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IL PICCOLO DI TRIESTE – 20 APRILE 2011

La riforma tradita
di Sergio Bartole



Chi segue il dibattito sulla riforma dell’autonomia ed indipendenza della Magistratura, difficilmente
sfugge all’impressione che l’on. Berlusconi poco contribuisca alle discussioni in corso con argomenti
adeguati al livello di un intervento che intende incidere sull’assetto futuro del potere giudiziario negli
anni che verranno. Personalizzando il conflitto in atto con i magistrati, egli finisce per far rientrare le
proposte governative tra le misure volte a tutelare la sua personale posizione, così evitando di fornire
argomenti atti a giustificare le scelte ispiratrici della proposta in ragione di più generali esigenze di
interesse nazionale. Privilegiando il tema delle sue individuali disavventure giudiziarie, nulla dice
sulle motivazioni più alte e di larga rilevanza che, nell’intento del Governo da lui presieduto,
dovrebbero giustificare le scelte del riformatore. In tal modo facilita il lavoro dell’opposizione, alla
quale riesce agevole ricondurre la discussione nei termini usuali della polemica contro le leggi ad
personam, siano esse leggi destinate a favorire la posizione processuale dell’attuale Presidente del
Consiglio ovvero a consentire a questi di vendicarsi con chi – a suo dire – lo perseguita. In tal modo
l’opposizione viene esonerata dal più gravoso compito di dire perché essa non accetta la proposta
revisione costituzionale, puntualizzando i motivi che la spingono a rifiutarla in toto.

Laddove, in effetti, per l’ampiezza del disegno riformatore, il tema meriterebbe ben altro
approfondimento. Sono almeno tre le prospettive dalle quali esso può essere affrontato. Anzitutto,
come sempre in materia di giustizia, vengono in giuoco gli standard delle democrazie liberali
occidentali. E da questo punto di vista vi sono disposizioni nella proposta governativa che sembrano
riprendere modelli in atto in altri Paesi europei o accettati dai documenti in materia del Consiglio
d’Europa. Questi, ad esempio, non escludono che i membri dei Consigli superiori della magistratura
non superino la metà dei componenti del collegio, come è previsto nella proposta governativa. E vi
sono sistemi in cui la carriera dei titolari delle procure è tenuta separata da quella dei magistrati
giudicanti sino al punto di arrivare a prevedere – come fa il disegno governativo – la creazione di un
distinto consiglio superiore per i procuratori. Ma è difficile trovare sistemi in cui questi ed altri
strumenti di limitazione e regolazione del giudiziario diversi da quelli vigenti da noi in forza della
costituzione repubblicana, sono tutti assieme accettati dall’ordinamento costituzionale agli effetti
restrittivi di uno così aggiungendosi quelli degli altri. Lo stesso si dica per la dipendenza o la
separazione delle polizie giudiziarie dalle procure, ovvero per il giudizio disciplinare dei magistrati,
che è talvolta affidato – come vorrebbe Alfano - ad organi distinti dai consigli superiori, ma per lo
più – almeno così esigono i documenti delle istituzioni europee che si occupano del problema – con
una composizione che dia ai magistrati giudicati garanzia di neutralità ed imparzialità e di estraneità
agli interessi politici.

Una riforma del giudiziario non può, quindi, essere tutta sbilanciata a colpire la magistratura con un
insieme di scelte unilaterali e faziose, specie se essa è proposta per sostituirsi alla vigente
Costituzione nella parte in cui disegna un sistema organico e compiuto di autonomia ed
indipendenza. Ed è a questo punto che si pone il problema della compatibilità della riforma con i
principi fondamentali del vigente sistema costituzionale. Anche ad ammettere che alla revisione
costituzionale sia consentito modificare questo o quell’aspetto degli assetti del giudiziario, è
compatibile con quei principi fondamentali una così incisiva riforma? Una riforma che viene a
stravolgere tutte e tutte nello stesso momento, con misure che singolarmente prese possono piacere o
spiacere, le garanzie di indipendenza oggi fornite in Costituzione? Se il dibattito non fosse legato alle
sorti giudiziarie dell’on. Berlusconi, anche di questo non si potrebbe fare a meno di discorrere
coinvolgendo opposizione e maggioranza.

Tanto più che resterebbe ancora da sviluppare un’ultima prospettiva di esame, quella più strettamente
politica. Politica non perché riguarda i rapporti fra le forze politiche, ma politica nel senso più alto di
verifica dell’adeguatezza o meno di così massivo trasferimento di modelli stranieri in una società
come quella italiana dove gli inquinamenti della delinquenza associata e di una politica male intesa e
spesso mercificata rendono evidente la necessità di assicurare alla magistratura istituti che le
consentano di svolgere i suoi compiti al di fuori di ogni indebita e deviante influenza.

Sergio Bartole

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  • 1. IL PICCOLO DI TRIESTE – 20 APRILE 2011 La riforma tradita di Sergio Bartole Chi segue il dibattito sulla riforma dell’autonomia ed indipendenza della Magistratura, difficilmente sfugge all’impressione che l’on. Berlusconi poco contribuisca alle discussioni in corso con argomenti adeguati al livello di un intervento che intende incidere sull’assetto futuro del potere giudiziario negli anni che verranno. Personalizzando il conflitto in atto con i magistrati, egli finisce per far rientrare le proposte governative tra le misure volte a tutelare la sua personale posizione, così evitando di fornire argomenti atti a giustificare le scelte ispiratrici della proposta in ragione di più generali esigenze di interesse nazionale. Privilegiando il tema delle sue individuali disavventure giudiziarie, nulla dice sulle motivazioni più alte e di larga rilevanza che, nell’intento del Governo da lui presieduto, dovrebbero giustificare le scelte del riformatore. In tal modo facilita il lavoro dell’opposizione, alla quale riesce agevole ricondurre la discussione nei termini usuali della polemica contro le leggi ad personam, siano esse leggi destinate a favorire la posizione processuale dell’attuale Presidente del Consiglio ovvero a consentire a questi di vendicarsi con chi – a suo dire – lo perseguita. In tal modo l’opposizione viene esonerata dal più gravoso compito di dire perché essa non accetta la proposta revisione costituzionale, puntualizzando i motivi che la spingono a rifiutarla in toto. Laddove, in effetti, per l’ampiezza del disegno riformatore, il tema meriterebbe ben altro approfondimento. Sono almeno tre le prospettive dalle quali esso può essere affrontato. Anzitutto, come sempre in materia di giustizia, vengono in giuoco gli standard delle democrazie liberali occidentali. E da questo punto di vista vi sono disposizioni nella proposta governativa che sembrano riprendere modelli in atto in altri Paesi europei o accettati dai documenti in materia del Consiglio d’Europa. Questi, ad esempio, non escludono che i membri dei Consigli superiori della magistratura non superino la metà dei componenti del collegio, come è previsto nella proposta governativa. E vi sono sistemi in cui la carriera dei titolari delle procure è tenuta separata da quella dei magistrati giudicanti sino al punto di arrivare a prevedere – come fa il disegno governativo – la creazione di un distinto consiglio superiore per i procuratori. Ma è difficile trovare sistemi in cui questi ed altri strumenti di limitazione e regolazione del giudiziario diversi da quelli vigenti da noi in forza della costituzione repubblicana, sono tutti assieme accettati dall’ordinamento costituzionale agli effetti restrittivi di uno così aggiungendosi quelli degli altri. Lo stesso si dica per la dipendenza o la separazione delle polizie giudiziarie dalle procure, ovvero per il giudizio disciplinare dei magistrati, che è talvolta affidato – come vorrebbe Alfano - ad organi distinti dai consigli superiori, ma per lo più – almeno così esigono i documenti delle istituzioni europee che si occupano del problema – con una composizione che dia ai magistrati giudicati garanzia di neutralità ed imparzialità e di estraneità agli interessi politici. Una riforma del giudiziario non può, quindi, essere tutta sbilanciata a colpire la magistratura con un insieme di scelte unilaterali e faziose, specie se essa è proposta per sostituirsi alla vigente Costituzione nella parte in cui disegna un sistema organico e compiuto di autonomia ed
  • 2. indipendenza. Ed è a questo punto che si pone il problema della compatibilità della riforma con i principi fondamentali del vigente sistema costituzionale. Anche ad ammettere che alla revisione costituzionale sia consentito modificare questo o quell’aspetto degli assetti del giudiziario, è compatibile con quei principi fondamentali una così incisiva riforma? Una riforma che viene a stravolgere tutte e tutte nello stesso momento, con misure che singolarmente prese possono piacere o spiacere, le garanzie di indipendenza oggi fornite in Costituzione? Se il dibattito non fosse legato alle sorti giudiziarie dell’on. Berlusconi, anche di questo non si potrebbe fare a meno di discorrere coinvolgendo opposizione e maggioranza. Tanto più che resterebbe ancora da sviluppare un’ultima prospettiva di esame, quella più strettamente politica. Politica non perché riguarda i rapporti fra le forze politiche, ma politica nel senso più alto di verifica dell’adeguatezza o meno di così massivo trasferimento di modelli stranieri in una società come quella italiana dove gli inquinamenti della delinquenza associata e di una politica male intesa e spesso mercificata rendono evidente la necessità di assicurare alla magistratura istituti che le consentano di svolgere i suoi compiti al di fuori di ogni indebita e deviante influenza. Sergio Bartole