familiare, si compravano un paio di scarpe, o degli indumenti per
i più grandi ,che poi si passavano ai più piccoli man mano che si cresceva. Raramente
restava qualcosa per andare al cinema o a ballare. È successo anche questo, almeno
a casa nostra. I giovani, i vecchi, le donne gli amici, prima di congedarsi dalla festa si
salutano calorosamente con abbracci sinceri. Contenti come non mai d’essersi ritrovati
in un’atmosfera sincera e famigliare perché sono rare purtroppo le occasioni in cui
ciò può avvenire. Annualmente direi che si possono contare sulle dita di una mano.
Qualche persona di una certa età, ora ha riso in mezzo a tutti nella rievovazione, però
ai suoi tempi non era raro che dovesse piangere per le umiliazioni e le ingiustizie
subite, dovendo tirare la cinghia, in quanto dipendente, doveva sempre rispondere
signor sì, ed accettare il salario con le mani dietro la schiena.

Per la cronaca: pane fresco e gnocco fritto per saziare al pubblico l’appetito, ma per
saziarlo allora, agli addetti alla trebbiatura, era compito della resdora, mettere a cuo-
cere alla mattina in una capiente pentola, un’oca, un’anitra e una gallina.




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Anno 1987, decim aniversari d’la (batdura a l’antiga) in piasa
Ai Quater Castee, per Matilda e Enrico Quert
su un punt un mucc d’impert
i castelan, is dan dal bot-da can.
A Siena, coi dal cuntredi
i garègen coi cavai,
is còr’n-adree in piasa e is dan dal gran narvedi.
Novalera, l’è negheda per ste gloria
da rievocherg-acsè la storia.
Per guadagner’s al viver, la pensa più lavor
e al soo carater: an n’è mei stee còl ed vrer combater.
La fà vèder bat’r’al forment in piasa
pò lag-fà-l pan incòr col man
rievocand cun umiltee la storia vera,
c’mè-l’ariv dal-rondaneni in primavera;
i grasoo freschc in dal parol,
al gnoch frét , la sigoleda, legerment saleda,
al bacalà fat cun la cola
che cunter’l-al-per ‘na fola,
al cazer cos’r-al formai,
al manischelch frer i cavai
e i mester più impensee, ma fat tut con serietee.

Per la cronaca: L’idea l’è neda a un grup d’Anvalaren, l’an dòp dal stantesèt; i s’in
voje su ‘l-mandghi e p’r-an creer nemigh e aversari, i partii i’han saree in un casèt e
st’an ‘s-festègia al decim aniversari.



   Anno 1987, decimo anniversario della trebbiatura in piazza
A Quattro Castella, gli abitanti, con quelli delle frazioni limitrofe, si fronteggiano e ga-
reggiano a squadre con prove di forza, su un ponte, per ricordare Matilde di Canossa
ed Enrico Quarto. A Siena i contradaioli all’interno della piazza, si contendono il Palio
con i cavalli, a colpi di frusta, pesantemente. Novellara invece, è negata per questi tipi
di rievocazioni storiche. È più propensa a dimostrare cosa e come facevano in passato,
a guadagnarsi la pagnotta per vivere, perché come carattere è più incline al lavoro
che a combattere. Fa vedere ai partecipanti alle manifestazioni, come si trebbiava il
grano, poi fa il pane manualmente e lo cuoce all’istante negli appositi forni, costruiti
per l’occasione, con la legna. Rievocandone la storia vera, dal vivo, crea un’emozione
come l’arrivo delle rondini che annunciano la primavera. Coi ciccioli freschi nei paioli,
il gnocco fritto, la cipollata, il baccalà con la colla, il casaro che fa il formaggio grana
Reggiano (perchè è Reggio il suo padrino), ecc.; poi i vecchi mestieri dal fabbro, al
maniscalco, al falegname l’impagliatore di sedie e tanti altri.
L’idea è nata ad un gruppo di cittadini Novellaresi, apolitici, nel 1978, con grandi
sacrifici e tanta forza di volontà riscuotendo un notevole successo, tant’è vero che
molti paesi, ora, li imitano. Quest’anno si festeggia il decimo anniversario.



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Specialitee Arzani
“Pan fresch persòt,                                          Proverbio:
formai grana e lambrosch”.                                   La bòca l’an n’è mai straca,
L’è un dét c’l’è vecc,c’mel pan dal còch                     finchè l’an sà ed vaca.
e spol dir a elta vos,
sensa p-cher ed presunsion
che d’imiteri an n’è bon nison,
in tut al mond ien i miglior
per la bontee-el so savor.
Al merit, ‘l-và a la tèra,
e a tut la nostra gent.
La risèta ‘d’ingredient?:
Tanta vòia ‘d’fer: “unt ed gòmet
e al sèt camisi da suder”.
Dal cheld dal frèd dal vent
d’l’umiditee, ag-nè da per tut,
per tuti, un po pron, a seconda dal stagion.
Però sol che in d’la tèr-Arzana
las-trasforma in tanta mana.

Pane fresco, prosciutto, formaggio grana Reggiano e lambrusco, è un connubbio che
si perde nella memoria dei tempi talmente è vecchio. (In dialetto lo si paragona per
la vecchiaia al “pan dal còch”, francamente non conosco il significato). Si può gridare
ad alta voce, senza peccare di presunzione: per la bontà la fragranza e i suoi sapori,
in tutto il mondo sono unici e i migliori, perché in nessun posto riescono ad imitarli.
Il merito in parte va alla terra, il resto, alla nostra gente. La ricetta degli ingredienti?
Tanta bravura, e altrettanta voglia di fare usando “Olio di gomito ”e la scelta di sudare
le proverbiali “sette camice”. Del caldo. del freddo, del vento, dell’umidità a seconda
delle stagioni, c’é n’é per tutti, in ogni luogo; però, solo in questa nostra terra Reggiana
si trasformano in tanta manna.




                                         pag - 62
Sòta-l portegh ed la stala
I g’han de tot i contaden
sòta-l portegh ed la stala,
comincer dal mocc dal fen
fin a col dal bali ‘d’paia.
In dal noster, al Stalon,
a sinestra in dal canton
alpéra a l’elbi ed ciment
cun al stanghi in spicolon,
la birucuna e i filiment,
soquant ligam e un quelch soghèt
cun la zerla e i’arvaroli,
sui madon e sui travèt
dop, i zov e’l-burgagnoli.
A bòca-bas alinee,
i s-cin da monzer e-i malsaren,
al s-cion dal lat ed ram stagnee
inséma un stras cun al colen,
un mucc ed cunchi mési ben ,
che e là una malsarena,
d’mèlga, d’erica, o d’sangonena
e i forchee piante in dal fen.
Al fioròm in un canton
cun la fèra e al rastèl,
d’asven la gabia di capon
e-l cariol per al cazèl.



                          Sotto il portico della stalla
Si trova un pò di tutto, sotto il portico della stalla di un podere contadino. A cominciare dal
mucchio di fieno, fino alla catasta delle balle di paglia. Dove abitavo, alla corte Stallone, a
sinistra nell’angolo di fianco all’abbeveratoio in cemento, con le stanghe penzoloni, c’erano
il calessino con i finimenti, alcuni legacci per i covoni (ligam), delle funi di canapa (soghèt),
il timone per il doppio traino (zerla), e le cinghie dei gioghi (arvaroli che si annodavano dal
giogo alle corna dei bovini da tiro, perchè non si disarcionassero). Questi erano tutti appesi
a degli appositi tronchi di trave di legno murati sporgenti (madon), o a dei chiodi conficcati a
dei travetti che reggevano il soffitto, poi c’erano i gioghi e le museruole metalliche. Rovesciati
e allineati su delle panchine, i secchi per la mungitura, gli scovoli per la pulizia, il bidone del
latte di rame, o di zinco stagnato, col colino, il tutto coperto da un canovaccio bianco, pulito.
Allineate per bene, le conche (mastelli rettangolari di legno per servire l’impasto di sfarinati di
cereali e sali minerali sopratutto per le mucche partorienti). In ordine sparso, le diverse scope
d’erica, di saggina, o di altri cespugli legnosi spontanei, poi forconi e tridenti conficcati nel
fieno, o nell’erba, a secondo delle stagioni. I fiori, i semi e e le foglie caduche del fieno (fio-
ròm) in un mucchietto in un angolo, con la falce e il rastrello (non col martello), poi la gabbia
con i capponi (il padrone doveva controllarne personalmente la crescita), infine il carretto per
trasportare il latte al caseificio.


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pag - 64
L’aluvion a S.Vitoria.
E’ stee dal sinquantun.
Trest ricord, d’un november poch fortunee
che-l destin l’ha riservee
a i paes-intor’n-a-Pò, compres Santa Vitoria.
Chi s’al ricorda a ment e chi-l lèz sui test ‘d’la storia.
S’rà stee una punision per canceler al traci
‘d’na civiltee Romana, tra Puii e la Biliana ?
La s’rà ben steda ‘na coincidensa strana!
al Mer l’era elt, al Po pin a manèta,
al Canalas c-n-al Crostel i minaceven ment’r i cuceven
cun ‘na forsa brutéla per l’enorme presion
c’me’na ciurma ‘d’pirata l’ha fat irusion
quand l’erzen dal Cròstel
in d’la not “misteriosa, “al s’è ròt ai Torion.
Santa Vitoria Santa Vitoria
te asistii silensiosa e impotente al dramma
per la prema volta in d’la storia.
T’è rivee l’acua a la gola, s’è sradichee i’elber,
a s’è impantanee-l cà.
Quand Dio la vruu, è ritornee la calma,
e s’è ritiree l’acua, ma d’la fangheglia e-l pantan,
agh n’era anca c’l’et’r-an.
Cun vos unanime, j’abitant dal paes, j’an dét:
che c-siòm nee, vea det che an g’hom d’ander,
as voiòm su-l manghi e s-dòm da fer,
per onorer la Santa, per canter Vitoria,
per cunterel a la storia.


Era l’anno1951, triste ricordo d’un tragico e sfortunato novembre , che il destino riservò al comprensorio
dei paesi limitrofi al grande fiume, particolarmente S.Vittoria e ai loro abitanti. Qualcuno, pessimista,
pensò addirittura ad una punizione per cancellarne le tracce di una antica civiltà Romana, venuta alla
luce recentemente, anche se vi erano testimonianze precedenti, tra Poviglio e la Biliana e la via d’Este.
Sicuramente è stata una coincidenza strana, anche meteorologicamente, il fatto di trovarsi contempora-
neamente l’alta marea, il Pò di conseguenza alto oltre il livello di guardia e il Crostolo, col Canalazzo suo
immissario, riversavano enormi quantità d’acqua piovana, immagazzinando una spinta e una potenza
tale, che all’altezza dei Torrioni si ruppe (in modo un pò strano) l’argine, poi con una furia da ciurma
piratesca, allagò in poco tempo migliaia di ettari di terreno. S.Vittoria, S.Vittoria, hai assistito silenziosa e
impotente al dramma per la prima volta nella tua storia, dall’alto del tuo campanile, quando fosti immersa
dall’acqua fino alla gola; hai visto sradicare alberi, infangare e crollare case, restando impotente a test’alta
dall’alto della tua nicchia a guardare coi tuoi bei occhioni in silenzio, ascoltando le voci disperate della
gente, i lamenti degli animali e il rumore di quella enorme massa d’acqua e fango avanzare e distruggere
inesorabilmente. Della stessa fatalità, furono testimoni come tè, gli altri Patroni dei paesi limitrofi. Quando
il destino volle, tornò la calma,l’acqua incominciò ad indietreggiare poco a poco, lasciando dietro di sè,
disperazione fame e freddo. Ci vollero anni prima che si normalizzassero le attività produttive e si rico-
strurissero le case, perché gli abitanti decisero di restare nella loro terra. Con tanta volontà e coraggio, si
rimboccarono le maniche ancor prima di chiedere aiuti e solidarietà, per onorare la Santa, per cantare
vittoria, per raccontarlo alla storia.


                                                   pag - 65
pag - 66
La sòca nostrana
Per aver di malgas as doveva
tajerg-al sèmi, plerg-al fòii
e fat l’acord cnal padron,
eren too, finii ‘d-cater su-l formenton.
Dimondi, braciant e partidant
i sercheven in d-i’aziendi ed fer ste contrat.
In mancansa ed la lègna, alora, a fer fogh, as droveva i malgas.
E’ sucès in dal Stansi, a una famea dal post
ment-r i stacheven vea-l fòi
in dal mèz ed na piana
‘d-cateer una sòca nostrana tacheda a la rama
c’la feva-l vòi.
-Mo Mama ! i’an det i putèi g’hom vòia ed tortèi!....,
s’a-tulès’n-un giubèt
g-la logòm denter e la portom sòta-l lèt!-
-Per l’amor ‘d Dio, ha rispost la meder a-i ragas,
an direl gnan sol per schers, sas nacorz al pdron al s-nega i malgas!-
La vòia e la fam a chi temp la, is feven sentir
e, anch s-i saieven ed disobedir,
in un det e un fat con un colp perfèt,
al dé dop, l’era già al sicur sòta-l soo lèt.
- Mama, quand’è c’a tes fee i tortee cnal sufrèt?-
-Eh i tortee ...agh vrè c’la sòca ch’a vò fat laser là!-
-alora, l’è gia in do i’hom dét che a cà,
as siòm andee a torla ‘na matena ‘d bonora,
 i’even paura che un quelch-don la fess fora-.
L’aj, la sigòla e i pomdor ien in d’l’ort,
cnun pistaden ‘d’gras, las-s’rè la so mort;
dai mama, as sià cunset cnal gras?-
-Am cree di penser cnal vostri vòii, oeter ragas:
donch tra coser la sòca fer al sufrèt e dop cos-r i tortee
agh vol più ‘d-na manèla ‘d chi malgas
che a cateri su i san fat tant suder;
e dòp st’inveren quand riva-l frèd
s’a drovia per feruv scalder?.




                                      pag - 67
La zucca nostrana
Per procurarsi i culmi del mais(malgas), si dovevano: tagliare le cime(fiore), le foglie
(bràttee), previo accordo col proprietario del podere. Infine dopo la raccolta delle
pannocchie, si tagliavano, si facevano le fascine (mannelle) e si potevano portare a
casa avendone acquisito il diritto di proprietà.
Molti braccianti agricoli a quei tempi e le famiglie di operai cercavano di fare questi
accordi con le aziende agricole, o con i contadini del luogo, per procurarsi combu-
stibili solidi, in sostituzione della legna, troppo costosa per i loro magri bilanci (più o
meno fino agli anni 50-55).
E’ successo nell’azienda agricola “Stanze”, a S.Bernardino, ad una famiglia del luogo,
mentre appunto staccavano le foglie dai culmi, di trovare nel bel mezzo del campo
di mais una rigogliosa zucca nostrana attaccata alla rama.
Mamma!, hanno esclamato in coro i figli, abbiamo una voglia matta di tortelli, se
nascondessimo la zucca in mezzo ad un indumento e la portassimo sotto il letto, che
ne diresti? Per l’amor di Dio, non dirlo neanche per scherzo, se lo venisse a sapere
il padrone ci negherebbe i malgas.
La voglia di tortelli accompagnata dalla fame di quei tempi, prese il sopravvento e
consci della disobbedienza, fu un tutt’uno il detto e il fatto:Con un colpo perfetto, la
mattina dopo, la zucca giaceva di già sotto il letto.
Passato un pò di tempo, i ragazzi rinnovarono alla mamma quando avrebbe esaudito
il loro desiderio.
-Eh! rispose, ci vorrebbe quella zucca che abbiamo lasciato in campagna-
-Allora guarda sotto il tuo letto, il colpo lo facemmo il mattino dopo dell’avvistamento,
per la paura che qualcuno notandola, ce la portasse via.
Ce li condisci con una battuta di lardo con dentro i pomodori che abbiamo nell’orto?-
-Mi create parecchi pensieri con le vostre voglie, figli miei.
Dunque, tra fare il soffritto, cuocere la zucca poi i tortelli, immaginate quante mannelle
di “malgas” ci vorranno?
Poi quando arriverà l’inverno e farà freddo, cosa useremo per riscaldarci?




                                        pag - 68
Don Luciano P. e-l pit in loterea
Una festa, una segra sensa loterea,
in un paes c-al vel,
“l’è una mnèstra sensa sel”.
Per l’ocasion al noster pret,
l’eva escogitee un sistema segret, suo personel:
“fer vinser quèl a ognun, ma-l prem premi a nison”
“e, a forsa ed rester lè, un pit, l’era dvente-un piton”.
An salteva mai fora, al biglièt dal prem estrat,
l’andeva semper-a di distrat; e al don al rideva!,
ment’ra-l dzeva un Pater e un’Ave Marea,
la perpetua curiosa la ghe dmandeva:
perchè adès rédel Perior, propria Lò che-l nè réd mai?
-tal see che a réd cun j’Angei, adès tes e dagh un tai.
Dòp ed’la mètee dal mes ed Magg,
S.Bernarden, l’è-l noster sant,
a la mèsa, l’è-l moment ‘d cateres insèm, tut quant.
Al gheva prèsia ed finir per dir content che “nison ha vint al “pit”,
a un cert punt d’la liturgea al moment ed-deres la man
per scambier al sègn ‘d-Pace;
l’è steda anca l’ocasion, de scolter la so pepetua:
dal scolten l’ha fat un scat, come s-less ciapee un s-ciaf,
e,”da la Pace è gnu la guèra”,
acsè tra un det e un fat,
l’ha sbatu tut quant per tèra:
l’eva det chi eva vint al prèm:
-s’an n’era mea per mè, al piton al s-rè incòra lè!-.
Voltee vers i soo fedei più ignari, che informee:
-lèè imposebil! l’ha sbrajee, al preton un po sgarbee:
perchè-l biglièt a g-l’ho in cà mè, in d’la supera in dal bufè;
- infati al m’è gnu in man, quand i’ho tot i piat
da parcier per al disner,
ha rispost l’ingenua Clove,
e l’ho mess in mèz a chieter, in dal tregn, là sòta-l s-cer-.
Dal màdoni,
 as-siòm sicur, che, al n’ha mea mai tiree,
ma, s-l-ha ciamee per nòm, un a un, tut quant i sant, da vuder al calendari
cun dent’r-anch S.Antoni,
l’è stee perchè in dal stès moment,
al cateva armes-cee ai fedei un quelch somari.




                                     pag - 69
pag - 70
Quand al dialét l'era 'l pan di povret

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Quand al dialét l'era 'l pan di povret

  • 2. PREMESSA I racconti di questo volume, non sempre corrispondono a fatti realmente accaduti. Alcuni sono frutto della fantasia e del “sentito dire”. Altri ancora veramenti accaduti, sono conditi con un po’ di umorismo personale, tra il serio e il faceto, per stimolarne la lettura. Così dicasi per i nomi e soprannomi dei personaggi. Chiedo scusa se mai qualcuno si identifica in essi. Il mio intento e solo quello di raccontare il con- tenuto di un segmento dell’anello che tiene unito il presente al passato nella Bassa Reggiana. Ciò che è accaduto nei cinquant’anni a partire dal primo quarto dopo il 1900. L’autore pag - 2
  • 3. Ho conosciuto Sergio Subazzoli nel 1995, qualche mese dopo la mia elezione a sindaco di Novellara. Già in quel primo incontro compresi che in Sergio c’era un fuoco interiore che ardeva e anelava a testimoniare e tramandare frammenti di memoria, tradizioni, passioni, conoscenze e abilità intellettive e manuali e, ancor più, a favorire un modo di stare insieme che l’individualismo d’oggi è lungi dall’incoraggiare, stimolare, rendere autentico. Successivamen- te parlammo di progetti, interventi per ravvivare San Bernardino e accennò all’intenzione di pubblicare un libretto di poesie dialettali che aveva scritto. In Sergio Subazzoli ho conosciuto una persona ricca di valori, entusiasmo, generosità, voglia di fare, umanità. Ho scoperto una persona straordinariamen- te modesta e di grande cultura. Un uomo dotato di una straordinaria abilità manuale che esprime arte e con un cuore, carico di sentimenti e passioni, che rendono i suoi scritti lievi, sensibili, delicati. Ho trovato in Sergio Subazzoli un amico e insieme condividiamo la respon- sabilità e il privilegio di essere al servizio della nostra comunità. Sergio sente molto il ruolo di consigliere comunale e lo interpreta bene, con dedizione, rispetto e la pazienza di uno che non si sente arrivato, anche se è un sicuro riferimento per tanti di noi. Alcuni dei progetti che avevamo pensato si sono realizzati: l’atelier artistico, la scuola di scultura, la pubblicazione di questo libretto; altri sono ancora da condurre in porto. Il lavoro non ti spaventa e le capacità non ti difettano. Perciò caro Sergio, complimenti per questo bel volumetto e grazie per il tuo saper volare alto, anche se il brevetto di pilota l’anagrafe (ma solo quella) non ti consente di rinnovarlo. Con affetto, amicizia e stima, Sergio Calzari Sindaco di Novellara pag - 3
  • 4. I sentimenti dell’uomo nella poesia E’ una parola che sta in poco posto ma racchiude un valore immenso, in quanto ha la capacità di rappresentare i sentimenti dell’uomo. Il poeta è colui che attraverso i suoi componimenti sa esprimere vicende o ricordi vissuti di sé dei suoi stati d’animo e anche delle persone a lui più vicine e care. Leggendo così per caso alcune poesia di Subazzoli, tipico cittadino Novellarese, posso definirlo un poeta autodidatta, attraverso la sua semplicità, verità e naturalezza ha saputo rielaborare i ricordi della sua giovinezza di miseria e di povertà, ma anche di vita contemporanea caotica e rumoreggiante. Traspare nei suoi versi una profonda ricchezza di valori umani e di stati d’animo in cui oggi non ci riconosciamo, perché sono svaniti, sono cambiati i tempi e i modi di pensare, prevale l’indifferenza, il potere e l’egoismo ed è scomparso il buon senso. Il poeta nella raccolta delle sue opere ha preso in esame i ritratti dei personaggi conosciuti dai Novellaresi, ma sopratutto dai S.Bernardinesi, per il loro aspetto fisi- co, dette macchiette o per l’attività che svolgono, tipico l’ambulante o al scarpolein, oppure quadri riguardanti certe casate familiari numerose o benestanti. Descrive i loro profili e i loro comportamenti in modo così verosimile che le rende riconoscibili a tutti quelli che hanno avuto l’occasione di conoscerle anche solo per sentito dire. I miei complimenti e auguri. Sergio scriva ancora. Ins. Maria Codeluppi Rosselli *** *** *** Bene ha detto Bolondi: uomo semplice, curioso sempre di sapere, buono, amante della natura e della vita. Scultore naif ma uomo del suo tempo e poeta. Un vero poeta, ho trovato versi in un suo plico, degni di stare in un volume di Leo- pardi. Non li conoscevo, credevo di sapere tutto di lui, invece ho avuto la conferma di quanto poco si conoscono gli uomini. Sono felice e onorato di conoscere Subazzoli, qui nel silenzio del mio giardino, mentre leggo le sue poesie dialettali, veri peana d’un tempo passato, sento aleggiare attorno il suo pensiero, il suo desiderio di lasciare agli uomini, l’Orma del suo passo terreno, il suo amore per tutto quanto lo circonda e, mi pare di vederlo, a spalle insaccate scivolare via timido e silenzioso. Leggere le poesie di Sergio fa bene al cuore. prof. Vito Guatteri pag - 4
  • 5. Ringraziamenti Agli autori dei disegni compresi in questo volume Sara Bendin Adriana Pecoraro Valerio Paglia Lorenzo Davoli Marco Portioli Denis Riccardi Mario Pavesi Agli sponsors Tutto per l’inballo - S.Giacomo Guastalla Bonetti pubblicità di Bonetti Lorenzo e C. snc (RE) Palmieri & C. Arredamenti - Novellara Poliglass di Pavarini Domenico - Novellara pag - 5
  • 6. I putèi cech ed ier e d’incoo Pogee su du cavalèt e d’i’asi, Proverbio: Brot in fasa, bel in piasa. lighee come salam da cap a pee col fasi e infrucee in dal portinfant. Da comodena e da parapèt doo scrani spaiedi ed fianch -al lèt, cun al bochél e-l basiot per i bisògn d’la not. I s’in sempr-arcmandee: Se a vrii ch’in d-venten mea goben, chi resten drét e mea sgavlee, da la testa ai pee fasei per ben. ...Adès,per tgnir avirt al gambi ben not e dé un panolen, per al cul e al brusor de schina, pomata e vaselina, per al fiee cativ un digestiv e per mea cucer tant un bel purgant. Però saveri alimenter s’fà sensa fasceri e sensa tgniri a lèt, i cumimcen prest a-nder e va vea tant difèt . Rispèt a-lora scapés cl’è ammei adès: S’à prés torner putèl l-am tornaré-n-der ben listès. Poggiati su due cavalletti con un piano formato da delle tavole di legno, fasciati dal collo fino alla punta dei piedi, come mummie, con delle apposite striscie o lembi di stoffa, poi infilati nel porta infante. Due comodine e due sedie spagliate poste di fianco al letto fungevano da arredo e da protezione con sopra i triangoli di stoffa di canapa (tripins) e sotto il pitale e la bacinella per i bisogni fisiologici. Gli anziani, alle giovani madri, raccomandavano sempre di fasciarli per bene da “capo a piedi”, come ingessati, per scongiurare al nascituro il pericolo di diventare gibboso, o che gli arti si svergolassero. Ora, per tenere la gambine divaricate, notte e giorno un morbido pannolino, per il rossore della pelle pomata o vaselina, se ha l’alito cattivo un digestivo, quand’è stitico, un blando purgantino. Saperli alimentare correttamente crescono robusti senza peri- coli di deformazioni, non si fasciano più (era una credenza errata dovuta a carenza vitaminica), possono stare eretti e tentare di camminare presto . Rispetto ad allora, si capisce che è migliore l’attuale metodo e conoscenza. Personalmente se potessi ritornare giovane, riaccetterei in cambio, tale sacrificio subito. pag - 6
  • 7. Richin al straser Filastrocca che usava recitare a voce alta quando arrivava in prossimità delle case, per attirare l’attenzione soprattutto della “resdora”: Passafini , passaforti, passanastri, filiforti coloratii, fazzoletti da naso, da culo, da notte ....donne, donne ghe-l cinciaiolooo. Al gleva semper per tot ‘na bona parola Epigramma dello straccivendolo. al scarseva, al zugheva, al canteva, Chi potrà mai capire cosa costasse o-al cunteva ‘na fola. a costui, il ridere e il suo far ridere. Però naseva un dòbi che-l-feva penser; che-l so reder, o ‘l-fer reder recitee per mester , Dio sol sa col cagh doveva coster . A la matena-l partiva prest, as deva da fer, per vender, cumprer, barater, ma-l dop mesdé, pian pianen, al cambieva umor, per aver abusee ed trop quarten ‘d-ven. In dal sot sira al torneva indre zaquee a pansa in su, sul cianfrusagli catedi su. Quacee la facia da un capèl ‘d-paia, quasi al svergognés come-l fos ‘na canaia: Sighevel, pensevel, dormivel ?, ma !, sol lo e-l Pedreteren i saieven dal soo inferen ! . Forse-l fogheva i ricord d’un brot spavent, quand per dover vers la Patria, in dal stès moment la pers una gamba e per poch anch un occ. Decoree con un tetol quater paroli e promès ‘na pension: “na vera miseria ‘d-soportasion“. Forse-l penseva a la so cavalena ch-la steva impee apene apena, impicheda-l stanghi dai finiment; l’era tresta e megra stleda, senseter anca lee la gheva a dos quel, la feva tri pas dentr-a-un quadrèl. Al dover ubidiensa vers al padron, pian pianen istintiva con un dietrofront la torneva vers cà , pò las fermeva davanti-l porton, silensiosa pasiinta cun i’occ strech come s-la fos in meditasion, squasand sol la còva ,per smarir i moscon . Per al ripos, la speteva-l so turen : la speteva Richin cas liberes dai penser, o dai fom dal ven, dòp finalment al gh-deva la mola e per le vreva dir zaqueres in d’la paieda in dal so stalen. pag - 7
  • 8. Enrico lo straccivendolo L’aveva sempre una buona parola, scherzava, rideva e giocherellava con tutti. Ma da un esame di coscienza faceva pensare che il suo sorriso e il suo far ridere reci- tati per professione sicuramente avevano un costo, visto che affogava poi il tutto con parecchi “quartini” di vino. Al mattino di buon’ora si dava da fare per vendere barattare o comprare, al pomeriggio invece, al rientro, si distendeva supino, sugli stracci raccolti, nascondendosi la faccia con un vecchio e logoro cappello di paglia. Piangeva, pensava o dormiva ?, Solo lui e il Padreterno sapevano. Forse riaffiorava alla mente il ricordo di un brutto momento quando per dovere verso la patria perse una gamba e per poco anche un’occhio, liquidato poi con un titolo a quattro parole e la promessa di una pensione adeguata. Forse pensava anche alla sua cavallina che nel trainare il carretto si reggeva in piedi appena appena appesa alle stanghe dai finimenti, perchè era triste, magra e malandata, sicuramente affetta da un qualcosa che durante il cammino, la obbligava a fare quattro passi in un mattone, (In lingua Italiana tale espressione ha poco senso, però in dialetto è tipico e molto espressiva, soprattutto per raccontare, anche in modo folkloristico, di chi accorcia il passo). Fedele ed ubbidiente al padrone, al pomeriggio, alla solita ora, partiva istintivamente con un dietro front e si avviava verso casa. Giuntaci poi, si fermava davanti al portone della stalla, silenziosa e paziente, con gli occhi chiusi, come fosse in meditazione, agitando solamente la coda ogni tanto per liberarsi dagli insetti parassiti. Aspettava che Enrico si liberasse da i pensieri ,o dai fumi del vino per poter finalmente entrare nel suo ricovero per il meritato riposo, sul giaciglio di paglia. pag - 8
  • 9. Al carsedi in dal caradon Cun la còv-alveda Proverbio: la pans-adree tèra L’è ammei averegh la bava in spicolon, al breghi ròti in dal cul, ste povri vachini che al cul ròt in dal breghi. seguiven in silensi al so padron, cun in man un soghèt e in cletr-un baston. Davanti al tireva come-l-vrés strangleri a cul indree lo al cuntinuev-a ciaméri. Sul-let dal car, ch’al feva da berca, sè e nò al gheva tre spani d’erba. Doo carsedi profondi i gneven scolpidi in mesa a la melma, come un tember: un marchio ed-la fadiga in dal caradon. Incora impresi in di ricord ed la memoria, perchè cosi veri ed chi ha lavore i camp sensa creer storia, festa e bondé cun poch o gnint a volti anch content, cun ‘na mis-ra pega, da l’alvéda a la caschéda. Le impronte delle ruote sulla carraia Coda in alto, pancia a terra, lingua fuori penzoloni, quelle povere bovine, seguivano in silenzio il loro padrone col canapo in una mano e nell’altra il bastone davanti a loro, aizzandole, a ritroso, con un movimento di trazione quasi volesse strangolarle. Le ruote sprofondavano nel fango fino all’assale. Nonostante trasportasse una minima quantità d’erba, il letto del carro che faceva da barca, lasciava dietro di sè, due solchi profondi come segno del marchio della fatica sulla carraia del povero lavoratore dei campi mal retribuito, che in alcuni momenti, sembrava persino felice del duro lavoro, giorno dopo giorno dall’alba al tramonto. pag - 9
  • 11. Al scarpolen -’d-na volta Pogee a la rinfusa in -d’na casèta sul portapach ‘d la biciclèta la lesna, la pegla, col spegh, al coram e di toch ed pèl, i ciold, al pe-d-fèr e-l martèl; un brev artigian, ch’al loteva per viver, p’r-un toch ed pan. Al justeva i sandei, al feva-l-scherpi, al soleva i troclon, l’er’un artesta ed còi bon da bon!, l’era svelt e sicur, cun al man l’era espert, al c-saieva fer: come-l fus ‘dree zugher. Noeter intoren al mireven e ascolteven i proverbi, al sirudèli e al notessji: sia bròti che bèli. L’andeva da tòti in ogni cà, come feva-l barber al straser, al sert al frera, al marangon al polarol, e al marser, jeren i nost’r’orghen d’informasion, perchè ai temp d’alora.... al giornel e la radio a gh-l’eva sol un quelch-don. Il calzolaio di una volta La lesina la pece e tanti altri attrezzi, come lo spago il cuoio, pezzetti di pelle, i chiodi il piede di ferro e un martello adagiati alla rinfusa, in un’apposita cassetta appoggiata sul portapacchi della bicicletta. Gran brava persona, un vero artigiano,che lottava giorno dopo giorno, per vivere, per un pezzo di pane. Aggiustava sandali, faceva le scarpe, risuolava gli zoccoli e lo sapeva fare con mano esperta come stesse giocando, mentre noi tutt’intorno incuriositi guardavamo e ascoltavamo le sirudelle (specie di cantilene di detti popolari in rima e non sempre), i proverbi dei vecchi e le ultime notizie, sia brutte che belle. Andava da tutti, in tutte le case. Così facevano lo straccivendolo il pollivendolo, e l’ambulante di stoffe. In mancanza della radio, dei giornali e della televisione, erano gli unici organi d’informazione. pag - 11
  • 13. L’arlòi dal contaden (Da un racconto fattomi dal sig. Umberto Sala) A s’era servitor a cà d’un contaden Proverbio: c’al gheva un somaren An ghè badilas ch’al nè che quand l’era mesdé, al-s-meteva a ragner gabia-l soo mandgas. e dop al so segnel, andev-na cà a disner. A dir la veritee a mesdé in punt, an-ch-siom pò mei andee, ma a sentir la gent l’era tant inteligent che col chi d-zeven lor mè-l tuleva tut per bon: a s’era sol al servitor. Un bel gioren è sucès che, tira e bestira pasee-’n’ora dop ed cl’etra, è sopragiunt la sira e-’n-s’è mia sentii mesdé. Un schers acsè, a me nò vè somaron, t’al ve po a fer al to padron ! Quand sun rivee a cà ormai s-ghevdeva piò; i’ho unt i moss al “ pèndol” e g’ho carghee la mola c-n-un manegh ‘d-palpignan, a sun andee a usta, acsè, un tant al bras, ma-sved c’à gò ciapee, l’ha cumincee a ragner cativ come un danee E’ arive-l-padron, l’ha vru saver c-sè stee e-l marés rimproveree e det dal mat per còl ch’i’ho fat, alora-a-g-ho rispost: com-l’ha sonee mesdé al n’era mia in dal contrat!. L’orologio del contadino Lavoravo come servitore a casa d’un contadino che possedeve un somaro che quand’era mezzogiorno si metteva a ragliare dopo di che si andava a pranzo. Ad onor del vero a mezzogiorno proprio non ci siamo mai andati, ma a parer suo era così intelligente che non osavo contraddirlo, tanto ero solamente il servitore.....Un giorno eravamo nei campi ed è successo che passarono le ore e giunse inesorabil- mente sera senza sentire quel “mezzogiorno”. “Uno scherzo così non dovevi farlo caro il mio somarone, lo fai poi al tuo padrone”. Quando arrivammo a casa ormai non ci si vedeva più. Sono andato nel suo ripostiglio con un salice in mano, poi ho cominciato a bastonare avanti e indietro simulando la carica della molla dell’orologio per rinnovargli la memoria, oleandogli gli ingranaggi. Si vede che ho fatto centro, ha cominciato a ragliare come un dannato, dopo di che si è presentato il titolare a chiedermi spiegazioni, e a rimproverarmi. Mi qualificò come matto, allora vuotai il sacco e gli risposi che come s’era comportato non era scritto nel contratto. pag - 13
  • 15. La gòsa Un gioren imprecisee, Proverbio: l’acua la tèra e l’aria ‘an forme-l mond, Chi vive sperando, ian cumincee, i sin cree, è nee la véta. muore...cantando? ...S-l’è stee per ches, n-al saròm mai. Tut è precis, fedel, immobil, pasient: a speter c-pasa-l temp e creer d’ievent: un fiol, un frut, un fior da doner con amor: acsè è ste decis. S’ral propria stee un ches? S-a stacòm ‘na foia o-l-frut da un ram, cla gòsa cas-forma come una lacrima, in dò l’òm tot vea, chi sà sl’è dolor gioia o-’d-nostalgea? l’è come priver una meder dal frut d’un at d’amor, alora el un chez? o el c’mè is-dizen, i predicator: un segn dal Creator. Per quant temp as spol ster sensa saver? e al trop saver vinel dabòn per nozer?. Curiosità: degh c-am piasrè ander insèma un pianeta talment luntan, anch di milion d’an, per oserver l’ariv d’jimmagini riflèsi da la “tèra”ai temp di dinosauri, di noster antenati, per vèder com’er’n-al dòni e i’òm, o, se eren tut un e si magnev’n-i pòm: ma gher’n-i pòm?, o, ela una fola! E’ tut perfèt, tut fat ben, è mai posebil che un gioren qualsiasi, un’atim dòp ed la véta ach sea più gnint?, perchè alora tanta precision!; dòp, vedròmia dabon i dinosauri?, intant a cumincc a spereregh!. La goccia Un giorno imprecisato, l’acqua, la terra e l’aria, si sono creati; hanno incominciato a formare il mondo, ed è nata la vita: se fu un caso, non lo sapremo mai. Tutto è preciso, immobile, pazientemente fedele in attesa che passi il tempo, che si creino eventi: un figlio, un frutto, un fiore da donare con amore, così fu deciso. Sarà proprio stato un caso?, se togliamo da un ramo una foglia o un frutto, la goccia che si formerà come una lacrima, sarà di gioia, di dolore o di nastalgia? Sarebbe come privare una mamma dal frutto d’un atto d’amore!. Allora il pensiero è sempre sulla casualità, o sarà come dicono i predicatori, un segno del Creatore? Per quanto tempo dovremo restare all’oscuro di tutto, senza sapere e il troppo sapere verrà poi veramente per nuocere? Curiosità: quanto mi piacerebbe arrivare in un attimo su di un pianeta distante milioni di anni luce per osservare l’arrivo delle immagini riflesse dalla terra quando ancora vivevano i dinosauri; i nostri antenati, com’erano le donne e gli uomini, o se erano tutt’uno e se mangiavano le mele: ma c’erano le mele? O è soltanto una bufala? Tutto a proposito, tutto è perfetto, è mai possibile che un giorno qualsiasi per noi, un’attimo dopo sia buio completo, non esista più vita? Perché allora tanta precisio- ne?. Che sia l’opportunità di rivedere poi i dinosauri? Personalmente, incomincio a sperare!... pag - 15
  • 17. S’a fus-ste un’om I’ho vest ‘na baionèta ed cò da un sciop, una ghegna da mel lavee e do man sporchi denter a una divisa nigra. I’ho vest una facia d’Angelo personera dal fèr puntee cuntr-a-la pansa al sètim mes ed gravidansa: D’istinto i’ho reagi e sun sbalsee inséma-un car per saltergh-ados: ma sun armes a bras avirti immobile, paralisee. Nisun l’immagina quant i’ho desideree cul moment lè èser ste un’om ! Fin d’alora l’era già me sorèla e-l vintidu ‘d’lui la cumpés i’an. Ma, s’à fus-ste un’om, s’rel ste listès al so complean? pag - 17
  • 19. Se fossi stato uomo Ho visto una baionetta innestata a un fucile, imbracciato da una faccia da lavativo con due mani sporche dentro una divisa nera. Ho visto un viso d’Angelo prigioniera del ferro premuto contro il grembo al settimo mese di gravidanza. D’istinto scattai e salii su un carro per saltargli addosso, ma rimasi immobile a braccia aperte come paralizzato. Nessuno immagina quanto avrei voluto essere stato un’uomo in quel momento. Fin d’allora era gia mia sorella e il ventidue Luglio è il suo compleanno. Ma se fossi stato un uomo sarebbe stato ugualmente il suo compleanno? Questo racconto purtroppo è realmente accaduto. Era l’anno 1944 ai primi di mag- gio, non avevo ancora compiuto dieci anni. Facevo parte di una famiglia numerosa di poveri contadini della Bassa Reggiana, per l’esattezza diciannove in tutto. Sedici presenti tra donne bambini e la nonna vecchia, l’unico uomo mio padre. Dei miei zii, al fronte in guerra chissà dove, non avevamo notizie. Una mattina sentimmo arrivare nel cortile di casa nostra, il carrozzone delle brigate nere in cerca di partigiani. Quando bussarono, si decise di mandare avanti mia madre essendo incinta al settimo mese speranzosi di clemenza, visto il suo stato. Fu un miracolo che non le abbiano sparato o affondata la baionetta nella pancia, come era loro abitudine, lo fu anche perchè ero ancora un bambino, altrimenti le cose sarebbero andate diversamente.Questo racconto è la pura verità di vita vissuta che ha lasciato un segno profondo nel mio io e che ancora a distanza di sessant’anni, sembra stato ieri. Conservo tutt’ora un odio spietato verso quegli individui. pag - 19
  • 20. La lunga notte del 23/04/1945 Al man in elta pezi c-mel sel, i pee deschelsa i-sfurmigheven dal mel, i-occ, eren stòff, ma spalanchee e cunt-ra-la gola un sciop puntee. Al lus ‘d-na candela al feva da spècc in d’la cros uncineda e cuntr-a l’elmèt. -O te, o me al va melament ! -, l’è ste-l-mee penser per tota la not fisand al tognèt armee fin ai dent. C-n- un scat fulmineo, g’ho branche-l- canalòs: “Da perzoner sun d-ventee carcerier” e j’ho spetee impasient col s-ciop in man, c-pasa la not e ch’a riva al d-man. Spunteva l’elba quand s’è senti in dal cortil un stridor d-freno, fermer un motor ciocher dal sportèli, di pas svelt sensa cadensa, che in d’la pista, in-n’eren nè tedesch ne fasesta, a l’improvis da un megafono t-gnu strech in man un c-sè-r-cmandeva in perfèt Italian: -Tedeschi e fasisti arrendetevi, siete circondati-, min sun res cunt dal perecol scapee ment-r-a termeva emosionee content finalment e sicur ed vèder al sol anch ed-man, quand è gnu in cà i valoros Partigian. “Questo racconto è veramente accaduto a mio papà la notte del 23-04-1945, quando i nazifascisti ci fecero evacuare tutti di notte da casa nostra, in mezzo ai campi spa- randoci poi alle spalle, trattenendo solo lui come ostaggio. Dal suo racconto l’incubo finì all’alba quando arrivarono fortunatamente i valorosi Partigiani ed arrestarono il maggiore che teneva in ostaggio mio padre, che poi divenne suo prigioniero approf- fittando del fatto che tutti gli altri si erano addormentati ubriachi e radunati in un’altra sala attigua. La paura che arrivassero dei loro rinforzi passò, quando, dopo un’attimo di smarrimento ebbe la certezza che fortunatamente erano arrivati i liberatori”. La lunga notte del 23/04/1945 Le mani in alto eran di piombo coi piedi ignudi dolenti e intorpiditi. Era ormai notte e un foro nero puntato su di me, sempre pronto a sparger morte, mentre un vetro tondo portato da un mostro con una divisa sanguinaria, facevami specchio del lume riflesso da una candela agli occhi stanchi e impauriti. La lunga attesa m’improvvisò serpe, poi colpii da prigionier fui poi guardiano, poi venne l’alba. Ruppesi il silenzio dal rombo di un motore e tremavo di paura seppur col “freddo ferro” stretto fra le mani. Fui libero poi finalmente, grazie all’arrivo dei valorosi Partigiani. Era l’alba del 23-aprile-1945 pag - 20
  • 22. Don Luciano Pavesi Dal gran c’l’era povrèt, ma povrèt cmè l’ai, Non è un proverbio. al parlev-in dialèt, in italian quasi mai. Mentre celebrava la S.Messa, Nee in dal mantuan ma visuu in d-l’arzan, si voltava verso i fedeli, e per lò-l-noster badil al s-ciameva pala, conoscendoli bene, diceva: cmè dis-n a S.Roch e còi ed Guastala. Elvira di fior, Elvira dal buter, La mèsa, ben o mel, al la d-zev-in laten, fem al piaser ed taser. a la so manera, Don Luciano Paves prior d-S.Bernarden e d’la Maestee d’la Rivera. Onest come al sol, semplice a la bona; bon ed dir e bon d-fer de dmander e scrocher, bon d-pergher ed-doner, a la cesa a-i povrèt e a j-inferm’in un lèt. S-al ciameven “don melta” per la còpa-e-i-caii ch’al ghev’in dal man, an vreva mea dir ch’al fus un melnètt, l’andev-a test’elta, l’era piu che pulii, sincer s-cèt e perfètt. (In dal so ches valeva al proverbi: non è l’abito che fa il monaco). Al soo guardaroba, l’era ed sol do vesti: una nova p’r-al festi e p’r-i gior-important; una vècia per l’ort e p’r-al-lavor di camp, che a forsa ed pèsi su pèsi, la pareva una quert’imbutida e la steva impee da per lee, come un’armadura antiga. Però còi ch’entreva per vèder la cesa, s’incanteven tot quant, dal gran cl’era bèla, pulida-ordineda, pina d’afresch,de sculturi, di queder ed dipint di noster sant. L’insèm ed l’altari, meraviglios, pregee, ed mermel d-Verona, finement progetee, un mocc ‘d-candelabri, intaiee e doree, al coro masécc, tot fat in nos e un’orghen a mantice, antigh, cun tanti voz. Lo l-d-zeva semper “pan al pan e ven al ven”. D’zòm cl’era grès, poch rafinee però al Pret al la saieva fer, c’mè-l-sajeva c’mes-feva a predicher, anch se a sembreva ch’el fés più fadiga can-nè a lavorer. pag - 22
  • 23. Don Luciano Pavesi Talmente era povero, (povrèt c’mè l’ai) si pensava che parlasse in dialetto appunto per quello. In italiano, difficilmente lo si sentiva dialogare. Nativo del Mantovano, visse nel Reggiano. Quello che per noi si chiama badile, per lui è la pala, come dicono a Guastalla e dintorni perché ne risentono già, per ragioni di vicinato, della cadenza Mantovana. Il rito della Santa Messa, in un modo tutto suo, la celebrava in latino. Don Luciano Pavesi, priore di S.Bernardino e della Maestà della tenuta Riviera. One- sto come il sole, semplice, alla buona, conscio del dire e nel fare, coraggioso nel chiedere e nell’elemosinare per poi donarlo ai poveri e ai bisognosi. Se bonariamente fu chiamato “don melta”, per le ragadi e i calli che abbondavano nelle sue mani e i vestiti sdrucidi, non voleva assolutamente dire che fosse una persona inaffidabile o sporcacciona, tutt’altro. Per questo poteva andarne fiero e a testa alta ovunque e dovunque. Era più che pulito, schietto, sincero e perfetto. Nel suo caso vale proprio il proverbio “non è l’abito che fa il monaco”. Il suo guardaroba, constava di sole due tonache: una nuova per le feste, i funerali e per i giorni più importanti, l’altra, per l’orto e per i lavori dei campi, che a forza di toppe su toppe, sembrava una coperta imbottita se non fosse stata nera. Si reggeva in piedi da sola, come un’armatura antica. Però chi entrava per visitare la chiesa, rimaneva incantato, talmente era bella ordinata pulita e per la buona conoscenza artistica nella scelta delle sculture sacre, dei dipinti e degli affreschi murali, inerenti i nostri Santi. L’insieme dell’altare maggiore era in marmo pregiato, finemente progettato e costruito dalla ditta Adani di Correggio nel secondo quarto del secolo in corso.I candelabri sapientemente intagliati e dorati; il coro in noce massiccio, un organo a mantice con tante voci. Diceva sempre “pane al pane e vino al vino”, in modo grossolano, apparentemente poco raffinato, però sull’operato non vi erano dubbi, anche se sembrava che si affaticasse meno a lavorare che ad officiare la S.Messa. pag - 23
  • 24. L’om e i sentiment. Al mond, al cambia, continuament Proverbio: e come al stagion, cambia anch la gent, Al buzèi, i gan al gambi curti. preval l’egoismo, e sparès al bon sens. Còi svinant e-i colega, l’è semp’r-una bega, per i’amigh e-i parent, an ghè più temp; nison più canta, as-siòm semp’r-in-ascolt; cronaca, percentueli, publicitee e musica, semper più fort col volòm tut alsee. Ho semper savu che:”La musica è l’arte dei suoni coi quali si esprimono i diversi sentimenti dell’uomo”. Come las sent, lè un martler da protesta, oh!, l’è un dìret sacrosant, ma fort acsè, lam-fà mel a i’orècc, o sunia mè gnu trop vècc! Al noti musicheli, in s-pianten mea in dal servèl come un ciold in dal lègn cun un martèl. Per còl c-pol capir la me ment, a mè d-mand: in do ini stè sentiment, e la melodea; do paroli ben mési l’è vera, chi fan poesea, ma, poesea, a la fa anch do, déti ben: -Andee a cagher!-cun cal mod lè’d-protester. Al breghi s-cianchi in di snocc, anfibi e stivai anch d’istee, i cavii coloree, i’anèi e i’urcin in di lobi, in dal cul e in dal boghi dal nez e in do sdòm di bez, insèm ai tatuagg, adès ch’i van ‘d-moda, lasòmi paser, dato che al mond al nè spol: nè fermer nè cambier. Quand a g-n’ho pin al scatli, a smadòn’in silensi e me sfogh da per mè e pò pens ai mirachei. I mirachei, ien cosi impensedi, come: Pio c-sangona, Maria c’la siga un gob cas sdresa, o un plee cun la riga. Se a la fin a sun trest e inveci ‘d reder am vin da sigher, l’invit ed prèma, g-al tor’n-a r-nòver. pag - 24
  • 26. Il mondo cambia continuamente come le stagioni come noi, “gente”; prevale l’egoismo e scompare il buon senso. Coi vicini di casa si è spesso in disaccordo, nascono delle beghe, per gli amici e i parenti non c’è ormai più tempo; nessuno più canta, siamo spesso in ascolto di percentuali, cronaca, pubblicità, poi musica sempre più forte a tutto volume. E’ risaputo che la musica è l’arte dei suoni coi quali si esprimono i di- versi sentimenti dell’uomo. Come la si ascolta ora è un martellare continuo, a guisa di protesta. Sarebbe un sacrosanto diritto di espressione, in tal caso, ma così forte mi dolgono le orecchie, a meno che non sia io così noioso, perchè troppo vecchio. Credo però che le note musicali non si debbano conficcare nel cervello come un chiodo nel legno col martello. Nei miei limiti mi chiedo: ma dove sono i sentimenti e la melodia? Due paroline messe furbescamente, potrebbero anche diventare poesia; ma anche due ben dette a volte non guastano: “andate a cagare col vostro modo di protestare”. I pantaloni lacerati, gli anfibi o gli stivaletti anche d’estate, i capelli variegati, anelli e orecchini ovunque, come alberi di Natale assieme ai tatuaggi ora che vanno di moda. Lasciamo perdere, visto che il mondo non si può nè cambiare nè fermare. Quando sono saturo, brontolo da solo, mi sfogo in un “fai da tè”, poi penso ai miracoli. Sono dei fatti e delle fantasie impensate, come per esempio le stigmati di Padre Pio, la Madonnina che lacrima, il sangue di S.Gennaro che si liquefà, un gibboso che si rad- drizza, o,..... un calvo con la riga al centro. Se poi alla fine della carellata non riesco a vincere il malcontento, invece di arrabbiarmi, li rimando dove ho detto prima e buonanotte suonatore, tanto, l’alba del “domani”, arriva lo stesso. pag - 26
  • 27. Al molen abandonee La montagna l’ha donee-l sas per fer la mola, al bosch al lègn pregee, l’hom al l’ha costrui e-l fiom al l’ha ospitee. pover al me vècc molen abandonee ! L’acua ,come un arciam la cuntenua incòra come alora la so corsa silensiosa, ma l’hom al t’ha dét basta. guai a te stet mov ! e te fedel, te spèt cal t-toga vea al baston dal rod. Dop d’aver dee la posibilitee ‘d-nutrires a diversi generasion, dop èser stee anch tant sfrutee, vin a cateret sol un quelch viandant per scaper via spaventee dal trop silensi rot din tant in tant da un quelch scricchiolio, come un veliero a la deriva. M-ricord incòra l’enorme roda girer come controcorent, quasi la vres fer la cunta d-l’acua ‘ch-pasa, come fa-l pastor col pègri, quasi la vrés risalir al fiòm, come fa i salmon. Come s-l’inalsès al cel al peli in segn-d-salot per grasia ricevuda. Te resistii al buferi ai teremot, a la solitodin, resest incòra vecchio mio e te sree ricompensee e porte in una piasa o in un museo ed ‘na quelch sitee come paladino e pioniere d’un’antiga civiltee. pag - 27
  • 29. Il mulino abbandonato La montagna, ha donato il sasso per far la macina, il bosco,il legno pregiato, l’uomo lo ha costruito e il fiume lo ha ospitato. Povero il mio vecchio mulino abbandonato. L’acqua,come un richiamo continua ancora come allora la sua corsa silenziosa, ma l’uomo ti ha detto basta, guai a te se ti muovi e te fedele sei li che aspetti ancora che ti tolga i bastoni dalle ruote. Dopo aver dato la possibilità di nutrirsi a diverse generazioni e dopo essere anche stato tanto sfruttato, viene a trovarti qualche girovago per scappare poi,dopo poco, spaventato dal troppo silenzio, rotto solamente da qualche scricchiolio come fa un veliero alla deriva. Mi ricordo ancora l’enorme ruota girare come controcorrente, quasi volesse risalire il fiume come fanno i salmoni, quasi volesse far la conta dell’acqua che passa, come fanno i pastori con le pecore, come se innalzasse al cielo le pale in segno di saluto per grazia ricevuta. Hai resistito alle bufere, ai terremoti e alla solitudine, resisti ancora vecchio mio e ne sarai ricompensato e portato su una piazza, o in un museo di una qualsiasi città, come paladino e pioniere di un’antica civiltà. pag - 29
  • 30. Al mondeni ‘d S.Vitoria (acua ris e la so storia) (Dopo trent’anni, le mondine di S.Vittoria sono tornate a visitare le località dove erano state a lavorare e a sgobbare nelle risaie piemontesi. Il 7- Maggio 1989, alle sei in punto sono partite con un pulmann dal piazzale antistante la Coop. della frazione, alla volta di S.Germano, Salasco, Selve, Capriasco, passando dalla stazione ferroviaria di Olcenengo, proseguendo poi per fare visita e accendere una candelina votiva alla” Madonna della Fontana”. Appena partite, era già atmosfera d’allora sulla corriera: con i canti tradizionali e con le imitazioni dei personaggi più significativi che si misero in luce a quei tempi. Arrivati sul posto, cappelli di paglia in testa, proprio come allora, aggiustati con una sola mossa, segno evidente di una precedente esperienza vissuta, golf sui fianchi annodati sul davanti e a chi i fianchi erano scomparsi da tempo, sulle spalle con le maniche annodate sotto il mento, a mò di cravatta. Poi con la fantasia, l’immaginazione e la memoria sono scese metaforicamente in acqua. Facevo parte anch’io della bella comitiva, e quello che seguirà nel racconto non sempre in rima, è stata la mia impressione ,sentendo i loro discorsi e osservandone le mosse, gli sguardi, le impressioni e la mimica, che nemmeno i veri attori possiedono. I’arsnein priv ed geometrea i feven da cornis intorn-a l’acua con i soo incros a fantasea. Acua a vesta d’occ, a volti crèspa pr-al vent ch-andeva a sira, noios e insistent. Acua a spècc da fer baler la vècia pr-i ragg d’un sol sfacee e un cel pulii, da vèd-gh’inà ‘n’eternitee. Al silensi tot intoren, la monotonea, l’era ròt di tant in tant, da un quelch oslen che spaventee-’l voleva vea. Sòt-una frunt rugosa, i’occ mès saree per mett’r-a fogh la vésta, col guerda fés, come incantee, i v-deven tut c’mè alora: l’identichit ed-la so storia: col ch’an ghera d-nans a iocc, g-al zunteva la memoria. Zò in d-l’acua fin ai snocc, sfondee i pee in dal pantan, coi vistii tachee a-i galon e-l puidi ai dii dal man. I segn dal zov portee ados, i’eren in pert ricompensee, l’era-l fil c-tgneva lighee, cun l’atmosfera di filos Cun do cantedi in mès a l’era quater selt tree-insèm dop sena andev-na lèt col cor in pace, a durmir fin a mateina, tant provee da la strachisia, as-sareva i’occ subèt mentr-i laber per so cunt, i ridev’n-in dal stès temp perchè-l cor l’era content. Finii-l dé,finii-l lavor,a spuseven sè d-sudor, dòp lavee, sol ed savon: cun l’orgòi da «Vitorjin» tut onest e breva gent: an-n’hom mei spusee-’d-coion ! pag - 30
  • 32. Le mondine di S.Vittoria (acqua riso e la sua storia) Gli argini privi di geometria, fungevano da cornice attorno all’acqua incrociandosi a fantasia. Acqua a vista d’occhio a volte increspata dal vento proveniente da est verso ovest, noioso e insistente. Lo specchio d’acqua faceva ballare la vista colpita dai raggi diretti d’un sole sfacciato in un cielo limpido che permetteva di vedere fino all’eternità. Il silenzio tutt’intorno, la monotonia, erano rotti di tanto in tanto dal frullio d’ali di qualche uccello che spaventato volava via. Sotto una fronte rugosa e gli occhi semi- chiusi per mettere a fuoco la vista come incantati,riuscivano a rivedere tutto ciò che vedevano allora rievocandone la sua storia. Quello che non c’era davanti agli occhi, glielo aggiungeva la fantasia e la memoria. Sprofondati in acqua fino alle ginocchia, i piedi stretti dalla melma, le gonne appiccicate alle cosce e le piaghe alle estremità degli arti. I segni lasciati dal giogo in parte erano momentaneamente dimenticati dai bei ricordi, dall’amicizia vera, dal dialogo sincero nel dopo lavoro, e il bene che ci volevamo ci teneva stretti e uniti l’uno all’altra. (tucc a ùna), detto Vittoriese. Dopo due canzoni, due canti improvvisati e quattro salti in mezzo all’aia, dopo cena, andavamo a letto con il cuore in pace tranquilli fino all’alba del giorno dopo, gli occhi per la stanchezza si chiudevano subito, mentre sulla bocca rimaneva il sorriso permanente. Finito il lavoro col finire della giornata potevamo puzzare sì di sudore, dopo lavati forse anche di sapone, ma dopo aver svolto il nostro lavoro sinceramente eravamo sicure e sicuri di non puzzare di coglione. (Questo termine diffuso sopratutto nell’area Vittoriese,veniva usato dagli operai e dalle mondine come vanto per essere stati fieri, abili e volenterosi nello svolgere il proprio dovere. E’ un pò difficile spiegarne il significato in italiano e mi avvalgo del proverbio che dice: a buon intenditor poche parole. pag - 32
  • 33. Al mond di furub Al mond lè bel perchè lè tond: sol.. c’lè fat p’r’i furub. E s’ì fòsen tuti furub ?, ster mea mel che a ghe s-rà semper: “al furub di furub e al coion di furub”. E sì fòsen tot coion ? l’è listèss, ghe s-rà semper: “Al più furub di coion e al più coion di coion”. In conclusion: Sensa i furub an-spol ster, an spré gnan governer; ma gnan sensa coion: se nò i furub in s-ren nison, in saren c-sà fer !. Un proverbi al dis: Se tut i coion i portesen i lampion, “ Gesù Maria” che iluminasion. A Novalera i lampion ien fisee in d’iocc di portegh, atach ai palon. L’hani fat per vèder i furub ? No no, l’han dovu fer forsa, per mancansa ‘d-coion!. Il mondo dei furbi Il mondo è bello perché è tondo ( lo ripetiamo spesso), solamente che è fatto per i furbi. E se fossimo tutti furbi ? Non preoccuparti che ci sarà sempre: “Il furbo dei furbi e il coglione dei furbi”. E se fossimo tutti coglioni ? E’ la stessa cosa, vi saranno sempre: il piu furbo dei coglioni e il più coglione dei coglioni. Concludendo: senza i furbi non non ci sarebbe ragione d’essere, non si potrebbe vivere e nemmeno governare, e... neanche senza coglioni, sennò i furbi non sareb- bero nessuno e non saprebbero come o cosa fare. pag - 33
  • 34. L’Avtun Adio istee, adio vegetasion, cun al cheld fines un’etra stagion. Caschen al foii inzalidi dal temp; alseri e snèli, l’ul’t-m alit ed vent al-li-unés al sorèli, tant proverbieli ad ogni ocasion ed cambier diresion. Al so balèt, la so libertee, lè ste-l temp impieghe ed river a tèra, com’ha fat l’an prèma ‘na so sorèla. ogni cambiament dal temp, l’efèt tra la lus dal sol e-l scur d’la not creen semper un’emosion e per un’anim dispost a contempler, l’è semper un’amirasion rinoveda, da ringrasier. Addio estate, addio vegetazione, termina col caldo un’altra stagione. Cadono le foglie ingiallite dal tempo e lacerate dal vento;leggere e snelle l’ultimo alitar di vento, le unisce alle sorelle, tanto proverbiali nel mutar direzione. ad ogni occasione. Il loro balletto e la libertà, è proporzionale al tempo impiegato per raggiungere il suolo. Ogni mutare del tempo, il variare dalla luce del sole e il buio della notte, creano sempre delle emozioni, per chi è attento e, se è un’animo disposto a contemplare, è sempre un’emozione rinnovata da ringraziare. pag - 34
  • 35. Dal Carobi a la Stasion Stréda bianca, Proverbio: un fos d’impert, Per S.Bernarden, ogni nèi rivi verdi al g’ha-l so ozlen. e sev de spen. Un pàlon d’la luz un magazen, ogni tant un punt, un cespòli ‘d’rasi e un nèi d’ozlen. Adèss: Strèsia nigra cun gnint d’impert... Vista da l’elta la dà l’impresion d’un naster a lutto stéz su la frasion. Dal Carrobbio alla Stazione Strada bianca ghiaiata fiancheggiata dai fossi, con le rive verdi e le siepi di biancospino. Un palo della luce il mucchio di ghiaia, ogni tanto un ponte (per accedere alle abita- zioni) un cespuglio di rovi e un nido di uccelli. Ora: striscia nera con niente di fianco. Vista dall’alto da l’impressione d’un nastro a lutto steso sulla Frazione, dalla Cascina al Carrobbio facendo croce alla Stazione. pag - 35
  • 37. Nadalèt (il guaritore) Quand a steven al Stalon, Proverbio: in d’la cort ghev’n-un svinant Chi si accontenta gode ch’al s-ritgniv-un medgon. e le critiche non ode. Ed nòm Nadalèt, al cureva -’l-storti, al guariva i’artrosi, al sfogh ‘d-S.Antòni e-l-vachi, cun al caghèt. Prem ‘d-cumincer a deres da fer, per garantir la guarigion: al doveva magner, e feres pagher. La veritee l’era: l’hom semper savuu, guariva sol: i foraster, o i sconosuu. Un giorn-in d’la stala, g’hom avu-n problema: al tor, i mansoo el vachi, i gheven tot al caghèt e arésen ciamee Nadalèt, as siòm ritgnu fortunee: l’ha fat più prest a river lè, che dir ‘d’sè. La magnee e d-bu fin cl’à vru, c’mè dai pat dal contrat, pò l’hom paghee e l’ha fat al so fat. -Ste por tranqueii, dè piò o dè meno, che tut s’r-à finii tra un per ed giornedi. Fegh ed’jimpach ed’jinfus, di decot dal papeni, ma tòti al mateni!. Oh !, a marcmand: an tirer mea d-madòni e impiee un lus in d’la nècia ‘d S.Antòni-. Dop c’l’ha finii al s’nè andee, cun al calès e-l cavalen da un’etra famea ed-contaden. La nona saggia, la s’è mésa-l-lavor, la voiee su l-mandghi col cor gros dal dolor, cun un penser cal g-rosgheva-l-màgon, per capir al motiv e sercher ‘na ragion: S’ral stee-l bevron, o è stee l’erba fresca, o-l fen vècc opure i malghèt ? Scaduu-l-temp c’l’eva dee, è nee tanti sospèt: vot propria che-l-ven al files e-l-fus mea bon, o al salam arans o quel d’avariee, vest che l’efèt al nè ghè stee ? La nona alora sensa penser, la ciapee S.Antòni e sbatu in dal sorcher. -Dat mò una mosa e dat da fer !, sit cheghen in d’la ghégna al compit l’è too, sat-voo feri fermer. Sl’è vera c’mì disen, “ch’ed-tanti rasi spol fern-un fas”, te, dal sorcher, at fines ed sicur in mès-a la mas e finiré anch al timor e-l dolor se at dimostress che at-tse tè-l protetor-. .Cantand e sc-ifland, felice e beato, cun la pansa pina, al partiva spèss col so caval e la birucina, da una pert o cletra, garantii a limon, al cateva semper da miner a mèsa un quelch don al noster mèdgon. pag - 37
  • 38. Natale Meglioli il guaritore Quando abitavamo nel podere Stallone, un nostro vicino di casa, di nome Natale, si riteneva uno stregone, un guaritore. Curava le distorsioni, guariva chi era affetto da artrosi (così prometteva), lo sfogo di S.Antonio e soprattutto il bestiame affetto da diarrea. Perché la guarigione avvenisse, prima di iniziare i suoi riti doveva mangiare a sazietà tutto quello che chiedeva, infine, essere pagato in anticipo. La verità era, e l’abbiamo sempre saputo che guarivano sempre i forestieri e gli sconosciuti. Un giorno nella stalla, sorse un problema con il bestiame, era tutto affetto da diarrea. Chiamammo immediadamente il nostro stregone, che fu più svelto ad arrivare che a dir di sì. Si mise subito a ta- vola, presentandogli il menù e poscia che fu satollo, pre- tese il compenso in denaro e si mise immediatamente al lavoro (questo è vero) e ci ritenemmo fortunati. Terminata la procedura, ci rassicurò che nel giro di un paio di giorni tutto si sarebbe normalizzato, a patto che somministrassi- mo ai bovini delle tisane e degli infusi con delle erbe medicamentose che ci fornì personalmente, nonché degli impacchi da applicare in un certo posto tutte la mattine, la promessa di non bestemmiare assolutamen- te, ed accendere infine una luce votiva nella nicchia di S.Antonio. Finito il lavoro, svegliò il cavallo che dormiva su tre gambe, salì sul calesse e andò a sollevar lo spirito ad un’altra famiglia, tonta come noi, poco distante. La nonna saggia, si rim- boccò le maniche e si mise immediatamente al lavoro, col cuore gonfio dalla preoccupazione, cercando nella memoria una possibile causa di tale dispepsia. Sarà stato il pastone di cereali, o l’erba troppo fresca, o il fieno vecchio o i culmi del mais giovane (malghèt)?, chiedeva a se stessa. Passati i due giorni, l’effetto mancato fece crescere forti dubbi sul menù consumato: poteva essere incompatibile al suo palato, perché sinceramente, se hanno la muffa i soldi, non fa niente, però se c’é l’ha il salame, o il pane, ti fan sentire in colpa. La vecchia, in preda alla disperazione andò nel corridoio della stalla, prese la foto del protettore e la gettò nel canalino di scolo poi apostrofò: “datti mò una mossa e datti da fare, se vuoi che non ti caghino sulla faccia prima o poi”. Se è vero che di tanti rovi se ne può fare un fascio, tè di sicuro dal sorcher, finisci in mezzo alla merda nella concimaia. Così finirebbe l’incubo assieme al dolore, se tu dimostrassi che sei il vero protettore. Cantando e fischiettando, felice e beato, con la pancia piena, il nostro guaritore, non passava giorno senza che non dovesse partire, col calesse e la sua cavalla e da una parte o dall’altra, (garantito a limone, non so perchè si dica così, ma si dice), trovava sempre qualche pollo da spennare e da “menar il can per l’aia”. pag - 38
  • 39. Teremot Ment-r-al bilancer dal pèndol, cun al so tich tach, l’andev-avanti e indree in tòta la soo corsa, detsà o dedlà per chi vers nord l’era voltee, al mur al ghe andee a dree e lo... al s’è fermee. La tera, la saltee e po termee cun un gran boato dal sètim gred d’intensitee. Ados a noet-r-Arzan s’è stremnee-l panich, tant spavent e un mucc ed dan. L’ora ? undès e sinquantesee, martedì quendes d’Otòber méla-e-novsent-novantesee. “Pianeta Tèra: cosa t’hòmia fat boia d’un mond vigliach”! Ch’at piesa mea al formai c’mal fòm, o l’aze balsamich, o al noster President Prodi o forse-l -Tricolor che in tut al mond is fan onor ?. De mo su “amara Terra” e dagh un tai e va a sdaser al calderon in do ghè nisòn... Ch’at vègna mei piò in ment d-rifer-s-un schers acsè!, a l’improvis,c’mè der un sciaf a un da incoo a d-man, sol perchè an s-lamentòm mei noet-r-Arzan. pag - 39
  • 40. Terremoto Mentre il bilancere del pendolo, come un metronomo, con il suo tic tac, andava avanti e indietro in tutta la sua corsa, o destra e sinistra, per chi guardava a Nord, la parete lo ha seguito neutralizzandola e il bilancere s’è fermato. La Terra, ha tremato e saltellato con un gran boato del settimo grado (della scala Mercalli) d’intensità. Addosso a noi Reggiani si è diffuso il panico, tanto spavento e parecchi danni. Erano le undici e cinquantasei di martedì quindici Ottobre 1996. “Pianeta Terra” quale colpa abbiamo ? Non ti piace come facciamo il formaggio o l’aceto balsamico* o il nostro presidente del consiglio prof. Prodi o forse il nostro (per fortuna ancora nostro) Tricolore che in tutto il mondo ci fanno onore ? Ascolta bene amara Terra: è ora di smetterla: dagli un taglio e va da un’altra parte a movimentare il tuo pentolone dove non c’è anima viva. Che non ti venga mai più in mente di ritornare a farci un tale scherzo, all’improvviso; come schiaffeggiare una persona, così dall’oggi al domani, solo perchè siamo tranquilli e non ci lamentiamo mai noi Reggiani. * Fatto per la prima volta nel Reggiano poi passato ai vicini Modenesi, non so spie- gare il motivo pag - 40
  • 41. Al merel e al pètt ròss Al paseva tut i de stè prèten Proverbio: zo per la streda ed’S.Bernarden, Pret in capèla, al steva a la man e l’era corèt, novitee bèla. però.... a un quelch don al feva dispèt. -Al n’è mea un sgnor s-l’è un ciclesta, ma, an n’è gnan un comunesta. Sè!,da ster che-l punt dal canel, quand al riva,ach pens mè: al mètt a la prova cal cornacc lè ment-r-al va vers la stasion, al sorpass po-gh-dagh na lesion!!.., “ Bandiera ròsa” a tla fagh ascoltér, l’è tèra ròsa det-che an spol scaper.- Cul motiv lè s-cifle a brot grògn, al l’ha disguste c’mè s’l’es ciapè un pògn. L’è scatè sui pedei pò l’è tornee in tèsta, l’ha-lvee su-l cul e tiree su la vèsta e pò-l g’ha molee un gran scorzon: “‘S’vèd che-l merel l’er-anch-un volpòn”, -tin strèch pettirosso ‘d’S.Bernarden, l’è tua e di to compagn dal Crèmlen.- A stè pov’r òm, a ghè gnu da sigher per la figura che al g’ha fat fér, talment al s-nè tot e inghignee al g’ha det ‘d’la robasa a lò a tut al Clero e al so Vatican, che i’en sol di leder e dal spèi ed i’American. Cun ste insult grave e immorel, l’ha pers al contròl anca-l-Clerichel. I’abitant ieren fora, eren cors tut in streda e i’han vèst e sentii com-l’er-andéda. Quand in voléda ien rivee in stasiòn polvrent sudorent, an parleva nisòn, stòff sfinii i lanseven c’mè i can, i’en smunte zò, spolvre i vistii guardee in d’i’occ e de la man. Perdend la voleda ho imparee ‘na lesion: in fond in fond’l’m’ha insgne ster al mond. Mai piu cun di Pret ‘na competision, perchè ment’r-i povrèt i lavoren lor i magnen i capòn ! Morale: Bandiera ròsa,un bel scorzon, una volèda dal canel a la stasiòn. pag - 41
  • 43. Il merlo e il pettirosso Passava tutti i giorni quel pretino giovane in bicicletta, per la strada di S.Bernardino. Manteneva la sua destra (fin troppo asseriva un’osservatore), nonostante fosse serio e corretto, a qualcuno faceva dispetto. Se usa la bicicletta per spostarsi, pensava, non è certamente un ricco, però sicuramente non è neanche un comunista e sta dalla parte dei signori. Lo metterò alla prova mentre va verso la stazione e voglio fischiettargli in un orecchio Bandiera Rossa durante il sorpasso, così imparerà anche un pò d’educazione visto che mi incrocia spesso ignorandomi. Si dà il caso che il merlo, fosse anche un volpone più di quanto ci si immaginasse, tantè che quando venne sorpassato a tempo di... marcia, fece uno scatto, balzò in testa poi si alzò sui pedali si scoprì le chiappe, e ...trombò in faccia al malcapitato senza resa al mittente, aggiungendo: è tutta tua e dei tuoi amici del Cremlino, pettirosso di S.Bernardino. La robaccia che gli è stata attribuita Dio solo lo sà. Dalle maledizioni a lui e al suo Vaticano, incolpandolo d’essere una spia al soldo degli Americani. Poi continuarono a rincorrersi in silenzio, mentre gli abitanti del caseggiato vicino, chiamato non so il perchè Borgo Emilio, corsi in strada videro e sentirono tutto dall’a alla z e seppero così dell’accaduto. Il compagno fece brutta figura e se ne offese alquanto, come pure il religioso (clericale), per l’inaspettata sorpresa.Giunti al capolinea in stazione, si fermarono per riposarsi, tutti impolverati perchè la strada non era ancora asfalta- ta, si strinsero la mano senza vinti nè vincitori appena scesi dalle biciclette prima di accingersi ad asciugarsi il sudore che scendeva copiosamente e spolverarsi.Caro il mio pretino La ringrazio per la risposta alla mia presunzione, in fondo in fondo mi ha insegnato le buone maniere per stare al mondo e non farò mai più con un prete una tal competizione, soprattutto in bicicletta, perché io sono indebolito e stressato come tutti i lavoratori, mentre Voi ingrassate e irrobustite a suon di capponi, come faranno sicuramente i vostri prelati in Vaticano. pag - 43
  • 44. I bias cas feva la nona. La nona la-s-feva i bias a noeter ragas, Proverbio: -In fond in fond in eren pò eter che i’antenati Gustand col c’à ghè, d’iodieren omogeinizzati.- as magna c’mè un Re. La biaseva i grosten’d pan da ster sduda in dal scranon e còi du dii d’na man la-i- pogeva sul grumbialon. Per contenter tot quant, la feva-l-”col longh”...,povrèta, seg-sugheva-l canalòs, cun la testa c’mè-n sambot l’andeva sù e zò, come un ch’an dis mai ‘d-nò. Quanti sacrifési sol p’r-amor sensa mei feres pagher, mai avuu ‘d-pretesi, cun nov ragas e desdot man semper tesi. Provel a immaginer quanta brisa e quant grosten c’nal zunzei e sol un dent l’impasteva, pian pianen. Al tort c’a gheven, l’era sol d’èser povrèt, ma la fam l’è uguela per tut, brut o bèi, pulii o melnèt, sgnor o povrèt anch s’a s’eren di brut vilan, di contaden, as sentev’n’orgoglios e as vreven tant ben, e se despès a spuseven de stala, opure ‘d-sudor, an-n’era mea un motiv d-disonor, e sun sicur che nison, propia nison, preva dir c’à spusesen ed coion! Mia nonna, ci faceva le palline col pane masticato, impastandole con la saliva, per me e gli altri ragazzi , (i miei cugini componenti la stessa famiglia). Dette palline, non erano poi altro che gli antenati degli odierni omogeinizzati. Li mangiavamo volentieri e ci dispiaceva alquanto finirli, sapevamo che erano un nostro prezioso nutrimento. Masticava i pezzi di pane, togliendo dalla bocca, con le sue stesse mani, le palline formatesi e le deponeva nel grembiule steso sulle ginocchia, seduta stante dal suo seggiolone. Masticarne per tutti, faceva il collo lungo (come si usa comunemente dire), perché arrivava al punto di non avere più saliva sufficiente per amalgamare il boccone cosicché era costretta a beccheggiare con la testa e il collo, coi movimenti tipici di chi si ingozza. Tutto questo lo faceva per amore, senza compenso, senza nulla pretendere, purché crescessimo sani e felici. Pensate che rosicchiava il pane con un solo dente canino facendo miracoli poveretta; figuriamoci, a quei tempi con nove ragazzi e diciotto mani tese... Eravamo poveri, sì: brutti villani, e contadini, però ci volevamo infinitamente bene, consci di puzzare di stallatico, ma mai e poi mai di coglione. pag - 44
  • 46. Quand-deven l’acua a l’ova Om, dòni e ragas, tuti quant mobolitee Proverbio: per i’uter cun gambi e bras S-as près fer d’i’amzeder e cun forsa d’volontee. c-va-l cèso sensa magner, A bilancer al pez dal bazel portee in spala i padron i’à faren a cadena, du s-cin pin, o du laton, un din-cò, in spicolon o, i’à faren fer. e s-doveva fer la spola tra la bòta e la cariola. Pin d’acua per la vida armes-ceda cun fadiga, cun ‘na sapa a forsa ‘d’bras in carera al carias. Chi cucéva la cariola ‘l’gheva anca da pumper, chi tgneva inveci-l zèt, tache ad cò-a-un baston, sòt ed sover ben a pièt, al bagneva tut i plon. L’impègn ‘d’porter da bever: spèsi volti a g-leva-l dòni cun un bel piston pin ‘d-ven e ‘na fiasca colma d’acua tgnu quacee e bagnee ben, cun d’l’erba fresca, o dal fen e-i ragas un po più cech, davanti ai boo cun un cavècc. Stabiliva al resdor, come e quand fer i lavor, sas droveva serietee, l-risultet l’era scunte; col so motto semper prunt a tu per tu, quand tegh-ser ‘d-frunt: - tùti a tirer al car, tùti a magner al gal- . Quando si irrorava la vite col verderame,o “poltiglia Bordolese”. Uomini donne e ragazzi, tutti quanti mobilitati a collaborare con braccia e gambe e con tanta forza di volontà. Con un’apposito palo arquato (chiamato bazel) sulle spalle con all’estremità due latte, (contenitori cubici da 20 litri per petrolio lampante o, ocelina o ucelina, era poi una marca di una ditta commerciale petrolifera. All’interno erano stagnati e non arrugginivano e per questo si usavano anche d’inverno, quando si uccideva il maiale, per conservare lo strutto per l’annata, in mancanza dei “tregn”, vasi di terra cotta smaltati con due manici a orecchio. Si faceva la spola avanti e indietro dalla botte al carro (carias: un carro agricolo da cui si smontava il letto soprastante per inserivi l’apposita botte cilindrica, usata sia per il verderame, che per trasportare e spandere il pozzo nero), ferma sulla carraia, dove si teneva continuamente mescolata, di solito, con una zappa e a forza di braccia. Chi spingeva la carriola, aveva anche il compito di pompare la poltiglia, affinché chi usava la canna con l’apposito ugello a ventaglio, potesse irrorare in modo seguente le frasche della vite, soprattutto nei punti in cui si formavano i grappoli. L’impegno di dissetare i lavoranti, toccava alle ragazzine. In due affiancate sorreggevano una grossa sporta di pàvera, (erba palustre), con dentro una fiasca d’acqua e il pistone del vino ben coperti con erba fresca e bagnata per mantenerli freschi (questo sistema era ”niente po pò di meno che”: il principio della borraccia Sahariana: “evaporando, l’acqua, scaldandosi, si porta via le calorie in eccesso; ca- pito i “villani” cosa sapevano ?) Ai maschietti, invece, spettava il compito di tenere a bada le mucche o i buoi, standovi davanti con un bastone in mano. Era obbligo del capofamiglia, dove vigeva, serietà ed obbedienza al comando,stabilire, come e quando fare le cose, assegnandone poi i compiti a chi di dovere, non risparmiando a nessuno il suo motto: “tutti a tirare il carro, tutti a mangiare il gallo”. pag - 46
  • 48. Al baraten Solament ch’a strèca iocc Proverbio: a distansa ed sinquant’an, Quand al ven an n’è piò most, al vèd incòr river: al castagni-en boni a-rost. vistii ed vlù maron, al breghi a la zuava, castòn ‘d’lana fin ai znocc e ai pee un per ‘d troclòn. Al riveva dal carobi, col cavalen per man, al t’gneva-l mèz d’la streda tuta bianca e pina ‘d’nev, come ‘l’fès lo la strazeda stè pès d’òm, stè muntaner, cun di sach sul careten per gniri a barater cun i noster contaden, i frut dal so montagni: di sach pin cun dal castagni, turacc bon e bèi maron pari pez cun dal forment, dal patati o formenton. Tuti i’an, l’era puntuel: un po dòp S.Lucea, un po prèm ‘ch’rivèss Nadel. Lo scambiatore di merce Solamente che chiuda gli occhi a distanza di cinquantanni, lo vedo ancora arrivare con la giacca di velluto marrone,i pantaloni alla zuava, i calzettoni di lana e gli zoccoli di legno. Arrivava dal Carrobbio, tenendo per mano il cavallo battendo la mezzeria della stra- da bianca, tutta innevata, quasi volesse tracciare un sentiero libero dietro di sè per agevolare i nostri spostamenti, sto montanaro, tutto d’un pezzo. Sul carretto portava i frutti della sua montagna, come merce di scambio, con noi della bassa. Si trattava di turaccioli, castagne, marroni; in cambio di mais, frumento di farine varie e patate. Tutti gli anni era puntuale, a cavallo tra S.Lucia e la vigilia del Santo Natale. pag - 48
  • 50. I selta fos L’era prest quand siòm rivee, ghera incora tut la guasa Proverbio: l’era là stè brota v-ciasa, coi pagn bagn in spicolon Tanto va la gatta al lardo la-i-stendeva sul filon:-Delinquent e lazaron !- che ci lascia lo zampino. l’ha cumincee a sbrajer ch’s’er’n-icora adree river, -an ghii gnan un po ‘d’rispètt per i’ansian e per i vècc, a si tut ed jignorant, di balos, di selta fos !- Adèsa basta !, hom rispost: quand a gnii per robèr l’òva, t’gniv in ment d’salter’l- al fos: as vanseva d’romprers l’asa, d’ander zo in dal canalen, e-d-bagneruv come un’oca, da-i sgarlèt fin al còpen. E penser c’la s’arc’mandeva c’mè s’la fùsa roba sua: -ien i’oslen ch’a-v-magna l’ùva, bisògna cas-s-ciflèdi e ch’à fedi un mocc’d-fracas, i me brev e bon ragas!-. S’era gnu al bocaroli, ghev-n-i laber tut rustii, ma -l-tirèli al gneven vodi e noter piò avilii. Al s’à dèt un vecc per ben, testimoni oculer, c’l’era un saggio ed còi fat ben, -Un consèli v’al vòi der, av vin mea al sospèt d’fer per gninto tant casen? Storei, merei e tut i’ozlen, in van mea avanti a pièt !, c-fà da punt ai du confin, ‘d’sov’r-al fos a ghè un’àsa, agh fe-n tai cun al resghin, andee zo fin a metee e pò dop a la giree e d-sicur che-l prèm c’fà-l pas al ghè-r-magn atach al gras e d’matena i me putèi impare c’rasa d’ozeii ch’av magna l’uva in dal tirèli e i mètt’n-a scher i gramosten in mèz a l’era cun al pèli.- Infati acsè l’è andéda. Dop d’alora an n’hom piò vest la so èra imbandida con i frut d’la nostra vida. E cun l’ùva ‘d’Subazlen, l’han n’ha mei piò fat dal ven, nè dal “sugh” e gnan d’la “saba”, ancor meno di “savor”, ringrasiand al vecc per ben, p’r-al coragg e-l so bon cor. Quando noi siamo arrivati la vecchia arpia deambulante era ancora intenta a stendere su un’apposito filo teso i panni ad asciugare. “Delinquenti, lazzaroni”, ha cominciato ad inveire, appena ci scorse, non avete pietà nemmeno per i vecchi, ignoranti balordi e salta fossi. Adesso basta rispondemmo. - Quando ritornerete a rubare l’uva ricordatevi di saltare anche voi il fosso, così evite- rete di cadere in acqua per la rottura dell’asse e bagnarvi da capo a piedi-. E pensare che spesso si raccomandava, con falso bonismo,come se si trattasse di roba sua, di fischiare piu forte e fare tanto chiasso se no gli uccelli vi mangiano tutta l’uva. A tutti noi, si erano arrossate e screpolate le labbra, con le ragadi ai bordi della bocca a forza di mettere in atto i suoi consigli, mentre sparivano sempre più i grappoli dalla vite e noi sempre più avviliti. Un bel giorno il saggio, testimone oculare di quanto ci succe- deva, persona di quelle fatte bene, stanco del continuo turlupinio al quale eravamo sottoposti, ci disse: ragazzi voi pensate propri che gli uccelli quando mangiano l’uva stacchino anche le graspe e le portino a seccare sull’aia della dirimpettaia? Allora se pag - 50
  • 51. volete le prove di tutto ciò, ascoltate quanto vi dico: dovete prendere quell’asse che fa da ponte alle rive sul fosso tra i due confini, tagliate trasversalmente lo spessore fino a metà con il seghetto, poi rigiratela col taglio sotto,in modo che non si veda. Di sicuro domattina saprete chi è il merlo che vi ruba l’uva e poi mette ad essicare i resti sull’aia in bella vista. Infatti così fu e da allora non abbiamo più visto l’aia imbandita coi prodotti dei nostri campi. Con la frutta e l’uva di Subazzoli non solo non ha più fatto il vino, ma nemmeno il sugo, ne il sapore. Suggerimenti per fare i sughi d’uva, i sapori l’aceto balsamico e la saba in casa Il sugo d’uva, si ottiene schiacciando gli acini per bene, poi con un colino si separano i vinaccioli e le pelli e tutte le impurità. Si porta in ebollizione continuando a schiumare, indi, si aggiunge quel tanto di farina bianca (un cucchiaio da tavola, ogni bicchiere da un quinto di mosto), sufficiente per fare una crema densa che poi solidifica nel raffreddarsi. La saba: Si prende il mosto ottenuto dalla pigiatura, lo si filtra attentamente con un colino fine, o meglio ancora con un canovaccio, poi si fa bollire affinchè due terzi se ne siano evaporati. (Un modo empirico, ma sicuro, per sapere il punto giusto di cottura, usato spesso dalla resdora, consisteva nel versare una goccia di liquido sull’unghia del pollice, se rimaneva unita e non si spandeva, voleva dire che la saba era cotta al punto giusto), il rimanente lo si lascia raffreddare poi si conserva in appositi con- tenitori, meglio se di vetro a chiusura stagna. Un tempo d’inverno, si serviva come secondo piatto, sul pane o con la polenta arrostita e perché no, anche per preparare granite con la neve fresca. Con la saba si preparavano anche bibite dissetanti ag- giungendola in piccole dosi all’acqua fresca.Con lo stesso procedimento della saba si può fare anche l’aceto balsamico. Basta mettere la terza parte rimanente del mosto a riposare, lasciandone depositare i sedimenti, poi si versa in una damigiana e si lascia inacidire possibilmente al caldo. Attenzione però che il livello non superi la metà del contenitore, per permettere una buona ossigenazione, affinchè gli appositi enzimi si sviluppino meglio e trasformino il tutto in acido acetico. Il “sapore” (al savor): Si prendono diverse qualità di frutta comprese le mele cotogne e volendo anche del mosto, poi si fa bollire per diverse ore, anche un giorno addirittura, fino a quando si è ottenuta una marmellata abbastanza solida e consistente. Una cosa molto importante per tutte le operazioni di cottura di detti prodotti: quando si effettuavano dentro ai paioli, o alle pentole di rame, se non erano stagnate, era usanza metterci una chiave di ferro, (di solito quella grossa del portone principale), affinchè neutralizzasse il sapore di rame che contaminava il sugo, la saba, o il “sapore”. Fino a che punto tutto ciò fosse veritiero ed efficace, non sono in grado di provarlo, però funzionava. Di sicuro sò, che usare un bel cucchiaio di bicarbonato di soda come si fa ora, l’effetto è garantito, essendo un buon neutralizzante. pag - 51
  • 53. La barberea ‘d’Caméel Davanti a Bacaran, voltéda vers la stréda, Proverbio: ‘na baraca fata ‘d’lègn, c’l’era vècia e mel andeda, L’ezen c’l’ha fam, ed dodez meter queder, al sostgneva-l-seo Peder. al-s-contenta d’ogni stram. Entrer’gh’in barberea, as-paseva apena apena, perchè la so portena l’era strèta cas-sà mea. A l’inter’n-un taca pagn, cun d’sòta un porta ombrèli, tre scrani p’r-i client, cun i sedii d’asi: bèli. I cavii cun ‘na granera, in un mucc in dal canton, ‘na fnèstra a do anteni, al tècc fat cun di còp bon. Sòta-l spècc do mensoleni cun i’usvéii dal so mester: una broca un caldaren, tut didlent un per ‘d-bicer, d’fianch a lor un lèter ‘d’ven. Da Camèlo ‘d-Pisarola, “Figaròo ‘d’S.Bernarden”. Col cal v’deva al gh-feva gola, l’era leff come un cagnas, al magneva un tant al bras pò-l spiantéva du dii in gola. Tra ‘na d’buda e ‘na magneda, l’ocasion per ‘na canteda e in dal mèz anch ‘na piseda. Al spècc fissee al center, l’era tanto fumanent: da ster sdu in d’la poltrona, guardér menter al-toseva, ‘l’t’feva gnir un sveniment: ‘t’sembrev n’eter cat-guardeva!. Anebiee dai trop quarten, i so occ i feven scur, da i znocc, ander in su, l’era semper insicur, gh’era ‘l-rèscc d’un quelch tàiten: un contròl davanti al spècc l’er’un tèst per zov’n-e vècc. Dòp finii la prestasion cun la bòca pina d’acua as proveva a fer presiòn, se per ches la feva dan, ‘d-tamponev coi dii dal man, perchè alora i cèrot, as-siinsonieven anch ed not. Come tanta gent c’mè lor, tut onest e galantòm, cun l’umor c’và su e zò eren più ed’còl c-pensòm, (pér’l ed còi d’S.Bernarden,schiavisee dal bicer ‘d’ven). Col ‘d’pugners-al nez de spèss, perchè ‘alveven su ‘l-»gombèt», gnan pensér ch’i fùsen fèss !, Un astèmio per esempi, erel semp’r-acsè perfèt ? -Tutti mi vogliono, tutti mi chiamano, sono un barbiere di qualità quand’ho bevuto a sazietà...........-. A imiter i Tajaven (Franco e Ferruccio) cun l’ugola sincerament, al s’la caveva abastansa ben. pag - 53
  • 55. Camillo Tondelli barbiere di S.Bernardino La barberia era ubicata nel piazzale antistante il fabbricato di proprietà della famiglia Baccarani che gestiva contemporaneamente al negozio di generi alimentari, anche l’osteria, punto d’incontro molto importante e considerato a quei tempi, sia dai residenti che dalla gente di passaggio. Era diventato un posto nel quale si doveva per forza fare una tappa, ristorarsi e scambiare quattro chiacchiere in compagnia. S.Bernardino...... era “S.Bernardino”. Detta baracca fatta d’assi di legno, era rivolta ad est verso la strada principale. Era vecchia e malandata, di dodici metri quadri, più o meno, di superficie, cosi sosteneva il sig. Bigi Pietro (“seo Peder”, factotum molto attivo e utile nel borgo). All’interno un piccolo attaccapanni, sotto un porta ombrelli, alcune sedie per i clienti col sedile ligneo, abbastanza belle. I capelli recisi, in un mucchietto nell’angolo assieme alla scopa di saggina, una sola finestra a due ante e il soffitto con tegole vere (còp). Sotto lo specchio, all’interno, due mensoline per i ferri del mestiere, una brocca, un secchio e un paio di bicchieri con le impronte delle dita, con a fianco come guardia del corpo, una bottiglia di buon lambrusco della casa. Camillo Tondelli il Figaro di S.Bernardino, era goloso come un mastino, tutto ciò che vedeva di commestibile, lo tentava, e, a forza di trangugiare, era poi costretto a infilarsi due dita in gola per togliersi il peso dallo stomaco; sicchè tra una mangiata, una bevuta e una romanza, alla fine si faceva anche una bella pisciatina. Lo specchio fissato alla parete interna, di fronte alla poltrona, era talmente offuscato e deformante che a chi si guardava mentre gli tagliava i capelli, gli sorgeva il dubbio di assomigliare a un’altra persona. Annebbiati dai troppi quartini di vino, ad un certo punto, i suoi occhi vedevano malamente e dalle ginocchia in su il resto del corpo diventava insicuro, col rasoio in mano. (Era sorprendente l’abilità e la velocità con la quale affilava la lama del rasoio nel palmo della mano, o sulla coramella, anche quando sembrava inidoneo). Un controllo davanti allo specchio, con la bocca piena d’acqua era un test consiglia- bile per i clienti pazienti; facendo pressione si potevano scorgere eventuali perdite. Se malauguratamente così era, con la punta delle dita o un ferma sangue si com- primeva finche non si fosse coagulato, perchè i cerotti c’erano sì nelle farmacie, ma secondo una nostra mentalità era merce da “americani”. Com’era lui, purtroppo, c’erano anche altre persone, più di quante immaginassimo, tutti galantuomini e onesti, ai quali lo stato d’animo oscillava perché schiavizzati dal bicchiere di vino, (parlo dei S.Bernardinesi) alzando spesso il gomito. Non era neanche da pensare che così facendo fosse gente di poco rispetto, anzi, tutt’altro. Siamo proprio certi che una persona, solo perché è astemia, sia sempre perfetta in tutto? pag - 55
  • 56. Vint’an com’in luntan I me dzeven da putèll: Proverbio: t’in dev magner di grosten d’pan Scampa caval sat vo ch’riva prest vint’an. che l’erba la crès. Vint’an, in riveven méi, ho cuntee i dè, i mez e i’an e un bel gioren finalment tra un det e un fat, acsè pian pian, ho cumpii i me vint’an. Dòp ed poch: un’eter vint, ma in mete temp e an min sun mea acort c’l’è stee un tradiment. Vot scomèter, ch’a riv as-santa prèm d’rendrum cunt ch’à n’hò già cumpii sinquanta ? ... e s’ha fus ande più pian a magner i grosten ‘d’pan ! Vent’anni come sono lontani Mi dicevano da ragazzino, ne devi mangiare dei crostini di pane, se vuoi che arrivino alla svelta e al più presto vent’anni. Infatti i vent’anni non arrivavano mai, facevo la conta dei giorni, dei mesi e degli anni, poi un bel giorno finalmente tra un detto e un fatto, mi sono trovato a compiere i miei vent’anni. Dopo poco altri venti, ma in metà tempo, senza accorgermene, quasi fosse stato un tradimento. Vuoi scommettere, ho pensato, che arrivo a sessanta senza rendermene conto che ne ho già compiuti cinquanta ? Non era meglio che fossi andato più piano a mangiare sti benedetti crostini di pane? pag - 56
  • 58. La batdura in piasa a Novalera Che meravea vèder tut ste furmigher Proverbio: a Novalera l’ot ed lui d’l’otantequater S’a piov per S.Cassian: per ricorder incòra l’uz dal med’r-el bater, più meel, mòst e gran. còi mez d’alora e l’esperiensa ed chi-l sà fer. as vèd propia che a ghè la volonte ed tut i’abitant , che cun bravura i doben i negosi per la batdura fedeii a la tradision ed i’an pasee. Ghè pin ed gint tanta umanitee gnuda per l’ocasion da la sitee a vèder come s’féva dal spighi ‘d’forment separeregh l’esensa p’r-al noster nutriment. Infati i più ansian ien sodisfat cas sà mea i tornen col penser indre in dal temp cun tanta nostalgea, cuntent anch dal progrèss ch’i-à liberee d’un lavor dur ,òmil e mel paghee. N’etra categorea ed gint ‘d’meza etee alora ragas,ma al bater l’han pratiche. Per pagher’s i vèsi ,durant l’ora ed la gabanèla i cateven su-l forment c’a ghè-rmagneva in tèra, o dòp d’aver picee i cov un a un cun un baston prèm ch’i rivèsen insèma-l trabatoi, sperand ed ferla franca cun al milit e c’n-al padron I zoven, al dòni, i vècc e i’amigh in compagnea i’en tut content e i sbrasen prèma d’ander vea. Ad red’r-insèm tut quant, pochi volti è capitee , las pol cunter insèma-i dii ‘d’na man sta raritee, perchè un quelch don ‘d’na cert’etee adès al rèed, ma alora l’ha anch sighee. La dovu tirer la sèngia al s’è catee a la disperasion ...l’era un operaio e al dipendeva spèss dal so padron. Per la cronaca: In Piasèta, pan frèsch e gnoch frètt per sasiér al pòblich l’apetèt. Per sasierel a còi d’alora l’era compit ‘d’la Resdora ‘d’mèt’r-a coser a la matena, n’oca un nader e ‘na galena. pag - 58
  • 60. Trebbiatura in piazza Che meraviglia vedere tutto sto formicaio di gente in piazza a Novellara l’otto Luglio 1984, per ricordare ancora l’uso e il modo di trebbiare il grano, con i mezzi d’allora e l’esperienza degli operatori che si sono prestati abilmente. Si è notata anche la volontà non solo degli organizzatori ma anche di tutti, i cittadini e gli esercenti che hanno collaborato addobbando con bravura i negozi affinché la tradizione fosse rispettata fedelmente. C’è tutto esaurito, tutto pieno il paese di gente che con tanta umanità sono è venuta per vedere e rivedere come si separano i chicchi di grano dalle spighe per ricavarne il buon pane, nutrimento essenziale. Infatti i più anziani erano doppiamente soddisfatti; primo perché col pensiero tornando indietro nel tempo, si rivedevano ancor giovani; secondo, perchè si erano liberati d’un lavoro pesante a volte umiliante e spesso mal retribuito. Un’altra categoria di gente di mezza età, allora ragazzini, che però ricordano perfettamente il sacrificio dei loro genitori e anche il loro, perché non stavano a guardare, ma collaboravano al bilancio familiare. Uno degli espedienti, diciamo, per pagarsi i vizi, era quello di raccattare il frumento che si spandeva a terra o sul fienile, magari dopo aver battuto con dei bastoni sulle spighe, di nascosto naturalmente, all’insaputa del milite, se era tempo di guerra, o del Fattore o caporale fiduciario del padrone. Poi si metteva assieme al resto che si riusciva a reperire con la spigolatura nei campi dopo la mietitura. Col ricavato pur essendo estraneo al bilancio familiare, si compravano un paio di scarpe, o degli indumenti per i più grandi ,che poi si passavano ai più piccoli man mano che si cresceva. Raramente restava qualcosa per andare al cinema o a ballare. È successo anche questo, almeno a casa nostra. I giovani, i vecchi, le donne gli amici, prima di congedarsi dalla festa si salutano calorosamente con abbracci sinceri. Contenti come non mai d’essersi ritrovati in un’atmosfera sincera e famigliare perché sono rare purtroppo le occasioni in cui ciò può avvenire. Annualmente direi che si possono contare sulle dita di una mano. Qualche persona di una certa età, ora ha riso in mezzo a tutti nella rievovazione, però ai suoi tempi non era raro che dovesse piangere per le umiliazioni e le ingiustizie subite, dovendo tirare la cinghia, in quanto dipendente, doveva sempre rispondere signor sì, ed accettare il salario con le mani dietro la schiena. Per la cronaca: pane fresco e gnocco fritto per saziare al pubblico l’appetito, ma per saziarlo allora, agli addetti alla trebbiatura, era compito della resdora, mettere a cuo- cere alla mattina in una capiente pentola, un’oca, un’anitra e una gallina. pag - 60
  • 61. Anno 1987, decim aniversari d’la (batdura a l’antiga) in piasa Ai Quater Castee, per Matilda e Enrico Quert su un punt un mucc d’impert i castelan, is dan dal bot-da can. A Siena, coi dal cuntredi i garègen coi cavai, is còr’n-adree in piasa e is dan dal gran narvedi. Novalera, l’è negheda per ste gloria da rievocherg-acsè la storia. Per guadagner’s al viver, la pensa più lavor e al soo carater: an n’è mei stee còl ed vrer combater. La fà vèder bat’r’al forment in piasa pò lag-fà-l pan incòr col man rievocand cun umiltee la storia vera, c’mè-l’ariv dal-rondaneni in primavera; i grasoo freschc in dal parol, al gnoch frét , la sigoleda, legerment saleda, al bacalà fat cun la cola che cunter’l-al-per ‘na fola, al cazer cos’r-al formai, al manischelch frer i cavai e i mester più impensee, ma fat tut con serietee. Per la cronaca: L’idea l’è neda a un grup d’Anvalaren, l’an dòp dal stantesèt; i s’in voje su ‘l-mandghi e p’r-an creer nemigh e aversari, i partii i’han saree in un casèt e st’an ‘s-festègia al decim aniversari. Anno 1987, decimo anniversario della trebbiatura in piazza A Quattro Castella, gli abitanti, con quelli delle frazioni limitrofe, si fronteggiano e ga- reggiano a squadre con prove di forza, su un ponte, per ricordare Matilde di Canossa ed Enrico Quarto. A Siena i contradaioli all’interno della piazza, si contendono il Palio con i cavalli, a colpi di frusta, pesantemente. Novellara invece, è negata per questi tipi di rievocazioni storiche. È più propensa a dimostrare cosa e come facevano in passato, a guadagnarsi la pagnotta per vivere, perché come carattere è più incline al lavoro che a combattere. Fa vedere ai partecipanti alle manifestazioni, come si trebbiava il grano, poi fa il pane manualmente e lo cuoce all’istante negli appositi forni, costruiti per l’occasione, con la legna. Rievocandone la storia vera, dal vivo, crea un’emozione come l’arrivo delle rondini che annunciano la primavera. Coi ciccioli freschi nei paioli, il gnocco fritto, la cipollata, il baccalà con la colla, il casaro che fa il formaggio grana Reggiano (perchè è Reggio il suo padrino), ecc.; poi i vecchi mestieri dal fabbro, al maniscalco, al falegname l’impagliatore di sedie e tanti altri. L’idea è nata ad un gruppo di cittadini Novellaresi, apolitici, nel 1978, con grandi sacrifici e tanta forza di volontà riscuotendo un notevole successo, tant’è vero che molti paesi, ora, li imitano. Quest’anno si festeggia il decimo anniversario. pag - 61
  • 62. Specialitee Arzani “Pan fresch persòt, Proverbio: formai grana e lambrosch”. La bòca l’an n’è mai straca, L’è un dét c’l’è vecc,c’mel pan dal còch finchè l’an sà ed vaca. e spol dir a elta vos, sensa p-cher ed presunsion che d’imiteri an n’è bon nison, in tut al mond ien i miglior per la bontee-el so savor. Al merit, ‘l-và a la tèra, e a tut la nostra gent. La risèta ‘d’ingredient?: Tanta vòia ‘d’fer: “unt ed gòmet e al sèt camisi da suder”. Dal cheld dal frèd dal vent d’l’umiditee, ag-nè da per tut, per tuti, un po pron, a seconda dal stagion. Però sol che in d’la tèr-Arzana las-trasforma in tanta mana. Pane fresco, prosciutto, formaggio grana Reggiano e lambrusco, è un connubbio che si perde nella memoria dei tempi talmente è vecchio. (In dialetto lo si paragona per la vecchiaia al “pan dal còch”, francamente non conosco il significato). Si può gridare ad alta voce, senza peccare di presunzione: per la bontà la fragranza e i suoi sapori, in tutto il mondo sono unici e i migliori, perché in nessun posto riescono ad imitarli. Il merito in parte va alla terra, il resto, alla nostra gente. La ricetta degli ingredienti? Tanta bravura, e altrettanta voglia di fare usando “Olio di gomito ”e la scelta di sudare le proverbiali “sette camice”. Del caldo. del freddo, del vento, dell’umidità a seconda delle stagioni, c’é n’é per tutti, in ogni luogo; però, solo in questa nostra terra Reggiana si trasformano in tanta manna. pag - 62
  • 63. Sòta-l portegh ed la stala I g’han de tot i contaden sòta-l portegh ed la stala, comincer dal mocc dal fen fin a col dal bali ‘d’paia. In dal noster, al Stalon, a sinestra in dal canton alpéra a l’elbi ed ciment cun al stanghi in spicolon, la birucuna e i filiment, soquant ligam e un quelch soghèt cun la zerla e i’arvaroli, sui madon e sui travèt dop, i zov e’l-burgagnoli. A bòca-bas alinee, i s-cin da monzer e-i malsaren, al s-cion dal lat ed ram stagnee inséma un stras cun al colen, un mucc ed cunchi mési ben , che e là una malsarena, d’mèlga, d’erica, o d’sangonena e i forchee piante in dal fen. Al fioròm in un canton cun la fèra e al rastèl, d’asven la gabia di capon e-l cariol per al cazèl. Sotto il portico della stalla Si trova un pò di tutto, sotto il portico della stalla di un podere contadino. A cominciare dal mucchio di fieno, fino alla catasta delle balle di paglia. Dove abitavo, alla corte Stallone, a sinistra nell’angolo di fianco all’abbeveratoio in cemento, con le stanghe penzoloni, c’erano il calessino con i finimenti, alcuni legacci per i covoni (ligam), delle funi di canapa (soghèt), il timone per il doppio traino (zerla), e le cinghie dei gioghi (arvaroli che si annodavano dal giogo alle corna dei bovini da tiro, perchè non si disarcionassero). Questi erano tutti appesi a degli appositi tronchi di trave di legno murati sporgenti (madon), o a dei chiodi conficcati a dei travetti che reggevano il soffitto, poi c’erano i gioghi e le museruole metalliche. Rovesciati e allineati su delle panchine, i secchi per la mungitura, gli scovoli per la pulizia, il bidone del latte di rame, o di zinco stagnato, col colino, il tutto coperto da un canovaccio bianco, pulito. Allineate per bene, le conche (mastelli rettangolari di legno per servire l’impasto di sfarinati di cereali e sali minerali sopratutto per le mucche partorienti). In ordine sparso, le diverse scope d’erica, di saggina, o di altri cespugli legnosi spontanei, poi forconi e tridenti conficcati nel fieno, o nell’erba, a secondo delle stagioni. I fiori, i semi e e le foglie caduche del fieno (fio- ròm) in un mucchietto in un angolo, con la falce e il rastrello (non col martello), poi la gabbia con i capponi (il padrone doveva controllarne personalmente la crescita), infine il carretto per trasportare il latte al caseificio. pag - 63
  • 65. L’aluvion a S.Vitoria. E’ stee dal sinquantun. Trest ricord, d’un november poch fortunee che-l destin l’ha riservee a i paes-intor’n-a-Pò, compres Santa Vitoria. Chi s’al ricorda a ment e chi-l lèz sui test ‘d’la storia. S’rà stee una punision per canceler al traci ‘d’na civiltee Romana, tra Puii e la Biliana ? La s’rà ben steda ‘na coincidensa strana! al Mer l’era elt, al Po pin a manèta, al Canalas c-n-al Crostel i minaceven ment’r i cuceven cun ‘na forsa brutéla per l’enorme presion c’me’na ciurma ‘d’pirata l’ha fat irusion quand l’erzen dal Cròstel in d’la not “misteriosa, “al s’è ròt ai Torion. Santa Vitoria Santa Vitoria te asistii silensiosa e impotente al dramma per la prema volta in d’la storia. T’è rivee l’acua a la gola, s’è sradichee i’elber, a s’è impantanee-l cà. Quand Dio la vruu, è ritornee la calma, e s’è ritiree l’acua, ma d’la fangheglia e-l pantan, agh n’era anca c’l’et’r-an. Cun vos unanime, j’abitant dal paes, j’an dét: che c-siòm nee, vea det che an g’hom d’ander, as voiòm su-l manghi e s-dòm da fer, per onorer la Santa, per canter Vitoria, per cunterel a la storia. Era l’anno1951, triste ricordo d’un tragico e sfortunato novembre , che il destino riservò al comprensorio dei paesi limitrofi al grande fiume, particolarmente S.Vittoria e ai loro abitanti. Qualcuno, pessimista, pensò addirittura ad una punizione per cancellarne le tracce di una antica civiltà Romana, venuta alla luce recentemente, anche se vi erano testimonianze precedenti, tra Poviglio e la Biliana e la via d’Este. Sicuramente è stata una coincidenza strana, anche meteorologicamente, il fatto di trovarsi contempora- neamente l’alta marea, il Pò di conseguenza alto oltre il livello di guardia e il Crostolo, col Canalazzo suo immissario, riversavano enormi quantità d’acqua piovana, immagazzinando una spinta e una potenza tale, che all’altezza dei Torrioni si ruppe (in modo un pò strano) l’argine, poi con una furia da ciurma piratesca, allagò in poco tempo migliaia di ettari di terreno. S.Vittoria, S.Vittoria, hai assistito silenziosa e impotente al dramma per la prima volta nella tua storia, dall’alto del tuo campanile, quando fosti immersa dall’acqua fino alla gola; hai visto sradicare alberi, infangare e crollare case, restando impotente a test’alta dall’alto della tua nicchia a guardare coi tuoi bei occhioni in silenzio, ascoltando le voci disperate della gente, i lamenti degli animali e il rumore di quella enorme massa d’acqua e fango avanzare e distruggere inesorabilmente. Della stessa fatalità, furono testimoni come tè, gli altri Patroni dei paesi limitrofi. Quando il destino volle, tornò la calma,l’acqua incominciò ad indietreggiare poco a poco, lasciando dietro di sè, disperazione fame e freddo. Ci vollero anni prima che si normalizzassero le attività produttive e si rico- strurissero le case, perché gli abitanti decisero di restare nella loro terra. Con tanta volontà e coraggio, si rimboccarono le maniche ancor prima di chiedere aiuti e solidarietà, per onorare la Santa, per cantare vittoria, per raccontarlo alla storia. pag - 65
  • 67. La sòca nostrana Per aver di malgas as doveva tajerg-al sèmi, plerg-al fòii e fat l’acord cnal padron, eren too, finii ‘d-cater su-l formenton. Dimondi, braciant e partidant i sercheven in d-i’aziendi ed fer ste contrat. In mancansa ed la lègna, alora, a fer fogh, as droveva i malgas. E’ sucès in dal Stansi, a una famea dal post ment-r i stacheven vea-l fòi in dal mèz ed na piana ‘d-cateer una sòca nostrana tacheda a la rama c’la feva-l vòi. -Mo Mama ! i’an det i putèi g’hom vòia ed tortèi!...., s’a-tulès’n-un giubèt g-la logòm denter e la portom sòta-l lèt!- -Per l’amor ‘d Dio, ha rispost la meder a-i ragas, an direl gnan sol per schers, sas nacorz al pdron al s-nega i malgas!- La vòia e la fam a chi temp la, is feven sentir e, anch s-i saieven ed disobedir, in un det e un fat con un colp perfèt, al dé dop, l’era già al sicur sòta-l soo lèt. - Mama, quand’è c’a tes fee i tortee cnal sufrèt?- -Eh i tortee ...agh vrè c’la sòca ch’a vò fat laser là!- -alora, l’è gia in do i’hom dét che a cà, as siòm andee a torla ‘na matena ‘d bonora, i’even paura che un quelch-don la fess fora-. L’aj, la sigòla e i pomdor ien in d’l’ort, cnun pistaden ‘d’gras, las-s’rè la so mort; dai mama, as sià cunset cnal gras?- -Am cree di penser cnal vostri vòii, oeter ragas: donch tra coser la sòca fer al sufrèt e dop cos-r i tortee agh vol più ‘d-na manèla ‘d chi malgas che a cateri su i san fat tant suder; e dòp st’inveren quand riva-l frèd s’a drovia per feruv scalder?. pag - 67
  • 68. La zucca nostrana Per procurarsi i culmi del mais(malgas), si dovevano: tagliare le cime(fiore), le foglie (bràttee), previo accordo col proprietario del podere. Infine dopo la raccolta delle pannocchie, si tagliavano, si facevano le fascine (mannelle) e si potevano portare a casa avendone acquisito il diritto di proprietà. Molti braccianti agricoli a quei tempi e le famiglie di operai cercavano di fare questi accordi con le aziende agricole, o con i contadini del luogo, per procurarsi combu- stibili solidi, in sostituzione della legna, troppo costosa per i loro magri bilanci (più o meno fino agli anni 50-55). E’ successo nell’azienda agricola “Stanze”, a S.Bernardino, ad una famiglia del luogo, mentre appunto staccavano le foglie dai culmi, di trovare nel bel mezzo del campo di mais una rigogliosa zucca nostrana attaccata alla rama. Mamma!, hanno esclamato in coro i figli, abbiamo una voglia matta di tortelli, se nascondessimo la zucca in mezzo ad un indumento e la portassimo sotto il letto, che ne diresti? Per l’amor di Dio, non dirlo neanche per scherzo, se lo venisse a sapere il padrone ci negherebbe i malgas. La voglia di tortelli accompagnata dalla fame di quei tempi, prese il sopravvento e consci della disobbedienza, fu un tutt’uno il detto e il fatto:Con un colpo perfetto, la mattina dopo, la zucca giaceva di già sotto il letto. Passato un pò di tempo, i ragazzi rinnovarono alla mamma quando avrebbe esaudito il loro desiderio. -Eh! rispose, ci vorrebbe quella zucca che abbiamo lasciato in campagna- -Allora guarda sotto il tuo letto, il colpo lo facemmo il mattino dopo dell’avvistamento, per la paura che qualcuno notandola, ce la portasse via. Ce li condisci con una battuta di lardo con dentro i pomodori che abbiamo nell’orto?- -Mi create parecchi pensieri con le vostre voglie, figli miei. Dunque, tra fare il soffritto, cuocere la zucca poi i tortelli, immaginate quante mannelle di “malgas” ci vorranno? Poi quando arriverà l’inverno e farà freddo, cosa useremo per riscaldarci? pag - 68
  • 69. Don Luciano P. e-l pit in loterea Una festa, una segra sensa loterea, in un paes c-al vel, “l’è una mnèstra sensa sel”. Per l’ocasion al noster pret, l’eva escogitee un sistema segret, suo personel: “fer vinser quèl a ognun, ma-l prem premi a nison” “e, a forsa ed rester lè, un pit, l’era dvente-un piton”. An salteva mai fora, al biglièt dal prem estrat, l’andeva semper-a di distrat; e al don al rideva!, ment’ra-l dzeva un Pater e un’Ave Marea, la perpetua curiosa la ghe dmandeva: perchè adès rédel Perior, propria Lò che-l nè réd mai? -tal see che a réd cun j’Angei, adès tes e dagh un tai. Dòp ed’la mètee dal mes ed Magg, S.Bernarden, l’è-l noster sant, a la mèsa, l’è-l moment ‘d cateres insèm, tut quant. Al gheva prèsia ed finir per dir content che “nison ha vint al “pit”, a un cert punt d’la liturgea al moment ed-deres la man per scambier al sègn ‘d-Pace; l’è steda anca l’ocasion, de scolter la so pepetua: dal scolten l’ha fat un scat, come s-less ciapee un s-ciaf, e,”da la Pace è gnu la guèra”, acsè tra un det e un fat, l’ha sbatu tut quant per tèra: l’eva det chi eva vint al prèm: -s’an n’era mea per mè, al piton al s-rè incòra lè!-. Voltee vers i soo fedei più ignari, che informee: -lèè imposebil! l’ha sbrajee, al preton un po sgarbee: perchè-l biglièt a g-l’ho in cà mè, in d’la supera in dal bufè; - infati al m’è gnu in man, quand i’ho tot i piat da parcier per al disner, ha rispost l’ingenua Clove, e l’ho mess in mèz a chieter, in dal tregn, là sòta-l s-cer-. Dal màdoni, as-siòm sicur, che, al n’ha mea mai tiree, ma, s-l-ha ciamee per nòm, un a un, tut quant i sant, da vuder al calendari cun dent’r-anch S.Antoni, l’è stee perchè in dal stès moment, al cateva armes-cee ai fedei un quelch somari. pag - 69