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ANNO XX - FASC. I. MARZO 1939-XVII
ìa r v i/Ta
DALMATICA
DIRETTA DA
ILDEBRANDO TACCONI
S
C asa Ed. E. de S c h ó n fe ld
Z A R A
LA RIVISTA DALMATICA
F o n d a ta n e l 1899 d a LUIGI ZILIOTTO e ROBERTO GHIGLIANOVICH
Redattori ■ O. RAND1, A. FILIPPI, M. PERLINI, A. SELEM
-------K>f-------
Pubblica articoli che illustrano la DALMAZIA, nella sua storia, nella sua vita,
nella sua fede.
Interpreta i palpiti della sua passione, nutrita d’ eroico dolore, benedetta da
una divina speranza.
Esce in fascicoli trimestrali.
PREZZO D'ABBON AM EN TO: ITALIA L. 27,50 -ESTERO L. 50
PREZZO D I UN FASCICOLO SEPARATO L. 7,50
DIREZIONE: ZARA - VIA N. TRIGARI, 3.
A m m in is tr a z io n e : CASA EDITRICE E. d e SCHÓNFELD - ZARA
INDICE DEL FASCICOLO:
B ru n o F ra n c h i — Per la storia della Dalmazia nel Risorgimento.
A ld o D u ro — Gabriele d’ A nnunzio vate d’ Italia.
M a rc o P e rlin i — Giuseppe Sabalich letterato e storiografo zaratino.
O s c a r R an di — Ricordando un originale che fu un fiero patriota.
T u llio E rbe r — La Colonia Albanese di Borgo Erizzo presso Zara.
— Bibliografia Dalmata.
Finito di stampare il 10 aprile 1939 - XVII
DALAATICA
I lIR E T T A D A
ILDEBRANDO TACCONI
ANNO X X - FASC. I
C a s a E d . E . d e S c h ö n f e l d
Z A R A 1939 - A. XVII
“ ate conoscere ai vostri amici la nostra
Rivista e procurateci degli abbonamenti.
Senza di questi La Rivista Dalmatica
avrà vita stentata : è vostro interesse
darci il mezzo di migliorare il periodico.
Pei la Storia della Dalmazia nel Risoigime
(CON DOCUMENTI INEDITI)
(Continuazione - V. numero prec.)
Nella stessa lista, cui abbiamo dianzi accennato, compare il nome di
Spiridione Popovich, possidente di Sebenico, maestro di lingua illirica a
Niccolò Tommaseo, in seguito suo intimo amico e corrispondente.
Di lui si dice che fu sempre dedito a letture di tendenze rivoluzio­
narie ; aveva saputo però mantenersi abbastanza tranquillo sino al ’48, epoca
in cui si era mostrato nemicissimo all’ Austria e per primo aveva istigato
la formazione della guardia nazionale.
Si accenna anche al dott. Antonio Cortellini di Sebenico « il più
svegliato talento della città, facondo, ammirato dalla gioventù e per tutto
ciò dagli assennati chiamato la peste di Sebenico ».
Sin dal ’48 si era apertamente mostrato nemicissimo all’ Austria e
vivamente propenso per la rivolta italiana; amico del Tommaseo, non
aveva mai tralasciato di sostenerne le massime. Insieme a parecchi altri
aveva apposto la sua firma sul ricorso presentato al Capitanato circolare
per F allontanamento dalla città del colonnello Bolis, divenuto inviso per
F unico motivo che era attaccato all’Austria. (1)
All’ inizio della guerra del 1859 si raccomanda in un dispaccio se­
greto ai capitani circolari della Dalmazia di « abbattere con prontezza la
maligna influenza che venisse esercitata da malcontenti, da male intenzio­
nati e da emissari del partito rivoluzionario, e specialmente si raccomanda
di vigilare sul comportamento e sui passi del partito italiano nazionale
come pure sull’ influenza che da questo lato venisse esercitata e sui ten­
tativi che venissero fatti dall’ estero». (2)
Vedremo in seguito quali informazioni daranno le autorità dalmate
sul minaccioso atteggiamento del partito nazionale italiano e sull’opera di
(1) A.P. a. 1855.
(2) A.P. a. 1859.
4
propaganda da esso svolta. Ad ogni modo è significativo il fatto che da
parte delle autorità si parli apertamente di un « partito nazionale ita­
liano ».
Anche durante la guerra del ’59 numerosi furono i dalmati che ac­
corsero ad indossare la divisa dell’ esercito italiano, tra gli altri Luigi
Seismit-Doda, cui già abbiamo accennato, il quale anzi, 1’ anno seguente,
militerà tra le file dei garibaldini ; e non dubbie prove del loro valore
offriranno durante la campagna del ’60 i dalmati Tivaroni, Zanchi e Ga­
lateo.
Che Garibaldi pensasse ad una spedizione liberatrice in Dalmazia
ancor prima del ’66 lo prova, oltre una lettera di Antonini che conside­
rava questa spedizione come una continuazione dell’ impresa siciliana, (1)
anche un appello diramato nell’ ottobre del ’60 dal Comitato rivoluzio­
nario di Milano e sequestrato a Fiume, che si esprimeva nei seguenti ter­
mini :
« Signore, essendo questo Comitato a conoscenza di quanto faceste
pel passato, non tarda avvisarvi che qui si sta formando per l’ intrepido
Generale la spedizione per la Dalmazia, Fiume e Ungheria. Certo che vor­
rete condurvi utile per la patria, vi si prega con sollecitudine a voler
presso i patrioti della vostra città fare una colletta di denaro accettando
qualsiasi somma, e più presto possibile farne spedizione. Acciò la polizia
tedesca non scopra le vostre intenzioni, cioè amor patrio, spedirete possi­
bilmente in oro il denaro che voi gentilmente riscuoterete, a questo indi­
rizzo : Giuseppe degli Amadori, fermo in posta, Milano » (2)
Ed una mattina dello stesso mese si trovarono fra le commettiture
di alcuni negozi di Zara dei manifestini con il seguente invito agli istriani
e ai dalmati di arruolarsi nella marina italiana per la liberazione di Ve­
nezia :
Istriani e Dalmati !
A voi, forti abitatori della costa orientale dell’Adriatico, l’ Italia risorta al grido:
Viva Vittorio Emanuele ! fa ora appello, a voi che già sui mari faceste temuto e glo­
rioso il vessillo di S. Marco
A prontamente riordinare e completare la flotta del nuovo Regno Italico in
modo che ne soddisfi agli urgenti bisogni e cooperi al completo riscatto della gran
patria comune, si richieggono e presto molti e buoni marinai.
Istriani e Dalmati 1 Quando si tratta di formare la flotta dell’ Italia Una, a voi
del pari che ai Liguri, ai Toscani, ai Napoletani, ai Siculi spetta il diritto di accor­
rervi, a voi ugualmente ne incombe il dovere, perchè quel mare che è patrimonio
comune deve alfine esser libero ai reciproci commerci dei fratelli, nè deve più sof­
frire l’ insultante spettacolo di navi italiane e di italiani marinai comandati in una
lingua che non è la loro, che non è quella che già condusse i loro padri sotto il Leone
alato a tante vittorie.
(1) T a m a ro : «La Vénétie Julienne et la Dalmatie » II pag. 431.
(2) A.P. a. 1860.
5
fa
Istriani e Dalmati! già molti dei vostri fratelli militano sotto le bandiere di
Vittorio Emanuele e del suo Garibaldi ; già molti hanno pagato il loro tributo di san­
gue alla causa della libertà, e si sono coperti di gloria. Imitateli, e correte ad offrire
le potenti vostre braccia, il vostro indomato coraggio, la vostra valentìa marinaresca
alle navi d’ Italia.
È Venezia che ve ne prega, la già vostra Venezia, che ancora sospira di esser
liberata dal giogo straniero, e che si conforta nella dolcissima speranza di veder
presto voi stessi balzare pei primi dalle vittoriose prore sulle cento sue isole a pian­
tarvi per sempre il incolore vessillo.
Dalle Lagune Venete, nell'ottobre 1860 (1)
Vivissima era allora 1’ attesa di Garibaldi anche nei piccoli villaggi
della costa e delle isole, come ci è attestato da numerosi atti della poli­
zia, in cui si parla di una grande agitazione fra i contadini in seguito alle
notizie sulla marcia trionfale di Garibaldi e sulla possibilità di un suo sbarco
sulle coste dalmate. (2)
Ma la prova più evidente dell’ attesa ansiosa che regnava in larghi
strati della popolazione e dei veri sentimenti degli italiani della Dalmazia,
è data da un atto segreto inviato dal luogotenente Zanchi, dietro ordine
superiore, ai capi pretorili della Dalmazia e che riporto per intero:
« Da persona di fiducia che, dopo un viaggio di diporto fatto lungo
la costa del mare Adriatico, è ritornata a Vienna, S. E. il ministro di po­
lizia ha conseguito la seguente descrizione sull’ andamento delle cose po­
litiche in Dalmazia :
Che le città marittime sono già guadagnate per la rivoluzione da
emissari piemontesi.
Che fra gli studenti, i giovani impiegati ed il ceto delle signore regna
il più grande entusiasmo.
Che nei circoli di famiglia si fanno di continuo filaccie le quali in
pacchetti vengono rimesse a Garibaldi.
Che la maggior parte delle signore portano legami di calze a tre
colori.
Che le insegne dei leoni di pietra della vecchia repubblica di Venezia
vengono ovunque restaurate.
Che un gran numero di pescatori si troverebbero già assoldati con
le loro barche dalla propaganda.
Che esisterebbero delle commissioni per 1’ approvvigionamento della
flotta di Garibaldi la quale viene attesa di momento in momento.
Che il municipio di Sebenico è del tutto di sentimenti italiani e non
sarebbe da dubitarsi che sia di cointelligenza col nemico.
Che gli emissari si aggirano travestiti nella maggior parte da pescatori
e contadini ». (3)
(1) A.P. a. 1860.
(2) A.P. e B.P. a. 1860.
(3) B.P. a. 1860.
6
Il capitano circolare di Spalato, in una lettera, che sarà riprodotta
più avanti, confermava tristemente che le informazioni pervenute al luo­
gotenente erano, nella loro grande maggioranza, rispondenti al vero e
denotanti lo stato d’animo della popolazione soggetta all’Austria.
La questione per l’ annessione della Dalmazia alla Croazia, che
nel ’48 s’ era risolta con il categorico rifiuto da parte dei rappresentanti
dalmati di aderire al triregno, risorse nuovamente nel ’60.
In quell’ anno il bano di Croazia, Wranjiczany, chiese al Consiglio
dell’ Impero che fosse convocata la Dieta croata per deliberare sulle mo­
dalità dell’ annessione della Dalmazia alla Croazia conformemente alle
promesse imperiali e alle rivendicazioni ungheresi e croate dopo Campo-
formio.
A questa proposta si oppose il conte Francesco Borelli, rappresen­
tante della Dalmazia, affermando che la sua terra non riconosceva alcun
diritto sulla sua corona derivante dal trattato di Campoformio. (1)
E la Congregazione municipale di Spalato affermava che i rappre­
sentanti croati domandavano alla Dalmazia « il più grande sacrificio, quello
di uccidere la propria madre, la civiltà italiana ». (2)
Ma ormai i fautori dell’ annessione erano decisi a continuare la lotta
sino in fondo, anche se fra gli stessi slavi della Dalmazia l’ idea di una
unione con la Croazia trovasse non pochi ostacoli.
Troppe erano le benemerenze acquistate dall’ elemento italiano nella
regione perchè d’ un tratto gli slavi della Dalmazia potessero dimenticarle
per affidarsi a quei fratelli del nord che invocavano 1’ unione, non tanto
per un sentimento ideale di nazionalità, quanto, piuttosto, per poter af­
frontare con più sicurezza i Magiari e per fondare uno stato croato.
« Noi abbiamo bisogno del vostro mare e dei vostri marinai » !
Questa era 1’ esplicita affermazione egoistica dei croati di fronte ai dal­
mati. (3)
Le elezioni però che si fecero in quell’ anno per la Dieta dalmata
rappresentarono una netta vittoria degli autonomisti italiani di fronte agli
annessionisti; le località della costa e delle isole furono tutte favorevoli
all’ idea dell’ autonomia.
E quando poco dopo una rappresentanza di annessionisti croati de­
cise di recarsi a Vienna per perorare la causa dell’ annessione, guidata
dall’ arcivescovo di Zagabria, Strossmayer, i deputati provinciali italiani
della Dalmazia si portarono anch’ essi nella capitale austriaca e riuscirono
per allora a sventare le mire dei croati.
(1) Cerineo-Lucio : « Memorie storiche intorno alla Dalmazia » pag- 43.
(2) Ta m a ro : op. cit. II pag. 450.
(3) Cerineo-Lugio : op. cit. pag. 87.
1
L’ arcivescovo di Zara, Godeassi, malgrado la sua tarda età e la mal­
ferma salute, volle accompagnare la deputazione a Vienna e mori appena
rientrato nella sua diocesi in seguito alle fatiche subite durante il viaggio.
La sua morte produsse un’ impressione enorme in tutta la Dalmazia. Agli
occhi degli autonomisti sembrò santificare la loro causa colla bellezza del
sacrificio. (1)
La lotta però si faceva sempre più accanita, le idee degli annessio­
nisti cominciavano a farsi strada fra le popolazioni dell’ interno, ignoranti
per natura e quindi facili ad assorbire tutto ciò che si presentasse ai loro
occhi con un colore di novità.
L’Austria poi non mancava di soffiare abilmente nel fuoco, sostenendo
gli slavi.
Specialmente dal ’59 in poi Vienna, temendo che alla perdita della
Lombardia tenesse dietro anche quella delle altre regioni italiane da lei
occupate, si era rafforzata sempre più nell’ idea di sacrificare in Dalmazia
la civiltà italiana e di appoggiare 1’ opera di slavizzazione della regione.
L’ unione della Dalmazia ad una grande Slavia nel corpo dell’ im­
pero absburgico avrebbe spento ogni irredentismo e dimostrata infondata
ogni pretesa sulla regione da parte dell’ Italia.
Gli slavi poi erano diventati degli apostoli convinti della grande
Austria, che permetteva loro di creare nel seno stesso dell’ impero un grande
regno su cui potevano esercitare un’ apparente sovranità
L’ arcivescovo Strossmayer, uno tra i più caldi apostoli di questo
ideale, esprimeva chiaramente il pensiero slavo: « Per la nostra cara vec­
chia Austria io darei subito la mia vita. È nel suo seno che noi, slavi
occidentali, dobbiamo vivere, diventar grandi, giungere al compimento dei
nostri destini ». (2)
E non altrimenti si esprimeva lo scrittore slavo Mattia Ban, affer­
mando che il governo austriaco, di fronte alle tendenze separatiste del-
1’ elemento italiano, aveva un interesse grandissimo a dare tutto lo sviluppo
possibile allo slavismo nelle provincie, come l’ Istria e la Dalmazia, con­
finanti con l’ Italia e agitate dalla propaganda italiana. (3)
La lotta che si svolgerà, specialmente dal ’65 in poi, fra l’elemento
slavo, forte dell’appoggio del governo e della facile opera di persuasione
svolta fra il ceto rozzo della popolazione montana disposta a commettere
ogni sorta di violenze, e quello italiano, fiero della propria superiorità in­
tellettuale e dei diritti derivantigli da lunghi secoli di assoluto predominio,
sarà sempre più aspra e lentamente, ma inesorabilmente, porterà all’ an-
(1) T am aro : op. cit. Il pag. 459.
(2) De L ave le ye : « La Péninsule des Balkans » I pag 88.
(3) Kasandric : op. cit. pag. 105.
8
nientamento di grandissima parte dell’ opera svolta dagli italiani della
Dalmazia.
11 partito autonomo rappresentò in quegli anni in Dalmazia il senti­
mento nazionale italiano.
Gli irredentisti del ’48 si trovarono allora fra le file degli autono­
misti.
Basti ricordare per tutti la figura nobilissima di Antonio Bajamonti,
che fu podestà di Spalato dal gennaio 1860 all’ ottobre 1880, anno in cui
il consiglio comunale italiano veniva sciolto ed i croati s’ impossessavano
del municipio.
Se il nome era cambiato, il programma era sempre quello.
In quei momenti però, di fronte ai croati che chiedevano puramente
e semplicemente 1’ annessione, era naturale che gli italiani rispondessero
stringendosi in un partito che, in contrapposizione a quello annessionista,
si chiamò autonomo.
Dichiararsi esplicitamente italiani sarebbe stato allora inutile e peri­
coloso : l’Austria ne avrebbe profittato più di quanto in realtà ne profittò
per dare un appoggio ancor più forte agli slavi nella battaglia ingaggiata
da questi ultimi per tradurre in realtà i propri sogni ambiziosi.
Tuttavia i croati compresero bene quello che realmente significava
l’ autonomia per i dalmati, e lo comprese anche Vienna: completa indi-
pendenza della regione da qualsiasi intervento croato e gelosa conserva­
zione dell’ antico carattere italiano.
Più tardi, quando la situazione generale politica fosse stata favore­
vole ed il neocostituito regno d’ Italia si fosse maggiormente consolidato,
il partito autonomo sarebbe nominalmente scomparso ed al suo posto si
sarebbero trovati tutti gli italiani di Dalmazia ; allora, e nel ’66 la spe­
ranza fu vicina a tradursi in realtà, quando a Spalato erano già state ap­
prestate le bandiere tricolori per salutare i marinai di Persano, il sogno
dei patrioti antichi e nuovi di Dalmazia si sarebbe finalmente avverato.
A dimostrare quali realmente fossero i sentimenti degli italiani di
Dalmazia in quegli anni cruciali, vale la pena di riprodurre per intero tre
lunghe « informazioni » del capitano circolare di Spalato alla Luogotenenza
sulla situazione politica nel 1860 nella sua giurisdizione e per riflesso nel
resto della Dalmazia, « informazioni » che, come tante altre riprodotte in
questo lavoro, non sono state ancora rese pubbliche.
Richiesto dalla Luogotenenza di presentare una lista di individui che
presumibilmente, in caso di un attacco da parte nemica o di malcontento
nell’ interno, si sarebbero messi alla testa di una sommossa popolare, il
capitano circolare di Spalato allega ad un lungo elenco di nomi la se­
guente dichiarazione :
« Come scorgerà V. E., la maggior parte di quelli compresi nel­
9
l’ elenco sono nomi già noti d’ individui compromessi ancora nel 1848,
per alcuni dei quali in appresso cessò la sorveglianza di polizia, a cui
erano assoggettati, perchè credevasi che si fossero migliorati, o piuttosto
perchè si nutriva lusinga che i tempi difficili non fossero per ritornare.
Ma, com’ altra volta ebbi occasione di osservare, i nemici del Governo di
anni addietro sono i suoi nemici anche oggi, perchè, mutata la maschera
secondo comportavano i tempi mutati, non tardarono a mostrarsi quali
erano da prima, tostochè le circostanze ridivennero difficili ed imbaraz­
zanti.
Come ho detto, l’ elenco contiene i nomi di alcuni ; ma non è a
credersi che quelli soltanto sieno i nemici del Governo, e che in quei soli
il partito sovversivo potrebbe trovare fautori e proseliti. L’ infezione è
molto più estesa ; per questo ho dimostrato anche nel mio rapporto 28
settembre, che il miasma può dirsi alle coste così generalizzato, che più
facile riescirebbe nominare quelli che, formando 1’ eccezione, ne restano
finora incolumi, anziché indicare coloro che ne sono imbevuti fino al
midollo.
Infatti, parlando sempre delle classi meno rozze della popolazione,
pochissimi sono i veri e leali amici del Governo, quelli che per mutare
di eventi non cambiarono mai di principio, e sono attaccati alla causa
dell' ordine per sentimento e verace convincimento.
La generalità all’ opposto è tutta avversa all’ attuale ordine di cose
e non attende che una spinta per mostrarsi ed oggi stesso che l’ approdo
di un legno nemico dall’ estero o la notizia di una sommossa interna de­
cidesse i più entusiasti a porsi alla testa di un movimento, non sarebbero
che troppi i seguaci che troverebbero. .
Fra i più entusiasti poi e che particolarmente pericolosi si presen­
tano, perchè atti e disposti a mettersi alla testa di un movimento, io cal­
colo il dr. Bajamonti, 1’ avv. Giovannizio, il sacerdote Michele Granich e
Giovanni Brainovich.
In mezzo a questi due estremi havvi una terza categoria d’ individui,
che, senza principio ed egualmente ligi od avversi a qualunque Governo
o sistema governativo secondo che sia in condizioni prospere od avverse,
va fluttuando dalla causa del Governo a quella dell’ opposizione e vice­
versa, a seconda delle circostanze e dei momenti.
Conosco più d’ uno di questi ermafroditi politici che, nel mentre le
condizioni del Governo sono prospere e favorevoli, approfittano dei più
futili pretesti per porsi in vista delle autorità e profondere proteste di at­
taccamento e di affetto, ed appena i tempi diventano un poco difficili ed
imbarazzanti, voltano le spalle per tenersi pronti a ingrossare le file degli
oppositori.
Resterebbe alla causa del diritto e dell’ ordine la classe più rozza
della popolazione. Ma anche di questa, parlo sempre di quella delle coste
10
e delle isole, non mai della parte montana, sulla quale si può riposare
con tutta fiducia, pochissimo conto può farsi, perchè, sebbene di senti­
menti leali, pure soggezionata dal contegno della classe più colta, domata
dai bisogni e infiacchita dal timore di vedere scemate le proprie risorse
rompendola apertamente con quella, palesa una certa pusillanimità e titu­
banza che assai poco lascia sperare per un’ occasione decisiva e stringente.
Per tutto ciò non posso che ripetere essere tempo che misure ener­
giche vengano adottate, e che il Governo, cessando di illudersi contando
sull’ attaccamento di questo o di quello, provveda da sè con energia e ri­
solutezza alla propria conservazione. » (1)
E poco tempo dopo invia la seguente lettera a riconferma della
prima : « Nell’ ultimo mio rapporto ho procurato di delineare più al vero
che mi fu possibile il quadro delle condizioni attuali delle città marittime
di questo Circolo per ciò che si riferisce ai sentimenti ed alle tendenze
politiche degli abitanti costituenti l’ elemento italiano, prendendo a mo­
dello la città di Spalato, la quale pella sua maggiore importanza, per il
numero della popolazione e per più abbondanti risorse materiali, fu sem­
pre ed è anche al presente quella che serve ad esempio alle altre e ne
fomenta le passioni e le tendenze.
In quella mia relazione ho cercato dimostrare come il Governo nulla
affatto possa contare sull’ attaccamento di quella parte degli abitanti che
parlano l’ italiano e vogliono come italiani pensare ed agire ; ho descritti
gli individui posti alla testa degli affari municipali: ed ho dichiarato che
al più lieve sentore di moti insurrezionali nell’ interno o di più diretti
attacchi dall’ estero il fuoco, che va serpeggiando fra noi, non tarderebbe
a scoppiare in incendio.
I fatti pertanto giunti a cognizione dell’ Eccelso Ministero di Polizia,
e sull’ esistenza dei quali fui chiamato ad informare, toltine alcuni che mi
sembrano esagerati, e che non riguardano d’ altronde il mio Circolo, cor­
rispondono nel loro complesso a quanto fu già da me dimostrato a V. E.,
e perciò poche cose ancora mi restano a dire intorno ai medesimi.
Che a questa parte siano giunti emissari italiani della rivoluzione,
sebbene alla vigilanza delle Autorità non sia riuscito di riconoscere per
tali persone determinate, pure in qualche modo può ammettersi come cosa
certa.
Infatti, sebbene vi sia anche fra noi gente per se stessa affezionata
alla causa italiana e di sentimenti ostili al Governo, pure le simpatie ed
il mal represso fanatismo difficilmente avrebbero potuto estendersi al grado
al quale sono giunti, qualora influenze esterne non avessero agito opero­
samente per la loro diffusione.
(1) A.P. a. 1860.
11
Che se, per quanto le Autorità invigilano, pure non riuscì finora di
cogliere taluno di quelli che vanno seminando le massime sovversive e
guadagnando proseliti alla causa della rivoluzione, ciò dipende dalla cir­
costanza che questa dannosa influenza viene esercitata non tanto da emis­
sari propriamente detti, i quali espressamente con questo solo scopo s’ in­
troducono fra noi, quanto piuttosto da individui i quali per altri scopi
legittimi vengono a queste parti, ma ripieni la mente ed il cuore di mas­
sime riprovevoli che vengono poi sparse fra gli abitanti indigeni.
Infatti, a causa di molte fabbriche fattesi eseguire da privati in que­
sti ultimi anni e così pure per l’ esercizio di altre arti ed industrie, arri­
varono dall’ Italia parecchi individui, il passato dei quali è affatto ignoto,
e che si stabilirono a questa parte come tagliapietre, muratori, ortolani e
simili. Questa razza di gente non può certamente nutrire sentimenti ed
opinioni contrarie a quelle che animano la generalità delle masse nella
loro patria; e siccome per la loro condizione si trovano in continuo con­
tatto colle classi più basse e meno civilizzate della popolazione, così fa­
cilmente vanno diffondendo fra questa le loro idee, forse anche molte volte
senza il pensiero di corrompere gli altri, ma solo per comunicare altrui le
proprie convinzioni ed opinioni.
Nelle ultime settimane bensì vi furono a Spalato tre approdi di pie-
leghi mercantili provenienti dagli Stati Pontifici e dalle due Sicilie.
Sebbene avessero ricapiti rilasciati dall’ illegittimo Governo, furono
però ammessi a pratica in forza delle istruzioni che l’ Ufficio di Porto
ebbe in proposito daH’Autorità prepostagli.
Lo scopo indicato del loro arrivo era puramente commerciale. Le
persone eh’ erano a bordo figuravano come marinai : e finché si tratten­
nero qui, non diedero motivo ad osservazioni. Però, dopo partiti, la voce
pubblica ripeteva che fra l’ equipaggio vi fosse un farmacista o medico di
Napoli ed un forte possidente della Puglia.
Ora è certo che l’ idea d’ intraprendere tali viaggi e di celarsi sotto
1’ abito del marinaio non poteva in tali individui esser suggerita che da
uno scopo di carattere politico, il quale però non sarà stato forse rag­
giunto appunto in grazia della sorveglianza a cui furono assoggettati.
Non v’ ha dubbio poi che fra gli studenti, specialmente fra quelli che
studiarono in Italia, non vi siano forti simpatie per gli italiani.
Di signore che portino legacci tricolori, non ho cognizione. Facil­
mente però di simili adornamenti tricolorati se ne troveranno non pochi
e presso le signore e presso i negozianti di oggetti di moda i quali fanno
le loro provviste in Italia.
D’ una sola signora di Spalato l’ esterno abbigliamento ha attirato-
l’attenzione, e questa è la consorte del Podestà Bajamonti, la quale an­
cora mesi addietro, ritornando da Venezia, incominciò a frequentare il
Teatro spoglia affatto di quegli adornamenti del capo e del resto della
12
persona che altre volte sfoggiava, e ciò per imitare le ostentazioni di lutto
e cordoglio delle venete matrone, completando il costume con un venta­
glio di semplice legno e carta, essendo però il legno di color rosso, la
carta d’ un colore traente al verde e tempestata di stelle bianche argentate.
Fra i più giovani impiegati, nei quali non sono ancora cancellate le
impressioni ricevute durante gli studi universitari, è certo che le simpatie
per l’ Italia durano vive abbastanza e vengono alimentate da altri di ori­
gine italiana dei quali, specialmente nel ramo giudiziario, ve n’ ha un nu­
mero non indifferente.
Che i membri della Congregazione municipale siano in corrispon­
denza col nemico non potrei assicurare. Certo è però che i membri stessi,
e nominatamente Bajamonti e Giovannizio sono stretti in intimità col pro­
fugo avv. G. Nani, il quale può bene immaginarsi se resterà inoperoso
nelle attuali complicazioni politiche e se cercherà di tener desti gli animi
dei propri amici e fautori con una corrispondenza epistolare vagheggiando
il momento dello scoppio di qualche disordine in cui esso deve aver fon­
date tutte le sue speranze.
Nè il Nani è il solo spalatino o dalmata che sia all’ estero e che
abbia tendenze ostili al nostro governo e motivi di promuovere disordini
a questa parte. Vi sono due Seismit-Doda ed un Cattalinich, Maggiore al
servizio del Piemonte, i quali stanno in corrispondenza con parenti ed
amici di Spalato; e v’ ha Tommaseo, il quale, sebbene sembri tenersi lon­
tano presentemente dalle cose politiche d’ Italia, tuttavia per i fanatici dal­
mati rappresenta quasi l ' anello che li congiunge agli interessi ed agli
sconvolgimenti di quel paese.
Fatto è che degli avvenimenti d’ Italia i fanatici di qui sono sempre
minutamente informati, anche nei dettagli che sfuggono ai giornalisti; e,
per dare un esempio, Ancona non era ancora caduta, quando qui già si
sapeva che il suddetto Maggiore Cattalinich era rimasto ferito nel bom­
bardamento.
Dunque corrispondenze vi sono, ed essendovi, non è possibile che
non abbiano scopi ed effetti pericolosi ed incendiari, perchè è certo che i
suddetti individui, legati al governo piemontese, agiranno senz’ altro nelle
viste di esso.
Ora è indubitato che il governo piemontese si adopera con ogni
studio per guadagnarsi simpatie anche fra noi e procurare imbarazzi al
nostro Governo. » (1)
E ancora nello stesso anno (2) c’ è un lunghissimo rapporto di
questo zelante funzionario sul conto degli individui che negli ultimi tempi
(1) A.P. a. 1860.
(2) A.P. a. 1860.
13
hanno ottenuto passaporti per gli Stati italiani e per la Francia ; questa volta
poi dipinge con colori ancora più foschi la situazione politica nel suo
Circolo.
Non approva questi rilasci di passaporti, perchè « i viaggiatori, i quali
ritornano dai paesi che sono il teatro della rivoluzione e del disordine,
portano seco, quasi inevitabilmente, le impressioni ancor vive di un’ ab­
bagliante e chimerica libertà ; e, ripiena la mente d’ idee corrotte e forniti
talvolta di libri incendiari e di giornali delle città insorte, diffondono a
questa parte i semi pestiferi del malcontento e dell’ avversione contro
ogni vincolo di legittima dipendenza.
Se questi semi cadessero in terreno non disposto a riceverli e fecon­
darli, la cosa non presenterebbe forse per sè tal grado d’ importanza e di
pericolo da farne gran conto. Ma fatalmente fra noi, debbo dichiararlo
altamente, sebbene con dolore, il terreno è anche troppo bene preparato
e pronto a dare frutti i più abbondanti e pericolosi.
Le idee e le opinioni politiche vanno ogni giorno più diventando
esaltate e pericolose. E ciò non tanto per il progresso che va giornal­
mente facendo in Italia la rivoluzione e il disordine, quanto piuttosto per­
chè presentemente i malcontenti, i novatori, i nemici ed oppositori del
Governo e delle Autorità che lo rappresentano, trovano a Spalato un mo­
dello, ed hanno, può dirsi, una rappresentanza, la quale, per l’autorità onde
sono rivestite le persone che la compongono, per l’ influenza che tali per­
sone sono al caso di esercitare sopra certe classi, per la maschera di amore
patrio e di abnegazione sotto cui esse si nascondono, incoraggia i timidi,
fa imbaldanzire gli audaci, e tenta fino anche i più miti a spiegare il ves­
sillo dell’ opposizione ed a farsi fautori e fanatici della causa italiana.
Questa rappresentanza poi è formata da quegli stessi, i quali, in grazia
di una fiducia acquistatasi con ipocrito pentimento di precedenti trascorsi,
e che tradiscono con nuovi e più gravi trapassi, dal Governo cui ora
avversano sono stati destinati a rappresentare ben diversamente il proprio
paese ed a promuoverne ben altrimenti la prosperità ed il benessere.
Io parlo, Eccellenza, dei membri componenti l’ attuale Congregazione
municipale.
E così ne parlo perchè dopo un assiduo, coscienzioso e lungo studio
delle persone e dei fatti; dopo aver seguito attentamente il contegno loro
sì nella vita privata, come nell’ esercizio dell’ incarico pubblico ad essi af­
fidato, ho potuto acquistare l’ intimo e saldo convincimento essere le cose
giunte ad un punto tale che ogni lunga illusione, tolleranza o debolezza
potrebbe riuscire irreparabilmente fatale.
Seguendo la politica conciliatrice ispiratami da V. E. e indottomi io
pure a sperare che il contegno innocuo e tranquillo assunto negli ultimi
anni dal dottor Antonio Bajamonti fosse effetto di sincero ravvedimento,
anziché, com’ era realmente, sola conseguenza dei tempi ritornati tran­
14
quilli, non esitai ad appoggiare la sua nomina a Podestà di Spalato,
dimenticando eh’ egli era 1’ uomo che negli anni 1848-49 per le sue idee
esaltate, per la continua famigliarità coi più caldi partigiani della rivolu­
zione italiana, e per il censurabile ed impudente suo contegno non solo
era messo a capo dei sorvegliati politici, ma era stato perfino proposto
per l’ arruolamento forzoso, che per tutte le censurabili sue precedenze
aveva meritato che non più lungi del 1854 1’ Eccelso Dicastero Supremo
di Polizia gli negasse il chiesto passaporto per 1’ Estero, limitando anche
quello per l’ interno coll’ espresso divieto di portarsi a Vienna, e che in
ogni luogo dove si recasse doveva essere fatto rigorosamente sorvegliare
dalle autorità di polizia.
Per quanto ho esposto, fuori di ogni dubbio è dimostrato che il
dottor Bajamonti, nemico del Governo nel 1848, non si è mai ravveduto,
nè ha mutato idee e sentimenti; che l’ apparente suo contegno tranquillo
successivamente appunto non era che effetto delle mutate circostanze, ma
che il cuore restò sempre qual era; che appena i tempi ritornarono in­
quieti esso ritornò pure e forse con più calore a mostrarsi avverso al
Governo, ostile alle Autorità costituite e solo vago di scuotere ogni vin­
colo di legittima dipendenza; eh’ esso, in una parola, è quello stesso
individuo che veniva così al vero dipinto nel 1849 dal pretore politico di
allora, con i più neri colori. »
Parla poi degli altri assessori comunali, fra cui il Giovannizio, il
quale nel 1848 faceva parte delle schiere dei ribelli crociati « sotto il ser­
vizio di quello stesso Garibaldi che ora, trionfante nelle due Sicilie e
nello stato Pontificio, minaccia di molestare anche questo litorale.
Animati dal malesempio delle idee sovversive della Congregazione
municipale, demoralizzati dallo sprezzo per l’autorità pubblica e sfronta­
tamente ostentato da essa e particolarmente dal suo capo, esaltati dalle
voci che di continuo arrivano dall’ estero sui progressi della rivoluzione e
sulle possibilità di un attacco da parte di Garibaldi o del Piemonte, gli
abitanti di Spalato, appartenenti all’ elemento italiano, vanno giornalmente
diventando più caldi partigiani del nuovo ordine di cose che invase i paesi
sottratti ai Governi legittimi.
Fatti concreti non furono ancora azzardati.
Ma non conviene illudersi: il fuoco per essere nascosto non arde
meno, nè minore è il pericolo che al più lieve soffio esterno scoppi l’ in­
cendio.
Le idee sovversive cominciano a diffondersi anche nelle classi infe­
riori della popolazione ; e mentre giorni addietro mi veniva riferito, sotto
promessa di giuramento, un brano di discorso di quattro sfaccendati gio­
vinastri appartenenti alla classe civile i quali, passeggiando a tarda ora di
notte fuori della città verso le Paludi, andavano fra loro concertando il
15
modo in cui potrebbero allontanarsi dalia patria per congiungersi alle
schiere di Garibaldi, due giorni dopo mi si riferiva il dialogo di un’ igno­
rante femmina del volgo che alla sua maniera parlava della guerra vicina
che si teme con un altro Imperatore «più buono e più potente del nostro».
Dalla città il miasma va anche diffondendosi nelle campagne, e par­
ticolarmente discorsi congeneri si tengono anche dai più rozzi villici alle
Castella, dove, come bene consta a V. E., egualmente che a Traù, sono
già da lungo tempo radicate idee pericolose di socialismo e comuniSmo.
Si aggiunga che tre giorni addietro arrivò a questa parte un bastimento
napoletano vuoto con bandiera tricolore che fu fatta abbassare appena
giunto in porto, e che doveva esportare 50 cavalli qui acquistati. Opera­
zione questa che poteva avere due scopi, quello cioè d’ indebolirci all’ in­
terno e di fornire le schiere della rivoluzione di cavalli, che una volta o
1’ altra potrebbero essere impiegati contro noi stessi. L’ esportazione però
fu impedita.
Questi fatti, che a primo aspetto potrebbero sembrare futili e incon­
cludenti, sono invece seri e degni di tutta attenzione se si considerano,
come sono, sintomi del fermento che serpeggia fra la popolazione, della
diffusione sempre maggiore che vanno acquistando le idee sovversive nel-
l’ interno, e degli attacchi che ci possono venire dal di fuori.
Le rivoluzioni non si eseguiscono in un giorno, nè da un momento
all’ altro; ma si preparano poco a poco, incominciando dal demoralizzare
le masse, dallo screditare i Governi, dall’ avvilire le Autorità.
Si studino bene le origini dei disordini che fruttarono stragi e per­
dite irreparabili in Italia, e si vedrà che anche colà i primi sintomi erano
eguali a quelli che fra noi si vanno osservando, ed appunto perchè tra­
scurati e negletti arrivarono a quel grado di sviluppo che più tardi involse
ogni cosa nel generale incendio.
In tale stato di cose, con animi preparati al sovvertimento, con rap­
presentanti del paese che non studiano se non di demoralizzarlo coll’ esem­
pio e col consiglio, e col nemico di fronte come lo abbiamo al presente,
io non dubito di garantire per intimo convincimento a V. E. che al primo
segnale dell’ approdo di un legno nemico in aspetto d’ attacco a Spalato,
scoppierebbe un serio disordine, che potrebbe bensì essere represso colla
forza militare e colla reazione stessa che nel paese verrebbe sostenuta dalla
parte forte abbastanza dei popolani fedeli al governo austriaco, ma che ad
ogni modo distrarrebbe le forze necessarie a respingere i nemici esterni e
che lascerebbe deplorabilissime conseguenze.
E se anche, per un momento, non si voglia por mente a queste più
gravi eventualità, la posizione di un capo politico d’ un Circolo come
Spalato è già di per sè abbastanza desolante in questi momenti, posto
dirimpetto ad una Congregazione municipale come l’attuale.
Questi infatti sono momenti in cui i rappresentanti del paese do­
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vrebbero più che mai stringersi e collegarsi con quelli del Governo; sono
momenti in cui ogni più piccola freddezza, ogni più lieve malinteso
può cagionare gravissimi disordini. Inoltre quanti non sono i casi in cui
il Capitanato e l’Autorità Militare avrebbero bisogno di un Organo sulla
cui fedeltà, zelo e premura potessero contare !
Invece, stando com’ è la Congregazione municipale, non solo manca
quest’ aiuto, ma da essa vengono al Capitanato tutti i più seri imbarazzi.
E ne fan prova il nessun risultato ottenutosi fino ad ora dalle rac­
comandazioni direttele per promuovere l’ arruolamento dei volontari pei
Cacciatori, le mille difficoltà poste in campo per l’ importante affare del-
l’ acquartieramento della truppa, ed il nessun conto che può farsi della
Congregazione per la cooperazione negli scopi importantissimi di polizia,
perchè nessuna fiducia possono in tale riguardo meritare persone che hanno
esse medesime da essere sorvegliate.
Che se tutto ciò è vero come nessuno potrebbe negare senza negare
fatti reali e palpabili ; se il disordine è arrivato a tal segno che, lascian­
dolo di un solo punto avanzare, si dovrebbe veder rovesciato ogni ordine
sociale interno; se fra tali circostanze il titubare sarebbe delitto in chi è
chiamato a reprimere i sovvertimenti ed a garantire la tranquillità del pa­
cifico cittadino, io non posso, Eccellenza, che concretarmi in una sola, ener­
gica e decisiva proposta.
Tempi eccezionali reclamano misure eccezionali. La debolezza e titu­
banza fu mai sempre la rovina degli Stati, e fu anche in Austria, doloro­
samente, la causa di tanti danni sofferti e dell’ inquietudine che soffresi
ancora. La debolezza della Luogotenenza Veneta aveva negli ultimi tempi
ridotte le cose in quella provincia quasi all’ estrema rovina, 1’ energia in­
vece dell’ attuale Luogotenente Toggenburg, sebbene alquanto tarda, pure
seppe porre un argine al rovinoso torrente.
Spalato fu sempre, ed è particolarmente ora, in condizioni politiche
molto simili a quelle del Veneto.
Non conviene illudersi, Eccellenza ! Qui il governo austriaco ha molti
nemici, i quali non attendono che un esterno impulso per mostrarsi a
faccia scoperta.
Da Spalato si diffonderà poco a poco il miasma pestilenziale anche
agli altri Comuni e già, sebbene non mi spetti occuparmene, pure sento
che a Sebenico e in altre città ancora di diverso Circolo gli spiriti sono
altamente esaltati e pronti a spiegarsi.
Si cominci quindi tosto a Spalato e si schiacci nel suo nascere que­
st’ idra minacciosa e sono certo che con una energica misura per questa
città, cadono ad un punto inviliti tutti gli animi imbaldanziti dei liberali
del resto della Provincia » . . . .
Propone quindi che la Congregazione municipale sia sciolta.
« Che se anche questo non bastasse — aggiunge — mi farei dovere
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di proporre in seguito e a seconda delle circostanze, all’ E. V. 1’ allonta­
namento dalla città degli individui più pericolosi ed il loro internamento
in qualche parte lontana della Monarchia ».
Ho ritenuto opportuno riprodurre alla fine di questo lavoro queste
tre lunghe « informazioni » segrete, perchè documentano in maniera ine­
quivocabile dei sentimenti degli italiani della Dalmazia e delle gravi preoc­
cupazioni destate nei governanti austriaci dal movimento irredentistico.
Ho usato il termine « irredentistico », perchè è l’ unico che possa
abbracciare tutto questo travaglio spirituale degli italiani di Dalmazia :
passeranno gli anni, e, quanto più si accentuerà la violenza della battaglia
ingaggiata dagli slavi e dai tedeschi, tanto più quello spirito irredentistico
si rafforzerà nell’ animo dei patrioti e darà loro la forza necessaria per
attendere e sperare.
Bruno Franchi
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G A B R I E L E D ’ A N N U N Z I O
V A T E D ' I T A L I A
Si compie in questa sera 1*anno esatto da quando nel Vittoriale, il buon
ritiro dove aveva trascorsi i suoi ultimi anni nello studio, nel silenzio e nella
contemplazione, Gabriele d’ Annunzio compiva il suo transito umano. Le gesta
di cui egli era stato fautore e protagonista, le imprese eroiche da lui disegnate
e con ardore di combattente compiute, dalla contingenza della vita passavano
all’ immortalità della storia e assumevano quella forma indissolvibile con cui
resteranno a testimonianza d’una vita da lui stesso definita inimitabile. La sua breve
carriera politica che va dal salto della siepe, cioè dal passaggio fulmineo ed elastico
alla Camera dalla destra all' estrema sinistra, sino alla sconfitta elettorale del
1900 come deputato della città di Firenze ; la sua vita d’ eroe che va dal di­
scorso di Quarto alla Marcia di Ronchi, sono divenute ormai una pagina della
nostra storia, scritta nei caratteri energici ma fissi, immobili, rigidi delle cose
trapassate ; pagina che mentre accoglie la nostra spontanea intera ammirazione,
attende il giudizio sereno e spassionato di successive generazioni. Se anche altri
non 1' avesse già fatto, io vorrei evitare una rievocazione storica che non potrebbe
essere altro che una superficiale e arida esposizione di dati; tanto più che,
accanto a questa pagina di storia suggellatasi con la sua morte, D ’ Annunzio
ha lasciato di sè una parte viva, ha lasciato sè stesso, tutto sè stesso in quello
eh’ ei ci ha donato, nella sua opera scritta, opera che fuori dal furioso svolgersi
del tempo e fuori dalla fissità inderogabile della storia, rimane sempre mutevole
e sempre fresca e nuova testimonianza d’ una attività vastissima e molteplice,
estrinsecazione d’ una mente geniale ; opera in cui alle pagine più direttamente
autobiografiche si alternano pagine di lirica sublime, eletta, divina, in cui la
melodiosa raffinata finezza dello stile crea e scolpisce le imagini più trasparenti,
più ardite, più delicate.
Non dunque in quella fredda contingenza della storia ma in questa per­
petuità giovanile dell'opera noi sentiamo vivo G. d’Annunzio; in questa indi­
struttibile opera che senza falsa e stonata verbosità possiamo affermare che
vincerà il silenzio di mille secoli, noi lo sentiamo grande, lo sentiamo presente
fra noi e non più chiuso nella tenebra della sua morte.
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Per quella impenetrabile ma fatale necessità per cui il poeta, scoperta
1’ essenza dell’ arte e raggiunta la consacrazione della gloria, deve inevitabilmente
cedere dalla vita s’ egli vuole eternarsi nella sua opera ; per questa necessità
D ’Annunzio scomparendo di fra noi, è rinato in una nuova più splendente luce,
in un nuovo mito in cui la personalità caduca e oscillante dell* uomo, fonden­
dosi con la sua poesia, compone il suo molteplice aspetto nella unità e identità
assoluta dell’ arte. In questa mistica trasfigurazione ogni discordanza tra 1’ uomo,
l ’eroe, il poeta, si è appianata: noi non abbiamo più una triplice personalità
(una e trina), abbiamo una sola opera. Sarebbe dunque un errore visivo scin­
dere il poeta nei suoi tre aspetti di uomo-artista-guerriero. Solamente per questo
sbaglio di prospettiva, per questa scissione anatomica operata nell’ indivisibilità
dell’ artista, D ’Annunzio ha potuto essere incrinato dalla facile censura dei suoi
giudici e critici. Le varie voci, udite ciascune a sè, possono suonare stonate :
rendono mirabile armonia, se fuse insieme.
È per questo motivo soprattutto che io mi accingo a ricordare non diret­
tamente l’ uomo D ’Annunzio, ma indirettamente, attraverso il poeta, e più par­
ticolarmente il poeta civile ; perchè nella sua poesia civile noi troviamo insieme
e l’ uomo e l’ artista e l’ eroe. A questa stessa necessità di tralasciare la ricerca
d’ un D ’Annunzio sconosciuto nella episodicità della sua vita per volgerci so­
lamente alla sua poesia, accenna anche un nostro intelligente scrittore con le
seguenti parole :
« Quale altro miglior modo - egli dice -, ora che la morte aveva spaz-
« zato via ogni superfluo e nocivo residuo di dannunzianesimo nella persona
« stessa dell' inventore (che rievocare d’ Annunzio sotto l’ incorporea veste del
« poeta), per riscattarlo dalle ambagi della storia del costume e isolarlo nel
« solco luminoso della storia della poesia?... Tutti d’ anima sono i segreti che
« certo qualcuno di noi si prepara a rintracciare e a svelare nell’ opera di
« D ’Annunzio... oggi che tutto e soltanto nella pagina vuole e può essere con-
« siderato. Lì (cioè nella pagina, nella sua poesia) s’ annida il suo “ segreto,,;
« e sperar di coglierlo altrove è tentativo già infinito altre volte fallito, dunque
« vano e da non approvare ».
Alla fine dell’ anno 1899, inaugurando un ciclo di lezioni dantesche nella
Sala d’Orsanmichele in Firenze, G. d'Annunzio avviandosi al termine della sua
lezione avvertiva : « la melodia di Dante non può essere udita se lo spirito non
« entra in uno stato di grazia per mezzo d’ una visione mediatrice ». Io ripeterò
queste parole, adattandole con lieve modificazione al Poeta che oggi si rievoca :
la melodia di G. d Annunzio non può essere accolta se lo spirito non si di­
sponga ad udirla, raccogliendosi in quel sacro religioso mistico silenzio con cui
egli ci impone in una delle sue laudi più altamente liriche di ascoltare le voci
varie della natura; raccoglimento di spirito con cui egli ha certamente voluto
che i suoi lettori imprendessero a leggere e sentire tutta la sua opera poetica.
Le parole sue di questa laude (eh’ è “ La pioggia nel pineto „) sono quindi
20
opportuna prefazione a una breve sintetica rievocazione della sua opera :
« Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
A scolta............ ».
E parole più nuove sono quelle che noi leggiamo nel Poeta ; parole quasi
non nate da lui, ma da quella stessa Natura che, o fecondata dal folgorante
solleone, febbrile, assetata, fa pesare la terribile maturità della Messe nel me­
riggio (son parole sue), e risveglia nelle vene del poeta quella sete che gli è
più cara che tutte le dolci acque dei ruscelli ; o, piovendo dalle nuvole sparse
sulle piante del bosco, schiude 1’ anima a freschi pensieri : o infine incurva col
delicato lavoro dell' onda e del vento il lido rigato così come il palato, come
il cavo della mano ove il tatto s’ affina. Così, con queste parole dei suoi versi
alcyonii che io ho parafrasato, il poeta intende la Natura ; e noi potremo sen­
tire, ammirare, giustificare tutto D ’ Annunzio solo quando vedremo in lui il
poeta che cantando la Natura la domina; quella Natura che, imprecata da
G. Leopardi come inesorabile fato, temuta da G. Pascoli come ignoto mistero,
è da lui invece sempre cantata come terra pregna di frutti, fecondata nel con­
nubio col sole e con l’aria, terra ricca essa stessa di sensazioni carnali e san­
guigne. Qua, in questi versi alcyonii, irrorati anch’ essi di linfa terrestre, nati
anch’ essi per quel mistero non tenebroso nè pauroso ma illuminato di sole e
di luce per cui nascon le messi, in questi suoi versi di panica esaltazione della
Natura dominata e vinta, più che nelle sue Orazioni e nei suoi Messaggi, più
che nei suoi versi spronanti alla conquista d’ un impero ideale, »noi ritroviamo
il più vero, il più sincero poeta civile, il più certo preannunziatore di destini
più luminosi.
G. D ’ Annunzio è l’ uomo che ardisce e non ordisce, che osa e non
trama, convinto che ogni potenza nemica, sia pur essa la natura medesima, va
vinta affrontandola direttamente, con braccio inflessibile, con mente chiara e
cosciente della propria superiorità. 11 suo atteggiamento, quando si prescinda
da alcune sue opere del periodo così detto romano, in cui è più accentuata
quell’ ispirazione estetizzante che fu detta decadentismo, il suo atteggiamento,
ripeto, è sempre eminentemente costruttivo, volontaristico, ascendente : mai ne­
gativo, fiacco, disfattista. In questa sua fede è il più fecondo insegnamento per
le giovani generazioni, in questa sua fede che mentre gli detta i suoi versi più
ispirati, gli suggerisce anche le sue più persuasive e calde orazioni, lo mette
quasi solo a fianco a Benito Mussolini nella lotta per l’ intervento, lo scaglia
con un manipolo di legionari alla liberazione e conquista di Fiume, e infine, a
quasi ottant anni, lo fa colpire dalla morte improvvisa ancora vigoroso di mente
e di spirito, in un’ ora di ancor fervido lavoro.
21
La sua vita è una continua ascensione, in cui la parte eroica guerriera è
preceduta da una lunga spirituale preparazione poetica. Egli è costantemente
determinato da una decisa volontà di costruirsi : passa gradualmente da una
esperienza regionale erotica ad un’ esperienza mistica superumana eroica ad una
esperienza più cosciente di sè che è missione patriottica nazionale civile. 11 no­
vellista che in Terra Vergine ha cantato 1’ acre sollevazione dei sensi destati ed
inebriati dagli effluvii della terra accaldata dal sole ; lo scrittore brillante che
nelle colonne della “ Tribuna „ e nel romanzo “ Il Piacere „ ha ritratto la vita
lussuosa e languida dei salotti romani, il poeta imaginifico e musicale che ci
ha dato il suo capolavoro nei versi d’ Alcyone, diventa ora il vate d’ Italia e
dapprima coi drammi, poi col IV libro delle Laudi, infine con la sua parola
diretta nelle orazioni al popolo italiano si prepara a darci egli stesso col suo
braccio esempio di audacia e d’ eroismo civile.
Seguendo un cammino inverso da quello degli altri poeti, in un’ età in
cui generalmente 1’ artista che ha ormai espresso da sè tutte le energie materiali,
sfibrato nel corpo, si chiude nel suo mondo essenzialmente ed esclusivamente
spirituale ed astratto ; all’età, dico, di cinquant’anni (all’ inizio della guerra ne aveva
52 e al tempo dell’ impresa fiumana 57) egli scende dall’astrazione della poesia
e da vate civile diviene eroe nazionale, conciliando e fondendo, conforme alla
nostra più pura tradizione, secondo lo spirito più originale della nostra stirpe,
le due forze apparentemente contrastanti del corpo e dello spirito.
Come il poeta sia potuto divenire l’ eroe, e questo senza mai deviare
dall’ unica linea di vita da lui sempre seguita, è spiegato da un nostro giovane
studioso in un capitolo dedicato alla poetica di D ’Annunzio :
« Un forte alone volontaristico non manca mai nella produzione meno
« realizzata del D ’Annunzio... La sua umanità lo spinge ad immettere nell’arte
« il senso della propria vita e a vivere esteticamente la propria poetica nella
« pratica..... La produzione ispirata dalla poetica del superuomo e 1’ attività
« guerriera di D ’ Annunzio non sono in realtà che due momenti consanguinei
« di una stessa ispirazione ».
E con più chiarezza ancora un altro scrittore :
« L ’ ultimo dei tre capitoli ideali della vita di G. d’Annunzio è la par-
« tecipazione alla politica italiana. Appartengono a questo capitolo 1’ adesione
« alla guerra libica, l’ invocazione della guerra contro l’Austria, la campagna
« per l’ intervento, 1’ eroica partecipazione alla guerra, infine il lungimirante an-
« tiwilsonismo, l’ impresa di Fiume, il favore alla politica forte del Fascismo.
« Apparentemente queste gesta interessano più la storia politica che quella let-
« teraria. L ’ atteggiamento di D ’ Annunzio durante questi fatti, e quello che
« egli ha assunto nel settembre 1935 con il messaggio alla Francia per la
« questione etiopica e con il proposito espresso a Mussolini di “ non morire
« fra due lenzuoli ci richiama a quell’amore del rischio e dell’ eroismo che...
« è rimasto... uno dei caratteri costanti della psicologia dannunziana. La vita
« di D ’ Annunzio è più ricca e più curiosa delle sue opere : una linea eroica
22
« congiunge ininterrottamente il D ’Annunzio adolescente al D ’Annunzio fautore
« della campagna etiopica ».
Per questa linea eroica in cui uomo e poeta ritrovano la loro coerente
unità, noi non possiamo fare a meno di considerate D ’Annunzio come un precorri­
tore delle odierne aspirazioni italiane, un invocatore della politica ferma e di­
ritta del Fascismo. Egli, con quel sensibilissimo istintivo intuito che lo caratte­
rizza, aderì prontamente al nuovo travolgente movimento mussoliniano, riconobbe
il significato e la portata della Rivoluzione. E che egli abbia precorso questo
movimento di fede, ne sia stato il S. Giovanni predicante nel deserto, noi pos­
siamo affermarlo in quanto egli, in parte cospicua delle sue opere, si compiacque
di bandire il verbo progmatistico dell’azione, intese la vita come volontà di do­
minio, sferzò la fredda inintelligente ostruzionistica politica di governi deboli ed
inetti, diede alla sua parola un accento volitivo, una energia ascensionale, con­
siderò l’azione come impulso, spinta decisa, volontà di conquista. Le pagine
della sua poesia civile non possono quindi essere considerate soltanto come
pagine di letteratura, sia pure extrapoetica ed extraestetica, visione quindi um­
bratile di sogno: esse sono soprattutto pagine di vita, stimolo d’ eroismo, azione
patriottica spiegata a risvegliare negli animi degli Italiani la convinzione più
cosciente della loro potenza nella stessa conservazione delle loro più pure tra­
dizioni. Pagine che talvolta assumono un vero valore programmatico, divengono
schermaglia spietata contro tutte le forze nemiche che ostacolano più o meno
apertamente il cammino vittorioso e deciso della nostra Nazione.
Più che l’Alfieri, più che i poeti del nostro Risorgimento, più che il
Carducci stesso, egli possiede la chiara visione di quella che è la missione più
alta del poeta : quella di risvegliare nelle coscienze 1’ orgoglio nazionale ; la voce
del poeta deve risuonare come squillo di guerra, deve essere 1’ epopea che ac­
compagna il popolo nella sua marcia. Tanto più poi la poesia di D ’Annunzio
acquista d' efficacia quando le si deve riconoscere il valore di fase preparativa
alla sua azione politica. È chiaro che, in questa sede, a noi interessa soltanto
la poesia civile; ed è implicita ancora nelle mie parole la dichiarazione che,
come la sua poesia civile è sottolineata e commentata riga per riga dalla sua
azione diretta, dalle sue gesta guerriere, così queste vivono della loro più ful­
gida luce e trovano la loro esaltazione appunto nell’ opera poetica che le pre­
cede, le accompagna e le segue.
Dirò ancora che, mentre la poesia lirica e le prose di romanzo e alcune
delle tragedie dannunziane interessano più direttamente il critico letterario ; la
poesia civile interessa invece ed è dallo stesso Poeta diretta a tutta la Nazione,
a tutti i suoi cittadini. E male hanno fatto certamente quei critici che nello
studio della poesia dannunziana hanno trascurato questa che noi invece dichia­
riamo la sua parte più vitale. A nostro conforto però dobbiamo aggiungere che
pur c è stato in questi ultimi tempi, in cui finalmente s’ è acquistata la chiara
consapevolezza di tutti i valori della vita, qualcuno il quale ha detto : « Se
« non (si) vuol peccare di astrattismo storico, (si) deve dare grande valore
23
« anche alla non-poesia (alla poesia civile in altre parole), che per gli storici
« dell’ avvenire, ancor più liberati dalle polemiche col presente, assumerà sempre
« maggior importanza ».
E noi dunque, liberati dalle polemiche del presente, consideriamoci per
un momento storici dell’ avvenire e vediamo qual parte dell’ opera di G. D ’A n­
nunzio, non destinata alla sola ristretta cerchia degli studiosi e degl’ intellettuali,
ma alla totalità dei cittadini, gli abbia valso il nome di poeta civile, gli abbia
conferito il nobile titolo di Vate nazionale.
Anzitutto, D ’Annunzio nella sua poesia civile (e questo 1’ ho già detto),
è poeta d’ azione. Quest’ attività pragmatica di D ’ Annunzio è così sintetizzata
dal Bruers : « Volle essere più che poeta : maestro di vita, rivelatore di co-
« scienza civile, pionere d’ una via nuova per le generazioni contemporanee. E
« il primo compito eh’ egli volle assolvere fu quello di ricercare l’ Idea italica ».
Questa ricerca dell’ Idea italica - se così vogliamo chiamarla anche noi -
trova dapprima il suo appagamento nell’ esaltazione del mare, del nòstro mare,
e della forza navale italiana. Quest’ esaltazione, nella quale noi presentiamo
l’autore della Beffa di Buccari, trova la sua voce più potente nelle Odi navali ;
« in esse il tema predominante è quello che costantemente sarà sino alla pri-
« mavera del 1915 il fondamentale motivo patriottico del nostro poeta : la
« compiuta liberazione d’ Italia ». (Bruers).
Questa voce del mare, del mare che già nel Canto novo del 1882 è
gridato :
« o gloria, o forza d’ Italia »
risuona vivace e magnifica nel Prologo dell’ Armata d’ Italia (del 1888),
quando il Poeta scrive:
« Bastano i soli nomi delle navi per accendere negli animi la fiamma
« dell’ entusiasmo. Italia, Lepanto, Dandolo, Duilio, Castelfidardo, sopra ognuna
« di quelle prore sta per noi la Speranza alata ed in cima ad ognuna di quelle
« antenne brilla per noi il simbolo della Vittoria.
« Quale italiano, ne’ momenti suoi generosi, non ha avuto un fremito di
« orgoglio udendo nomi che portano in sè tanta grandezza di ricordi, tanta so-
« lennità di augurii, tanta forza di promesse ? Vive in Italia, profondo e immu-
« tabile, l’ amore del mare e della gloria navale, come ai tempi repubblicani.
« E una bella e nobile eredità che si perpetua di secolo in secolo nello spi-
« rito del popolo d’ Italia. Nessun’ altra aspirazione è più vasta, più concorde,
« più altamente nazionale. E i suoi colori non mai appariscono tanto fulgidi e
« tanto liberi e tanto vittoriosi agli occhi del popolo, quanto allorché son ve-
« duti ondeggiare sopra una nave possente ».
E più sonorità lirica acquista la voce del mare, per necessità storica indi­
spensabile alla potenza d’ Italia, nei versi seguenti delle O di navali del 1892:
Voi, navi a la Vittoria
sacre e alla gloria, voi
che per tutte le sponde
24
recate il divin nome
d’ Italia e il suo diritto
eterno e la sua nova
forza, raggiando come
fari, pronte al conflitto
supremo, a la gran prova,
belle e tremende e sempre
dai cuori a la futura
prova cinta di vóti,
o Navi a cui le tempre
la nostra fede indura
contro i perigli ignoti,
siate oggi benedette............
Nel 1904, nel secondo volume delle Laudi, l'Elettra, raccoglieva il poeta
i versi che vengono considerati come « il fulcro della poesia civile di D ’ A n­
nunzio ». In questo volumetto, ancora una volta, rivolgendo il suo saluto al Re
giovine che « chiamato dalla Morte venne dal Mare », egli dice alla Patria :
0 Italia, o Italia,
non ti vedremo noi sull' alba
per questo buon sangue che ti giova,
per la divina prova
di questa sacrificale morte,
rifiorir nel Mare ?
Nella stessa Elettra, riprendendo nella laude a Roma 1’ augurio dal Car­
ducci formulato nell’ inno per 1’ annuale della fondazione di Roma, esclama, in
versi noti :
O Roma, o Roma, in te sola,
nel cerchio delle tue sette cime,
le discordi miriadi umane
troveranno ancor 1’ ampia e sublime
unità. Darai tu il novo pane
dicendo la nova parola.
E nel Canto augurale per la Nazione eletta, rifondendo la leggenda sim­
bolica già ripresa da Pascoli, della prora di nave che avrebbe dato il vomere
a Romolo per tracciare il solco sul Palatino alla fondazione della città eterna,
addita alla Semprerinascente Italia il suo destino nei campi e sul mare :
Italia, Italia
sacra alla nuova Aurora
con l’ aratro e la prora 1
Ma per giungere a questa nuova Aurora di pace e di fecondità, 1*Italia
dovrà forse combattere; e il Poeta invoca anche la guerra, la guerra vittoriosa;
Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi
di strage alla tua guerra
e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti,
o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi,
aroma di tutta la terra.
25
Gli anni seguenti furono dal Poeta dedicati alla composizione di alcune
tragedie. Con queste, soprattutto con la Nave e con Più che /’ amore, prima
ancor d’ infiammare con le sue Orazioni e i suoi Messaggi gli Italiani alla
guerra, prima ancora di annunziare quasi profeta della guerra mondiale in una
delle Canzoni delle gesta d’ Oltremare che
« l’Africa (e allude alla guerra libica) non è se non la cote
ove affilammo il ferro, per l’ acquisto
supremo, contro le fortune ignote »
con queste tragedie, dico, Gabriele d’ Annunzio esprimeva il suo sogno impe­
rialistico.
Sul significato e il valore dell’ attività tragica di D ’Annunzio, scrive Luigi
Russo : Il teatro dannunziano « comincia sotto la volta di un qualche lempio di
« Melpomene e si cala poi sulle piazze di Roma, sullo scoglio di Quarto, e
* infine sulle vie di Fiume, dove... la tragedia da finzione scenica si consumerà
« prodigiosamente tutta nella realtà storica. In questo senso è possibile fare una
« storia positiva del teatro dannunziano: che poche volte è teatro di poesia,
« ma è quasi sempre teatro di profezia e di educazione... e di esortazione
« politica ».
La Nave è la tragedia più nazionalistica che il D ’Annunzio abbia scritto:
« Venezia è soltanto una metonimia dell’ Italia imperiale. “ Arma la prora e
« salpa verso il mondo,, è il verso che suggella la sostanza di quella poesia».
Anche Più che l’ amore, meglio che una tragedia è azione politica ;
« questa urgenza e pienezza d’ azione riscatta 1' erotismo e 1’ edonismo di D ’An-
« nunzio dalle possibili accuse di futilità e d’ inutilità...».
Nel discorso che presenta questa tragedia e ne costituisce la dedica il
Poeta dice :
« Anche riconosco la verità e la purità della mia arte moderna ; che
« cammina col suo passo inimitabile, con la movenza che è propria di lei sola,
« ma sempre su la vasta via segnata dai monumenti dei poeti padri.
« Per ciò io mi considero maestro legittimo ; e voglio essere e sono il
« maestro che per gli Italiani riassume nella sua dottrina le tradizioni e le
« aspirazioni del gran sangue ond' è nato : non un seduttore nè un corruttore,
« sì bene un infaticabile animatore che èccita gli spiriti non soltanto con le
« opere scritte ma con i giorni trascorsi leggermente nell’ esercizio della più
« dura disciplina... ».
« Qual mai potenza può oggi essere rivendicata contro la mia arte, se
« la mia arte ha celebrato e celebra nella più schietta e energica lingua d’ Italia
« le più superbe e le più sante potenze della vita ? ».
Nel 1911-12, quando il sogno imperialistico del Poeta comincia ad inve­
rarsi, nella Canzone d’ Oltremare egli leva il suo canto a glorificare la Patria.
E son versi potenti, di vibrata passione :
26
I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi,
o Vittoria senz’ ali. È giunta l’ ora.
Tu sorridi alla terra che tu predi.
Italia ! Dall’ ardor che mi divora
sorge un canto più fresco del mattino,
mentre di te 1’ esilio si colora.
Oggi più alta sei che il tuo destino...
E dopo esaltata in dieci canzoni l’ impresa libica, nell’ ultima delle dieci
conchiude il suo canto mestamente, con il rammarico dell’ esule :
Ah, non dieci canzoni, dieci navi
d’ acciaio martellato con l’ istessa
forza d’ amore, o Patria, dimandavi...
Ahimè, non ho se non il mio tormento
e il mio canto. L’ oblio breve è finito,
e nell’ oscuro cuore io mi sgomento.
Ma gli appare la visione d’ un’ Italia più radiosa, d’ una Italia chiamata
mediante una « silenziosa disciplina » (Bruers) a destini più alti ; e questa vi­
sione lo ravviva :
Così divina Italia, sotto il giusto
tuo sole e nelle tenebre, munita
e cauta, col palladio su l’ affusto,
andar ti veggo verso la tua vita
nuova, e del tuo silenzio far vigore
e far grandezza d’ ogni tua ferita.
Nella mia notte, sopra il mio dolore,
questa suprema imagine risponde.
Chiudila nella forza del tuo cuore.
Non n’ ebbe la tua guerra di più grande.
Chi mosse al nostro Poeta 1’ accusa di insincero, e lo fece forse in buona
fede, non conobbe certamente l’ impulsiva vigorosa spontaneità di questi versi.
Fossero in buona fossero in cattiva fede i suoi censori, G. D ’Annunzio
poteva tre anni più tardi, alla vigilia della grande guerra, e sempre più ardi­
tamente negli anni successivi, dare tale prova della propria virtù civile, e del
modo con cui egli stesso l’ interpretava, che avrebbe potuto degnamente rispon­
dere con Dante « e questo sia suggel eh’ ogn’ uomo sganni ».
La sera stessa infatti del ritorno dal volontario esilio di Francia, il 4 Mag­
gio 1915, G. d’ Annunzio parlava a Genova:
« Tutta Genova è in piedi, stanotte, come nelle adunanze delle grandi
« deliberazioni. E la fede di Genova ritrova 1’ antica parola del suo potere
« civico, il grido breve dalla volontà latina : Fiat ! Fiat 1 Sia fatto I Si compia !
Quel che è necessario, si compia !
La integrazione della patria si compia I
La resurrezione della patria si compia !
Questo vogliamo, questo dobbiamo volere ».
27
#**
Gli anni che seguirono furono per il Poeta soldato anni d’ azione, di vita
attiva, di combattimento. E io non mi farò qui a ripetere date e fatti che tutti
indubbiamente conoscono. Le sue imprese, la sua guerra e la gesta fiumana,
furono da lui stesso commentate principalmente nel Notturno e nei libri che
costituiscono la Penultima Ventura. Nel libro primo di quest’ opera egli ha
trascritto la lettera indirizzata il 15 gennaio del ’919 a Ercolano Salvi e Gio­
vanni Lubin : lettera nella quale egli, offrendosi tutto per la nostra causa « fino
all’ultimo», così conclude:
« Dalmati fedeli, se l’ ingiustizia si compia - e il nostro Dio ne disperda
« 1’ ombra imminente - voi caricherete le vostre barche coi rottami delle pietre
« gloriose, e vi imbarcherete con essi ; e uscirete anche voi nel mare del
« vostro amore disperato ; e vi lascerete andare a picco, voi e le reliquie, per
« ritrovare nel profondo i nostri morti, non più servi ribaditi ma uomini liberi
« tra uomini liberi.
« Seguitando la mia vocazione, io sarò con voi : forse non io solo ».
E nel secondo libro è anche trascritta la lettera indirizzata il 21 settem­
bre 1919 ai Dalmati latini, ai Fratelli di Dalmazia, lettera che nell’ originale
prezioso si custodisce gelosamente nella sede del Guf di Zara, e che è stata
esposta al pubblico zaratino nella mostra di ricordi dannunziani indetta dallo
stesso Guf. E la voce del suo pianto, è il suo « rammarico di non aver forze
bastevoli » per accorrere alla « voce remota e straziante » della Dalmazia irre­
denta, della Dalmazia la cui fedeltà, come la fedeltà di Fiume, « è onore
d’ Italia ».
M a due mesi più tardi, il 14 Novembre 1919, egli trova nella propria
tenace fece e nella passione dei Dalmati invocanti, le forze bastevoli e compie
quella che egli chiamò la « faustissima impresa di Zara ». « In quel mattino di
« primavera, egli ricorda, respirammo la sua santità come nella leggenda aurea,
« come nei luoghi mistici del consumato amore. La città intera, con le sue
« mura e con le sue creature, era come un inno religioso... ». « Risalutiamo i
« compagni rimasti laggiù tra la Porta Marina e la Porta di Terraferma, risa-
« lutiamo il bel nostro Battaglione del Carnaro, che è laggiù il buon seme fiu-
« mano, l’ assiduo levarne di fede e di libertà, la chiara malleveria della nostra
« promessa.
« Dal ponte della nave carica di ghirlande, come quella degli antichi riti
« vittoriali, noi dicemmo al popolo addensato : “ Ieri, davanti alla sacra ban-
« diera di Giovanni Randaccio, v’ inginocchiaste con movimento sublime. Per
« sollevarci fino a voi, o Dalmati, bisognerebbe che ora c’ inginocchiassimo.
« Ma sul ponte di una nave da guerra non si può non restare in piedi. In
« piedi vi gridiamo la nostra gratitudine senza fine, il nostro amore senza mi-
« sura, la nostra promessa senza mancamento,, ».
E la promessa fu senza mancamento ! !
28
* **
Diciotto anni più tardi, il 1° Marzo 1938, in questo stesso giorno, quasi
in questa medesima ora alle 20.05 precise, Gabriele d’ Annunzio assurgeva,
cinto della splendente aureola di gloria, della quale forse mai nessun poeta fu
così universalmente e così lungamente cinto, assurgeva al cielo degli eroi, dopo
aver vissuto intensamente nell’ opera sino all’ ultimo istante la sua vita inimita­
bile ; si spegneva forse più arso dell’ ardore dello studio che abbattuto dal male
improvviso, dopo aver accompagnata e seguita 1*Italia sino a quell’ alto destino
eh’ egli le aveva vaticinato. Forse mai nessun altro poeta, se non il solo Vir­
gilio, che fu vate di Roma antica così come G. d’Annunzio è stato il vate
dell’ Italia rinnovata, ha potuto chiudere i suoi occhi mortali in giorni più sereni
per la propria Patria, quella Patria che oggi lo piange e che a lui, diretta
espressione della purità d’ una stirpe incontaminata, rivolge ancora un estremo
saluto.
Aldo Duro
(Commemorazione letta nella Sala della Filarmonica di Zara la sera del 1° Marzo XVII)
G IU SEPPE S A B A L IC H
LET T ERA T O E S T O R I O G R A F O Z A R A T IN O
Abbiamo conosciuto Giuseppe Sabalich - come molti zaratini della
nostra generazione - in uno dei suoi luoghi preferiti, durante il quotidiano
riposo, in uno dei suoi atteggiamenti più comuni, seduto, quasi rannic­
chiato, nell’ angolo più remoto della Libreria Nani.
Ragazzo, accompagnavo il babbo a comperare i giornali, e durante
i cinque minuti della sosta di prammatica, avevo agio di osservare il
« vecio Sabalich » accarezzarsi a scatti, colle dita nervose, la barbetta e i
lunghi baffi, da tempo brizzolati; rosicchiando un bocchino fissava i suoi
occhietti scuri piccoli vispi mobilissimi, un attimo, ora su 1’ uno ora su
1’ altro, mentre, quasi con circospezione, gettava in mezzo al discorso un
motto arguto, una battuta di fine umorismo che quasi sempre svelavano
una vasta dottrina in generale e soprattutto una conoscenza, che non sarà
facilmente mai superata, di uomini, cose e avvenimenti d’ ogni tempo della
sua adorata città.
Nato a Zara il 13 febbraio 1856 da Giuseppe e da Rosa Vucovich,
fu portato di pochi mesi a Venezia dove dimorò fino al 1866, e dove
fece la prima ginnasiale al S.S. Gervasio e Protasio. Stabilitasi la sua fa­
miglia a Zara incominciò a scrivere giovanissimo (sedicenne, tenne su per
qualche numero un giornaletto scritto e stampato a mano da studenti gin­
nasiali, il «Tra Noi» nel 1872); laureatosi in legge a Graz ottenne un
posticino al « Governo » dove era pure consigliere il padre suo; spirito
d'artista, insofferente d’ogni schiavitù burocratica e già anelante a una più
libera e intensa attività giornalistica e storica, lasciò ben presto il posto ;
gli tenne dietro il padre che chiese il pensionamento, non sembrandogli
più opportuno confinare a servire il Governo, dopo di aver dato il proprio
consenso al figlio di allontanarsene. Più tardi il Sabalich si mise a fare
pratica notarile nello studio del Pappafava, ma presto si accorse, e tutti
con lui, che non avrebbe mai avuto nessun desiderio di diventare notaio
e che la pratica notarile gli serviva, forse inconsciamente, di pretesto per
sviscerare e disotterrare i più interessanti e preziosi elementi da quella
miniera di libri, pergamene e manoscritti che costituivano la nota biblio­
teca Pappafava.
30
Fu questo forse il periodo di maggior preparazione, gli anni nei
quali scoprì se stesso e gettò le basi della sua opera futura ; 1’ epoca in
cui i suoi grandi amori per Venezia e per Zara si fusero nel crogiuolo
d’ una vasta e minuziosa cultura ; e vennero uno dietro l’altro i vari studi,
su molteplici argomenti storici, archeologici, folclorislici, venne tutta la
opera di Teatro - la sua grande passione (una settantina circa di com­
medie, oltre ai monologhi, alle critiche teatrali, alle biografie d’ artisti,
alle cronistorie di teatri), venne la sua opera poetica e letteraria e soprat­
tuto la sua intensa collaborazione a quasi un centinaio fra giornali e ri­
viste, da un modesto periodico di Cerignola « L’ Ofanto » alle carducciane
« Cronache Bizantine », dalle patrie « Scintille », che fondò e diresse, alla
vallardiana ottocentesca « Natura ed Arte » e alla moderna milanese « Let­
tura », dai baiamontiani « Avvenire » e « Difesa » al giornale del Caprin
« Libertà e Lavoro ». Oltre ai suoi studi preferiti si occupava saltuaria­
mente di chiromanzia, di problemi cinematografici, di musica : è certo che
di molte sue canzoni, incominciando da quella del « Sì », il Sabalich ha
creato anche il ritmo, ma che ignaro di ¡strumentazione, di partitura e di
tecnica, dovette servirsi dell’ opera del Levi.
Ma, allora, noi - e del nostro prossimo si conosce sempre prima la
parte caduca - del « vecio Sabalich », all’ infuori di sapere nella maniera
più incerta, ch’era un cultore di storia patria invecchiato fra le vecchie
carte, non conoscevamo nulla, che la sua proverbiale timidezza, le sue
quasi ridicole paure. Arrivavano alle nostre orecchie le voci dei suoi giri
più lunghi pur di non passare sotto il campanile del Duomo per paura
che proprio in quell’istante avesse a cadere, forse pensando, permeato
com’ era di venezianità, che il campanile di Zara dovesse seguire quello
glorioso di S. Marco; correva sul suo conto la storiella che nei caffè
avesse una morbosa paura di bere da bicchieri pubblici, ma che d’ altro
canto, veneziano anche in questo, non potendo fare a meno di andare'al
caffè, portasse con se un compiacente fidato e specializzato amico, perchè,
ordinate due birre, questi bevesse di nascosto un sorso prima da un bic­
chiere poi dall’ altro, di modo che nessuno potesse accorgersi dell’ inno­
cente trucco. Si sentiva ancora raccontare - malignità tipicamente veneziane
dei suoi concittadini - della sua previdente mania di dormire sempre con
porte e balconi spalancati per potersi più celermente salvare in caso d’un
ipotetico incendio ; della sua idiosincrasia a toccare il bottone d’un cam­
panello elettrico, e di tante altre piccole fisime, alcune delle quali però,
oltre a denotare una ipersensibilità, mostravano a nudo il suo gran cuore:
così per anni ed anni sorresse materialmente e moralmente - senza rico­
noscenza - l’ ipocondriaca macchietta del Gaudenzio Nicola, o in occa­
sione di qualche minima lite procuratagli artificialmente da esperti
conoscitori del suo carattere, pagava spesso di tasca e di salute, per
timore di complicazioni e di vendette, pur essendo sempre dalla parte
31
della più netta ragione; segni di bontà che i suoi amici chiamavano,
e noi pure suoi biografi chiameremo, in ischietto veneziano, col nome di
« fregae ».
Insomma del « vecio Sabalich » io, quindicenne, avevo un’ idea piut­
tosto unilaterale per dirla eufimisticamente, ed anche il « Sì » che in quei
primi anni della redenzione sgorgava spontaneo, trionfale e festoso dalle
bocche dei dalmati tutti ed echeggiava più volte al giorno nei cortei, nei
ritrovi, nelle piazze, nei caffè senza che mai il popolo si stancasse di can­
tare le elettrizzanti strofe, anche il « Sì », senza del quale non si può
concepire tutto il periodo del nostro irredentismo che va dal 1890 al 1914,
quel « Sì » che cantato con pericolo e sottovoce anche durante la guerra,
eruppe dai petti nel novembre del ’18 e riempì di se ogni giorno, ogni
ora di quegli anni di gioie, di speranze e di delusioni, perfino quel « Sì »
non riusciva a colorire ed innalzare ai nostri occhi la pallida e ormai
curva figura del suo autore, conosciuta da noi solo parzialmente e catalo­
gata ormai fra i timidi e i pavidi. Ma forse quella canzone era tanto con­
naturata nel popolo di Zara, era tutto il popolo, era tutta Zara, che a noi
ragazzi non sembrava nata da uno solo e forse allora non pensavamo,
come lo pensiamo ora, che Giuseppe Sabalich aveva personificato l’anima
popolare in un epoca eroica di tutta una città.
Quello che più tardi, studenti liceali estetizzanti in erba, ci fece
guardare con occhio più curioso e con nuovo interesse l’emaciata figura
di quell’arguto vecchietto, quasi raccolto in se, seduto su d’ uno sgabello
di una libreria o d’ una farmacia, e diede la spinta a conoscere meglio
tutta la sua opera e la sua vita - l’artista e 1’ uomo -fu 1’ esserci capitato
fra le mani, in una delle scorribande nella biblioteca paterna, un vecchio
numero deH’Annuario Dalmatico e l’ aver incominciato, più per capriccio
che per buona volontà, a leggere le prime righe d’ un atto unico di Giu­
seppe Sabalich: presi dalla vivezza e modernità del dialogo, dalla fre­
schezza della lingua e forse anche dalla mondanità dell’ argomento, finita
la lettura della commediola in un’ora, chiedemmo subito al babbo se quel
Sabalich moderno, brillante ed umano commediografo era quel timido topo
di biblioteca che vedevamo, ormai sempre più raramente.
Giuseppe Sabalich moriva il 13 settembre del 1928.
Il Comune di Zara, trascorsi i dieci anni di veto prescritto dalla legge,
ha voluto intitolare una delle sue calli più tipiche al poeta della sua vene-
zianità : amò, il Sabalich, Venezia con passione e nostalgia da buon za-
ratino, amò Zara con paterno amore da vecchio veneziano ; era il rappre­
sentante più^perfetto e più puro di tutto quel complesso di cose che da
noi, mezzo secolo fa, valeva a significare il binomio Zara-Venezia, era la
quintessenza della zaratinità ; nacque, scrisse il « Sì » ed esalò 1’ ultimo
respiro in tre diverse case, tutte di Calle Larga!
E questo zaratino al cento per cento, questo nostro concittadino co­
32
noscitore profondo della sua città, nello spirito e nelle pietre, come nes­
suno lo fu mai nè forse mai lo sarà, noi dobbiamo ora a nostra volta
conoscerlo seriamente per poterlo amare con riconoscenza e sincerità,
senza che pesi sui nostri giudizi e sui nostri sentimenti il ricordo di un
« vecio Sabalich » erroneamente ritenuto sempre timoroso, sempre incerto,
sempre troppo prudente.
Certo non era nato per 1’ azione politica o per comandare alle masse,
ma era un forte del sentimento, un emotivo, un raffinato nel significato
più simpatico della parola; ebbe la facoltà di entrare nell’ anima del po­
polo e di farla vibrare tutta nelle più riposte ed intime sensazioni.
Già in una delle sue pagine giovanili, in un bozzetto delle «Chiac­
chiere Veneziane », scriveva : « Sono un leone dell’ idea e un paralittico
della volontà », ma in più di un' occasione la volontà non gli mancò ; la
volontà non gli mancò quando, insieme a pochi altri volle assistere ad
una messa per Tommaseo nella chiesa di S. Simeone rimasta deserta perchè
alt’ ultimo momento la polizia aveva manifestato parere contrario a tale
dimostrazione; nè la volontà gli sarebbe venuta meno qualora si fosse
presentata la necessità di doversi suicidare: aveva infatti giurato e fatto
giurare alla moglie, che, se Zara non avesse dovuta essere annessa al­
l’Italia, lei avrebbe dovuto coll’unico figlio riparare in penisola e lui, per
timore di attraversare l’Adriatico, si sarebbe subito ucciso.
Ecco le « paure » del Sabalich : fobia d’ una traversata per mare e
non paura di darsi la morte; un suicidio che non sarebbe stato una vi­
gliaccheria.
Strana, interessante, complessa la natura del Nostro : d’ una ipersen­
sibilità eccezionale rimaneva toccato o turbato da un nonnulla, immagaz­
zinava giornalmente miriadi di sensazioni che, fissate quasi subito in
foglietti volanti costituivano poi la base per le opere sue di più vasto
respiro, per le sue poesie popolari, per gli studi comparativi di folclore,
o per 1’ opera sua di commediografo vivo ed umano ; anche se nel suo
carattere, specie negli ultimi anni, si siano accentuate le preoccupazioni, i
timori, le paurose sensazioni determinate dalla supposta imminenza d’ un
male o dalla minaccia d’ un ipotetico pericolo (e queste sensazioni traspa­
riscono di quando in quando in alcune sue pagine autobiografiche) non
si può assolutamente dire che 1’ opera sua sia malata di congenita de­
bolezza. Basterebbero per dimostrare il contrario, ad esempio, le pagine
dello studio « Huomini d’arme di Dalmatia » vibranti di ammirazione per
tante eroiche gesta, basterebbero la conferenza sulla « Ginnastica nella
poesia antica » e un articolo su « Tommaseo e la ginnastica », per dimo­
strare che nella sua attività giornalistica già allora non trascurava gli ar­
gomenti di propaganda per la forza e la sanità della stirpe; infine la
miglior dimostrazione d’ una non supina acquiescenza e d’un non facile
adattamento ci sembra essere quell’ energico verso del « No » che è quasi
33
un imperioso grido dell’ animo: « no semo ancora morti, no, no e
no 1».
Nella rassegna che ci siamo proposti di fare di tutta o quasi l’opera
del Sabalich, chè certo qualcosa ci sfuggirà, incominceremo appunto dalla
sudetta conferenza, essendo essa l’ unica fra i diversi generi trattati ; eviden­
temente anche il Sabalich, come la maggior parte dei Dalmati, non fu un
oratore.
Nel 1885, trentenne, lesse quindi la conferenza « La Ginnastica nella
poesia antica » alla Società di Ginnastica e Scherma di Zara la sera del
19 marzo, prima del noto discorso di Bajamonti che valse a sciogliere la
società; stampata in opuscoletto dal Woditzka contiene una prefazione
sotto forma di Lettera a Roberto Ghiglianovich, che ha certo più interesse
della conferenza stessa; lettera argutissima nella quale spiega la genesi
della conferenza tramutatasi per mancanza di memoria in lettura : in ori­
gine, dietro probabile consiglio del Ghiglianovich, il titolo doveva essere
« La ginnastica nel concetto filosofico dei greci antichi », e « tu la volevi
(te ne ricordi, Roberto) proprio così : una conferenza d’arte, e mi ci volevi
cacciare nel polipaio dei filosofemi, tu, coi tuoi consigli di ellenica pla­
sticità »; ma nel suo « io pensante » il Sabalich preferisce il tema « La
Ginnastica nel Medio Evo », che poi abbandona, scrive, « per mancanza
di biblioteche »; infine accetta il consiglio « del nostro piccolo poliglotta »
(il Piero Cassandrich « altra anima di artista come te ed imbrattacarte
come me, ma più dotto e più serio di me e di te sommati insieme ») di
trattare della « Ginnastica nella poesia antica »; la lettura non ha nulla
di peregrino, le solite citazioni da Pindaro, da Omero, dal IV libro del-
I’ Eneide e dal Parini dell’ « Educazione »; interessanti alcune righe auto-
biografiche dell’ esordio dove il Sabalich, ancora giovane, ci dice già tutto
il suo amore verso l’ indagine storica e letteraria e dove ci svela la con­
cezione che di tali difficili ricerche già aveva: «la pesantezza dell’ inda­
gine sparisce sotto il velo d’una strofe e il numero sonoro ammorbidisce
la crudezza del documento »; già da allora si palesa quale si sente di es­
sere, quale cioè noi possiamo anche ora definirlo, un poeta del documento.
Incominciamo col Sabalich minore, col Sabalich letterato puro : quello
di alcuni libri di racconti e di poesie. « Acquarelli veneziani » crediamo
sia il solo libro edito di poesie scritte in lingua; ma anche qui, come
appare ben chiaro dal titolo, tutti i 44 sonetti sono di ambiente, di carat­
tere e di contenuto esclusivamente veneziano (Al Listón, In Ruga, Rio
Terrà, La casa del Goldoni, Alle Zattere ecc.); pieni di colore e di senti­
mento la maggior parte, alcuni versi di buona fattura, parecchie quartine
di sentita ispirazione, altre che guadagnerebbero di più se scritte in dia­
letto ; il resto è una Venezia dipinta come la si vede nei troppi quadri
di pittori dilettanti del tardo ’800, con in più, sempre, uno sviscerato e
connaturato amore non solo letterario per la magica città. Citeremo solo
34
pochi versi :
fanno la serenata i mandolini :
al dolce strimpellio de i sonatori
abbaian dai bragozzi i cagnolini.
E questi di « Venezianina »:
11 piede ha grosso nella calza bianca
la vesticciuola rosa di percalle,
la pupilla ha di fuoco, l’ aria stanca,
sul petto due sfacciate rose gialle.
Come si vede poesia dialettale anche se scritta in lingua, ma nè
migliore nè peggiore di tanta altra poesia dialettale dell’ epoca come
quella dei minori romani il Zanazzo e il Santini, del Testoni o del Fucini,
del Sarfatti a Venezia o del Piazza a Trieste. Invece in alcuni « Sonetti
Zaratini » e in quelli di « Bufonade » il Sabalich si sente tanto padrone
del vocabolo e dell’ argomento da osare accostarsi alla maniera dei grandi
modelli, il Belli ed il Porta; eppur non raggiungendo mai la classica
grandezza della loro satira, fà sfoggio d’ un dialogo egualmente serrato e
pieno di chiaroscuri : il nostro popolo, quello di Trastevere e quello di
Piazzetta Marina, ha avuto per fortuna sempre l’ intuito svelto e la lingua
pronta; in alcuni sonetti poi il Sabalich, che aveva allora da poco oltre­
passata la trentina, non può scordarsi dei poeti veneziani licenziosi, il Baffo
e il Buratti, ma li ricorda con una certa misura.
Edito postumo nel 1931 per le premurose cure della moglie, il po-
limetro dialettale « Le campane zaratine » in sette parti, quanti sono i
campanili di Zara, meriterebbe una più larga diffusione fra le famiglie
della nostra città perchè, sintetizzando la storia delle chiese zaratine, rie­
voca tutta la storia della città, ne illustra l’arte e la leggenda e ne canta
gli amori e gli odi, i sorrisi ed i pianti con quel linguaggio goldoniano
condito di sale attico e - come scrive il Nediani nella prefazione - « per­
meato di una vena fresca e sottile di quell’ humor che è una prerogativa
speciale del poeta ».
La lapide sta là dal Cinquecento
(el sete ottobre del settantaun
ricordà da nissun).
La parte intitolata a « Santa Maria » più ricca di avvenimenti con­
temporanei (il mese di maggio, il Corpus Domini, il Sepolcro ecc.) si nota
per una certa quale grazia caricaturale fine e gustosa; ascoltate come can­
tano e pregano le bimbe nelle navate settecentesche :
ma mejo de 1’ organo — ’sti vivi violini
sospira e gorgheggia — che i par canarini !
Le prega le prega.... — le vose de argento
par quelle de i angeli,
el canto le scalda,
Gesù benedeto
sbeleto mai più.
35
E guardate con che effetto descrive la massa di popolo che, con
morbosa curiosità, assiste al taglio delle treccie d’ una monaca :
Le done fa i giri — le spenze le fraca
i fianchi le maca — le issa i putei
le mostra coi dei — guei grumi de oro
quel rico tesoro; — la testa che resta
pelada
che bruto momento
che pianzer el fa.
E co la xe fata — le man i ghe basa
e in coro i travasa — cafè e cicolata.
Ultimi versi, che anche senza quella fortuita coincidenza del « tra­
vasa », arieggiano stranamente ai migliori versi delle « Ciacole del Bepi ».
Non grande poesia certamente e forse nemmeno poesia, ma versi
schietti e sinceri che hanno avuto ed avranno un loro particolare valore
e una loro piccola ma genuina ragione d’ essere.
Di letteratura narrativa il Sabalich ci ha dato saggi nei suoi anni giova­
nili, mentre nella seconda parte della sua fecondissima attività di scrittore
si dedicò quasi esclusivamente alle monografie storiche. Sotto il pseudonimo
di P. Di Castelvetro pubblicò presso il Woditzka nel 1880 un gruppo di rac­
conti « Profili », dedicato agli studenti della Società Accademica Dalmazia
di Graz.
« Amici miei - scrive nella dedica - questi poveri bocci in fioritura,
usciti a vanvera sulla « Palestra », da voi pur tanto amata, rivedono ora
la luce della pubblicità in questo modesto libriccino : un libriccino come
in oggi tutti li sanno fare, tanto pel brusio di metter in gala le proprie
opinioni o le proprie fantasticherie. Scritti « tra lo studio e lo svago »
come direbbe il Giusti, ho cercato di correggerli da quei tanti vizierelli
di cui nessuno va senza e che ho scorti più tardi coll’aiuto di due grandi
maestri : il Tempo e il Consiglio. Li dedico a voi : a voi che pur lontani
dalla patria, indefessi coltivate la lingua che suona dolcezza e amore ».
Seguono i sette bozzetti, di ambiente borghese, torinese e veneziano, uno
è uno schizzo militare alla De Amicis e l’ultimo è una colorita descrizione
di una festa goliardica nel gran salone della Bierhalle: seicento giovani
rumorosi, parlanti diverse favelle, gonfaloni sbandieranti, discorsi, canti,
tavole imbandite, fiumi di vino e di birra; visione di baraonda fermatasi
alla cronaca e non assurta ad arte, chè forse ci sarebbe voluto il genio
d’ un Rembrandt.
In « Chiacchiere veneziane », che scrisse nell’ occasione d’ un ritorno
alla sua Venezia nel 1887, affiorano tanti ricordi degli anni giovanili
colà trascorsi ; questi bozzetti autobiografici sono più sentiti, più vivi, più
freschi, più perfetti di quelli di « Profili »; e già, qua e là, in mezzo
a descrizioni di ambienti ora popolari ora lussuosi, di vicende ora tristi
36
ora libertine, si intravede, in germe, il futuro autore di tante dotte croni­
storie, l’appassionato raccoglitore di tante memorie patrie.
« Venezia che mi ospitò bambino, le Zattere ove ho sgranchito i
primi passi, il popolino fra cui appresi a parlare, ad osservare e un tan­
tino anche a malignare, ecco il sogno che turbò per oltre venti anni le
mie giornate ». Ed ancora: Ohi il tuffo nella mia Venezia storica ed arti­
stica ! Boccate d’ aria e boccate d’ arte ! La burocrazietta di Zara non se
ne addà. Un solo mese di questa vita vale bene un sepolcro di venti anni 1
E dopo di ciò venga pure la morte ».
I più notevoli fra i bozzetti sono : « La favorita di Don Carlos »,
« Un po’ di Goldoni » dove, tra le varie divagazioni che il monumento
del Del Zotto gli ispira, si può leggere quasi gettata lì per caso questa
sottile noterella critica: «Oh Momolo ! Oh Lucieta ! Oh vecchio sior To-
daro ! Se Goldoni si fosse fermato là ! Ma egli volle forzare e scrivere
delle “ Dalmatine „ che possono essere giapponesi... »; « Gli assedi di Zara »
dove un vecchietto, tipico cicerone veneziano, spiega e commenta arguta­
mente all’autore i due quadri degli assedi di Zara a Palazzo Ducale ; « La
devozione a Venezia » e « Quà e là per Venezia » primi esempi di ciò
che sarà più tardi il Sabalich giornalista, un colorito narratore di cronache
d’arte ; qui infatti vive, efficaci e complete descrizioni di tutte le spetta­
colari manifestazioni religiose veneziane - processioni, voti, sepolcri ecc. -,
e dominatrice assoluta di tutto e di tutti la divina arte della Scuola
Veneta ; « e così fra un Palma e un Vecelio passavo la mia adolescenza
senza distacco nelle figurazioni della mia mente, perchè fra il San Giro­
lamo del Giambellino e il ganzer della riva, non c’ era nulla di diverso
nè 1’ occhio nè la barba e nemmeno il mantello »; poi, in rapida e gu­
stosa sintesi storica, moltissimo di Venezia, da Marin Falier al Manin, dal
Brustolon al Longhi, fanatismi e bestemmie, Papa Rezzonico e Renan, i
Carmelitani Scalzi e l’ Enciclopedia, e quel campanile di San Marco dalla
cui cima « Madame di Stael vedeva le coste dell’ Istria e anche (o fantasia
francese 1) quelle della nostra Dalmazia »; e la sua Dalmazia gli è in cima
d’ ogni pensiero « quanti ricordi per noi dalmati non ha il tempio di San
Zanipolo... » e giù una filza di nomi e di notizie interessanti nostre chiese,
nostri teatri, ricordi del nostro Risorgimento ; e in un punto lo dice chia­
ramente : « ho voluto sempre occuparmi dei miei compatriotti tutte le volte
che fui a Venezia », ed anche nella novella intitolata « La carne », in mezzo
alla passioncella erotica per le ben tornite gambe della Emanuela Ungaro,
trova il giusto momento d’ inserirvi, con appassionate parole d’ amore e
di poesia, i nomi dei garibaldini dalmati, i Molin, i Venturini, i Popovich,
i Carrara, i Vusio, i Sirovich, i Giuppani, i De Giovanni, i Viscovich, i
Vucovich, i Zanghi e molti altri che « aspettano sempre (e quanto aspet­
teranno?) la loro epopea». In questo bozzetto effettivamente la carne è la
maggiore protagonista, ma la vampata di passione non precisamente ideale
37
che il Sabalich si prese per i ferri del mestiere d’ una nota ballerina del-
1’ epoca, nel racconto, viene con raffinata accortezza e fine maestria qua
e là smorzata da qualche dialogo pieno di innocente brio o da innocui
scherzi di parole o da candide lepidezze, che leggeremo più tardi special-
mente nei monologhi in lingua. Qualche esempio preso a caso: le donne
d’ allora, siamo agli albori della bicicletta, incominciavano a mostrare le
gambe « tutto in grazia del tandem, quel provvido tandem a cui nessun
Cicerone lancia il quousque verrino»; nel serra serra delle Mercerie dà
non volendo un pugno a un grave professore tedesco « altro che - Oh !
Fenezia Penedeta 1 - che in quel momento cantarellava sottovoce »; as­
saggia certe sigarette alessandrine « lunghe come i versi omonimi »; di un
amico dimostratoglisi non perfettamente tale dice : « Canaglia posso dir­
glielo ora che è morto, poveretto ! e i morti bisogna rispettarli 1»; par­
lando di un vaporino della Lagunare, il « Rialto », sempre carico di gente:
« è naturale che le azioni di quel Rialto non siano mai in ribasso », e,
essendo lui macedone per parte di madre e la bella ballerina greca di
fattezze, esclama con un sospiro : « ma purtroppo due greci non uniti ».
Non si tratta certamente d’ un grande e originale umorismo, anzi il suo
è un umorismo tipicamente giornalistico, ma abbiamo ritenuto di citarne
Io stesso alcuni esempi per mostrare il Sabalich sotto ogni aspetto della
sua opera multiforme. Certo fu più brillantemente arguto e più sapientemente
caustico a viva voce e nei suoi anni più maturi di quello che non si riveli
in queste pagine giovanili, delle quali citeremo ancora qualche passo per poi
dare una pallida idea dell’ immensa attività che il Sabalich dedicò al teatro.
Fra gli apprezzamenti critici di quell’ epoca - secondo suo soggiorno
veneziano - benevoli quelli per Ruskin e De Musset, stranamente negativi
quegli per Goethe; l’olimpico Goethe gli riesce antipatico perchè «ipo­
crita come scrittore », e « non è la nostalgia mentale che in lui lavora,
non già la schensucht dell’anima : i suoi classici citronen possono trovar
P origine genetica nelle spremute auliche di Weimar ».
Nelle ultime pagine di queste sue « Chiacchere », vale a dire negli
ultimi giorni veneziani prima di ritornare nella sua Zara, trova occasione di
scrivere queste parole che hanno già un non so che di amaro : « nel mio
paese c’ è molta gente fine se non colta, c’ è una certa aristocrazia di modi
se non di sangue o di censo, e ci siamo avvezzati a trattarci coi guanti
P un 1’ altro perchè la superbia, l’ invidia, I’ odio, la lussuria, 1’ avarizia e
l’ accidia portan sempre le mani coperte per non insudiciarsi a vicenda».
Ma egli, anche se ne parla amaramente, non solo continuerà ad avere un
culto per la sua patria archeologica, ma amerà il suo paese, anche se vaso
di pandora dei sette peccati capitali.
Le sue visioni veneziane terminano così : « Fu detto che le più belle
pagine su Venezia siano state scritte da stranieri; se si vorrà tener conto
anche di questo mio modesto contributo, converrà aggiungervi : anche le
38
più affettuose! ». Questa affermazione che pecca simpaticamente di superbia,
non poteva venir dettata se non da uno straniero provvisorio di Venezia
e d’ Italia, come ogni vero dalmata sperava di essere.
Ma al Teatro Italiano il Sabalich dedicò con innata passione l’ intel­
letto ed il cuore. In quegli anni, tre giovani zaratini, due lontani dalla pa­
tria ed il Nostro fedelissimo alle sue mura, avevano fatto del teatro, cia­
scuno a suo modo con particolari attitudini e simpatie, la loro spirituale
ragione di vita: il Maddalena, il dotto cultore di studi goldoniani, il For­
ster brillante ed acuto critico teatrale del «Mattino » e il Sabalich, piacevole
ed esatto poligrafo di materie inerenti al teatro, nonché autore prediletto
dall'ultima celebre servetta, la Zanon-Paladini.
Incominciamo con alcuni studi minori.
In «Una rappresentazione sacra a Traù» il Sabalich, scena per scena
verso per verso, cita e commenta una rappresentazione allegorico-morale,
evidentemente una derivazione quattrocentesca dalle sacre rappresentazioni,
che in onore del loro San Giovanni venne rappresentata, tre volte, a Traù,
a spese di certi de Andreis, che « quantunque si piccassero di letterati non
figurano nel panteoncino dei letterati nostri » e nemmeno sono « cano­
nizzati nella costellazione dei nostri genietti: il Dizionario del Gliubich».
La seconda rappresentazione fu recitata tre giorni dopo la prima
« per compiacimento universale della città » che sarebbe come chi oggi
dicesse a richiesta generale. La Rappresentazione è un polimetro «che
tira in scena personaggi mitologici, filosofi, santi, diavoli, personificazioni
di virtù, di vizii e di città » ; la mancanza totale di didascalie rende più
interessanti le indicazioni circa « l’ Habito dei personaggi » che vengono
introdotti, per esempio « Spalato sarà in habito da mercante ma però
ricchissimo, in una mano terrà il rostro di nave e nell’ altra una misura
da panni»; «La Città di Zara si rappresenterà sotto sembianza d’ una
vecchia Coronata con un bastone in mano e l’ habito sarà da Matrona
grande » ecc.
Segue il manifestino dei ruoli, sostenuto tutto da dilettanti locali,
fra i quali parecchi sacerdoti : per esempio la « Ricchezza amante di Gio­
vanni » era personificata dal Reverendo don Giurileo ; però « nè le frodi
nè gli inganni potranno in nessun modo vincer Giovanni».
Ma, più che analizzare la Rappresentazione per sè, il Sabalich vuol
certo dimostrare con questo suo studio che queste nostre piccole «gaz­
zarre spirituali » sono interressanti per illustrare la storia della nostra cul­
tura: «che fu sempre un non vieto riflesso di quella luminosa della pe­
nisola ».
In « Gustavo Modena a Zara » cerca di svelare il problema, che poi
lascia a malincuore insoluto, d’ una eventuale venuta del celebre attore a
Zara, non per recitare ma per trovarvi uno zio canonico; spera che una
lettera autografa, presumibilmente datata da Zara, comperata presso un
La Rivista Dalmatica (Marzo 1939)
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La Rivista Dalmatica (Marzo 1939)

  • 1.
  • 2.
  • 3.
  • 4.
  • 5. ANNO XX - FASC. I. MARZO 1939-XVII ìa r v i/Ta DALMATICA DIRETTA DA ILDEBRANDO TACCONI S C asa Ed. E. de S c h ó n fe ld Z A R A
  • 6. LA RIVISTA DALMATICA F o n d a ta n e l 1899 d a LUIGI ZILIOTTO e ROBERTO GHIGLIANOVICH Redattori ■ O. RAND1, A. FILIPPI, M. PERLINI, A. SELEM -------K>f------- Pubblica articoli che illustrano la DALMAZIA, nella sua storia, nella sua vita, nella sua fede. Interpreta i palpiti della sua passione, nutrita d’ eroico dolore, benedetta da una divina speranza. Esce in fascicoli trimestrali. PREZZO D'ABBON AM EN TO: ITALIA L. 27,50 -ESTERO L. 50 PREZZO D I UN FASCICOLO SEPARATO L. 7,50 DIREZIONE: ZARA - VIA N. TRIGARI, 3. A m m in is tr a z io n e : CASA EDITRICE E. d e SCHÓNFELD - ZARA INDICE DEL FASCICOLO: B ru n o F ra n c h i — Per la storia della Dalmazia nel Risorgimento. A ld o D u ro — Gabriele d’ A nnunzio vate d’ Italia. M a rc o P e rlin i — Giuseppe Sabalich letterato e storiografo zaratino. O s c a r R an di — Ricordando un originale che fu un fiero patriota. T u llio E rbe r — La Colonia Albanese di Borgo Erizzo presso Zara. — Bibliografia Dalmata. Finito di stampare il 10 aprile 1939 - XVII
  • 7. DALAATICA I lIR E T T A D A ILDEBRANDO TACCONI ANNO X X - FASC. I C a s a E d . E . d e S c h ö n f e l d Z A R A 1939 - A. XVII
  • 8. “ ate conoscere ai vostri amici la nostra Rivista e procurateci degli abbonamenti. Senza di questi La Rivista Dalmatica avrà vita stentata : è vostro interesse darci il mezzo di migliorare il periodico.
  • 9. Pei la Storia della Dalmazia nel Risoigime (CON DOCUMENTI INEDITI) (Continuazione - V. numero prec.) Nella stessa lista, cui abbiamo dianzi accennato, compare il nome di Spiridione Popovich, possidente di Sebenico, maestro di lingua illirica a Niccolò Tommaseo, in seguito suo intimo amico e corrispondente. Di lui si dice che fu sempre dedito a letture di tendenze rivoluzio­ narie ; aveva saputo però mantenersi abbastanza tranquillo sino al ’48, epoca in cui si era mostrato nemicissimo all’ Austria e per primo aveva istigato la formazione della guardia nazionale. Si accenna anche al dott. Antonio Cortellini di Sebenico « il più svegliato talento della città, facondo, ammirato dalla gioventù e per tutto ciò dagli assennati chiamato la peste di Sebenico ». Sin dal ’48 si era apertamente mostrato nemicissimo all’ Austria e vivamente propenso per la rivolta italiana; amico del Tommaseo, non aveva mai tralasciato di sostenerne le massime. Insieme a parecchi altri aveva apposto la sua firma sul ricorso presentato al Capitanato circolare per F allontanamento dalla città del colonnello Bolis, divenuto inviso per F unico motivo che era attaccato all’Austria. (1) All’ inizio della guerra del 1859 si raccomanda in un dispaccio se­ greto ai capitani circolari della Dalmazia di « abbattere con prontezza la maligna influenza che venisse esercitata da malcontenti, da male intenzio­ nati e da emissari del partito rivoluzionario, e specialmente si raccomanda di vigilare sul comportamento e sui passi del partito italiano nazionale come pure sull’ influenza che da questo lato venisse esercitata e sui ten­ tativi che venissero fatti dall’ estero». (2) Vedremo in seguito quali informazioni daranno le autorità dalmate sul minaccioso atteggiamento del partito nazionale italiano e sull’opera di (1) A.P. a. 1855. (2) A.P. a. 1859.
  • 10. 4 propaganda da esso svolta. Ad ogni modo è significativo il fatto che da parte delle autorità si parli apertamente di un « partito nazionale ita­ liano ». Anche durante la guerra del ’59 numerosi furono i dalmati che ac­ corsero ad indossare la divisa dell’ esercito italiano, tra gli altri Luigi Seismit-Doda, cui già abbiamo accennato, il quale anzi, 1’ anno seguente, militerà tra le file dei garibaldini ; e non dubbie prove del loro valore offriranno durante la campagna del ’60 i dalmati Tivaroni, Zanchi e Ga­ lateo. Che Garibaldi pensasse ad una spedizione liberatrice in Dalmazia ancor prima del ’66 lo prova, oltre una lettera di Antonini che conside­ rava questa spedizione come una continuazione dell’ impresa siciliana, (1) anche un appello diramato nell’ ottobre del ’60 dal Comitato rivoluzio­ nario di Milano e sequestrato a Fiume, che si esprimeva nei seguenti ter­ mini : « Signore, essendo questo Comitato a conoscenza di quanto faceste pel passato, non tarda avvisarvi che qui si sta formando per l’ intrepido Generale la spedizione per la Dalmazia, Fiume e Ungheria. Certo che vor­ rete condurvi utile per la patria, vi si prega con sollecitudine a voler presso i patrioti della vostra città fare una colletta di denaro accettando qualsiasi somma, e più presto possibile farne spedizione. Acciò la polizia tedesca non scopra le vostre intenzioni, cioè amor patrio, spedirete possi­ bilmente in oro il denaro che voi gentilmente riscuoterete, a questo indi­ rizzo : Giuseppe degli Amadori, fermo in posta, Milano » (2) Ed una mattina dello stesso mese si trovarono fra le commettiture di alcuni negozi di Zara dei manifestini con il seguente invito agli istriani e ai dalmati di arruolarsi nella marina italiana per la liberazione di Ve­ nezia : Istriani e Dalmati ! A voi, forti abitatori della costa orientale dell’Adriatico, l’ Italia risorta al grido: Viva Vittorio Emanuele ! fa ora appello, a voi che già sui mari faceste temuto e glo­ rioso il vessillo di S. Marco A prontamente riordinare e completare la flotta del nuovo Regno Italico in modo che ne soddisfi agli urgenti bisogni e cooperi al completo riscatto della gran patria comune, si richieggono e presto molti e buoni marinai. Istriani e Dalmati 1 Quando si tratta di formare la flotta dell’ Italia Una, a voi del pari che ai Liguri, ai Toscani, ai Napoletani, ai Siculi spetta il diritto di accor­ rervi, a voi ugualmente ne incombe il dovere, perchè quel mare che è patrimonio comune deve alfine esser libero ai reciproci commerci dei fratelli, nè deve più sof­ frire l’ insultante spettacolo di navi italiane e di italiani marinai comandati in una lingua che non è la loro, che non è quella che già condusse i loro padri sotto il Leone alato a tante vittorie. (1) T a m a ro : «La Vénétie Julienne et la Dalmatie » II pag. 431. (2) A.P. a. 1860.
  • 11. 5 fa Istriani e Dalmati! già molti dei vostri fratelli militano sotto le bandiere di Vittorio Emanuele e del suo Garibaldi ; già molti hanno pagato il loro tributo di san­ gue alla causa della libertà, e si sono coperti di gloria. Imitateli, e correte ad offrire le potenti vostre braccia, il vostro indomato coraggio, la vostra valentìa marinaresca alle navi d’ Italia. È Venezia che ve ne prega, la già vostra Venezia, che ancora sospira di esser liberata dal giogo straniero, e che si conforta nella dolcissima speranza di veder presto voi stessi balzare pei primi dalle vittoriose prore sulle cento sue isole a pian­ tarvi per sempre il incolore vessillo. Dalle Lagune Venete, nell'ottobre 1860 (1) Vivissima era allora 1’ attesa di Garibaldi anche nei piccoli villaggi della costa e delle isole, come ci è attestato da numerosi atti della poli­ zia, in cui si parla di una grande agitazione fra i contadini in seguito alle notizie sulla marcia trionfale di Garibaldi e sulla possibilità di un suo sbarco sulle coste dalmate. (2) Ma la prova più evidente dell’ attesa ansiosa che regnava in larghi strati della popolazione e dei veri sentimenti degli italiani della Dalmazia, è data da un atto segreto inviato dal luogotenente Zanchi, dietro ordine superiore, ai capi pretorili della Dalmazia e che riporto per intero: « Da persona di fiducia che, dopo un viaggio di diporto fatto lungo la costa del mare Adriatico, è ritornata a Vienna, S. E. il ministro di po­ lizia ha conseguito la seguente descrizione sull’ andamento delle cose po­ litiche in Dalmazia : Che le città marittime sono già guadagnate per la rivoluzione da emissari piemontesi. Che fra gli studenti, i giovani impiegati ed il ceto delle signore regna il più grande entusiasmo. Che nei circoli di famiglia si fanno di continuo filaccie le quali in pacchetti vengono rimesse a Garibaldi. Che la maggior parte delle signore portano legami di calze a tre colori. Che le insegne dei leoni di pietra della vecchia repubblica di Venezia vengono ovunque restaurate. Che un gran numero di pescatori si troverebbero già assoldati con le loro barche dalla propaganda. Che esisterebbero delle commissioni per 1’ approvvigionamento della flotta di Garibaldi la quale viene attesa di momento in momento. Che il municipio di Sebenico è del tutto di sentimenti italiani e non sarebbe da dubitarsi che sia di cointelligenza col nemico. Che gli emissari si aggirano travestiti nella maggior parte da pescatori e contadini ». (3) (1) A.P. a. 1860. (2) A.P. e B.P. a. 1860. (3) B.P. a. 1860.
  • 12. 6 Il capitano circolare di Spalato, in una lettera, che sarà riprodotta più avanti, confermava tristemente che le informazioni pervenute al luo­ gotenente erano, nella loro grande maggioranza, rispondenti al vero e denotanti lo stato d’animo della popolazione soggetta all’Austria. La questione per l’ annessione della Dalmazia alla Croazia, che nel ’48 s’ era risolta con il categorico rifiuto da parte dei rappresentanti dalmati di aderire al triregno, risorse nuovamente nel ’60. In quell’ anno il bano di Croazia, Wranjiczany, chiese al Consiglio dell’ Impero che fosse convocata la Dieta croata per deliberare sulle mo­ dalità dell’ annessione della Dalmazia alla Croazia conformemente alle promesse imperiali e alle rivendicazioni ungheresi e croate dopo Campo- formio. A questa proposta si oppose il conte Francesco Borelli, rappresen­ tante della Dalmazia, affermando che la sua terra non riconosceva alcun diritto sulla sua corona derivante dal trattato di Campoformio. (1) E la Congregazione municipale di Spalato affermava che i rappre­ sentanti croati domandavano alla Dalmazia « il più grande sacrificio, quello di uccidere la propria madre, la civiltà italiana ». (2) Ma ormai i fautori dell’ annessione erano decisi a continuare la lotta sino in fondo, anche se fra gli stessi slavi della Dalmazia l’ idea di una unione con la Croazia trovasse non pochi ostacoli. Troppe erano le benemerenze acquistate dall’ elemento italiano nella regione perchè d’ un tratto gli slavi della Dalmazia potessero dimenticarle per affidarsi a quei fratelli del nord che invocavano 1’ unione, non tanto per un sentimento ideale di nazionalità, quanto, piuttosto, per poter af­ frontare con più sicurezza i Magiari e per fondare uno stato croato. « Noi abbiamo bisogno del vostro mare e dei vostri marinai » ! Questa era 1’ esplicita affermazione egoistica dei croati di fronte ai dal­ mati. (3) Le elezioni però che si fecero in quell’ anno per la Dieta dalmata rappresentarono una netta vittoria degli autonomisti italiani di fronte agli annessionisti; le località della costa e delle isole furono tutte favorevoli all’ idea dell’ autonomia. E quando poco dopo una rappresentanza di annessionisti croati de­ cise di recarsi a Vienna per perorare la causa dell’ annessione, guidata dall’ arcivescovo di Zagabria, Strossmayer, i deputati provinciali italiani della Dalmazia si portarono anch’ essi nella capitale austriaca e riuscirono per allora a sventare le mire dei croati. (1) Cerineo-Lucio : « Memorie storiche intorno alla Dalmazia » pag- 43. (2) Ta m a ro : op. cit. II pag. 450. (3) Cerineo-Lugio : op. cit. pag. 87.
  • 13. 1 L’ arcivescovo di Zara, Godeassi, malgrado la sua tarda età e la mal­ ferma salute, volle accompagnare la deputazione a Vienna e mori appena rientrato nella sua diocesi in seguito alle fatiche subite durante il viaggio. La sua morte produsse un’ impressione enorme in tutta la Dalmazia. Agli occhi degli autonomisti sembrò santificare la loro causa colla bellezza del sacrificio. (1) La lotta però si faceva sempre più accanita, le idee degli annessio­ nisti cominciavano a farsi strada fra le popolazioni dell’ interno, ignoranti per natura e quindi facili ad assorbire tutto ciò che si presentasse ai loro occhi con un colore di novità. L’Austria poi non mancava di soffiare abilmente nel fuoco, sostenendo gli slavi. Specialmente dal ’59 in poi Vienna, temendo che alla perdita della Lombardia tenesse dietro anche quella delle altre regioni italiane da lei occupate, si era rafforzata sempre più nell’ idea di sacrificare in Dalmazia la civiltà italiana e di appoggiare 1’ opera di slavizzazione della regione. L’ unione della Dalmazia ad una grande Slavia nel corpo dell’ im­ pero absburgico avrebbe spento ogni irredentismo e dimostrata infondata ogni pretesa sulla regione da parte dell’ Italia. Gli slavi poi erano diventati degli apostoli convinti della grande Austria, che permetteva loro di creare nel seno stesso dell’ impero un grande regno su cui potevano esercitare un’ apparente sovranità L’ arcivescovo Strossmayer, uno tra i più caldi apostoli di questo ideale, esprimeva chiaramente il pensiero slavo: « Per la nostra cara vec­ chia Austria io darei subito la mia vita. È nel suo seno che noi, slavi occidentali, dobbiamo vivere, diventar grandi, giungere al compimento dei nostri destini ». (2) E non altrimenti si esprimeva lo scrittore slavo Mattia Ban, affer­ mando che il governo austriaco, di fronte alle tendenze separatiste del- 1’ elemento italiano, aveva un interesse grandissimo a dare tutto lo sviluppo possibile allo slavismo nelle provincie, come l’ Istria e la Dalmazia, con­ finanti con l’ Italia e agitate dalla propaganda italiana. (3) La lotta che si svolgerà, specialmente dal ’65 in poi, fra l’elemento slavo, forte dell’appoggio del governo e della facile opera di persuasione svolta fra il ceto rozzo della popolazione montana disposta a commettere ogni sorta di violenze, e quello italiano, fiero della propria superiorità in­ tellettuale e dei diritti derivantigli da lunghi secoli di assoluto predominio, sarà sempre più aspra e lentamente, ma inesorabilmente, porterà all’ an- (1) T am aro : op. cit. Il pag. 459. (2) De L ave le ye : « La Péninsule des Balkans » I pag 88. (3) Kasandric : op. cit. pag. 105.
  • 14. 8 nientamento di grandissima parte dell’ opera svolta dagli italiani della Dalmazia. 11 partito autonomo rappresentò in quegli anni in Dalmazia il senti­ mento nazionale italiano. Gli irredentisti del ’48 si trovarono allora fra le file degli autono­ misti. Basti ricordare per tutti la figura nobilissima di Antonio Bajamonti, che fu podestà di Spalato dal gennaio 1860 all’ ottobre 1880, anno in cui il consiglio comunale italiano veniva sciolto ed i croati s’ impossessavano del municipio. Se il nome era cambiato, il programma era sempre quello. In quei momenti però, di fronte ai croati che chiedevano puramente e semplicemente 1’ annessione, era naturale che gli italiani rispondessero stringendosi in un partito che, in contrapposizione a quello annessionista, si chiamò autonomo. Dichiararsi esplicitamente italiani sarebbe stato allora inutile e peri­ coloso : l’Austria ne avrebbe profittato più di quanto in realtà ne profittò per dare un appoggio ancor più forte agli slavi nella battaglia ingaggiata da questi ultimi per tradurre in realtà i propri sogni ambiziosi. Tuttavia i croati compresero bene quello che realmente significava l’ autonomia per i dalmati, e lo comprese anche Vienna: completa indi- pendenza della regione da qualsiasi intervento croato e gelosa conserva­ zione dell’ antico carattere italiano. Più tardi, quando la situazione generale politica fosse stata favore­ vole ed il neocostituito regno d’ Italia si fosse maggiormente consolidato, il partito autonomo sarebbe nominalmente scomparso ed al suo posto si sarebbero trovati tutti gli italiani di Dalmazia ; allora, e nel ’66 la spe­ ranza fu vicina a tradursi in realtà, quando a Spalato erano già state ap­ prestate le bandiere tricolori per salutare i marinai di Persano, il sogno dei patrioti antichi e nuovi di Dalmazia si sarebbe finalmente avverato. A dimostrare quali realmente fossero i sentimenti degli italiani di Dalmazia in quegli anni cruciali, vale la pena di riprodurre per intero tre lunghe « informazioni » del capitano circolare di Spalato alla Luogotenenza sulla situazione politica nel 1860 nella sua giurisdizione e per riflesso nel resto della Dalmazia, « informazioni » che, come tante altre riprodotte in questo lavoro, non sono state ancora rese pubbliche. Richiesto dalla Luogotenenza di presentare una lista di individui che presumibilmente, in caso di un attacco da parte nemica o di malcontento nell’ interno, si sarebbero messi alla testa di una sommossa popolare, il capitano circolare di Spalato allega ad un lungo elenco di nomi la se­ guente dichiarazione : « Come scorgerà V. E., la maggior parte di quelli compresi nel­
  • 15. 9 l’ elenco sono nomi già noti d’ individui compromessi ancora nel 1848, per alcuni dei quali in appresso cessò la sorveglianza di polizia, a cui erano assoggettati, perchè credevasi che si fossero migliorati, o piuttosto perchè si nutriva lusinga che i tempi difficili non fossero per ritornare. Ma, com’ altra volta ebbi occasione di osservare, i nemici del Governo di anni addietro sono i suoi nemici anche oggi, perchè, mutata la maschera secondo comportavano i tempi mutati, non tardarono a mostrarsi quali erano da prima, tostochè le circostanze ridivennero difficili ed imbaraz­ zanti. Come ho detto, l’ elenco contiene i nomi di alcuni ; ma non è a credersi che quelli soltanto sieno i nemici del Governo, e che in quei soli il partito sovversivo potrebbe trovare fautori e proseliti. L’ infezione è molto più estesa ; per questo ho dimostrato anche nel mio rapporto 28 settembre, che il miasma può dirsi alle coste così generalizzato, che più facile riescirebbe nominare quelli che, formando 1’ eccezione, ne restano finora incolumi, anziché indicare coloro che ne sono imbevuti fino al midollo. Infatti, parlando sempre delle classi meno rozze della popolazione, pochissimi sono i veri e leali amici del Governo, quelli che per mutare di eventi non cambiarono mai di principio, e sono attaccati alla causa dell' ordine per sentimento e verace convincimento. La generalità all’ opposto è tutta avversa all’ attuale ordine di cose e non attende che una spinta per mostrarsi ed oggi stesso che l’ approdo di un legno nemico dall’ estero o la notizia di una sommossa interna de­ cidesse i più entusiasti a porsi alla testa di un movimento, non sarebbero che troppi i seguaci che troverebbero. . Fra i più entusiasti poi e che particolarmente pericolosi si presen­ tano, perchè atti e disposti a mettersi alla testa di un movimento, io cal­ colo il dr. Bajamonti, 1’ avv. Giovannizio, il sacerdote Michele Granich e Giovanni Brainovich. In mezzo a questi due estremi havvi una terza categoria d’ individui, che, senza principio ed egualmente ligi od avversi a qualunque Governo o sistema governativo secondo che sia in condizioni prospere od avverse, va fluttuando dalla causa del Governo a quella dell’ opposizione e vice­ versa, a seconda delle circostanze e dei momenti. Conosco più d’ uno di questi ermafroditi politici che, nel mentre le condizioni del Governo sono prospere e favorevoli, approfittano dei più futili pretesti per porsi in vista delle autorità e profondere proteste di at­ taccamento e di affetto, ed appena i tempi diventano un poco difficili ed imbarazzanti, voltano le spalle per tenersi pronti a ingrossare le file degli oppositori. Resterebbe alla causa del diritto e dell’ ordine la classe più rozza della popolazione. Ma anche di questa, parlo sempre di quella delle coste
  • 16. 10 e delle isole, non mai della parte montana, sulla quale si può riposare con tutta fiducia, pochissimo conto può farsi, perchè, sebbene di senti­ menti leali, pure soggezionata dal contegno della classe più colta, domata dai bisogni e infiacchita dal timore di vedere scemate le proprie risorse rompendola apertamente con quella, palesa una certa pusillanimità e titu­ banza che assai poco lascia sperare per un’ occasione decisiva e stringente. Per tutto ciò non posso che ripetere essere tempo che misure ener­ giche vengano adottate, e che il Governo, cessando di illudersi contando sull’ attaccamento di questo o di quello, provveda da sè con energia e ri­ solutezza alla propria conservazione. » (1) E poco tempo dopo invia la seguente lettera a riconferma della prima : « Nell’ ultimo mio rapporto ho procurato di delineare più al vero che mi fu possibile il quadro delle condizioni attuali delle città marittime di questo Circolo per ciò che si riferisce ai sentimenti ed alle tendenze politiche degli abitanti costituenti l’ elemento italiano, prendendo a mo­ dello la città di Spalato, la quale pella sua maggiore importanza, per il numero della popolazione e per più abbondanti risorse materiali, fu sem­ pre ed è anche al presente quella che serve ad esempio alle altre e ne fomenta le passioni e le tendenze. In quella mia relazione ho cercato dimostrare come il Governo nulla affatto possa contare sull’ attaccamento di quella parte degli abitanti che parlano l’ italiano e vogliono come italiani pensare ed agire ; ho descritti gli individui posti alla testa degli affari municipali: ed ho dichiarato che al più lieve sentore di moti insurrezionali nell’ interno o di più diretti attacchi dall’ estero il fuoco, che va serpeggiando fra noi, non tarderebbe a scoppiare in incendio. I fatti pertanto giunti a cognizione dell’ Eccelso Ministero di Polizia, e sull’ esistenza dei quali fui chiamato ad informare, toltine alcuni che mi sembrano esagerati, e che non riguardano d’ altronde il mio Circolo, cor­ rispondono nel loro complesso a quanto fu già da me dimostrato a V. E., e perciò poche cose ancora mi restano a dire intorno ai medesimi. Che a questa parte siano giunti emissari italiani della rivoluzione, sebbene alla vigilanza delle Autorità non sia riuscito di riconoscere per tali persone determinate, pure in qualche modo può ammettersi come cosa certa. Infatti, sebbene vi sia anche fra noi gente per se stessa affezionata alla causa italiana e di sentimenti ostili al Governo, pure le simpatie ed il mal represso fanatismo difficilmente avrebbero potuto estendersi al grado al quale sono giunti, qualora influenze esterne non avessero agito opero­ samente per la loro diffusione. (1) A.P. a. 1860.
  • 17. 11 Che se, per quanto le Autorità invigilano, pure non riuscì finora di cogliere taluno di quelli che vanno seminando le massime sovversive e guadagnando proseliti alla causa della rivoluzione, ciò dipende dalla cir­ costanza che questa dannosa influenza viene esercitata non tanto da emis­ sari propriamente detti, i quali espressamente con questo solo scopo s’ in­ troducono fra noi, quanto piuttosto da individui i quali per altri scopi legittimi vengono a queste parti, ma ripieni la mente ed il cuore di mas­ sime riprovevoli che vengono poi sparse fra gli abitanti indigeni. Infatti, a causa di molte fabbriche fattesi eseguire da privati in que­ sti ultimi anni e così pure per l’ esercizio di altre arti ed industrie, arri­ varono dall’ Italia parecchi individui, il passato dei quali è affatto ignoto, e che si stabilirono a questa parte come tagliapietre, muratori, ortolani e simili. Questa razza di gente non può certamente nutrire sentimenti ed opinioni contrarie a quelle che animano la generalità delle masse nella loro patria; e siccome per la loro condizione si trovano in continuo con­ tatto colle classi più basse e meno civilizzate della popolazione, così fa­ cilmente vanno diffondendo fra questa le loro idee, forse anche molte volte senza il pensiero di corrompere gli altri, ma solo per comunicare altrui le proprie convinzioni ed opinioni. Nelle ultime settimane bensì vi furono a Spalato tre approdi di pie- leghi mercantili provenienti dagli Stati Pontifici e dalle due Sicilie. Sebbene avessero ricapiti rilasciati dall’ illegittimo Governo, furono però ammessi a pratica in forza delle istruzioni che l’ Ufficio di Porto ebbe in proposito daH’Autorità prepostagli. Lo scopo indicato del loro arrivo era puramente commerciale. Le persone eh’ erano a bordo figuravano come marinai : e finché si tratten­ nero qui, non diedero motivo ad osservazioni. Però, dopo partiti, la voce pubblica ripeteva che fra l’ equipaggio vi fosse un farmacista o medico di Napoli ed un forte possidente della Puglia. Ora è certo che l’ idea d’ intraprendere tali viaggi e di celarsi sotto 1’ abito del marinaio non poteva in tali individui esser suggerita che da uno scopo di carattere politico, il quale però non sarà stato forse rag­ giunto appunto in grazia della sorveglianza a cui furono assoggettati. Non v’ ha dubbio poi che fra gli studenti, specialmente fra quelli che studiarono in Italia, non vi siano forti simpatie per gli italiani. Di signore che portino legacci tricolori, non ho cognizione. Facil­ mente però di simili adornamenti tricolorati se ne troveranno non pochi e presso le signore e presso i negozianti di oggetti di moda i quali fanno le loro provviste in Italia. D’ una sola signora di Spalato l’ esterno abbigliamento ha attirato- l’attenzione, e questa è la consorte del Podestà Bajamonti, la quale an­ cora mesi addietro, ritornando da Venezia, incominciò a frequentare il Teatro spoglia affatto di quegli adornamenti del capo e del resto della
  • 18. 12 persona che altre volte sfoggiava, e ciò per imitare le ostentazioni di lutto e cordoglio delle venete matrone, completando il costume con un venta­ glio di semplice legno e carta, essendo però il legno di color rosso, la carta d’ un colore traente al verde e tempestata di stelle bianche argentate. Fra i più giovani impiegati, nei quali non sono ancora cancellate le impressioni ricevute durante gli studi universitari, è certo che le simpatie per l’ Italia durano vive abbastanza e vengono alimentate da altri di ori­ gine italiana dei quali, specialmente nel ramo giudiziario, ve n’ ha un nu­ mero non indifferente. Che i membri della Congregazione municipale siano in corrispon­ denza col nemico non potrei assicurare. Certo è però che i membri stessi, e nominatamente Bajamonti e Giovannizio sono stretti in intimità col pro­ fugo avv. G. Nani, il quale può bene immaginarsi se resterà inoperoso nelle attuali complicazioni politiche e se cercherà di tener desti gli animi dei propri amici e fautori con una corrispondenza epistolare vagheggiando il momento dello scoppio di qualche disordine in cui esso deve aver fon­ date tutte le sue speranze. Nè il Nani è il solo spalatino o dalmata che sia all’ estero e che abbia tendenze ostili al nostro governo e motivi di promuovere disordini a questa parte. Vi sono due Seismit-Doda ed un Cattalinich, Maggiore al servizio del Piemonte, i quali stanno in corrispondenza con parenti ed amici di Spalato; e v’ ha Tommaseo, il quale, sebbene sembri tenersi lon­ tano presentemente dalle cose politiche d’ Italia, tuttavia per i fanatici dal­ mati rappresenta quasi l ' anello che li congiunge agli interessi ed agli sconvolgimenti di quel paese. Fatto è che degli avvenimenti d’ Italia i fanatici di qui sono sempre minutamente informati, anche nei dettagli che sfuggono ai giornalisti; e, per dare un esempio, Ancona non era ancora caduta, quando qui già si sapeva che il suddetto Maggiore Cattalinich era rimasto ferito nel bom­ bardamento. Dunque corrispondenze vi sono, ed essendovi, non è possibile che non abbiano scopi ed effetti pericolosi ed incendiari, perchè è certo che i suddetti individui, legati al governo piemontese, agiranno senz’ altro nelle viste di esso. Ora è indubitato che il governo piemontese si adopera con ogni studio per guadagnarsi simpatie anche fra noi e procurare imbarazzi al nostro Governo. » (1) E ancora nello stesso anno (2) c’ è un lunghissimo rapporto di questo zelante funzionario sul conto degli individui che negli ultimi tempi (1) A.P. a. 1860. (2) A.P. a. 1860.
  • 19. 13 hanno ottenuto passaporti per gli Stati italiani e per la Francia ; questa volta poi dipinge con colori ancora più foschi la situazione politica nel suo Circolo. Non approva questi rilasci di passaporti, perchè « i viaggiatori, i quali ritornano dai paesi che sono il teatro della rivoluzione e del disordine, portano seco, quasi inevitabilmente, le impressioni ancor vive di un’ ab­ bagliante e chimerica libertà ; e, ripiena la mente d’ idee corrotte e forniti talvolta di libri incendiari e di giornali delle città insorte, diffondono a questa parte i semi pestiferi del malcontento e dell’ avversione contro ogni vincolo di legittima dipendenza. Se questi semi cadessero in terreno non disposto a riceverli e fecon­ darli, la cosa non presenterebbe forse per sè tal grado d’ importanza e di pericolo da farne gran conto. Ma fatalmente fra noi, debbo dichiararlo altamente, sebbene con dolore, il terreno è anche troppo bene preparato e pronto a dare frutti i più abbondanti e pericolosi. Le idee e le opinioni politiche vanno ogni giorno più diventando esaltate e pericolose. E ciò non tanto per il progresso che va giornal­ mente facendo in Italia la rivoluzione e il disordine, quanto piuttosto per­ chè presentemente i malcontenti, i novatori, i nemici ed oppositori del Governo e delle Autorità che lo rappresentano, trovano a Spalato un mo­ dello, ed hanno, può dirsi, una rappresentanza, la quale, per l’autorità onde sono rivestite le persone che la compongono, per l’ influenza che tali per­ sone sono al caso di esercitare sopra certe classi, per la maschera di amore patrio e di abnegazione sotto cui esse si nascondono, incoraggia i timidi, fa imbaldanzire gli audaci, e tenta fino anche i più miti a spiegare il ves­ sillo dell’ opposizione ed a farsi fautori e fanatici della causa italiana. Questa rappresentanza poi è formata da quegli stessi, i quali, in grazia di una fiducia acquistatasi con ipocrito pentimento di precedenti trascorsi, e che tradiscono con nuovi e più gravi trapassi, dal Governo cui ora avversano sono stati destinati a rappresentare ben diversamente il proprio paese ed a promuoverne ben altrimenti la prosperità ed il benessere. Io parlo, Eccellenza, dei membri componenti l’ attuale Congregazione municipale. E così ne parlo perchè dopo un assiduo, coscienzioso e lungo studio delle persone e dei fatti; dopo aver seguito attentamente il contegno loro sì nella vita privata, come nell’ esercizio dell’ incarico pubblico ad essi af­ fidato, ho potuto acquistare l’ intimo e saldo convincimento essere le cose giunte ad un punto tale che ogni lunga illusione, tolleranza o debolezza potrebbe riuscire irreparabilmente fatale. Seguendo la politica conciliatrice ispiratami da V. E. e indottomi io pure a sperare che il contegno innocuo e tranquillo assunto negli ultimi anni dal dottor Antonio Bajamonti fosse effetto di sincero ravvedimento, anziché, com’ era realmente, sola conseguenza dei tempi ritornati tran­
  • 20. 14 quilli, non esitai ad appoggiare la sua nomina a Podestà di Spalato, dimenticando eh’ egli era 1’ uomo che negli anni 1848-49 per le sue idee esaltate, per la continua famigliarità coi più caldi partigiani della rivolu­ zione italiana, e per il censurabile ed impudente suo contegno non solo era messo a capo dei sorvegliati politici, ma era stato perfino proposto per l’ arruolamento forzoso, che per tutte le censurabili sue precedenze aveva meritato che non più lungi del 1854 1’ Eccelso Dicastero Supremo di Polizia gli negasse il chiesto passaporto per 1’ Estero, limitando anche quello per l’ interno coll’ espresso divieto di portarsi a Vienna, e che in ogni luogo dove si recasse doveva essere fatto rigorosamente sorvegliare dalle autorità di polizia. Per quanto ho esposto, fuori di ogni dubbio è dimostrato che il dottor Bajamonti, nemico del Governo nel 1848, non si è mai ravveduto, nè ha mutato idee e sentimenti; che l’ apparente suo contegno tranquillo successivamente appunto non era che effetto delle mutate circostanze, ma che il cuore restò sempre qual era; che appena i tempi ritornarono in­ quieti esso ritornò pure e forse con più calore a mostrarsi avverso al Governo, ostile alle Autorità costituite e solo vago di scuotere ogni vin­ colo di legittima dipendenza; eh’ esso, in una parola, è quello stesso individuo che veniva così al vero dipinto nel 1849 dal pretore politico di allora, con i più neri colori. » Parla poi degli altri assessori comunali, fra cui il Giovannizio, il quale nel 1848 faceva parte delle schiere dei ribelli crociati « sotto il ser­ vizio di quello stesso Garibaldi che ora, trionfante nelle due Sicilie e nello stato Pontificio, minaccia di molestare anche questo litorale. Animati dal malesempio delle idee sovversive della Congregazione municipale, demoralizzati dallo sprezzo per l’autorità pubblica e sfronta­ tamente ostentato da essa e particolarmente dal suo capo, esaltati dalle voci che di continuo arrivano dall’ estero sui progressi della rivoluzione e sulle possibilità di un attacco da parte di Garibaldi o del Piemonte, gli abitanti di Spalato, appartenenti all’ elemento italiano, vanno giornalmente diventando più caldi partigiani del nuovo ordine di cose che invase i paesi sottratti ai Governi legittimi. Fatti concreti non furono ancora azzardati. Ma non conviene illudersi: il fuoco per essere nascosto non arde meno, nè minore è il pericolo che al più lieve soffio esterno scoppi l’ in­ cendio. Le idee sovversive cominciano a diffondersi anche nelle classi infe­ riori della popolazione ; e mentre giorni addietro mi veniva riferito, sotto promessa di giuramento, un brano di discorso di quattro sfaccendati gio­ vinastri appartenenti alla classe civile i quali, passeggiando a tarda ora di notte fuori della città verso le Paludi, andavano fra loro concertando il
  • 21. 15 modo in cui potrebbero allontanarsi dalia patria per congiungersi alle schiere di Garibaldi, due giorni dopo mi si riferiva il dialogo di un’ igno­ rante femmina del volgo che alla sua maniera parlava della guerra vicina che si teme con un altro Imperatore «più buono e più potente del nostro». Dalla città il miasma va anche diffondendosi nelle campagne, e par­ ticolarmente discorsi congeneri si tengono anche dai più rozzi villici alle Castella, dove, come bene consta a V. E., egualmente che a Traù, sono già da lungo tempo radicate idee pericolose di socialismo e comuniSmo. Si aggiunga che tre giorni addietro arrivò a questa parte un bastimento napoletano vuoto con bandiera tricolore che fu fatta abbassare appena giunto in porto, e che doveva esportare 50 cavalli qui acquistati. Opera­ zione questa che poteva avere due scopi, quello cioè d’ indebolirci all’ in­ terno e di fornire le schiere della rivoluzione di cavalli, che una volta o 1’ altra potrebbero essere impiegati contro noi stessi. L’ esportazione però fu impedita. Questi fatti, che a primo aspetto potrebbero sembrare futili e incon­ cludenti, sono invece seri e degni di tutta attenzione se si considerano, come sono, sintomi del fermento che serpeggia fra la popolazione, della diffusione sempre maggiore che vanno acquistando le idee sovversive nel- l’ interno, e degli attacchi che ci possono venire dal di fuori. Le rivoluzioni non si eseguiscono in un giorno, nè da un momento all’ altro; ma si preparano poco a poco, incominciando dal demoralizzare le masse, dallo screditare i Governi, dall’ avvilire le Autorità. Si studino bene le origini dei disordini che fruttarono stragi e per­ dite irreparabili in Italia, e si vedrà che anche colà i primi sintomi erano eguali a quelli che fra noi si vanno osservando, ed appunto perchè tra­ scurati e negletti arrivarono a quel grado di sviluppo che più tardi involse ogni cosa nel generale incendio. In tale stato di cose, con animi preparati al sovvertimento, con rap­ presentanti del paese che non studiano se non di demoralizzarlo coll’ esem­ pio e col consiglio, e col nemico di fronte come lo abbiamo al presente, io non dubito di garantire per intimo convincimento a V. E. che al primo segnale dell’ approdo di un legno nemico in aspetto d’ attacco a Spalato, scoppierebbe un serio disordine, che potrebbe bensì essere represso colla forza militare e colla reazione stessa che nel paese verrebbe sostenuta dalla parte forte abbastanza dei popolani fedeli al governo austriaco, ma che ad ogni modo distrarrebbe le forze necessarie a respingere i nemici esterni e che lascerebbe deplorabilissime conseguenze. E se anche, per un momento, non si voglia por mente a queste più gravi eventualità, la posizione di un capo politico d’ un Circolo come Spalato è già di per sè abbastanza desolante in questi momenti, posto dirimpetto ad una Congregazione municipale come l’attuale. Questi infatti sono momenti in cui i rappresentanti del paese do­
  • 22. 16 vrebbero più che mai stringersi e collegarsi con quelli del Governo; sono momenti in cui ogni più piccola freddezza, ogni più lieve malinteso può cagionare gravissimi disordini. Inoltre quanti non sono i casi in cui il Capitanato e l’Autorità Militare avrebbero bisogno di un Organo sulla cui fedeltà, zelo e premura potessero contare ! Invece, stando com’ è la Congregazione municipale, non solo manca quest’ aiuto, ma da essa vengono al Capitanato tutti i più seri imbarazzi. E ne fan prova il nessun risultato ottenutosi fino ad ora dalle rac­ comandazioni direttele per promuovere l’ arruolamento dei volontari pei Cacciatori, le mille difficoltà poste in campo per l’ importante affare del- l’ acquartieramento della truppa, ed il nessun conto che può farsi della Congregazione per la cooperazione negli scopi importantissimi di polizia, perchè nessuna fiducia possono in tale riguardo meritare persone che hanno esse medesime da essere sorvegliate. Che se tutto ciò è vero come nessuno potrebbe negare senza negare fatti reali e palpabili ; se il disordine è arrivato a tal segno che, lascian­ dolo di un solo punto avanzare, si dovrebbe veder rovesciato ogni ordine sociale interno; se fra tali circostanze il titubare sarebbe delitto in chi è chiamato a reprimere i sovvertimenti ed a garantire la tranquillità del pa­ cifico cittadino, io non posso, Eccellenza, che concretarmi in una sola, ener­ gica e decisiva proposta. Tempi eccezionali reclamano misure eccezionali. La debolezza e titu­ banza fu mai sempre la rovina degli Stati, e fu anche in Austria, doloro­ samente, la causa di tanti danni sofferti e dell’ inquietudine che soffresi ancora. La debolezza della Luogotenenza Veneta aveva negli ultimi tempi ridotte le cose in quella provincia quasi all’ estrema rovina, 1’ energia in­ vece dell’ attuale Luogotenente Toggenburg, sebbene alquanto tarda, pure seppe porre un argine al rovinoso torrente. Spalato fu sempre, ed è particolarmente ora, in condizioni politiche molto simili a quelle del Veneto. Non conviene illudersi, Eccellenza ! Qui il governo austriaco ha molti nemici, i quali non attendono che un esterno impulso per mostrarsi a faccia scoperta. Da Spalato si diffonderà poco a poco il miasma pestilenziale anche agli altri Comuni e già, sebbene non mi spetti occuparmene, pure sento che a Sebenico e in altre città ancora di diverso Circolo gli spiriti sono altamente esaltati e pronti a spiegarsi. Si cominci quindi tosto a Spalato e si schiacci nel suo nascere que­ st’ idra minacciosa e sono certo che con una energica misura per questa città, cadono ad un punto inviliti tutti gli animi imbaldanziti dei liberali del resto della Provincia » . . . . Propone quindi che la Congregazione municipale sia sciolta. « Che se anche questo non bastasse — aggiunge — mi farei dovere
  • 23. 17 di proporre in seguito e a seconda delle circostanze, all’ E. V. 1’ allonta­ namento dalla città degli individui più pericolosi ed il loro internamento in qualche parte lontana della Monarchia ». Ho ritenuto opportuno riprodurre alla fine di questo lavoro queste tre lunghe « informazioni » segrete, perchè documentano in maniera ine­ quivocabile dei sentimenti degli italiani della Dalmazia e delle gravi preoc­ cupazioni destate nei governanti austriaci dal movimento irredentistico. Ho usato il termine « irredentistico », perchè è l’ unico che possa abbracciare tutto questo travaglio spirituale degli italiani di Dalmazia : passeranno gli anni, e, quanto più si accentuerà la violenza della battaglia ingaggiata dagli slavi e dai tedeschi, tanto più quello spirito irredentistico si rafforzerà nell’ animo dei patrioti e darà loro la forza necessaria per attendere e sperare. Bruno Franchi
  • 24. 18 G A B R I E L E D ’ A N N U N Z I O V A T E D ' I T A L I A Si compie in questa sera 1*anno esatto da quando nel Vittoriale, il buon ritiro dove aveva trascorsi i suoi ultimi anni nello studio, nel silenzio e nella contemplazione, Gabriele d’ Annunzio compiva il suo transito umano. Le gesta di cui egli era stato fautore e protagonista, le imprese eroiche da lui disegnate e con ardore di combattente compiute, dalla contingenza della vita passavano all’ immortalità della storia e assumevano quella forma indissolvibile con cui resteranno a testimonianza d’una vita da lui stesso definita inimitabile. La sua breve carriera politica che va dal salto della siepe, cioè dal passaggio fulmineo ed elastico alla Camera dalla destra all' estrema sinistra, sino alla sconfitta elettorale del 1900 come deputato della città di Firenze ; la sua vita d’ eroe che va dal di­ scorso di Quarto alla Marcia di Ronchi, sono divenute ormai una pagina della nostra storia, scritta nei caratteri energici ma fissi, immobili, rigidi delle cose trapassate ; pagina che mentre accoglie la nostra spontanea intera ammirazione, attende il giudizio sereno e spassionato di successive generazioni. Se anche altri non 1' avesse già fatto, io vorrei evitare una rievocazione storica che non potrebbe essere altro che una superficiale e arida esposizione di dati; tanto più che, accanto a questa pagina di storia suggellatasi con la sua morte, D ’ Annunzio ha lasciato di sè una parte viva, ha lasciato sè stesso, tutto sè stesso in quello eh’ ei ci ha donato, nella sua opera scritta, opera che fuori dal furioso svolgersi del tempo e fuori dalla fissità inderogabile della storia, rimane sempre mutevole e sempre fresca e nuova testimonianza d’ una attività vastissima e molteplice, estrinsecazione d’ una mente geniale ; opera in cui alle pagine più direttamente autobiografiche si alternano pagine di lirica sublime, eletta, divina, in cui la melodiosa raffinata finezza dello stile crea e scolpisce le imagini più trasparenti, più ardite, più delicate. Non dunque in quella fredda contingenza della storia ma in questa per­ petuità giovanile dell'opera noi sentiamo vivo G. d’Annunzio; in questa indi­ struttibile opera che senza falsa e stonata verbosità possiamo affermare che vincerà il silenzio di mille secoli, noi lo sentiamo grande, lo sentiamo presente fra noi e non più chiuso nella tenebra della sua morte.
  • 25. 19 Per quella impenetrabile ma fatale necessità per cui il poeta, scoperta 1’ essenza dell’ arte e raggiunta la consacrazione della gloria, deve inevitabilmente cedere dalla vita s’ egli vuole eternarsi nella sua opera ; per questa necessità D ’Annunzio scomparendo di fra noi, è rinato in una nuova più splendente luce, in un nuovo mito in cui la personalità caduca e oscillante dell* uomo, fonden­ dosi con la sua poesia, compone il suo molteplice aspetto nella unità e identità assoluta dell’ arte. In questa mistica trasfigurazione ogni discordanza tra 1’ uomo, l ’eroe, il poeta, si è appianata: noi non abbiamo più una triplice personalità (una e trina), abbiamo una sola opera. Sarebbe dunque un errore visivo scin­ dere il poeta nei suoi tre aspetti di uomo-artista-guerriero. Solamente per questo sbaglio di prospettiva, per questa scissione anatomica operata nell’ indivisibilità dell’ artista, D ’Annunzio ha potuto essere incrinato dalla facile censura dei suoi giudici e critici. Le varie voci, udite ciascune a sè, possono suonare stonate : rendono mirabile armonia, se fuse insieme. È per questo motivo soprattutto che io mi accingo a ricordare non diret­ tamente l’ uomo D ’Annunzio, ma indirettamente, attraverso il poeta, e più par­ ticolarmente il poeta civile ; perchè nella sua poesia civile noi troviamo insieme e l’ uomo e l’ artista e l’ eroe. A questa stessa necessità di tralasciare la ricerca d’ un D ’Annunzio sconosciuto nella episodicità della sua vita per volgerci so­ lamente alla sua poesia, accenna anche un nostro intelligente scrittore con le seguenti parole : « Quale altro miglior modo - egli dice -, ora che la morte aveva spaz- « zato via ogni superfluo e nocivo residuo di dannunzianesimo nella persona « stessa dell' inventore (che rievocare d’ Annunzio sotto l’ incorporea veste del « poeta), per riscattarlo dalle ambagi della storia del costume e isolarlo nel « solco luminoso della storia della poesia?... Tutti d’ anima sono i segreti che « certo qualcuno di noi si prepara a rintracciare e a svelare nell’ opera di « D ’Annunzio... oggi che tutto e soltanto nella pagina vuole e può essere con- « siderato. Lì (cioè nella pagina, nella sua poesia) s’ annida il suo “ segreto,,; « e sperar di coglierlo altrove è tentativo già infinito altre volte fallito, dunque « vano e da non approvare ». Alla fine dell’ anno 1899, inaugurando un ciclo di lezioni dantesche nella Sala d’Orsanmichele in Firenze, G. d'Annunzio avviandosi al termine della sua lezione avvertiva : « la melodia di Dante non può essere udita se lo spirito non « entra in uno stato di grazia per mezzo d’ una visione mediatrice ». Io ripeterò queste parole, adattandole con lieve modificazione al Poeta che oggi si rievoca : la melodia di G. d Annunzio non può essere accolta se lo spirito non si di­ sponga ad udirla, raccogliendosi in quel sacro religioso mistico silenzio con cui egli ci impone in una delle sue laudi più altamente liriche di ascoltare le voci varie della natura; raccoglimento di spirito con cui egli ha certamente voluto che i suoi lettori imprendessero a leggere e sentire tutta la sua opera poetica. Le parole sue di questa laude (eh’ è “ La pioggia nel pineto „) sono quindi
  • 26. 20 opportuna prefazione a una breve sintetica rievocazione della sua opera : « Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. A scolta............ ». E parole più nuove sono quelle che noi leggiamo nel Poeta ; parole quasi non nate da lui, ma da quella stessa Natura che, o fecondata dal folgorante solleone, febbrile, assetata, fa pesare la terribile maturità della Messe nel me­ riggio (son parole sue), e risveglia nelle vene del poeta quella sete che gli è più cara che tutte le dolci acque dei ruscelli ; o, piovendo dalle nuvole sparse sulle piante del bosco, schiude 1’ anima a freschi pensieri : o infine incurva col delicato lavoro dell' onda e del vento il lido rigato così come il palato, come il cavo della mano ove il tatto s’ affina. Così, con queste parole dei suoi versi alcyonii che io ho parafrasato, il poeta intende la Natura ; e noi potremo sen­ tire, ammirare, giustificare tutto D ’ Annunzio solo quando vedremo in lui il poeta che cantando la Natura la domina; quella Natura che, imprecata da G. Leopardi come inesorabile fato, temuta da G. Pascoli come ignoto mistero, è da lui invece sempre cantata come terra pregna di frutti, fecondata nel con­ nubio col sole e con l’aria, terra ricca essa stessa di sensazioni carnali e san­ guigne. Qua, in questi versi alcyonii, irrorati anch’ essi di linfa terrestre, nati anch’ essi per quel mistero non tenebroso nè pauroso ma illuminato di sole e di luce per cui nascon le messi, in questi suoi versi di panica esaltazione della Natura dominata e vinta, più che nelle sue Orazioni e nei suoi Messaggi, più che nei suoi versi spronanti alla conquista d’ un impero ideale, »noi ritroviamo il più vero, il più sincero poeta civile, il più certo preannunziatore di destini più luminosi. G. D ’ Annunzio è l’ uomo che ardisce e non ordisce, che osa e non trama, convinto che ogni potenza nemica, sia pur essa la natura medesima, va vinta affrontandola direttamente, con braccio inflessibile, con mente chiara e cosciente della propria superiorità. 11 suo atteggiamento, quando si prescinda da alcune sue opere del periodo così detto romano, in cui è più accentuata quell’ ispirazione estetizzante che fu detta decadentismo, il suo atteggiamento, ripeto, è sempre eminentemente costruttivo, volontaristico, ascendente : mai ne­ gativo, fiacco, disfattista. In questa sua fede è il più fecondo insegnamento per le giovani generazioni, in questa sua fede che mentre gli detta i suoi versi più ispirati, gli suggerisce anche le sue più persuasive e calde orazioni, lo mette quasi solo a fianco a Benito Mussolini nella lotta per l’ intervento, lo scaglia con un manipolo di legionari alla liberazione e conquista di Fiume, e infine, a quasi ottant anni, lo fa colpire dalla morte improvvisa ancora vigoroso di mente e di spirito, in un’ ora di ancor fervido lavoro.
  • 27. 21 La sua vita è una continua ascensione, in cui la parte eroica guerriera è preceduta da una lunga spirituale preparazione poetica. Egli è costantemente determinato da una decisa volontà di costruirsi : passa gradualmente da una esperienza regionale erotica ad un’ esperienza mistica superumana eroica ad una esperienza più cosciente di sè che è missione patriottica nazionale civile. 11 no­ vellista che in Terra Vergine ha cantato 1’ acre sollevazione dei sensi destati ed inebriati dagli effluvii della terra accaldata dal sole ; lo scrittore brillante che nelle colonne della “ Tribuna „ e nel romanzo “ Il Piacere „ ha ritratto la vita lussuosa e languida dei salotti romani, il poeta imaginifico e musicale che ci ha dato il suo capolavoro nei versi d’ Alcyone, diventa ora il vate d’ Italia e dapprima coi drammi, poi col IV libro delle Laudi, infine con la sua parola diretta nelle orazioni al popolo italiano si prepara a darci egli stesso col suo braccio esempio di audacia e d’ eroismo civile. Seguendo un cammino inverso da quello degli altri poeti, in un’ età in cui generalmente 1’ artista che ha ormai espresso da sè tutte le energie materiali, sfibrato nel corpo, si chiude nel suo mondo essenzialmente ed esclusivamente spirituale ed astratto ; all’età, dico, di cinquant’anni (all’ inizio della guerra ne aveva 52 e al tempo dell’ impresa fiumana 57) egli scende dall’astrazione della poesia e da vate civile diviene eroe nazionale, conciliando e fondendo, conforme alla nostra più pura tradizione, secondo lo spirito più originale della nostra stirpe, le due forze apparentemente contrastanti del corpo e dello spirito. Come il poeta sia potuto divenire l’ eroe, e questo senza mai deviare dall’ unica linea di vita da lui sempre seguita, è spiegato da un nostro giovane studioso in un capitolo dedicato alla poetica di D ’Annunzio : « Un forte alone volontaristico non manca mai nella produzione meno « realizzata del D ’Annunzio... La sua umanità lo spinge ad immettere nell’arte « il senso della propria vita e a vivere esteticamente la propria poetica nella « pratica..... La produzione ispirata dalla poetica del superuomo e 1’ attività « guerriera di D ’ Annunzio non sono in realtà che due momenti consanguinei « di una stessa ispirazione ». E con più chiarezza ancora un altro scrittore : « L ’ ultimo dei tre capitoli ideali della vita di G. d’Annunzio è la par- « tecipazione alla politica italiana. Appartengono a questo capitolo 1’ adesione « alla guerra libica, l’ invocazione della guerra contro l’Austria, la campagna « per l’ intervento, 1’ eroica partecipazione alla guerra, infine il lungimirante an- « tiwilsonismo, l’ impresa di Fiume, il favore alla politica forte del Fascismo. « Apparentemente queste gesta interessano più la storia politica che quella let- « teraria. L ’ atteggiamento di D ’ Annunzio durante questi fatti, e quello che « egli ha assunto nel settembre 1935 con il messaggio alla Francia per la « questione etiopica e con il proposito espresso a Mussolini di “ non morire « fra due lenzuoli ci richiama a quell’amore del rischio e dell’ eroismo che... « è rimasto... uno dei caratteri costanti della psicologia dannunziana. La vita « di D ’ Annunzio è più ricca e più curiosa delle sue opere : una linea eroica
  • 28. 22 « congiunge ininterrottamente il D ’Annunzio adolescente al D ’Annunzio fautore « della campagna etiopica ». Per questa linea eroica in cui uomo e poeta ritrovano la loro coerente unità, noi non possiamo fare a meno di considerate D ’Annunzio come un precorri­ tore delle odierne aspirazioni italiane, un invocatore della politica ferma e di­ ritta del Fascismo. Egli, con quel sensibilissimo istintivo intuito che lo caratte­ rizza, aderì prontamente al nuovo travolgente movimento mussoliniano, riconobbe il significato e la portata della Rivoluzione. E che egli abbia precorso questo movimento di fede, ne sia stato il S. Giovanni predicante nel deserto, noi pos­ siamo affermarlo in quanto egli, in parte cospicua delle sue opere, si compiacque di bandire il verbo progmatistico dell’azione, intese la vita come volontà di do­ minio, sferzò la fredda inintelligente ostruzionistica politica di governi deboli ed inetti, diede alla sua parola un accento volitivo, una energia ascensionale, con­ siderò l’azione come impulso, spinta decisa, volontà di conquista. Le pagine della sua poesia civile non possono quindi essere considerate soltanto come pagine di letteratura, sia pure extrapoetica ed extraestetica, visione quindi um­ bratile di sogno: esse sono soprattutto pagine di vita, stimolo d’ eroismo, azione patriottica spiegata a risvegliare negli animi degli Italiani la convinzione più cosciente della loro potenza nella stessa conservazione delle loro più pure tra­ dizioni. Pagine che talvolta assumono un vero valore programmatico, divengono schermaglia spietata contro tutte le forze nemiche che ostacolano più o meno apertamente il cammino vittorioso e deciso della nostra Nazione. Più che l’Alfieri, più che i poeti del nostro Risorgimento, più che il Carducci stesso, egli possiede la chiara visione di quella che è la missione più alta del poeta : quella di risvegliare nelle coscienze 1’ orgoglio nazionale ; la voce del poeta deve risuonare come squillo di guerra, deve essere 1’ epopea che ac­ compagna il popolo nella sua marcia. Tanto più poi la poesia di D ’Annunzio acquista d' efficacia quando le si deve riconoscere il valore di fase preparativa alla sua azione politica. È chiaro che, in questa sede, a noi interessa soltanto la poesia civile; ed è implicita ancora nelle mie parole la dichiarazione che, come la sua poesia civile è sottolineata e commentata riga per riga dalla sua azione diretta, dalle sue gesta guerriere, così queste vivono della loro più ful­ gida luce e trovano la loro esaltazione appunto nell’ opera poetica che le pre­ cede, le accompagna e le segue. Dirò ancora che, mentre la poesia lirica e le prose di romanzo e alcune delle tragedie dannunziane interessano più direttamente il critico letterario ; la poesia civile interessa invece ed è dallo stesso Poeta diretta a tutta la Nazione, a tutti i suoi cittadini. E male hanno fatto certamente quei critici che nello studio della poesia dannunziana hanno trascurato questa che noi invece dichia­ riamo la sua parte più vitale. A nostro conforto però dobbiamo aggiungere che pur c è stato in questi ultimi tempi, in cui finalmente s’ è acquistata la chiara consapevolezza di tutti i valori della vita, qualcuno il quale ha detto : « Se « non (si) vuol peccare di astrattismo storico, (si) deve dare grande valore
  • 29. 23 « anche alla non-poesia (alla poesia civile in altre parole), che per gli storici « dell’ avvenire, ancor più liberati dalle polemiche col presente, assumerà sempre « maggior importanza ». E noi dunque, liberati dalle polemiche del presente, consideriamoci per un momento storici dell’ avvenire e vediamo qual parte dell’ opera di G. D ’A n­ nunzio, non destinata alla sola ristretta cerchia degli studiosi e degl’ intellettuali, ma alla totalità dei cittadini, gli abbia valso il nome di poeta civile, gli abbia conferito il nobile titolo di Vate nazionale. Anzitutto, D ’Annunzio nella sua poesia civile (e questo 1’ ho già detto), è poeta d’ azione. Quest’ attività pragmatica di D ’ Annunzio è così sintetizzata dal Bruers : « Volle essere più che poeta : maestro di vita, rivelatore di co- « scienza civile, pionere d’ una via nuova per le generazioni contemporanee. E « il primo compito eh’ egli volle assolvere fu quello di ricercare l’ Idea italica ». Questa ricerca dell’ Idea italica - se così vogliamo chiamarla anche noi - trova dapprima il suo appagamento nell’ esaltazione del mare, del nòstro mare, e della forza navale italiana. Quest’ esaltazione, nella quale noi presentiamo l’autore della Beffa di Buccari, trova la sua voce più potente nelle Odi navali ; « in esse il tema predominante è quello che costantemente sarà sino alla pri- « mavera del 1915 il fondamentale motivo patriottico del nostro poeta : la « compiuta liberazione d’ Italia ». (Bruers). Questa voce del mare, del mare che già nel Canto novo del 1882 è gridato : « o gloria, o forza d’ Italia » risuona vivace e magnifica nel Prologo dell’ Armata d’ Italia (del 1888), quando il Poeta scrive: « Bastano i soli nomi delle navi per accendere negli animi la fiamma « dell’ entusiasmo. Italia, Lepanto, Dandolo, Duilio, Castelfidardo, sopra ognuna « di quelle prore sta per noi la Speranza alata ed in cima ad ognuna di quelle « antenne brilla per noi il simbolo della Vittoria. « Quale italiano, ne’ momenti suoi generosi, non ha avuto un fremito di « orgoglio udendo nomi che portano in sè tanta grandezza di ricordi, tanta so- « lennità di augurii, tanta forza di promesse ? Vive in Italia, profondo e immu- « tabile, l’ amore del mare e della gloria navale, come ai tempi repubblicani. « E una bella e nobile eredità che si perpetua di secolo in secolo nello spi- « rito del popolo d’ Italia. Nessun’ altra aspirazione è più vasta, più concorde, « più altamente nazionale. E i suoi colori non mai appariscono tanto fulgidi e « tanto liberi e tanto vittoriosi agli occhi del popolo, quanto allorché son ve- « duti ondeggiare sopra una nave possente ». E più sonorità lirica acquista la voce del mare, per necessità storica indi­ spensabile alla potenza d’ Italia, nei versi seguenti delle O di navali del 1892: Voi, navi a la Vittoria sacre e alla gloria, voi che per tutte le sponde
  • 30. 24 recate il divin nome d’ Italia e il suo diritto eterno e la sua nova forza, raggiando come fari, pronte al conflitto supremo, a la gran prova, belle e tremende e sempre dai cuori a la futura prova cinta di vóti, o Navi a cui le tempre la nostra fede indura contro i perigli ignoti, siate oggi benedette............ Nel 1904, nel secondo volume delle Laudi, l'Elettra, raccoglieva il poeta i versi che vengono considerati come « il fulcro della poesia civile di D ’ A n­ nunzio ». In questo volumetto, ancora una volta, rivolgendo il suo saluto al Re giovine che « chiamato dalla Morte venne dal Mare », egli dice alla Patria : 0 Italia, o Italia, non ti vedremo noi sull' alba per questo buon sangue che ti giova, per la divina prova di questa sacrificale morte, rifiorir nel Mare ? Nella stessa Elettra, riprendendo nella laude a Roma 1’ augurio dal Car­ ducci formulato nell’ inno per 1’ annuale della fondazione di Roma, esclama, in versi noti : O Roma, o Roma, in te sola, nel cerchio delle tue sette cime, le discordi miriadi umane troveranno ancor 1’ ampia e sublime unità. Darai tu il novo pane dicendo la nova parola. E nel Canto augurale per la Nazione eletta, rifondendo la leggenda sim­ bolica già ripresa da Pascoli, della prora di nave che avrebbe dato il vomere a Romolo per tracciare il solco sul Palatino alla fondazione della città eterna, addita alla Semprerinascente Italia il suo destino nei campi e sul mare : Italia, Italia sacra alla nuova Aurora con l’ aratro e la prora 1 Ma per giungere a questa nuova Aurora di pace e di fecondità, 1*Italia dovrà forse combattere; e il Poeta invoca anche la guerra, la guerra vittoriosa; Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi di strage alla tua guerra e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti, o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi, aroma di tutta la terra.
  • 31. 25 Gli anni seguenti furono dal Poeta dedicati alla composizione di alcune tragedie. Con queste, soprattutto con la Nave e con Più che /’ amore, prima ancor d’ infiammare con le sue Orazioni e i suoi Messaggi gli Italiani alla guerra, prima ancora di annunziare quasi profeta della guerra mondiale in una delle Canzoni delle gesta d’ Oltremare che « l’Africa (e allude alla guerra libica) non è se non la cote ove affilammo il ferro, per l’ acquisto supremo, contro le fortune ignote » con queste tragedie, dico, Gabriele d’ Annunzio esprimeva il suo sogno impe­ rialistico. Sul significato e il valore dell’ attività tragica di D ’Annunzio, scrive Luigi Russo : Il teatro dannunziano « comincia sotto la volta di un qualche lempio di « Melpomene e si cala poi sulle piazze di Roma, sullo scoglio di Quarto, e * infine sulle vie di Fiume, dove... la tragedia da finzione scenica si consumerà « prodigiosamente tutta nella realtà storica. In questo senso è possibile fare una « storia positiva del teatro dannunziano: che poche volte è teatro di poesia, « ma è quasi sempre teatro di profezia e di educazione... e di esortazione « politica ». La Nave è la tragedia più nazionalistica che il D ’Annunzio abbia scritto: « Venezia è soltanto una metonimia dell’ Italia imperiale. “ Arma la prora e « salpa verso il mondo,, è il verso che suggella la sostanza di quella poesia». Anche Più che l’ amore, meglio che una tragedia è azione politica ; « questa urgenza e pienezza d’ azione riscatta 1' erotismo e 1’ edonismo di D ’An- « nunzio dalle possibili accuse di futilità e d’ inutilità...». Nel discorso che presenta questa tragedia e ne costituisce la dedica il Poeta dice : « Anche riconosco la verità e la purità della mia arte moderna ; che « cammina col suo passo inimitabile, con la movenza che è propria di lei sola, « ma sempre su la vasta via segnata dai monumenti dei poeti padri. « Per ciò io mi considero maestro legittimo ; e voglio essere e sono il « maestro che per gli Italiani riassume nella sua dottrina le tradizioni e le « aspirazioni del gran sangue ond' è nato : non un seduttore nè un corruttore, « sì bene un infaticabile animatore che èccita gli spiriti non soltanto con le « opere scritte ma con i giorni trascorsi leggermente nell’ esercizio della più « dura disciplina... ». « Qual mai potenza può oggi essere rivendicata contro la mia arte, se « la mia arte ha celebrato e celebra nella più schietta e energica lingua d’ Italia « le più superbe e le più sante potenze della vita ? ». Nel 1911-12, quando il sogno imperialistico del Poeta comincia ad inve­ rarsi, nella Canzone d’ Oltremare egli leva il suo canto a glorificare la Patria. E son versi potenti, di vibrata passione :
  • 32. 26 I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi, o Vittoria senz’ ali. È giunta l’ ora. Tu sorridi alla terra che tu predi. Italia ! Dall’ ardor che mi divora sorge un canto più fresco del mattino, mentre di te 1’ esilio si colora. Oggi più alta sei che il tuo destino... E dopo esaltata in dieci canzoni l’ impresa libica, nell’ ultima delle dieci conchiude il suo canto mestamente, con il rammarico dell’ esule : Ah, non dieci canzoni, dieci navi d’ acciaio martellato con l’ istessa forza d’ amore, o Patria, dimandavi... Ahimè, non ho se non il mio tormento e il mio canto. L’ oblio breve è finito, e nell’ oscuro cuore io mi sgomento. Ma gli appare la visione d’ un’ Italia più radiosa, d’ una Italia chiamata mediante una « silenziosa disciplina » (Bruers) a destini più alti ; e questa vi­ sione lo ravviva : Così divina Italia, sotto il giusto tuo sole e nelle tenebre, munita e cauta, col palladio su l’ affusto, andar ti veggo verso la tua vita nuova, e del tuo silenzio far vigore e far grandezza d’ ogni tua ferita. Nella mia notte, sopra il mio dolore, questa suprema imagine risponde. Chiudila nella forza del tuo cuore. Non n’ ebbe la tua guerra di più grande. Chi mosse al nostro Poeta 1’ accusa di insincero, e lo fece forse in buona fede, non conobbe certamente l’ impulsiva vigorosa spontaneità di questi versi. Fossero in buona fossero in cattiva fede i suoi censori, G. D ’Annunzio poteva tre anni più tardi, alla vigilia della grande guerra, e sempre più ardi­ tamente negli anni successivi, dare tale prova della propria virtù civile, e del modo con cui egli stesso l’ interpretava, che avrebbe potuto degnamente rispon­ dere con Dante « e questo sia suggel eh’ ogn’ uomo sganni ». La sera stessa infatti del ritorno dal volontario esilio di Francia, il 4 Mag­ gio 1915, G. d’ Annunzio parlava a Genova: « Tutta Genova è in piedi, stanotte, come nelle adunanze delle grandi « deliberazioni. E la fede di Genova ritrova 1’ antica parola del suo potere « civico, il grido breve dalla volontà latina : Fiat ! Fiat 1 Sia fatto I Si compia ! Quel che è necessario, si compia ! La integrazione della patria si compia I La resurrezione della patria si compia ! Questo vogliamo, questo dobbiamo volere ».
  • 33. 27 #** Gli anni che seguirono furono per il Poeta soldato anni d’ azione, di vita attiva, di combattimento. E io non mi farò qui a ripetere date e fatti che tutti indubbiamente conoscono. Le sue imprese, la sua guerra e la gesta fiumana, furono da lui stesso commentate principalmente nel Notturno e nei libri che costituiscono la Penultima Ventura. Nel libro primo di quest’ opera egli ha trascritto la lettera indirizzata il 15 gennaio del ’919 a Ercolano Salvi e Gio­ vanni Lubin : lettera nella quale egli, offrendosi tutto per la nostra causa « fino all’ultimo», così conclude: « Dalmati fedeli, se l’ ingiustizia si compia - e il nostro Dio ne disperda « 1’ ombra imminente - voi caricherete le vostre barche coi rottami delle pietre « gloriose, e vi imbarcherete con essi ; e uscirete anche voi nel mare del « vostro amore disperato ; e vi lascerete andare a picco, voi e le reliquie, per « ritrovare nel profondo i nostri morti, non più servi ribaditi ma uomini liberi « tra uomini liberi. « Seguitando la mia vocazione, io sarò con voi : forse non io solo ». E nel secondo libro è anche trascritta la lettera indirizzata il 21 settem­ bre 1919 ai Dalmati latini, ai Fratelli di Dalmazia, lettera che nell’ originale prezioso si custodisce gelosamente nella sede del Guf di Zara, e che è stata esposta al pubblico zaratino nella mostra di ricordi dannunziani indetta dallo stesso Guf. E la voce del suo pianto, è il suo « rammarico di non aver forze bastevoli » per accorrere alla « voce remota e straziante » della Dalmazia irre­ denta, della Dalmazia la cui fedeltà, come la fedeltà di Fiume, « è onore d’ Italia ». M a due mesi più tardi, il 14 Novembre 1919, egli trova nella propria tenace fece e nella passione dei Dalmati invocanti, le forze bastevoli e compie quella che egli chiamò la « faustissima impresa di Zara ». « In quel mattino di « primavera, egli ricorda, respirammo la sua santità come nella leggenda aurea, « come nei luoghi mistici del consumato amore. La città intera, con le sue « mura e con le sue creature, era come un inno religioso... ». « Risalutiamo i « compagni rimasti laggiù tra la Porta Marina e la Porta di Terraferma, risa- « lutiamo il bel nostro Battaglione del Carnaro, che è laggiù il buon seme fiu- « mano, l’ assiduo levarne di fede e di libertà, la chiara malleveria della nostra « promessa. « Dal ponte della nave carica di ghirlande, come quella degli antichi riti « vittoriali, noi dicemmo al popolo addensato : “ Ieri, davanti alla sacra ban- « diera di Giovanni Randaccio, v’ inginocchiaste con movimento sublime. Per « sollevarci fino a voi, o Dalmati, bisognerebbe che ora c’ inginocchiassimo. « Ma sul ponte di una nave da guerra non si può non restare in piedi. In « piedi vi gridiamo la nostra gratitudine senza fine, il nostro amore senza mi- « sura, la nostra promessa senza mancamento,, ». E la promessa fu senza mancamento ! !
  • 34. 28 * ** Diciotto anni più tardi, il 1° Marzo 1938, in questo stesso giorno, quasi in questa medesima ora alle 20.05 precise, Gabriele d’ Annunzio assurgeva, cinto della splendente aureola di gloria, della quale forse mai nessun poeta fu così universalmente e così lungamente cinto, assurgeva al cielo degli eroi, dopo aver vissuto intensamente nell’ opera sino all’ ultimo istante la sua vita inimita­ bile ; si spegneva forse più arso dell’ ardore dello studio che abbattuto dal male improvviso, dopo aver accompagnata e seguita 1*Italia sino a quell’ alto destino eh’ egli le aveva vaticinato. Forse mai nessun altro poeta, se non il solo Vir­ gilio, che fu vate di Roma antica così come G. d’Annunzio è stato il vate dell’ Italia rinnovata, ha potuto chiudere i suoi occhi mortali in giorni più sereni per la propria Patria, quella Patria che oggi lo piange e che a lui, diretta espressione della purità d’ una stirpe incontaminata, rivolge ancora un estremo saluto. Aldo Duro (Commemorazione letta nella Sala della Filarmonica di Zara la sera del 1° Marzo XVII)
  • 35. G IU SEPPE S A B A L IC H LET T ERA T O E S T O R I O G R A F O Z A R A T IN O Abbiamo conosciuto Giuseppe Sabalich - come molti zaratini della nostra generazione - in uno dei suoi luoghi preferiti, durante il quotidiano riposo, in uno dei suoi atteggiamenti più comuni, seduto, quasi rannic­ chiato, nell’ angolo più remoto della Libreria Nani. Ragazzo, accompagnavo il babbo a comperare i giornali, e durante i cinque minuti della sosta di prammatica, avevo agio di osservare il « vecio Sabalich » accarezzarsi a scatti, colle dita nervose, la barbetta e i lunghi baffi, da tempo brizzolati; rosicchiando un bocchino fissava i suoi occhietti scuri piccoli vispi mobilissimi, un attimo, ora su 1’ uno ora su 1’ altro, mentre, quasi con circospezione, gettava in mezzo al discorso un motto arguto, una battuta di fine umorismo che quasi sempre svelavano una vasta dottrina in generale e soprattutto una conoscenza, che non sarà facilmente mai superata, di uomini, cose e avvenimenti d’ ogni tempo della sua adorata città. Nato a Zara il 13 febbraio 1856 da Giuseppe e da Rosa Vucovich, fu portato di pochi mesi a Venezia dove dimorò fino al 1866, e dove fece la prima ginnasiale al S.S. Gervasio e Protasio. Stabilitasi la sua fa­ miglia a Zara incominciò a scrivere giovanissimo (sedicenne, tenne su per qualche numero un giornaletto scritto e stampato a mano da studenti gin­ nasiali, il «Tra Noi» nel 1872); laureatosi in legge a Graz ottenne un posticino al « Governo » dove era pure consigliere il padre suo; spirito d'artista, insofferente d’ogni schiavitù burocratica e già anelante a una più libera e intensa attività giornalistica e storica, lasciò ben presto il posto ; gli tenne dietro il padre che chiese il pensionamento, non sembrandogli più opportuno confinare a servire il Governo, dopo di aver dato il proprio consenso al figlio di allontanarsene. Più tardi il Sabalich si mise a fare pratica notarile nello studio del Pappafava, ma presto si accorse, e tutti con lui, che non avrebbe mai avuto nessun desiderio di diventare notaio e che la pratica notarile gli serviva, forse inconsciamente, di pretesto per sviscerare e disotterrare i più interessanti e preziosi elementi da quella miniera di libri, pergamene e manoscritti che costituivano la nota biblio­ teca Pappafava.
  • 36. 30 Fu questo forse il periodo di maggior preparazione, gli anni nei quali scoprì se stesso e gettò le basi della sua opera futura ; 1’ epoca in cui i suoi grandi amori per Venezia e per Zara si fusero nel crogiuolo d’ una vasta e minuziosa cultura ; e vennero uno dietro l’altro i vari studi, su molteplici argomenti storici, archeologici, folclorislici, venne tutta la opera di Teatro - la sua grande passione (una settantina circa di com­ medie, oltre ai monologhi, alle critiche teatrali, alle biografie d’ artisti, alle cronistorie di teatri), venne la sua opera poetica e letteraria e soprat­ tuto la sua intensa collaborazione a quasi un centinaio fra giornali e ri­ viste, da un modesto periodico di Cerignola « L’ Ofanto » alle carducciane « Cronache Bizantine », dalle patrie « Scintille », che fondò e diresse, alla vallardiana ottocentesca « Natura ed Arte » e alla moderna milanese « Let­ tura », dai baiamontiani « Avvenire » e « Difesa » al giornale del Caprin « Libertà e Lavoro ». Oltre ai suoi studi preferiti si occupava saltuaria­ mente di chiromanzia, di problemi cinematografici, di musica : è certo che di molte sue canzoni, incominciando da quella del « Sì », il Sabalich ha creato anche il ritmo, ma che ignaro di ¡strumentazione, di partitura e di tecnica, dovette servirsi dell’ opera del Levi. Ma, allora, noi - e del nostro prossimo si conosce sempre prima la parte caduca - del « vecio Sabalich », all’ infuori di sapere nella maniera più incerta, ch’era un cultore di storia patria invecchiato fra le vecchie carte, non conoscevamo nulla, che la sua proverbiale timidezza, le sue quasi ridicole paure. Arrivavano alle nostre orecchie le voci dei suoi giri più lunghi pur di non passare sotto il campanile del Duomo per paura che proprio in quell’istante avesse a cadere, forse pensando, permeato com’ era di venezianità, che il campanile di Zara dovesse seguire quello glorioso di S. Marco; correva sul suo conto la storiella che nei caffè avesse una morbosa paura di bere da bicchieri pubblici, ma che d’ altro canto, veneziano anche in questo, non potendo fare a meno di andare'al caffè, portasse con se un compiacente fidato e specializzato amico, perchè, ordinate due birre, questi bevesse di nascosto un sorso prima da un bic­ chiere poi dall’ altro, di modo che nessuno potesse accorgersi dell’ inno­ cente trucco. Si sentiva ancora raccontare - malignità tipicamente veneziane dei suoi concittadini - della sua previdente mania di dormire sempre con porte e balconi spalancati per potersi più celermente salvare in caso d’un ipotetico incendio ; della sua idiosincrasia a toccare il bottone d’un cam­ panello elettrico, e di tante altre piccole fisime, alcune delle quali però, oltre a denotare una ipersensibilità, mostravano a nudo il suo gran cuore: così per anni ed anni sorresse materialmente e moralmente - senza rico­ noscenza - l’ ipocondriaca macchietta del Gaudenzio Nicola, o in occa­ sione di qualche minima lite procuratagli artificialmente da esperti conoscitori del suo carattere, pagava spesso di tasca e di salute, per timore di complicazioni e di vendette, pur essendo sempre dalla parte
  • 37. 31 della più netta ragione; segni di bontà che i suoi amici chiamavano, e noi pure suoi biografi chiameremo, in ischietto veneziano, col nome di « fregae ». Insomma del « vecio Sabalich » io, quindicenne, avevo un’ idea piut­ tosto unilaterale per dirla eufimisticamente, ed anche il « Sì » che in quei primi anni della redenzione sgorgava spontaneo, trionfale e festoso dalle bocche dei dalmati tutti ed echeggiava più volte al giorno nei cortei, nei ritrovi, nelle piazze, nei caffè senza che mai il popolo si stancasse di can­ tare le elettrizzanti strofe, anche il « Sì », senza del quale non si può concepire tutto il periodo del nostro irredentismo che va dal 1890 al 1914, quel « Sì » che cantato con pericolo e sottovoce anche durante la guerra, eruppe dai petti nel novembre del ’18 e riempì di se ogni giorno, ogni ora di quegli anni di gioie, di speranze e di delusioni, perfino quel « Sì » non riusciva a colorire ed innalzare ai nostri occhi la pallida e ormai curva figura del suo autore, conosciuta da noi solo parzialmente e catalo­ gata ormai fra i timidi e i pavidi. Ma forse quella canzone era tanto con­ naturata nel popolo di Zara, era tutto il popolo, era tutta Zara, che a noi ragazzi non sembrava nata da uno solo e forse allora non pensavamo, come lo pensiamo ora, che Giuseppe Sabalich aveva personificato l’anima popolare in un epoca eroica di tutta una città. Quello che più tardi, studenti liceali estetizzanti in erba, ci fece guardare con occhio più curioso e con nuovo interesse l’emaciata figura di quell’arguto vecchietto, quasi raccolto in se, seduto su d’ uno sgabello di una libreria o d’ una farmacia, e diede la spinta a conoscere meglio tutta la sua opera e la sua vita - l’artista e 1’ uomo -fu 1’ esserci capitato fra le mani, in una delle scorribande nella biblioteca paterna, un vecchio numero deH’Annuario Dalmatico e l’ aver incominciato, più per capriccio che per buona volontà, a leggere le prime righe d’ un atto unico di Giu­ seppe Sabalich: presi dalla vivezza e modernità del dialogo, dalla fre­ schezza della lingua e forse anche dalla mondanità dell’ argomento, finita la lettura della commediola in un’ora, chiedemmo subito al babbo se quel Sabalich moderno, brillante ed umano commediografo era quel timido topo di biblioteca che vedevamo, ormai sempre più raramente. Giuseppe Sabalich moriva il 13 settembre del 1928. Il Comune di Zara, trascorsi i dieci anni di veto prescritto dalla legge, ha voluto intitolare una delle sue calli più tipiche al poeta della sua vene- zianità : amò, il Sabalich, Venezia con passione e nostalgia da buon za- ratino, amò Zara con paterno amore da vecchio veneziano ; era il rappre­ sentante più^perfetto e più puro di tutto quel complesso di cose che da noi, mezzo secolo fa, valeva a significare il binomio Zara-Venezia, era la quintessenza della zaratinità ; nacque, scrisse il « Sì » ed esalò 1’ ultimo respiro in tre diverse case, tutte di Calle Larga! E questo zaratino al cento per cento, questo nostro concittadino co­
  • 38. 32 noscitore profondo della sua città, nello spirito e nelle pietre, come nes­ suno lo fu mai nè forse mai lo sarà, noi dobbiamo ora a nostra volta conoscerlo seriamente per poterlo amare con riconoscenza e sincerità, senza che pesi sui nostri giudizi e sui nostri sentimenti il ricordo di un « vecio Sabalich » erroneamente ritenuto sempre timoroso, sempre incerto, sempre troppo prudente. Certo non era nato per 1’ azione politica o per comandare alle masse, ma era un forte del sentimento, un emotivo, un raffinato nel significato più simpatico della parola; ebbe la facoltà di entrare nell’ anima del po­ polo e di farla vibrare tutta nelle più riposte ed intime sensazioni. Già in una delle sue pagine giovanili, in un bozzetto delle «Chiac­ chiere Veneziane », scriveva : « Sono un leone dell’ idea e un paralittico della volontà », ma in più di un' occasione la volontà non gli mancò ; la volontà non gli mancò quando, insieme a pochi altri volle assistere ad una messa per Tommaseo nella chiesa di S. Simeone rimasta deserta perchè alt’ ultimo momento la polizia aveva manifestato parere contrario a tale dimostrazione; nè la volontà gli sarebbe venuta meno qualora si fosse presentata la necessità di doversi suicidare: aveva infatti giurato e fatto giurare alla moglie, che, se Zara non avesse dovuta essere annessa al­ l’Italia, lei avrebbe dovuto coll’unico figlio riparare in penisola e lui, per timore di attraversare l’Adriatico, si sarebbe subito ucciso. Ecco le « paure » del Sabalich : fobia d’ una traversata per mare e non paura di darsi la morte; un suicidio che non sarebbe stato una vi­ gliaccheria. Strana, interessante, complessa la natura del Nostro : d’ una ipersen­ sibilità eccezionale rimaneva toccato o turbato da un nonnulla, immagaz­ zinava giornalmente miriadi di sensazioni che, fissate quasi subito in foglietti volanti costituivano poi la base per le opere sue di più vasto respiro, per le sue poesie popolari, per gli studi comparativi di folclore, o per 1’ opera sua di commediografo vivo ed umano ; anche se nel suo carattere, specie negli ultimi anni, si siano accentuate le preoccupazioni, i timori, le paurose sensazioni determinate dalla supposta imminenza d’ un male o dalla minaccia d’ un ipotetico pericolo (e queste sensazioni traspa­ riscono di quando in quando in alcune sue pagine autobiografiche) non si può assolutamente dire che 1’ opera sua sia malata di congenita de­ bolezza. Basterebbero per dimostrare il contrario, ad esempio, le pagine dello studio « Huomini d’arme di Dalmatia » vibranti di ammirazione per tante eroiche gesta, basterebbero la conferenza sulla « Ginnastica nella poesia antica » e un articolo su « Tommaseo e la ginnastica », per dimo­ strare che nella sua attività giornalistica già allora non trascurava gli ar­ gomenti di propaganda per la forza e la sanità della stirpe; infine la miglior dimostrazione d’ una non supina acquiescenza e d’un non facile adattamento ci sembra essere quell’ energico verso del « No » che è quasi
  • 39.
  • 40.
  • 41. 33 un imperioso grido dell’ animo: « no semo ancora morti, no, no e no 1». Nella rassegna che ci siamo proposti di fare di tutta o quasi l’opera del Sabalich, chè certo qualcosa ci sfuggirà, incominceremo appunto dalla sudetta conferenza, essendo essa l’ unica fra i diversi generi trattati ; eviden­ temente anche il Sabalich, come la maggior parte dei Dalmati, non fu un oratore. Nel 1885, trentenne, lesse quindi la conferenza « La Ginnastica nella poesia antica » alla Società di Ginnastica e Scherma di Zara la sera del 19 marzo, prima del noto discorso di Bajamonti che valse a sciogliere la società; stampata in opuscoletto dal Woditzka contiene una prefazione sotto forma di Lettera a Roberto Ghiglianovich, che ha certo più interesse della conferenza stessa; lettera argutissima nella quale spiega la genesi della conferenza tramutatasi per mancanza di memoria in lettura : in ori­ gine, dietro probabile consiglio del Ghiglianovich, il titolo doveva essere « La ginnastica nel concetto filosofico dei greci antichi », e « tu la volevi (te ne ricordi, Roberto) proprio così : una conferenza d’arte, e mi ci volevi cacciare nel polipaio dei filosofemi, tu, coi tuoi consigli di ellenica pla­ sticità »; ma nel suo « io pensante » il Sabalich preferisce il tema « La Ginnastica nel Medio Evo », che poi abbandona, scrive, « per mancanza di biblioteche »; infine accetta il consiglio « del nostro piccolo poliglotta » (il Piero Cassandrich « altra anima di artista come te ed imbrattacarte come me, ma più dotto e più serio di me e di te sommati insieme ») di trattare della « Ginnastica nella poesia antica »; la lettura non ha nulla di peregrino, le solite citazioni da Pindaro, da Omero, dal IV libro del- I’ Eneide e dal Parini dell’ « Educazione »; interessanti alcune righe auto- biografiche dell’ esordio dove il Sabalich, ancora giovane, ci dice già tutto il suo amore verso l’ indagine storica e letteraria e dove ci svela la con­ cezione che di tali difficili ricerche già aveva: «la pesantezza dell’ inda­ gine sparisce sotto il velo d’una strofe e il numero sonoro ammorbidisce la crudezza del documento »; già da allora si palesa quale si sente di es­ sere, quale cioè noi possiamo anche ora definirlo, un poeta del documento. Incominciamo col Sabalich minore, col Sabalich letterato puro : quello di alcuni libri di racconti e di poesie. « Acquarelli veneziani » crediamo sia il solo libro edito di poesie scritte in lingua; ma anche qui, come appare ben chiaro dal titolo, tutti i 44 sonetti sono di ambiente, di carat­ tere e di contenuto esclusivamente veneziano (Al Listón, In Ruga, Rio Terrà, La casa del Goldoni, Alle Zattere ecc.); pieni di colore e di senti­ mento la maggior parte, alcuni versi di buona fattura, parecchie quartine di sentita ispirazione, altre che guadagnerebbero di più se scritte in dia­ letto ; il resto è una Venezia dipinta come la si vede nei troppi quadri di pittori dilettanti del tardo ’800, con in più, sempre, uno sviscerato e connaturato amore non solo letterario per la magica città. Citeremo solo
  • 42. 34 pochi versi : fanno la serenata i mandolini : al dolce strimpellio de i sonatori abbaian dai bragozzi i cagnolini. E questi di « Venezianina »: 11 piede ha grosso nella calza bianca la vesticciuola rosa di percalle, la pupilla ha di fuoco, l’ aria stanca, sul petto due sfacciate rose gialle. Come si vede poesia dialettale anche se scritta in lingua, ma nè migliore nè peggiore di tanta altra poesia dialettale dell’ epoca come quella dei minori romani il Zanazzo e il Santini, del Testoni o del Fucini, del Sarfatti a Venezia o del Piazza a Trieste. Invece in alcuni « Sonetti Zaratini » e in quelli di « Bufonade » il Sabalich si sente tanto padrone del vocabolo e dell’ argomento da osare accostarsi alla maniera dei grandi modelli, il Belli ed il Porta; eppur non raggiungendo mai la classica grandezza della loro satira, fà sfoggio d’ un dialogo egualmente serrato e pieno di chiaroscuri : il nostro popolo, quello di Trastevere e quello di Piazzetta Marina, ha avuto per fortuna sempre l’ intuito svelto e la lingua pronta; in alcuni sonetti poi il Sabalich, che aveva allora da poco oltre­ passata la trentina, non può scordarsi dei poeti veneziani licenziosi, il Baffo e il Buratti, ma li ricorda con una certa misura. Edito postumo nel 1931 per le premurose cure della moglie, il po- limetro dialettale « Le campane zaratine » in sette parti, quanti sono i campanili di Zara, meriterebbe una più larga diffusione fra le famiglie della nostra città perchè, sintetizzando la storia delle chiese zaratine, rie­ voca tutta la storia della città, ne illustra l’arte e la leggenda e ne canta gli amori e gli odi, i sorrisi ed i pianti con quel linguaggio goldoniano condito di sale attico e - come scrive il Nediani nella prefazione - « per­ meato di una vena fresca e sottile di quell’ humor che è una prerogativa speciale del poeta ». La lapide sta là dal Cinquecento (el sete ottobre del settantaun ricordà da nissun). La parte intitolata a « Santa Maria » più ricca di avvenimenti con­ temporanei (il mese di maggio, il Corpus Domini, il Sepolcro ecc.) si nota per una certa quale grazia caricaturale fine e gustosa; ascoltate come can­ tano e pregano le bimbe nelle navate settecentesche : ma mejo de 1’ organo — ’sti vivi violini sospira e gorgheggia — che i par canarini ! Le prega le prega.... — le vose de argento par quelle de i angeli, el canto le scalda, Gesù benedeto sbeleto mai più.
  • 43. 35 E guardate con che effetto descrive la massa di popolo che, con morbosa curiosità, assiste al taglio delle treccie d’ una monaca : Le done fa i giri — le spenze le fraca i fianchi le maca — le issa i putei le mostra coi dei — guei grumi de oro quel rico tesoro; — la testa che resta pelada che bruto momento che pianzer el fa. E co la xe fata — le man i ghe basa e in coro i travasa — cafè e cicolata. Ultimi versi, che anche senza quella fortuita coincidenza del « tra­ vasa », arieggiano stranamente ai migliori versi delle « Ciacole del Bepi ». Non grande poesia certamente e forse nemmeno poesia, ma versi schietti e sinceri che hanno avuto ed avranno un loro particolare valore e una loro piccola ma genuina ragione d’ essere. Di letteratura narrativa il Sabalich ci ha dato saggi nei suoi anni giova­ nili, mentre nella seconda parte della sua fecondissima attività di scrittore si dedicò quasi esclusivamente alle monografie storiche. Sotto il pseudonimo di P. Di Castelvetro pubblicò presso il Woditzka nel 1880 un gruppo di rac­ conti « Profili », dedicato agli studenti della Società Accademica Dalmazia di Graz. « Amici miei - scrive nella dedica - questi poveri bocci in fioritura, usciti a vanvera sulla « Palestra », da voi pur tanto amata, rivedono ora la luce della pubblicità in questo modesto libriccino : un libriccino come in oggi tutti li sanno fare, tanto pel brusio di metter in gala le proprie opinioni o le proprie fantasticherie. Scritti « tra lo studio e lo svago » come direbbe il Giusti, ho cercato di correggerli da quei tanti vizierelli di cui nessuno va senza e che ho scorti più tardi coll’aiuto di due grandi maestri : il Tempo e il Consiglio. Li dedico a voi : a voi che pur lontani dalla patria, indefessi coltivate la lingua che suona dolcezza e amore ». Seguono i sette bozzetti, di ambiente borghese, torinese e veneziano, uno è uno schizzo militare alla De Amicis e l’ultimo è una colorita descrizione di una festa goliardica nel gran salone della Bierhalle: seicento giovani rumorosi, parlanti diverse favelle, gonfaloni sbandieranti, discorsi, canti, tavole imbandite, fiumi di vino e di birra; visione di baraonda fermatasi alla cronaca e non assurta ad arte, chè forse ci sarebbe voluto il genio d’ un Rembrandt. In « Chiacchiere veneziane », che scrisse nell’ occasione d’ un ritorno alla sua Venezia nel 1887, affiorano tanti ricordi degli anni giovanili colà trascorsi ; questi bozzetti autobiografici sono più sentiti, più vivi, più freschi, più perfetti di quelli di « Profili »; e già, qua e là, in mezzo a descrizioni di ambienti ora popolari ora lussuosi, di vicende ora tristi
  • 44. 36 ora libertine, si intravede, in germe, il futuro autore di tante dotte croni­ storie, l’appassionato raccoglitore di tante memorie patrie. « Venezia che mi ospitò bambino, le Zattere ove ho sgranchito i primi passi, il popolino fra cui appresi a parlare, ad osservare e un tan­ tino anche a malignare, ecco il sogno che turbò per oltre venti anni le mie giornate ». Ed ancora: Ohi il tuffo nella mia Venezia storica ed arti­ stica ! Boccate d’ aria e boccate d’ arte ! La burocrazietta di Zara non se ne addà. Un solo mese di questa vita vale bene un sepolcro di venti anni 1 E dopo di ciò venga pure la morte ». I più notevoli fra i bozzetti sono : « La favorita di Don Carlos », « Un po’ di Goldoni » dove, tra le varie divagazioni che il monumento del Del Zotto gli ispira, si può leggere quasi gettata lì per caso questa sottile noterella critica: «Oh Momolo ! Oh Lucieta ! Oh vecchio sior To- daro ! Se Goldoni si fosse fermato là ! Ma egli volle forzare e scrivere delle “ Dalmatine „ che possono essere giapponesi... »; « Gli assedi di Zara » dove un vecchietto, tipico cicerone veneziano, spiega e commenta arguta­ mente all’autore i due quadri degli assedi di Zara a Palazzo Ducale ; « La devozione a Venezia » e « Quà e là per Venezia » primi esempi di ciò che sarà più tardi il Sabalich giornalista, un colorito narratore di cronache d’arte ; qui infatti vive, efficaci e complete descrizioni di tutte le spetta­ colari manifestazioni religiose veneziane - processioni, voti, sepolcri ecc. -, e dominatrice assoluta di tutto e di tutti la divina arte della Scuola Veneta ; « e così fra un Palma e un Vecelio passavo la mia adolescenza senza distacco nelle figurazioni della mia mente, perchè fra il San Giro­ lamo del Giambellino e il ganzer della riva, non c’ era nulla di diverso nè 1’ occhio nè la barba e nemmeno il mantello »; poi, in rapida e gu­ stosa sintesi storica, moltissimo di Venezia, da Marin Falier al Manin, dal Brustolon al Longhi, fanatismi e bestemmie, Papa Rezzonico e Renan, i Carmelitani Scalzi e l’ Enciclopedia, e quel campanile di San Marco dalla cui cima « Madame di Stael vedeva le coste dell’ Istria e anche (o fantasia francese 1) quelle della nostra Dalmazia »; e la sua Dalmazia gli è in cima d’ ogni pensiero « quanti ricordi per noi dalmati non ha il tempio di San Zanipolo... » e giù una filza di nomi e di notizie interessanti nostre chiese, nostri teatri, ricordi del nostro Risorgimento ; e in un punto lo dice chia­ ramente : « ho voluto sempre occuparmi dei miei compatriotti tutte le volte che fui a Venezia », ed anche nella novella intitolata « La carne », in mezzo alla passioncella erotica per le ben tornite gambe della Emanuela Ungaro, trova il giusto momento d’ inserirvi, con appassionate parole d’ amore e di poesia, i nomi dei garibaldini dalmati, i Molin, i Venturini, i Popovich, i Carrara, i Vusio, i Sirovich, i Giuppani, i De Giovanni, i Viscovich, i Vucovich, i Zanghi e molti altri che « aspettano sempre (e quanto aspet­ teranno?) la loro epopea». In questo bozzetto effettivamente la carne è la maggiore protagonista, ma la vampata di passione non precisamente ideale
  • 45. 37 che il Sabalich si prese per i ferri del mestiere d’ una nota ballerina del- 1’ epoca, nel racconto, viene con raffinata accortezza e fine maestria qua e là smorzata da qualche dialogo pieno di innocente brio o da innocui scherzi di parole o da candide lepidezze, che leggeremo più tardi special- mente nei monologhi in lingua. Qualche esempio preso a caso: le donne d’ allora, siamo agli albori della bicicletta, incominciavano a mostrare le gambe « tutto in grazia del tandem, quel provvido tandem a cui nessun Cicerone lancia il quousque verrino»; nel serra serra delle Mercerie dà non volendo un pugno a un grave professore tedesco « altro che - Oh ! Fenezia Penedeta 1 - che in quel momento cantarellava sottovoce »; as­ saggia certe sigarette alessandrine « lunghe come i versi omonimi »; di un amico dimostratoglisi non perfettamente tale dice : « Canaglia posso dir­ glielo ora che è morto, poveretto ! e i morti bisogna rispettarli 1»; par­ lando di un vaporino della Lagunare, il « Rialto », sempre carico di gente: « è naturale che le azioni di quel Rialto non siano mai in ribasso », e, essendo lui macedone per parte di madre e la bella ballerina greca di fattezze, esclama con un sospiro : « ma purtroppo due greci non uniti ». Non si tratta certamente d’ un grande e originale umorismo, anzi il suo è un umorismo tipicamente giornalistico, ma abbiamo ritenuto di citarne Io stesso alcuni esempi per mostrare il Sabalich sotto ogni aspetto della sua opera multiforme. Certo fu più brillantemente arguto e più sapientemente caustico a viva voce e nei suoi anni più maturi di quello che non si riveli in queste pagine giovanili, delle quali citeremo ancora qualche passo per poi dare una pallida idea dell’ immensa attività che il Sabalich dedicò al teatro. Fra gli apprezzamenti critici di quell’ epoca - secondo suo soggiorno veneziano - benevoli quelli per Ruskin e De Musset, stranamente negativi quegli per Goethe; l’olimpico Goethe gli riesce antipatico perchè «ipo­ crita come scrittore », e « non è la nostalgia mentale che in lui lavora, non già la schensucht dell’anima : i suoi classici citronen possono trovar P origine genetica nelle spremute auliche di Weimar ». Nelle ultime pagine di queste sue « Chiacchere », vale a dire negli ultimi giorni veneziani prima di ritornare nella sua Zara, trova occasione di scrivere queste parole che hanno già un non so che di amaro : « nel mio paese c’ è molta gente fine se non colta, c’ è una certa aristocrazia di modi se non di sangue o di censo, e ci siamo avvezzati a trattarci coi guanti P un 1’ altro perchè la superbia, l’ invidia, I’ odio, la lussuria, 1’ avarizia e l’ accidia portan sempre le mani coperte per non insudiciarsi a vicenda». Ma egli, anche se ne parla amaramente, non solo continuerà ad avere un culto per la sua patria archeologica, ma amerà il suo paese, anche se vaso di pandora dei sette peccati capitali. Le sue visioni veneziane terminano così : « Fu detto che le più belle pagine su Venezia siano state scritte da stranieri; se si vorrà tener conto anche di questo mio modesto contributo, converrà aggiungervi : anche le
  • 46. 38 più affettuose! ». Questa affermazione che pecca simpaticamente di superbia, non poteva venir dettata se non da uno straniero provvisorio di Venezia e d’ Italia, come ogni vero dalmata sperava di essere. Ma al Teatro Italiano il Sabalich dedicò con innata passione l’ intel­ letto ed il cuore. In quegli anni, tre giovani zaratini, due lontani dalla pa­ tria ed il Nostro fedelissimo alle sue mura, avevano fatto del teatro, cia­ scuno a suo modo con particolari attitudini e simpatie, la loro spirituale ragione di vita: il Maddalena, il dotto cultore di studi goldoniani, il For­ ster brillante ed acuto critico teatrale del «Mattino » e il Sabalich, piacevole ed esatto poligrafo di materie inerenti al teatro, nonché autore prediletto dall'ultima celebre servetta, la Zanon-Paladini. Incominciamo con alcuni studi minori. In «Una rappresentazione sacra a Traù» il Sabalich, scena per scena verso per verso, cita e commenta una rappresentazione allegorico-morale, evidentemente una derivazione quattrocentesca dalle sacre rappresentazioni, che in onore del loro San Giovanni venne rappresentata, tre volte, a Traù, a spese di certi de Andreis, che « quantunque si piccassero di letterati non figurano nel panteoncino dei letterati nostri » e nemmeno sono « cano­ nizzati nella costellazione dei nostri genietti: il Dizionario del Gliubich». La seconda rappresentazione fu recitata tre giorni dopo la prima « per compiacimento universale della città » che sarebbe come chi oggi dicesse a richiesta generale. La Rappresentazione è un polimetro «che tira in scena personaggi mitologici, filosofi, santi, diavoli, personificazioni di virtù, di vizii e di città » ; la mancanza totale di didascalie rende più interessanti le indicazioni circa « l’ Habito dei personaggi » che vengono introdotti, per esempio « Spalato sarà in habito da mercante ma però ricchissimo, in una mano terrà il rostro di nave e nell’ altra una misura da panni»; «La Città di Zara si rappresenterà sotto sembianza d’ una vecchia Coronata con un bastone in mano e l’ habito sarà da Matrona grande » ecc. Segue il manifestino dei ruoli, sostenuto tutto da dilettanti locali, fra i quali parecchi sacerdoti : per esempio la « Ricchezza amante di Gio­ vanni » era personificata dal Reverendo don Giurileo ; però « nè le frodi nè gli inganni potranno in nessun modo vincer Giovanni». Ma, più che analizzare la Rappresentazione per sè, il Sabalich vuol certo dimostrare con questo suo studio che queste nostre piccole «gaz­ zarre spirituali » sono interressanti per illustrare la storia della nostra cul­ tura: «che fu sempre un non vieto riflesso di quella luminosa della pe­ nisola ». In « Gustavo Modena a Zara » cerca di svelare il problema, che poi lascia a malincuore insoluto, d’ una eventuale venuta del celebre attore a Zara, non per recitare ma per trovarvi uno zio canonico; spera che una lettera autografa, presumibilmente datata da Zara, comperata presso un