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A L M A M A T E R S T U D I O R U M
U N I V E R S I T À D I B O L O G N A
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione
ELABORATO FINALE DI LAUREA IN
Semiotica II
L U X U R Y B R A N D I D E N T I T Y
I L C A S O C H A N E L
	

 Relatore	

 Presentato da:
	

 Prof.ssa Giovanna Cosenza	

 Nicolò Montevecchi
	

 Sottocommissione:	

 Prof.re Roberto Grandi
	

 	

 Prof.ssa Giovanna Cosenza
	

 	

 Prof.re Celestino Ferrari
	

Sessione II - Novembre
Anno Accademico 2009-2010
Introduzione 5
Capitolo 1 8
1.1 La teoria della classe agiata: base della moderna concezione del consumo 9
1.2 Lusso e moda: così simili e così diversi 11
1.3 Continuità e discontinuità: strategie nella gestione del brand 14
1.4 Identità di marca ed esperienza cognitiva 16
1.5 Verso la semiotica della moda 19
Capitolo 2 22
2.1 Comunicare il brand di lusso: strategie di comunicazione pubblicitaria 23
2.2 Comunicare il brand di lusso: significato di marca 26
2.3 Ereditarietà, etica ed estetica 29
Capitolo 3 33
3.1 Coco: la determinazione di una donna 34
3.2 L’advertising Tv di Chanel No.5: etica ed estetica di un profumo 37
3.3 L’identità: un look atemporale 42
3.3.1 Essenziale: la catena dorata 46
3.3.2 Essenziale: i fili di perle 46
3.3.3 Essenziale: la camelia 47
3.3.4 Essenziale: il bianco e il nero 47
Conclusioni 49
Bibliografia 52
A chi con sincera critica e onesto parere
ha commentato tanto la stesura di questo
testo, quanto la mia vita, suggerendo,
come in una bozza, le modifiche da
apportarvi.
Introduzione
Cronologicamente antecedente alla nascita delle odierne
concezioni di marketing e di pubblicità, il sociologo ed economista
statunitense Thorstein Veblen tracciò nel suo saggio “La teoria della classe
agiata1” i fondamenti di un pensiero sorprendentemente attuale. Egli seppe
cogliere gli aspetti comportamentali di quella che, nel corso del XX secolo,
si consolidò come l’attuale società dei consumi fondamentalmente dominata
dal concetto di ostentazione. La proprietà privata dei beni è intrinsecamente
legata alla connotazione simbolica che essi posseggono: all’oggetto, al bene
posseduto, viene associato un valore più o meno riconosciuto dal tessuto
sociale al quale ci si riferisce. Questo valore ha dunque la capacità di
trasformarlo da semplice possedimento in un vero e proprio plus della
persona, un ‘di più’ che ne esalta il prestigio e lo status sociale.
Vi è quindi una sostanziale evoluzione anche nella concezione di
ricchezza: lo scopo non è più, come accadeva in passato, accumularla ma
mostrarla, esplicitando così la propria collocazione sociale a quelli con cui si
è soliti confrontarsi. Si entra in questo modo in un circolo vizioso dove, se è
vero che possedere un numero e una tipologia di beni pari al gruppo sociale
di riferimento contribuisce ad un personale senso di benessere, il
superamento di questa parità produrrà un appagamento nell’individuo
costituendo così un aumento dell’agonismo sociale che sfocerà in un
maggiore divario fra gli individui.
In questo contesto agonistico si delinea poco a poco la nuova
figura del consumatore postmoderno2, estremamente più attento che in
passato alla componente comunicativa e simbolica del bene che intende
acquistare e desideroso di soddisfare non più esclusivamente i bisogni
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
5
1 Veblen, T 1899
2 Fabri, G 2007
tangibili e primari ma che, ora più che mai, si orienta verso l’impalpabilità
delle emozioni, dell’estetica e delle esperienze d’uso. Una tendenza che
porterà nel tempo ad una transizione nelle modalità di fruizione dei beni
dove l’acquisto non viene più mosso dalla reale necessità ma dal desiderio
di soddisfare il proprio immaginario. Il settore del lusso evolve così in modo
da assecondare in primis questo bisogno associando alle qualità materiali e
formali del bene, qualità emozionali che si aggiungono al valore di
esclusività insito per antonomasia nel bene di lusso. Caratteristiche che
esplicitano, come detto, il modus vivendi del consumatore e non più solo il
suo status.
Il “fruitore - tipo” di questa categoria di beni ricerca in essi il
mezzo per esacerbare la propria appartenenza ad una élite che condivide il
medesimo stile di vita, appartenenza legittimata dal possesso di beni ritenuti
‘superiori’ per qualità, fattura, prezzo. I produttori operanti in questo settore
sono consapevoli dell’evoluzione del loro target in questo senso: il
compratore non si accontenta più di sterili informazioni sulla qualità e
funzionalità del prodotto; nasce il bisogno di costruire intorno al marchio
una identità che racchiuda un universo simbolico di grande attrazione,
capace di trasmettere i valori alla base del marchio nel quale il consumatore
possa riflettercisi.
Il marchio, non più solo un nome stampato sul prodotto, diventa
l’elemento portante della comunicazione fra l’azienda ed il fruitore finale
grazie al patrimonio simbolico che custodisce contribuendo alla creazione di
un fitto sistema immaterialmente affascinante e seducente che sfocia nella
odierna comunicazione del luxury brand caratterizzata da valori costituenti
il così detto lifestyle prima ancora di una dimensione funzionale del
prodotto.
La trasmissione dei valori fondamentali del marchio, del suo
patrimonio storico e artistico, diviene allora essenziale. Il marchio di lusso,
come quello di moda, si presta particolarmente al caso poiché sinonimi di
adesione a determinati modelli, valori, modus vivendi. La comunicazione di
moda abbandona dunque la mera comunicazione del prodotto in favore della
propria identità di marca gettando così le basi discriminanti secondo le quali
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
6
un prodotto diventerà, agli occhi del consumatore, immediatamente
distinguibile da quello di una casa affine.
L’elaborato costituirà un percorso tanto storico quanto
interdisciplinare affrontando nel primo capitolo la problematica
dell’evoluzione dei consumi negli anni dal punto di vista sociologico e
transitando poi nel terreno squisitamente semiotico dei capitoli successivi
dove cercherò di individuarne le caratteristiche salienti, fino a giungere
infine al caso di riferimento rappresentato da Chanel dove, dopo una breve
parte introduttiva alla storia della fondatrice e della Maison, cercherò di
analizzare le scelte in fatto di comunicazione ed il capitale simbolico che
esse trasmettono.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
7
Capitolo 1
Sin dai tempi più remoti la necessità di distinguersi dagli
individui propri simili è stata determinante nelle dinamiche di ogni società.
La distinzione e segmentazione, sia che fosse in classi, caste o ceti, ha da
sempre servito allo scopo fornendo agli appartenenti una sorta di etichetta
che li ponesse alternativamente in una posizione di rilievo o meno rispetto
agli occhi dei simili. Gli indici di appartenenza ad un determinato status
sociale li possiamo reperire sotto ogni aspetto della quotidianità, dalla forma
d’espressione dell’attore preso in esame, alle pietanze di cui si ciba, dal
portamento all’abito. Fondamentalmente ci si riferisce così facendo al suo
bagaglio simbolico fatto di beni materiali e immateriali che egli sfoggia
costantemente e più o meno inconsciamente, per marcare e riaffermare il
proprio status, per definire la sua posizione. In questo capitolo vedremo
come Veblen, nella sua teoria formulata ben prima della nascita delle
moderne concezioni di marketing e comunicazione di prodotto, denota un
allora innovativo aspetto della proprietà privata legato non più alla pura
necessità di sussistenza ma intesa come segno distintivo e di prestigio
sociale utile a mettere in evidenza la propria persona. Lo scopo non è più
dunque accumulare ricchezza, ma esporla mediante l’acquisto di beni ‘di
livello1’, tanto economicamente quanto esteticamente, che denotino il
proprio status.
Il “volere qualcosa più degli altri2”, definizione di lusso secondo
l’autore, permea così le strategie di comunicazione dei brand operanti nel
lusso, come vedremo accadrà per Chanel che saprà creare una costellazione
di concetti nei quali il consumatore postmoderno che si definirà nel tempo
potrà riconoscersi. Ma cosa è classificabile come ‘lusso’?
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
8
1 Veblen, T 1899
2 ibid.
1.1 La teoria della classe agiata: base della moderna
concezione del consumo
Thorstein Veblen (1857 - 1929) redasse questa critica al
consumo statunitense nel 1899 prendendo spunto da una indagine
sociologica sulle società arcaiche. Egli giunse all’osservazione della nuova
borghesia americana caratterizzata dal possesso e l’ostentazione di beni di
notevole peso economico, possesso mirato al solo scopo di emulare i propri
pari denotando un prestigio sociale e una classe di appartenenza ben precisi
nel proprio immaginario. La deduzione di Veblen evidenzia quindi che, se
nei contesti storicamente precedenti le società feudali il possesso della
ricchezza era intrinsecamente legato alla superiorità bellica (i beni posseduti
erano stati quasi sempre razziati), al contrario, a partire dalla società di tipo
feudale la ricchezza assume nel tempo una connotazione sempre più
psicologica e immateriale. Il bene viene posseduto in funzione del prestigio
sociale che è in grado di comunicare e diviene quindi un mezzo per
appagare il proprio ego, per soddisfare una necessità rarefatta e intangibile.
Il ruolo di maggior rilievo lo assume in questo modo il concetto
di rispetto inteso come il rispetto che ti viene concesso dai tuoi vicini. In
quest’ottica diverrebbe dunque essenziale il possedimento di tanti beni
quanti quelli posseduti dagli individui con i quali ci si intende confrontare:
una sorta di soglia di sicurezza psicologica che sfocerebbe in un ‘di più’
piacevolmente appagante. Il risvolto di questo agonismo sociale è costituito
da un sentimento di cronica insoddisfazione personale fino quando
l’individuo non vincerà il paragone, ma ciò costituirà semplicemente un
circolo vizioso poiché una volta raggiunta la soglia per la quale si tendeva,
si porrà il nuovo limite del livello immediatamente superiore e via dicendo.
Per Veblen quindi il raggiungimento del ‘livello di riferimento’ è una
illusione, una utopia in continua evoluzione e crescita fin quando gli attori
in gioco tenderanno al raggiungimento della così detta rispettabilità
finanziaria alla cui base risiede l’agiatezza vistosa, unico mezzo per
conquistare il rispetto degli altri.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
9
Sarà durante il periodo post rivoluzione industriale che questa
tendenza si consoliderà, quando cioè, in concomitanza con i primi stadi
dello sviluppo economico, i consumi della classe agiata eccederanno lo
stretto indispensabile alla sussistenza. Il fenomeno del consumo vistoso si
espande in questo periodo in modo capillare nelle società industriali, nelle
metropoli, dove il fenomeno dell’imitazione è maggiormente marcato a
causa della netta distinzioni fra i ricchi industriali e la classe operaia. In
questo contesto i gruppi “inferiori” cercano appena loro possibile di imitare
quelli sovrastanti impossessandosi dei beni che veicolano quel determinato
status, beni che però nel medesimo istante perdono di valore simbolico non
essendo più intrinsecamente legati ad uno stile di vita specifico e che
vengono, di conseguenza, abbandonati in favore di altri in cui riconoscersi
maggiormente. Si ritrova in questo modo un circolo vizioso nel quale vi è
una vera e propria rincorsa al confronto che da luogo al ciclo vitale del bene
che viene così idealizzato, desiderato, raggiunto e, infine, ‘scaricato’ in
favore di un nuovo prodotto nel quale identificarsi e diversificarsi.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
10
1.2 Lusso e moda: così simili e così diversi
Fino ad ora abbiamo parlato indiscriminatamente di lusso
riferendoci a quella categoria di beni generalmente di difficile accesso,
senza soffermarci sulla reale connotazione del lusso, ammesso che vi si
possa dare una definizione unanime.
Etimologicamente legato al latino, il termine luxus, sostantivo,
denota sovrabbondanza ed eccesso, e si accosta all’aggettivo luxus (-a, -um),
ovvero slogato, lussato. Il lusso moderno è quindi indice di esagerazione di
sovrabbondanza? Sì, se si considera la prima accezione, ma se si prende in
analisi la seconda, esso può altresì veicolare il concetto di lussazione, di
slogatura, ovvero, in definitiva, di una distorsione1 di ciò che, in caso
contrario, sarebbe normalità. La normalità, nel contesto, viene identificata
come la dimensione seriale del vivere caratterizzata dalla riproducibilità e
dalla massificazione. Ecco allora che la caratteristica prima dei beni di lusso
è quella di tracciare una linea di demarcazione e rottura con il concetto di
produzione seriale tipico del largo consumo.
La massificazione antagonista del lusso, il largo consumo di cui
sopra, è rappresentata dalla moda. Per lungo tempo i due termini sono stati
confusi. Simmel, nel suo saggio La Moda 2 redatto nel 1976, afferma che:
La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di un
appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono [..]
nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla
differenziazione, al cambiamento, al distinguersi [...] Così la moda
non è altro che una delle forme di vita con le quali la tendenza
all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale si
congiungono.
Tuttavia, malgrado la definizione si sovrapponga in parte agli
studi di Veblen, vediamo che la sostanziale differenza con il lusso risiede
nella periodicità e limitata durata temporale della moda. L’oggetto di moda
gode quindi di una certa fugacità a causa del suo continuo (e ciclico)
rinnovamento, mentre l’oggetto di lusso rappresenta così la continuità, la
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
11
1 Il dizionario DeAgostini riporta: “Slogatura: distorsione, lussazione articolare.”
2 Simmel, G. 1895
sedimentazione e la trasmissione di valori etici ed estetici1. Moda e lusso
possono quindi coesistere, ma solo per brevi lassi temporali nei quali la
moda sposa la modernità proponendo novità mutevoli perfettamente
allineate alla frenesia dei tempi d’oggi e, poiché effimere e fugaci, percepite
come illimitate.
Ecco quindi che la moda si affianca al lusso in qualità di suo
momentaneo sostituto: essa offre un appiglio provvisorio a chi vuole
sottolineare la propria indipendenza e distinzione pur mantenendo un certo
distacco. Il parallelo con la logica Vebleniana avviene nei processi di
imitazione attuati nel contesto moda, dove essi, come per i generici beni di
lusso, procedono dall’alto verso il basso (il cosidetto trickle-down2, o
sgocciolamento) inducendo un abbandono della “nuova moda” da parte
delle classi più agiate nel momento in cui essa diviene appannaggio di tutti.
Il prêt-à-porter ha così una funzione di securizzazione
psicologica, è uno strumento di partecipazione indiretta attraverso il quale,
grazie alla democratizzazione della moda, tutti possono, seppure per un
breve periodo di tempo, raggiungere il livello ideale teorizzato da Veblen.
Se è vero, quindi, che in passato lusso e moda erano
perfettamente sovrapponibili in quanto un prodotto di moda era di per sé
lussuoso, il grande cambiamento dei nostri tempi è costituito da una
progressiva separazione dei due fenomeni che procedono ora per vie
distinte. Storicamente, nelle società tradizionali caratterizzata da un elevato
divario sociale, il lusso era tutelato legalmente dalle così dette “leggi
suntuarie”, la protezione del lusso era così rigida da consentire il fenomeno
di esibizione ostentativa teorizzata da Veblen. In seguito, al contrario, in
concomitanza con lo sviluppo della società industriale e la relativa
scomparsa dei meccanismi di protezione, nonché il miglioramento delle
condizioni di vita delle classi meno privilegiate, l’esclusività di questa
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
12
1 In questo caso si parla di etica nel senso etimologico del termine, come patrimonio di valori insito in un
soggetto: si fa quindi riferimento alla storia del marchio.
2 Simmel, G 1895: teoria secondo la quale il meccanismo di diffusione della moda e dei beni di lusso è
identificabile in una goccia che cade dall’alto verso il basso, dalle classi sociali agiate alle masse, e che si estende
in seguito orizzontalmente grazie ai meccanismi di imitazione per poi venire rimpiazzato, in un nuovo ciclo, da
quello della distinzione.
categoria particolare di beni viene minacciata. Le nuove condizioni venutesi
a creare costringono ad una transizione verso un tipo di protezione
economica caratterizzata dall’elevato prezzo d’accesso che limita la
domanda. In teoria, quindi, tutti possono acquistare il bene, ma il prezzo
elevato garantisce una sorta di selezione passiva. Con l’avvento del
consumismo di massa però anche questo mezzo di protezione viene a
vacillare. L’impiego esponenziale di risorse nella comunicazione del
marchio avvenuto nel periodo del boom1 ed il relativo benessere economico
contribuiscono a fornire un accesso ai beni pregiati da parte delle masse. Al
giorno d’oggi, quindi, la protezione di questa categoria di beni viene
relegata ad una ulteriore forma maggiormente articolata caratterizzata dalla
simultaneità del possedimento di un bene. Ecco quindi che se in passato per
distinguersi bastava sfoggiare una borsa firmata, oggi la medesima borsa
conserva il suo carattere di lusso se e solo se viene posseduta insieme ad un
altro prodotto che ne rafforzi il significato trascinando il consumatore in una
contestualizzata ridondanza simbolica conosciuta solo dagli appartenenti a
quella categoria: non più, in definitiva, un oggetto, ma una composizione
articolata di beni che costituiscono lo stile di lusso inaccessibile come lo
erano i singoli beni in precedenza.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
13
1 in riferimento alla seconda metà del Novecento dove si riconobbe il così detto boom economico che vide nascere
il concetto di consumismo, la classe impiegatizia ed una Italia sempre più industriale.
1.3 Continuità e discontinuità: strategie nella gestione del
brand
Parafrasando la celebre frase di Chanel “La moda passa, lo stile
resta1” e ponendola in corrispondenza con il pensiero di Flaubert secondo il
quale sia la continuità che costituisce lo stile, è chiaro il riferimento
all’opposizione fra moda e stile che pone l’attenzione sulla relazione fra il
marchio ed il tempo. A che punto della vita di una marca avviene la
transizione da “fatto di moda” a “fatto di stile”? Ci viene in aiuto in questo
caso la distinzione in categorie semantiche di continuità e discontinuità
operata da Floch.
Poiché la grande differenza fra un marchio di lusso ed uno di
moda risiede nell’inscrizione del primo in un ciclo di lunga durata, il
rapporto con il tempo è, almeno inizialmente, il medesimo della gestione
dell’identità stilistica. Individuiamo nel quadrato semiotico2 offerto da Floch
queste categorie.
Fonte: Curcio, A.M. 2007: 42
La prima categoria che incontriamo è costituita da quelle marche
che pongono l’accento sulla propria discontinuità, sull’assenza di un
riferimento al passato e su una imprevedibilità del futuro. È il caso di
Christian Dior con l’incontro di John Galliano, l’attuale direttore artistico
della Maison: egli non considera il patrimonio stilistico precedente in favore
di una visione personale della moda, mutabile ad ogni collezione e per
questo tanto rischiosa quanto spettacolare.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
14
1 cit. orig. “Fashion fades, only style remains the same” in Gidel, Henry Coco Chanel - La Biografia
2 modello di quadrato semiotico già adoperato in Sémiotique, marketing et communication per la definizione dei
viaggiatori tipo nella metropolitana di Parigi.
L’espressione contraria è costituita dalla non discontinuità e
abbraccia in parte il fulcro di questo elaborato: quelle marche che fanno
della trasmissione e dell’ereditarietà il valore cardine della propria identità.
È il caso di marchi così detti patrimoniali come Louis Vuitton, Hermès,
Patek Philippe, maison di lusso cristallizzate in una sorta di istituzione volta
alla (ri)produzione della medesima identità stilistica negli anni,
indipendentemente da quale che sia il direttore artistico.
La non continuità costituisce, al contrario, la totale rottura, il
“colpo di stato” e la “prodezza”. La storia del marchio viene bruscamente
interrotta, accantonata, in favore di un nuovo inizio. Strategia vincente solo
nel caso di marchi che necessitano di nuova vita, o in presenza di un
direttore artistico dotato di abilità innate nel saper gestire una nuova identità
di marca partendo da zero.
L’ultima strategia, infine, è quella su cui porremo l’accento nel
delineare, nei prossimi capitoli, l’identità del marchio Chanel. La continuità
costituisce la transizione del marchio nel tempo e l’adeguazione delle sue
caratteristiche. In Chanel il gusto e la filosofia a cardine del marchio, così
come erano stati interpretati dalla fondatrice, vengono mantenuti e rivisitati
da Karl Lagerfeld per adeguarli ai canoni moderni.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
15
1.4 Identità di marca ed esperienza cognitiva
È dunque il concetto di coerenza ad essere alla base dell’identità
di un brand di lusso: il sapere coniugare il proprio patrimonio simbolico e
storico all’evolvere delle necessità contemporanee.
Se è vero che fino ad un passato non troppo distante la marca, il
nome stampato sul prodotto, altro non era che quello, al giorno d’oggi
assistiamo ad una importante inversione di tendenza che vede i brand, in
particolar modo quelli operanti nel luxury businnes, incentrare la propria
attenzione e le proprie strategie sulla gestione del brand stesso. Avremo così
il celeberrimo monogramma di Louis Vuitton, che campeggia su ogni
prodotto in maniera ridondante e declinata in ogni forma e maniera, il
famoso motivo a righe incrociate di Burberry, le due “G” di Gucci, analoghe
al caso che a noi sta a cuore, le “C” di Chanel, derivate dalle iniziali della
sua fondatrice, Gabrielle “Coco” Chanel.
Ecco allora che il prodotto diviene immediatamente
riconoscibile fornendo quella sicurezza sociale teorizzata nei capitoli
precedenti che ha alla base, lo ricordiamo, l’identificazione dell’individuo e
il suo inserimento in un gruppo. Ma come avviene questo riconoscimento
nella marca? Presupposto che la differenza sostanziale fra due prodotti del
medesimo segmento, poniamo due borse da viaggio, risieda nel marchio,
esse sono identiche strutturalmente e si differenziano per il solo brand
riportato sul canvas1, si può affermare dunque che il procedimento di
branding2 avviene sostanzialmente in maniera inconscia nel consumatore
che assume una posizione nella scelta del prodotto. Il valore della marca,
ovvero “la differenza di prezzo che il consumatore è disposto a pagare per il
prodotto brand rispetto al corrispettivo senza marca3”, è di fondamentale
importanza poiché costituisce, in questo caso, una forte discriminante.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
16
1 il tessuto che costituisce la valigia
2 per branding si intende, negli studi di Communication Design, l’insieme di attributi tangibili e intangibili che,
sintetizzati in un segno, il marchio, rappresentano in modo univoco e distintivo una data azienda. Il processo di
branding in questione è dato dall’associazione fra segno e significato che avviene, in via teorica, nella mente del
consumatore
3 Cappellari, R 2008
L’esperienza di fruizione di beni di lusso ha assunto nel tempo
quindi una connotazione prettamente cognitiva. Il luxury good non è più
vincolato al reale valore d’uso ma tende ad una immaterialità simbolica. Un
borsone di Vuitton, un abito di Brioni, un foulard di Hermes avranno, agli
occhi del pubblico, una propria ‘anima’ e verranno percepiti come incentivo
alla personalità e allo status di chi li indossa. Questo processo di forte
caratterizzazione trasporta il brand in un contesto di difficile sostituibilità
che contribuisce a fidelizzare il cliente permettendogli di offrire il fianco
all’imposizione di un premium price1 a volte molto elevato diminuendo la
sua sensibilità al prezzo. Più alta sarà la brand reputation, maggiore sarà il
prezzo che il fruitore sarà disposto a pagare per ottenere il bene.
La strategia da seguire è dunque volta a creare un legame forte
fra il marchio ed il cliente, costruire una coscienza di marca tale che il
consumatore possa rispecchiarsi in quell’insieme di pensieri, filosofie,
sensazioni veicolate dal marchio. Questo, soprattutto nel marchio di moda, è
costituito dall’identità stilistica, dall’insieme di codici permanenti che
caratterizzano nell’arco del tempo i prodotti di una maison e veicolano negli
anni la personalità del fondatore.
Facendo un breve excursus nello specifico, si pensi a Chanel,
che dall’inizio del Novecento mantiene una forte connotazione tanto
femminile quanto carismatica. Il contesto in cui nacque la Maison è quello
della prima Guerra Mondiale dove si assistette alla progressiva
emancipazione femminile: le donne abbandonarono lo sfarzoso
abbigliamento dei secoli precedenti per abbracciare la comodità. Con i
mariti al fronte, la figura femminile si trova sola ad affrontare i problemi di
una famiglia avvolta dal tremendo contesto bellico. Chanel seppe
riconoscere il setting offrendo loro abiti confezionati nel medesimo tessuto
delle divise dei mariti, comodi e sempre eleganti, chiave stilistica della
donna determinata che caratterizzerà la comunicazione futura della maison.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
17
1 Secondo Michael Porter (economista), “un’impresa si differenzia dai concorrenti quando fornisce qualcosa di
unico che abbia valore per i suoi acquirenti” (Porter, 1985). Per fare in modo che il prodotto sia differenziato, vi è
la necessità che esso sia in qualche modo unico; deve avere, cioè, caratteristiche, siano esse reali o percepite, non
riscontrabili in altri prodotti concorrenti, e che queste caratteristiche abbiano un valore per gli acquirenti tale che
essi siano disposti a pagare. La differenza massima di prezzo che in questo modo il produttore può imporre al
consumatore viene detta premium price
Il brand deve quindi essere prima di tutto in sintonia con le
aspettative del consumatore, saperle interpretare e, spesso, anticipare. Ma
prima di tutto deve sapere evolvere con esso nel tempo accompagnando la
metamorfosi costantemente, pena la perdita di fedeltà. In Chanel questa
evoluzione del marchio avvenne con il passaggio della direzione artistica
alla morte della fondatrice. Karl Lagerfeld, il successore, ha saputo
conciliare la modernità imposta dal nuovo secolo ai canoni della fondatrice
proponendo un prodotto sempre riconoscibile, ma anche innovativo.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
18
1.5 Verso la semiotica della moda
Celebre per lo studio in merito denominato Il Sistema della
Moda (1976), Roland Barthes è senza dubbio precursore degli studi
semiotici applicati alla moda. Coadiuvato da studi storici e sociologici
relativi al costume, Barthes indaga e ritrova in essi una forte carenza
strutturale in quanto essi trascurano l’aspetto istituzionale del fenomeno: in
nessuno degli studi di carattere storico-sociale fatti fino a quegli anni
emergeva il costume inteso come “struttura i cui elementi, di per sé privi di
valore, risultano significanti solo in quanto legati da un insieme di norme
collettive1”. Il sistema, quindi, comprende quell’insieme di norme che -
tollerando, interdicendo, giustificando o obbligando - regolano
l’assortimento vestiario di un individuo.
Alle basi del costume vi è dunque l’appropriazione di una forma
da parte della società; a questo proposito, gli storici e sociologi secondo
Barthes dovrebbero interessarsi al modo in cui l’indumento individuale si
inserisce in un contesto formale e regolamentato. Barthes propone allora il
parallelo fra linguaggio e vestito: così come l’abito, anche il linguaggio è
simultaneamente sistema e storia, individualità e collettività, poiché
rappresentano entrambi strutture complete costituite dalla coesistenza di
forme e norme; una fitta rete relazionale dove la modifica di un solo
elemento costituisce la trasformazione di tutto l’insieme.
Barthes considera quindi la linguistica, poiché disciplina
consolidata, come base per la costruzione di schemi utili all’analisi del
fenomeno. Analogamente ai due aspetti emersi dal Corso di Linguistica
Generale (Saussure, 1916), secondo il quale il linguaggio umano può essere
studiato sotto l’aspetto della langue (formale e sociale) e della parole
(pragmatico e individuale), Barthes trasla il concetto applicandolo al vestito:
[...] sembra utile distinguere una realtà, che proponiamo di chiamare
“costume”, corrispondente alla langue di Saussure, e una seconda
realtà, che chiameremo “abbigliamento”, corrispondente alla parole.
La prima, realtà istituzionale e sociale, è indipendente dall’individuo,
è una sorta di riserva sistemica all’interno della quale il singolo
organizza la propria tenuta; la seconda è una realtà individuale, vero e
proprio atto del “vestirsi” attraverso il quale l’individuo attualizza su
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
19
1 Barthes, R 1976
di sé l’istituzione generale del costume. Costume e abbigliamento
formano così un insieme generico al quale proponiamo di riservare il
nome di “vestito” corrispondente al “linguaggio” di Saussure.1
La scelta di un abbigliamento a discapito di un altro è dunque
dettata dal gruppo sociale di appartenenza: determinati accorgimenti o
carenze (bottoni non allacciati, usura dei vestiti, disordine, vestiti
improvvisati...) costituiscono così la dimensione individuale del vestito,
utile in analisi dal punto di vista psicologico ma meno rilevanti in questo
contesto di evoluzione che punterà l’indice maggiormente sul fenomeno
“costume”. Esso, al contrario dell’abbigliamento che veicola poche
informazioni personali, identifica le relazioni fra individuo e gruppo. Una
distinzione blanda e in continua metamorfosi poiché fenomeni di costume
possono divenire fenomeni di abbigliamento: si pensi alla moda che
propone di volta in volta modelli che verranno adottati, in seguito,
nell’abbigliamento, e viceversa.
La moda allora rappresenta sempre un fenomeno di costume.
Elaborata da specialisti, si propaga su scala collettiva costituendo un
fenomeno d’abbigliamento che si inserisce nell’individualità. Ma la moda
stessa, a monte, risente delle costrizioni sociali, del contesto storico, che
trascendono dalla creatività e dall’estro del direttore artistico; e
parallelamente opera sulle scelte individuali del singolo che,
inconsciamente, crederà di scegliere sulla base di gusti personali che al
contrario saranno dettati da codici estetici e sociali.
È proprio quando si parla di codici però che sorge il problema
nell’analisi di un oggetto di moda. Se, come abbiamo visto nel capitolo 1.2,
fin quando vigevano le leggi suntuarie gli abiti erano regolamentati da
codici iper-codificati2 che non lasciavano spazio ad ambiguità,
estremamente è diverso il discorso attuale riguardante la moda. Si tratta di
un codice ipo-codificato dove “impercettibili sfumature del significante
possono dar luogo a rilevanti scarti nell’universo semantico3”; un codice
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
20
1 Barthes, R 1977
2 Baldini, M 2005:22
3 ibid.
rudimentale, essenziale che utilizza i convenzionali simboli tattili e visivi di
una cultura per produrre un risultato ambiguo ed allusivo, in mutazione.
Considerata questa mutevolezza, prima di attribuire un determinato
significato ad un abito bisogna dunque tener conto del contesto, della
persona che lo indossa, l’occasione o il luogo. Inoltre, un abito non
necessariamente significa la medesima cosa nel corso degli anni o per altre
persone, anche nella stessa sfera sociale. L’ostacolo principale alla
comprensione di una moda, scrive Edward Sapir sull’enciclopedia1 alla voce
Fashion, è la mancanza di una conoscenza precisa dei simbolismi inconsci
relativi ad una determinata cultura.
In questo particolare e problematico contesto, emerge la
necessità di rendere, di conseguenza, un brand riconoscibile e attualizzabile
da il più ampio bacino di clienti possibili, veicolando un brand image
plausibile per più culture differenti fra loro, pianificando una strategia di
comunicazione dell’universo di marca.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
21
1 Sapir, E 1935:141
Capitolo 2
Esaurite le premesse di carattere sociologico utili per introdurre
l’argomento a contestualizzare il soggetto della tesi, procediamo ora con
l’analisi delle strategie di comunicazione nel peculiare segmento di mercato
dei così detti luxury goods.
Sempre più, la pubblicità permea la quotidianità di ognuno di
noi veicolando messaggi, brand values, che noi interpretiamo e nei quali
sappiamo riconoscerci: valori e simboli che ci trasportano inconsciamente in
una dimensione di dipendenza dal prodotto.
Nell’arco del tempo, dalla nascita della pubblicità nel XIX
secolo con l’avvento del manifesto pubblicitario, abbiamo assistito ad una
evoluzione nel concetto di comunicazione pubblicitaria, determinata dalla
sempre più presente componente emozionale e simbolica che ha via via
soppiantato la referenzialità del prodotto in favore di un appeal più intimo e
soggettivo.
Concederò una breve introduzione su quelle caratteristiche
proprie della pubblicità degli ultimi anni per concentrarmi poi sulla
comunicazione della marca e scendere così nel campo della comunicazione
del luxury brand in modo da introdurre l’ultimo capitolo dell’elaborato
riguardante Chanel.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
22
2.1 Comunicare il brand di lusso: strategie di comunicazione
pubblicitaria
Le ultime due decadi de XX secolo hanno decretato il trionfo
della pubblicità. Le aziende, perfettamente consce delle potenzialità del
mezzo pubblicitario, coadiuvate dal nascente consumismo di massa, scelsero
di investire enormemente in essa. Ben presto però la situazione si ripiegò su
se stessa, il mercato pubblicitario divenne saturo costringendo il
consumatore ad una sorta di rifiuto nei suoi confronti. Se da un lato la
pubblicità, intesa come mezzo, subì un declino, il fenomeno della marca
riuscì a trarne giovamento grazie all’estrema competizione ed la
conseguente omologazione dei prodotti finali. Le aziende cercarono così
spasmodicamente di delineare caratteristiche di esclusività per differenziare
la propria offerta.
Questa nuova tendenza delle aziende trova presto un riscontro
nella figura del consumatore di fine millennio, sempre maggiormente in
cerca di nuove forme di gratificazione psicologica che gli permettano di
scavalcare la mera utilità materiale del bene. La sedimentazione nel tempo e
la reiterata coerenza con lo stile di marca permette al consumatore di
riconoscere immediatamente i codici nel quale identificarsi e identificare il
bene ricercato. Il linguaggio metaforico e simbolico sul quale si fonda il
“discorso di marca” diviene così un segno visibile e immediato che riesce a
comunicare il senso completo del brand in modo tale che non sia più solo il
prodotto stesso ad essere riconoscibile, ma anche il solo packaging (per
esempio) possa rimandare all’universo di marca.
Nel caso di Chanel basti pensare al sempre presente
abbinamento nero/oro o nero/bianco, tanto nel prodotto quando nelle
confezioni, stile inconfondibile della Maison che ha permesso attraverso più
di un secolo di riconoscere il marchio in ogni sua declinazione. In questo
modo è sufficiente vedere le due “C” intrecciate per riconoscere e ricordare
in maniera vivida tutte le particolarità del marchio, il suo bagaglio simbolico
e storico.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
23
La comunicazione pubblicitaria assume così un ruolo di
fondamentale importanza nella costruzione e nel mantenimento della
percezione del lusso associato al marchio. Essa permette, nell’insieme delle
percezioni visive e testuali utilizzate negli annunci come nei prodotti
multimediali, all’osservatore di cogliere le caratteristiche salienti della
marca o del prodotto poiché è innato nell’individuo il processo di inferenza
di determinati attributi quali il prestigio, il sogno, la qualità associata ad un
oggetto. Il ruolo della comunicazione pubblicitaria nel veicolare un
determinato livello di status di un bene si palesa, quindi, nell’adozione di
uno specifico patrimonio lessicale utile nell’associare al prodotto la filosofia
e gli attributi idealizzati dal produttore. Uno dei mezzi più semplici ed
efficaci per veicolare questi valori è l’associazione al bene reclamizzato di
un altro prodotto o personaggio che gode di uno status già riconosciuto. È il
caso, per esempio, dei testimonial come accade nella totalità delle pubblicità
televisive di Chanel.
Allo scopo di rafforzare il messaggio trasmesso, vengono
utilizzati in questo contesto elementi lussuosi che forniscano un contorno,
uno sfondo efficace e ridondante che ne potenzino i connotati. Il colore oro,
nello specifico, è da sempre utilizzato in questo caso nella progettazione: lo
si trova spesso in ogni parte dell’annuncio, quale che sia il mezzo.
L’ambientazione, quindi, si basa sull’assunzione che il possedimento dei
beni da parte di un individuo ne rivelino determinate informazioni (il
prodotto è in genere presentato in mano a personaggi carismatici, benestanti,
di classe). Dall’altro senso, si denota come gli individui cerchino di
trasmettere informazioni su loro stessi attraverso scelte di consumo oculate e
pianificate. La scelta di un capo di abbigliamento, di una vettura o di
semplici attività ricreative sono utili per l’assegnazione reciproca di
determinati livelli di status sociale. Il consumatore fruisce passivamente
della comunicazione pubblicitaria per estrapolarne determinati attributi di
status da associare alla marca: esso utilizza l’immagine per identificare gli
elementi distintivi di uno stile di lusso ed applicarli, in seguito, al proprio
ideale di consumo. È chiaro a questo punto quanto sia tattico enfatizzare gli
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
24
elementi utili ad individuare la dimensione aziendale in un prodotto
pubblicitario.
Goffman nel 1979 definì gli annunci pubblicitari come “non
descrittivi della vita reale, bensì descrizioni iper-ritualizzate del modo in cui
le persone ritengono dovrebbe essere (e vorrebbero fosse) il proprio
ambiente di riferimento. La pubblicità quindi è un insieme fittizio di simboli
culturalmente costruito in cui inserire il prodotto da reclamizzare.
Grant McCracken, antropologo statunitense, nel 1988 propose
tre fasi nel processo di creazione dell’annuncio pubblicitario che prevedono
così in primo luogo l’identificazione delle caratteristiche, i valori che si
vogliono associare al bene; ne segue l’identificazione di dette caratteristiche
nell’ambiente culturale circostante, il così detto setting, dove
l’ambientazione verrà creata ad hoc per comporre l’annuncio; ne succederà,
in conclusione, la creazione di componenti verbali e visive che sottolineino
e richiamino le “proprietà” in ridondanza completando così il processo di
trasferimento di significato dal contesto descritto nell’annuncio al bene
reclamizzato.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
25
2.2 Comunicare il brand di lusso: significato di marca
Approfitto di un breve excursus storico per introdurre
l’argomento: nel corso degli anni vi è stato una progressiva evoluzione nella
gestione del brand di lusso determinata dal sostanziale passaggio da un
modello di businness singolo alla logica manageriale articolata delle odierne
holding multinazionali. Ciò implica una serie di attenzioni maggiori: se in
passato il creatore/imprenditore si occupava del solo marchio vincolato ad
una ristretta cerchia di prodotti, con il fenomeno dell’estensione di marca, ci
si trova a fare fronte ad una nuova necessità, quella di potenziare il sistema
di valori intrinsechi della marca in modo che essa possa “coprire” una più
vasta area.
Al giorno d’oggi il primo passo effettuato per implementare il
senso di marca è quello di associare strettamente ad essa la figura del suo
imprenditore o stilista, facendo quasi diventare quest’ultimo testimonial di
se stesso. È il caso di Lagerfeld per Chanel: l’immagine costruita del
personaggio, i “suoi” colori e linee, l’impostazione e lo stile, rispecchiano i
valori e le connotazioni simboliche del marchio e, ancor più, fanno del
personaggio il portavoce di ciò che era il patrimonio relazionale della
fondatrice senza, però, rubarle la scena (basti pensare alle foto che
ritraggono lo stilista nei laboratori della Maison o negli uffici sempre
attorniato di immagini ritraenti Coco).
L’attività dello stilista è, quindi, sempre di primaria importante
nelle pubbliche relazioni del marchio, ma non sufficiente nel creare la
domanda per un oggetto che, la maggior parte delle volte, è superfluo oltre
che eccessivamente costoso in rapporto al valore d’uso. La chiave è
trasformare l’acquisto in una esperienza.
I quattro passaggi teorizzati da Chevalier e Mazzalovo
conducono il consumatore dalla percezione della marca fino all’acquisto
effettivo: il significato di marca è la chiave di volta del processo, se ne
illustrano, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, i punti salienti
transitandoli graficamente nel prodotto pubblicitario rendendone possibile la
memorizzazione. Viene da sé che se una marca non ha significato, ovvero
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
26
non ha una solida base su cui fondare la propria comunicazione, sarà
impossibile metterne a punto una strategia: ciò che non comunica un
“senso” non può creare un desiderio.
Ma come definire e soprattutto trasmettere in modo immediato
questi valori di marca, questi concetti astratti e quasi filosofici? La via più
ovvia, come ci suggerisce Marrone ( Il discorso di marca, 2007), è quello di
esprimere l’universo tematico di marca tramite la denominazione, ovvero
quando il tema1viene esplicitato dallo stesso brand name. Esso,
indipendentemente dalla sua origine, è il fulcro del marchio intorno al quale
si dipana la costruzione della sua immagine, dentro il quale si condensa il
patrimonio simbolico della marca. Se si prende per esempio il caso di Nike,
vi troviamo “innatamente” la tematica della vittoria, in Magnum quella della
grandezza, in Smart ,la scaltrezza, l’intelligenza.
Il processo di significazione insito nel nome proprio della marca
è quasi sempre quello dell’antonomasia: un nome del tutto arbitrario,
proprio e senza un significato specifico, diviene portavoce di un significato
forte in quanto segno di una marca di successo: è il meccanismo della così
detta motivazione a posteriori. Ecco allora che come Marlboro è sinonimo
per antonomasia di una vita selvaggia, avventurosa; Harley Davidson rinvia
a uno stile di vita duro, burbero; Chanel, nel nostro caso, diviene così
sinonimo di classe ed eleganza tale che basti il solo logo, le celebri “c”
intrecciate, per rievocare il patrimonio simbolico.
È dunque a livello visuale che il logo si trova a svolgere un
ruolo analogo a quello del nome proprio, cioè quando egli è presente in
modo netto e perfettamente riconoscibile, in grado di trasmettere l’universo
di marca nella medesima maniera. Talvolta però, si incontrano loghi che
invece di esibire tratti figurativi chiari, unanimi e distintivi, si dotano di
elementi così detti figurali, ovvero di particelle visive astratti in modo tale
da consentire una interpretazione variabile al momento della ricezione,
moltiplicando così le linee di senso che vi si articolano intorno.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
27
1 Dimensione tematica: per — del prodotto si intende l’organizzazione formale dei contenuti che la compongono
in una struttura tale che siano percepibili e comprensibili al pubblico (p.e. la CocaCola veicola il tema di una
America spensierata, giovane, di buoni sentimenti, “colorata”; chi consuma la bevanda si crede, quindi, possa
assorbire tutto ciò)
Ma è ancora una volta un discorso labile, quello appena fatto: il
marchio si nutre del sociale che lo circonda, è specchio di valori ma assorbe
dal contesto in cui cresce giorno dopo giorno trasportando al suo interno
ideologie, gusti, tendenze che prima non erano state preventivate, ma che
ora vengono metabolizzate e ripresentate da un punto di vista simbolico
dando così l’idea di una continua attualità. È il caso delle pubblicità, nelle
quali, soprattutto tramite i mezzi multimediali, si può notare la sostanziale
evoluzione di un marchio e del suo inglobamento di valori attualizzanti che
vanno via via ad affiancare il patrimonio storico.
Il tema discorsivo della marca è dunque in perenne evoluzione,
difficile da identificare univocamente se non in breve lasso temporale. Ve ne
si dà quindi una traduzione progressiva, sia internamente alla sfera
discorsiva d’appartenenza (l’universo economico-sociale della marca), sia
esternamente rispetto ai discorsi sociali che lo circondano, laddove lo stesso
confine fra interno ed esterno viene esso stesso ridisegnato di volta in volta
tangendo l’identità profonda del marchio.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
28
2.3 Ereditarietà, etica ed estetica
Ma di cosa si tratta quando si parla di identità di una marca? Nel
paragrafo precedente abbiamo parlato a più riprese del patrimonio simbolico
che un marchio possiede, dei valori che trasmette. Cerchiamo ora di
descrivere l’importanza dell’identità, come formarla, gestirla e dunque
analizzarla. Per poter analizzare e comprendere l’identità di un marchio di
lusso bisogna comprendere in cosa essa consista, separando la sua essenza
dalle percezioni variabili che produce nei consumatori1. Analogamente alle
estensioni della marca di tipo commerciale (si pensi a Lacoste, che oltre alle
famose polo produce anche portafogli, profumi, accessori per lo sport),
l’identità può essere considerata una estensione con una forte componente
umana caratterizzata da una specificità e dalla sua durata nel tempo. Il brand
identity può essere riassunto come “la capacità di una marca di essere
riconosciuta come unica, nel tempo, senza confusione, grazie agli elementi
che la individualizzano2”. L’identità rappresenta dunque il fulcro della
marca intorno alla quale elaborare le strategie stilistiche e commerciali, la
base di ogni susseguirsi di direzione artistica.
Nata negli anni Venti come “anima corporativa”, termine
coniato da Bruce Barton3, il concetto di identità s’è sedimentato solo negli
anni Ottanta con l’esplosione della pubblicità. Esso, infatti, designava in un
senso limitato tutto ciò che poteva identificare la marca, in stretta
correlazione con la produzione pubblicitaria. Sarà con il pubblicitario
francese Séguéla che l’analisi delle marche verterà maggiormente
sull’aspetto psicologico, sul loro stile e sul loro carattere, iniziando a
prendere le distanza dal concetto di immagine. Essa, l’immagine, diviene
dunque la percezione che il consumatore ha della marca; al contrario
l’identità si riferisce alla sostanza, alla sua espressione attraverso ogni
canale, in ogni manifestazione della marca stessa.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
29
1 Chevalier, M; Mazzalovo, G; 2008:110
2 ibid.
3 Bruce Fairchild Barton (05/08/1886 - 05/07/1967): politico scritto e pubblicitario statunitense, ha fondato BDO
divenuta poi BBDO (Batten, Barton, Durstin & Osborn) e lavorato al naming di General Motors e General
Electrics.
L’analisi della produzione di significato di un marchio, ovvero
della sua manifestazione percepibile, presuppone che le marche siano
sistemi che producono senso1. Trattandosi di un ambito squisitamente
semiotico, ci viene incontro nello studio Jean-Marie Floch con uno
strumento denominato “cerniera” [fig. 2]. Esso permette di stabilire diversi
livelli di definizione di universo di marca. Tutti i segni, quindi, sono
articolati in virtù di una cerniera, una liaison, tra significante (l’espressione
della marca) ed il significato (il contenuto), separando così il contenuto dal
contenente permettendoci di porre l’attenzione sulle invarianti che
costituiscono la riconoscibilità della marca nel tempo.
La cerniera ci permette di caratterizzare l’identità del marchio
mediante la sua espressione (l’estetica) ed il suo contenuto (l’etica). In
primo luogo è interessante notare come, da un punto di vista estetico, cioè
della tipizzazione dell’immagine, delle stilistiche e cromatiche, i marchi
nord europei quanto quelli nord americani si rifacciano sostanzialmente ad
una estetica di stampo classico. Come vedremo nell’analisi del total look di
Chanel, marchi come Lanvin, Vuitton, Jil Sander, ma anche esulanti dalla
moda come Audi, si rifanno ad un preciso schema estetico caratterizzato da:
• Linee nette e contorni definiti: elementi riconoscibili
• Forme chiuse, visibili nell’interezza e piane
• Spazio segmentato in zone autonome
• Simmetria
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
30
1 Chevalier, M; Mazzalovo, G; 2008:110
fig. 2 - Livelli di analisi o di definizione del brand universe
Fonte: Mazzalovo, G; Chevalier, M. 2008
• Saturazione dei colori
D’altro canto, brand più mediterranei come i nostrani
Dolce&Gabbana o Versace, ma anche le spagnole Deƨigual o Loewe, hanno
una caratterizzazione marcatamente barocca dove si riconoscono, al
contrario:
• Linee curve ed intrecci, ombre
• Forme aperte, in connessione fra di loro
• Spazio “coeso”, non vi è suddivisione in zone autonome
ma esse hanno senso solo nell’insieme
• Forte presenza di volumi creati dal movimento delle
forme
• Colori profondi, pieni
Ma cosa accade quando l’identità del brand diventa la sua
immagine? Il problema è analogo alla comunicazione interpersonale: se è
vero che l’identità del brand è di natura emissiva e l’immagine ricettiva, un
parallelismo può essere fatto tra le informazioni che io voglio dare di me e
quelle che effettivamente vengono recepite. Il messaggio deve sottostare ad
un inquinamento, mutamenti, omissioni e variabili che costituiscono la
naturale dinamicità del processo comunicativo. L’identità della marca deve
essere quindi il più in linea possibile con quella del consumatore e nella
formazione della sua corrispettiva estetica bisogna tenere conto della cultura
degli individui che ne adotteranno il prodotto. All’interno delle
rappresentazioni sociali della marca, vi possono essere molteplici
interpretazioni, per questo il messaggio da trasmettere deve essere il più
omogeneo, chiaro e permanente possibile.
Coerenza e permanenza dell’identità non significa però
sedimentarla. L’evoluzione deve esserci, pena la scomparsa dell’appeal.
Chanel seppe innovare negli anni Venti, ma seppe anche rinnovarsi nelle
decadi successive trasportando e declinando all’evoluzione culturale della
società i propri canoni.
Ecco quindi che una identità rigida o colma di vincoli e limiti
mal si adatterà all’evoluzione del mercato. Si tratta di un equilibrio fra il
modellare l’estetica del marchio adattandola al tempo (ma senza
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
31
stravolgerla) e scremarne l’etica valorizzando i valori (mi scuso per il gioco
di parole) più in sintonia con il mercato.
Evoluzione non è quindi sinonimo di sconvolgimento delle
invarianti viste nello schema poco sopra, ma operare marginalmente, di fino,
senza alterare la sostanza della marca, come vedremo in seguito analizzando
sommariamente l’iter storico delle pubblicità di Chanel No.5, cartina di
tornasole di questo equilibrio fra evoluzione estetica e mantenimento etico.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
32
Capitolo 3
Interamente dedicato alla figura di Coco Chanel e alla sua
omonima Maison di moda, questo capitolo ci permetterà di addentrarci
nell’universo simbolico del marchio grazie ad una breve introduzione sulla
biografia della stilista. Conoscere il background dell’artista risulta
necessario per delineare i tratti salienti delle sue opere e la filosofia alla loro
base.
In seguito si analizzerà il caso emblematico della comunicazione
televisiva del prodotto commerciale più famoso del marchio, il profumo
“No.5”, che ci transiterà nel vivo dell’elaborato dove cercherò di
evidenziare e analizzare le connotazioni stilistiche, grafiche e cromatiche
caratteristiche dei prodotti della Maison; quella costellazione di minuscoli e,
ai più, insignificanti dettagli che ci permettono di riconoscere un prodotto
Chanel da quelli dei marchi concorrenti.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
33
3.1 Coco: la determinazione di una donna
Cresciuta sin dalla giovane età in un orfanotrofio, Gabrielle
Chanel, detta Coco, nacque a Saumur il 19 agosto 1883. La madre Jeanne,
commerciante come il padre, morì quando Coco aveva soltanto dodici anni.
Il padre, Albert, poco incline alla vita familiare e dedito ai vizi, non potendo
accudirla, decise di affidare lei e le sorelle, Julia e Antoinette, ad un
orfanotrofio.
Sarà nei periodi di vacanza dagli zii a
Varennes, vera e propria fuga dal carcere-
orfanotrofio, che Gabrielle sentirà per la prima
volta parlare di moda. La zia Costier le insegnerà
a cucire e le trasmetterà la passione per i cappelli.
Non li acquistava confezionati, bensì comprava
forme in feltro che poi avrebbe tagliato e
modellato. Grazie a queste elementari pratiche
casalinghe Gabrielle capì che il cucito poteva
essere molto più di una utile monotonia. Ormai
diciottenne, fuggita da un matrimonio combinato
nell’orfanotrofio di Obazine, Gabrielle viene
accolta come convittrice all’Istituto Notre-Dame
di Moulins.
All’età di quasi vent’anni, nel 1902,
Gabrielle lascia il collegio con l’aiuto delle
religiose che si impegnano a “sistemarla” in una ditta specializzata in
forniture per sarte e corredi. Presto affiancherà un secondo lavoro dove
confeziona, su richiesta di alcuni clienti, abiti e gonne in orario
extralavorativo, mansione che le consente di incrementare l’altrimenti
esiguo salario e di scoprire quell’innata resistenza al lavoro che la
caratterizzerà per tutta la vita.
Licenziata poco tempo dopo a causa di un terzo lavoro come
cantante nei café-concerto, lavoro che le valse il nomignolo di Coco,
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
34
Coco Chanel ritratta
nel 1936 dall’amico
Jean Cocteau: abito
da sera, gioielli e
capelli raccolti
fonte: O’Hara Callan, G 2009:60
Gabrielle trova in questo momento di stallo un ulteriore slancio: le clienti
affezionate continueranno a rivolgersi a lei privatamente per le sue
produzioni fornendole così un introito stabile e, soprattutto, l’indipendenza
che cercava da sempre.
Annoiata dalla vita a Moulins, si trasferirà nella città termale di
Vichy abbagliata dal miraggio di poter cantare in pubblico. Presto questo
sogno svanirà lasciando una Coco affranta ma pur sempre determinata. Sarà
in quel periodo che conoscerà, a ventitré anni, il maresciallo Etienne Balsan,
erede di una famiglia proprietaria di industrie tessili. Appassionato di
equitazione, Etienne Balsan avrà la capacità di avvicinare a questo mondo la
giovane Coco che sin da piccola considerava il cavallo come solo mezzo di
locomozione. In quegli anni scopre l’eleganza dell’incedere, del galoppo, la
fierezza del portamento delle bestie e gli abiti dei fantini impettiti nelle
casacche di seta e i pantaloni bianchi: luccichii che la trascineranno a fare la
cavallerizza.
È negli stessi anni in cui convivrà con Balsan nella tenuta di
Royallieu che Coco si avvicinerà all’alta società dell’epoca, conoscendo un
ambiente che fino ad ora aveva sempre guardato di lontano. In
concomitanza con quegli anni, scoprirà il piacere degli abiti maschili: Coco
“ruba” a Etienne le camicie, le cravatte ed i lunghi mantelli sportivi con gli
alamari facendosi riconoscere come una un po’ eccentrica ma che
contribuiranno ad accrescere la stima da parte delle amiche di Etienne che si
rivolgeranno a lei per farsi confezionare i celebri cappelli.
Nel corso degli anni successivi, Coco, stanca di questa attività
clandestina, inizia a pensare di aprire una boutique che abbia una immagine
importante, in una zona rinomata di Parigi: tra Rue Royale e l’Opéra. Nel
1910 Gabrielle acquista, con il supporto del nuovo amante Boy Capel,
amico di Balsan, un grande appartamento al numero 31 di Rue Cambon
dove installerà il suo atelier: Chanel Modes.
È proprio in quella via che nascerà il mito di Chanel, il modello
di femminilità del Novecento plasmato sull’ideale di donna determinata,
dedita al lavoro, sportiva, dinamica e autoironica. Negli anni Venti, poco
dopo l’apertura della boutique, quest’ultima diventerà sin da subito polo di
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
35
interesse per la moda di quella generazione, ma la consacrazione vera e
propria la avremo dieci anni dopo con la nascita del celebre tailleur: un
pantalone dritto o una gonna lineare sormontata da una giacca di visibile
taglio maschile. Lo stile d’ora in poi sarà inconfondibile e una certa
androginia sempre palpabile nelle sue sempre femminili creazioni.
Chanel seppe rivisitare la moda del secolo adattandola ad una
donna sportiva, comoda, libera tanto nei movimenti quanto formalmente.
Nel 1916 ispirata dagli uomini al fronte e dalle donne costrette a sopperire la
mancanza in fabbrica, adottò per le sue creazioni il jersey1, tessuto
appannaggio della classe operaia, che contribuirà a creare il sempre presente
contrasto “frivolezza femminile” - “praticità maschile”.
Lo stile di Chanel muta negli anni seguendo la società: il tailleur
si accorcia rimarcando l’emancipazione femminile, gli abiti si arricchiscono
di catene dorate e accessori per sottolinearne la discreta ricchezza. Lo stile,
abbiamo detto, muterà negli anni a seguire anche dopo la morte della stilista,
avvenuta all’età di 87 anni in una stanza del celebre Hotel Ritz di Parigi,
quando la direzione artistica passerà di mano a Karl Lagerfeld.
Di vitale importanza, questa breve divagazione storica, ci
consente di cogliere la massiccia presenza dei brand values nei prodotti e
nella comunicazione del marchio. Come vedremo nel capitolo successivo, la
creazione di profumeria più celebre della Maison, No.5, sarà fra i massimi
esempi dell’identità stilistica della casa in quanto portavoce nel tempo dei
codici stilistici e dei valori impressi dalla fondatrice.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
36
1 stoffa realizzata a maglia rasa, prodotto della maglieria industriale, risulta elastica sia in larghezza che in
lunghezza e può essere realizzata con qualsiasi fibra tessile [fonte: O’Hara Callan, G. 2009]
3.2 L’advertising Tv di Chanel No.5: etica ed estetica di un
profumo
Attraverso gli anni, dalla nascita della comunicazione mediatica
di prodotto, il marchio Chanel è da sempre rimasto intrinsecamente legato ai
valori della sua fondatrice. Il concetto tutto femminile di eleganza, di
sobrietà e understatement vengono costantemente ripresi in ogni strategia
pubblicitaria organizzata dal marchio.
Coerentemente con quanto detto nel capitolo precedente,
vedremo ora, analizzando brevemente la storia delle campagne audiovisive
del prodotto, come per No.5 l’etica sia sempre stata mantenuta nel corso
degli anni, cesellando secondo i canoni del mercato l’estetica della
comunicazione.
Sin dagli anni ’50, il
marchio Chanel ed il suo celebre profumo, la
fragranza No.5 proposta dal chimico e
profumiere Ernest Beaux all’allora giovane
Coco, sono fortemente legati all’immaginario
collettivo della seduzione. La stessa fondatrice
chiese ai profumieri di produrre una fragranza
che incarnasse una femminilità unica e senza
tempo, distinguibile sempre. Da qui nacque
No.5, un nome che nome non è, il numero del quinto flacone che il
profumiere propose a Chanel, adottato per non confondersi fra i nomi, a
detta di lei, ridicolmente altisonanti della concorrenza.
I decenni successivi furono costellati dalla
comunicazione del prodotto. Complice la dichiarazione di Marylin Monroe,
che ammise di coricarsi vestita di due sole gocce di N°5, il profumo venne
naturalmente associato al concetto di bellezza, seduzione, femminilità,
ricercatezza. Venne così il turno di Carole Bouquet e Catherine Deneuve,
portavoce della bellezza “made in France”. Se alla Deneuve venne
riconosciuto il merito di scolpire una volta per tutte il nome del profumo
nell’immaginario degli spettatori (si ricordi, nei tardi anni 70, lo spot dove,
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
37
rivolgendosi a una platea, la Deneuve pronuncia il celebre slogan “Sapete
cosa volete: Chanel”), la vera svolta narrativa la si deve a Carole Bouquet
negli anni ’80 con due spot emblematici.
Nel primo una femminile Bouquet vestita di un
tailleur rosso bacia teneramente sulla fronte un signore attempato seduto alla
poltrona del suo attico in un grattacielo per poi saltare alla guida di una
sportivissima Ferrari nera e perdersi nel deserto. Qui sedurrà un giovane
benzinaio e, alla fine dello spot si lancerà in un abbraccio sensuale con un
uomo in camicia. Il commercial terminerà con l’attrice poggiata appena, con
leggerezza, sulla bottiglia del profumo, che pronuncia lo slogan “Condividi
la fantasia... Chanel No. 5”. Ecco allora la chiave di volta della filosofia
della Maison: gli spot devono trasmettere l’immagine, ovviamente rivisitata
in chiave moderna, della fondatrice. Successo, potere ma anche seduzione e,
ancora, femminilità, divengono i cardini degli spot a venire.
Il secondo
spot recitato da Carole
Bouquet [fig.1] vede
l’attrice vestita di una
morbida vestaglia di seta chiara che ne esalta le forme. Lo scenario è
costituito da una camera, probabilmente una stanza d’albergo, di vago gusto
art nouveau. Nell’ambiente regna la penombra, fuori dalle finestre si può
udire chiaramente un temporale. L’aria che si respira è a metà strada fra il
noir e il cinema erotico. Un uomo vestito elegante, di un abito nero, in
perfetta contrapposizione simbolica con la purezza della candida e morbida
vestaglia dell’attrice, le si para davanti. Vi è uno scambio di battute, lei con
fare malizioso gli parla all’orecchio, i suoi occhi incrociano prima quelli
dell’uomo e poi corrono sulle labbra di lui. La carica sensuale della scena è
chiara e palesata dalle movenze dell’attrice che stringe tra le unghie smaltate
rosso vivo la tipica bottiglia da farmacista, nascondendola dietro alla
schiena quasi fosse una pozione d’amore.
La donna, che nello spot precedente rappresentava
l’emancipazione, il successo all’ennesima potenza, è ora ancora più
femminile e dannatamente sensuale. Può essere la donna più potente del
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
38
fig.1
mondo (si pensi alla Bouquet alla guida della Ferrari) ma non potrà mai
rinunciare a un bacio o un abbraccio. Ecco che ancora una volta la
protagonista di un commercial rispecchia in parte i valori culturali e sociali
del tempo: emancipazione e carriera, sì, ma sempre con l’estrema
femminilità della Maison.
Sin da questi spot l’aria “francese” inizia così a permeare gli
spot di Chanel: il riferimento alle atmosfere della città natale della stilista
sono via via sempre più chiare a partire da ora. I richiami sempre più palesi
a Parigi e alla Francia negli spot tanto di Chanel quanto delle altre marche di
lusso francesi, contribuiranno a consolidare il doppio filo che lega Parigi al
lusso. Questo sarà l’ulteriore filo conduttore dei seguenti prodotti
pubblicitari televisivi.
Chanel conclude il millennio con due spot, andati in
onda nel 1998 il primo, e pochi anni dopo il secondo, curati per la prima
volta da una figura estremamente conosciuta nel panorama cinematografico.
La regia è affidata infatti a Luc Besson (noto regista e sceneggiatore di
pellicole d’azione come “Il quinto elemento” o “I fiumi di porpora”). La
trama di entrambi ricondurrà ad una moderna cappuccetto rosso che, in
veste di ladra, tenterà di sottrarre un flacone del noto profumo.
Nel primo
spot [fig.2], che venne
r e a l i z z a t o c o n l a
c o l l a b o r a z i o n e
dell’italianissimo Milo
Manara, la vediamo
percorrere un corridoio
sospeso all’interno di un sylos [fig. 3] (interessantissimo riferimento a
“1984”, commercial girato da Ridley Scott per Apple [fig. 4] dove una
donna armata di martello si scontra con il grande fratello di Orwelliana
ispirazione) e si insinua nel caveau di Chanel dove campeggiano intere
pareti di bottiglie. L’oro e il rosso vivo dell’abito sono i colori predominanti
dell’immagine: ancora una volta lusso e sensualità, opulenza ed erotismo.
La ladra riesce nell’intento e ruba il flacone del prezioso ed iconico
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
39
fig.4fig.3
fig.2
profumo, corre verso la porta quando dietro di lei si intravede un lupo che la
insegue. Lei spalanca la porta, si gira e lo zittisce maliziosamente. Nello
sfondo si vede chiaramente la Tour Eiffel illuminata.
Il secondo
[ f i g . 5 ] r i p r e n d e
e s s e n z i a l m e n t e l a
filosofia del precedente, viene cambiata solo l’ambientazione. Questa volta
siamo al Musée d’Orsay. Il nostro cappuccetto rosso ruba ancora una volta il
prezioso profumo, si salva ammutolendo i lupi che la inseguono con il suo
solo fascino e si dissolve nel nulla lasciando in primo piano un portone
dorato aperto sulla vista della Torre illuminata: ancora una volta ecco
veicolati due dei valori fondamentali della Maison, il lusso (la ricchezza del
prodotto in termini di ricerca, di unicità della fragranza) e la sua
provenienza (la città della moda per eccellenza, la patria dell’haut de
gamme).
L’evoluzione e la crescente complessità degli schemi narrativi
negli spot di Chanel, ci ha portato, nell’arco di pochi lavori, da un semplice
slogan recitato al termine di un monologo faccia alla macchina da presa,
fino ad un articolato messaggio pregno di retorica e simboli che invita il
potenziale fruitore del prodotto ad effettuare una ricerca nel proprio
patrimonio cognitivo e bagaglio culturale.
Il culmine si ebbe alla fine del 2004 quando venne presentato
nel prime time di un giorno di dicembre, lo spot diretto da Baz Luhrmann,
celebre per aver ripreso la splendida Nicole Kidman in Moulin rouge!.
La trama del film è breve ma non lineare. Le riprese, ovattate e
sottoesposte, tese a creare un ambivalente alone tanto romantico quanto
drammatico, mostrano e dipanano una narrazione articolata in un susseguirsi
di flashback e flashforward, di débrayages ed embrayages che guidano lo
spettatore secondo un percorso prestabilito che gli consenta di cogliere i
punti salienti del racconto negli esigui centoventi secondi del filmato.
I punti salienti del racconto sono pochi e facilmente riconoscibili
dal target (sono le ore 20 e 30, le famiglie sono a tavola, il range di età è
tanto ampio quanto sensibile alla tematica: l’amore contrastato) e
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
40
fig.5
riconducibili al patrimonio della Maison. Troviamo ancora la sensualità
racchiusa nella sinuosa e avvenente Kidman nei panni di una attrice che
fugge esasperata dai flash dei fotografi; la metropoli quasi sempre ripresa in
notturna tempestata di loghi “Chanel” che brillano qua e là incontrastati; e
ancora una volta il rosso e l’oro, quasi sempre predominanti in ogni scena.
Analizzando il prodotto audiovisivo in quanto testo, e
considerandone quindi gli aspetti semiotici, emerge sin dalla semplice
distinzione dei ruoli tematici l’evoluzione della comunicazione pubblicitaria
televisiva di Chanel. Se negli anni ’80 il perno delle strategie era la
veicolazione dell’immagine emancipata della donna, in questo spot
l’accento viene posto, sì sulla donna di successo, ma altrettanto sulla sua
ricerca di un tempo ed uno spazio intimo, esterno ai riflettori e al pubblico.
Ecco allora che Chanel trasla, muta e si adegua ai canoni moderni
caratterizzati dalla frenesia, dal voyeurismo, dalla ostentazione pubblica e
spasmodica pur rimanendo ancorata ai suoi capisaldi.
L’immaginario del marchio, la filosofia e il concetto di linearità,
tanto plastica (la linearità delle forme, la pulizia degli abiti) quando formale,
nell’aspetto sociale (eleganza, femminilità “pura”) prescindono dal contesto
culturale e creano all’interno della sua trasposizione cinematografica un
sistema simbolico secondario e a sé stante analogamente a quanto accade
nello stile, che analizzeremo nel paragrafo successivo.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
41
3.3 L’identità: un look atemporale
Chanel, ben prima che un logo riconoscibile al mondo, era un
look, ovvero una proiezione di sé studiata nell’aspetto fisico,
nell’abbigliamento. Nel caso di Chanel non si può però parlare di un look
ma del total look, dell’insieme di complementi che costituiscono la
silhouette femminile secondo Coco Chanel, dalla testa ai piedi.
Il look di Chanel, sin dalla sua
creazione, è stato caratterizzato da una
riconoscibilità immediata grazie a
determinati elementi che ne permettono
una identificazione pressoché istantanea.
Lo stesso Karl Lagerfeld, attuale AD della
Maison, nel 1993 in occasione della
pubblicazione del primo catalogo Chanel,
dipinse cinque tavole con lo scopo di
mostrare l’evoluzione della casa di
moda. La prima venne intitolata “Les
éléments d’identification instantanée de Chanel” [fig.1] e ha come
sottotitolo un pragmatico “Il patrimonio spirituale di Chanel”. Vi troviamo
la celebre scarpa bicolore, la borsa “2.55” matelassé, una spilla a forma di
croce, la camelia ed un bottone con inciso il logo della Casa.
La seconda delle tavole si intitola “Le triomphe de Coco” [fig.2]
e mostra tre silhouette femminili
abbigliate di cui una, di tutto punto, con
accanto la dicitura “Le sac, les bijoux, les
chaussure, le camélia, les boutons, les
chaînes, tout est là”. In effetti è come
dice: la figura in primo piano racchiude
gli elementi costitutivi del patrimonio
stilistico, quelli che, analogamente in
linguistica, potremmo definire come unità
della manifestazione sintagmatica della
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
42
Lagerfeld, K. 1993
fonte: Floch, J.M. 2004:1
Lagerfeld, K. 1993
fonte: Floch, J.M. 2004:2
silhouette di Chanel.
Collocando storicamente queste unità, emerge sin da subito la
loro essenzialità: Chanel ha depennato nelle sue creazioni tutto ciò che non
fosse strettamente correlato alla funzione prima dell’abbigliamento. Il
vestito deve servire, essere pratico e confortevole: ripudia le tasche
minuscole e puramente estetiche come anche i bottoni senza senso, dona un
“gioco” alla schiena delle giacche perché “vi si possa giocare a golf come
allacciarsi le scarpe”. Il vestito deve servire la libertà del corpo.
Ecco che il look di Chanel, da un punto di vista della semiotica
figurativa, mostra un contenuto narrativo volto a descrivere la conquista
della libertà individuale declinata nella sua modernità e, quindi, nella sua
costante evoluzione. La donna di Chanel è ora sullo stesso piano dell’uomo,
è emancipata e in sua concorrenza. Il tessuto con cui fabbrica gli abiti ne è la
dimostrazione: il jersey. Ancora una volta, dal punto di vista figurativo, i
significanti dell’universo lavorativo maschile vengono assunti e conservati
nelle creazioni con lo scopo di correlarli all’esatto contrario: la femminilità.
I capelli corti, il tessuto degli abiti, come le cravatte, i berretti ed
i gilet sono gli elementi distintivi di questo fenomeno. Una vera e propria
inversione di significanti e significati dell’identità sessuale socialmente
definita che concorse alla costituzione di quella che sarà, negli anni a
seguire, la femminilità secondo Chanel: inequivocabile.
È quindi chiaro che, dal punto di vista figurativo, il look di
Chanel porta con sé due discorsi: da un lato la femminilità esaltata grazie al
paradosso, dall’altro un riferimento alla conquista della libertà del corpo
tutto rapportato al contesto storico. Il total look narra quindi di una donna
alla scoperta della sua libertà.
Ma questo total look concretamente che cos’è? È una sagoma,
una silhouette, che occupa uno spazio, una forma sensibile, tangibile,
ammirabile. Scelte di luce, di materiali, di colori ne compongono il risultato
finale facendo di esso un prodotto visuale, plastico.
Di primo acchito, la cosa che salta maggiormente all’occhio è
che le unità che compongono il look sono identificabili e, soprattutto,
apprezzabili singolarmente. Questo significa che se da un punto di vista
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
43
semiotico vi è un sistema di relazioni fra i componenti visivi, da un punto di
vista estetico, esso è presente solo in parte.
Questo senso di nettezza contribuisce a dare all’insieme
un’impressione di aplomb, di stabilità, di rigore.
Analizziamo brevemente la silhouette tipo:
1.Le scapre: il fondo e le punte nere delle calzature
forniscono un senso di chiusura della figura, di netta separazione dal
terreno sulla quale si fonda e allunga il beige. All’opposto, in testa,
troviamo un taglio di capelli disegnato, squadrato, definito, appena
sopra ad un collo ben visibile che contribuisce a segmentare la
figura.
2.Il “peso”: gli abiti, i tessuti, sono appesantiti con
cordoncini o catene dorate. La caduta che essi compongono definisce
i lineamenti con la medesima precisione di cui sopra, disegnando i
contorni e, di conseguenza, la profondità della silhouette.
3.Gli accessori: bracciali, spille, collier, sono presenti con
discrezione. Il ruolo di primo piano è dato alla linearità e alla pulizia
del look. Masse accessorie possono “esprimersi” ma senza
appesantire il senso generale.
4.La luce: i colori cardine delle produzioni Chanel (beige,
nero, rosso soprattutto) insieme ai dettagli in diamanti, perle grigie,
oro, contribuiscono alla luminosità degli abiti. Il materiale con cui
son concepiti, jersey e tweed in particolare, afferra la luce e la
trattiene facendo sì che non si perda in fastidiosi riflessi.
Abbiamo così identificato quelle caratteristiche salienti dei
prodotti Chanel, caratteristiche formali, topologiche e cromatiche
intrinsecamente legate alla visione classica1. Contrapposta alla visione
barocca, essa non è intesa come corrente epoca storica dell’arte occidentale,
bensì come punti di vista, visioni. Ora, dal punto di vista pratico, vi è la
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
44
1 Come la intese Abraham Zemsz, ovvero sistemi visuali analizzabili dal punto di vista semiotico e costituenti il
patrimonio di immagini, dipinti, disegni. (Zemsz, A Les optiques cohérentes, Actes sémiotiques - Documents
EHESS-CNRS, Paris, 1985)
necessità di dotare di un “senso semiotico” queste visioni, ovvero di dotare
ciascuna di esse di un piano d’espressione e di uno di contenuto.
In generale, la visione classica è caratterizzata dalla
predominanza della linearità. Le figure, e le parti delle figure, sono nette e
separate da contorni. Ogni parte che compone l’immagine è a sé stante ed
estrapolabile, isolata. Al contrario la visione barocca predilige il
concatenamento, il dettaglio contribuendo a una sensazione di generale
dinamicità, tutta opposta alla stabilità suggerita dalla visione classica.
Le figure di stampo classico costituiranno dunque forme chiuse,
delimitate, immagini nelle immagini, mentre quelle di stampo barocco
parranno in evoluzione, espansione.
In Chanel le due visioni coesistono in equilibrio: gli effetti
plastici del barocco, gli accessori, la loro interdipendenza, si riconoscono
nel total look ma godono sempre e comunque di una localizzazione
circoscritta, in equilibrio con la linea dritta e netta del look in generale. Il
gioiello, in particolare, concorre nella significazione dell’abito: non è più in
primo piano per la sua singola preziosità ma per il rapporto che esso ha con
gli altri dettagli che contribuiscono a rendere prezioso e lussuoso l’abito
analogamente a quanto detto riguardo il lusso nel capitolo 1.2.
Un bricolage, quindi, di stili e visioni, di unità spostate da un
sistema semiotico ad un altro: la scelta di un tessuto per le sue qualità
tecniche si rivela essere poi una scelta dettata sul gusto estetico, sulla
tattilità. Queste scelte rifletteranno poi la silhouette come un fatto di stile
proprio grazie alla contrapposizione di configurazioni classiche e barocche
degli accessori e dei dettagli essenziali che vedremo brevemente di seguito.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
45
3.3.1 Essenziale: la catena dorata
La catena dorata identifica una borsa 2.55 al primo
colpo d’occhio, sia che essa sia intrecciata ad una striscia di
cuoio nelle borse sportive da giorno, sia che sia sola in tutta la
sua lunghezza, per la sera. Fra i codici di Chanel, la lunga
tracolla d’orata è senza dubbio fra i più famosi e riconoscibili.
Concepita per dare più libertà alle mani delle donne, la tipica
catena dorata è presente anche in numerosi capi di
abbigliamento, soprattutto giacche e cardigan, con lo scopo
di impreziosirli discretamente e di dar loro una maggiore
pesantezza.
La catena, come abbiamo detto, è presente in
moltissimi accessori del total look come bracciale
dell’orologio “Première” disegnato per Greta Garbo.
Facente parte delle reminiscenze attinte dalla
ricchezza dell’arte russa e bizantina, la brillantezza
dell’oro o dell’acciaio si impone al pari del nero e del bianco, vero marchio
di fabbrica della Maison, incarnando profondamente lo stile e la personalità
della fondatrice: secondo Chanel il solo vezzo concesso alla sobrietà erano
gioielli e collane.
3.3.2 Essenziale: i fili di perle
Christian Dior disse di Coco Chanel che rivoluzionò la moda
con un semplice pullover nero e dieci giri di perle. Ed è vero, le perle sono
la grande passione della creatrice: vere o finte che siano, pulite e rotonde o
intarsiate in stile barocco, applicate su una croce o sul cinturino di una
scarpa col tacco, le perle bianche incarnano, insieme alla catena, lo stile di
Chanel conferendo al look predominato dal nero, una lucentezza elegante e
discreta, ponendo l’accento sul contrasto fra le linee nette degli abiti e la
morbidezza delle curve delle perle.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
46
Collezione Haute Couture P-E 2005
Fonte: Stiletto n° 5, 05/05/2005:30
Collier, cinture, spille per i capelli ma anche pochette da sera
interamente ricoperte, le perle sono presenti in ogni stagione da quando Karl
Lagerfeld ne ha reintrodotto il metodo di lavorazione
3.3.3 Essenziale: la camelia
Di tanto in tanto appare nelle collezioni,
soprattutto primaverili, quelle più inclini ai fronzoli e ai
vezzi. Perché Chanel scelse la camelia? Se ne sa poco a
riguardo, in realtà: si narra che sia a causa del primo
bouquet di fiori che Boy Capel (capitolo 1.1 -
Biografica) le donò.
Ma la camelia è anche sinonimo di bellezza
discreta, di elegante femminilità, raffinata. La sua
rotondità geometrica si accorda perfettamente al
contesto squadrato delle linee di Chanel: la possiamo
trovare declinata in ogni creazione.
Ideata in origine in tessuto bianco, aveva il semplice scopo di
adornare e arricchire l’abito scuro, analogamente alla funzione svolta dalle
perle. Sviluppata in seguito in velluto, seta, cuoio, ma anche in porcellana
per i capi di alta moda, viene accostata ai materiali e ai colori scelti di volta
in volta per le stagioni risultando così in un accessorio onnipresente nelle
collezioni.
3.3.4 Essenziale: il bianco e il nero
Lo sport e l’eleganza, femminilità data da tessuti “maschili”,
classico e barocco: lo stile di Chanel nasce dalla coesistenza dei contrari, dal
gioco di opposizioni. L’abito nero, di taglio diritto, impreziosito e illuminato
da fili di perle bianche e rotonde o da camelie; la confezione bianco e nera e
la stessa etichetta del profumo No.5, bianca, semplice applicata sulla
bottiglietta come fosse una produzione casalinga; oppure lo stesso logo della
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
47
Collezione Haute Couture
P-E 2005
Fonte: Stiletto n° 5,
05/05/2005:34
Maison, stampato bianco su sfondo nero, o viceversa. Il bianco e il nero
sono le due facce dell’anima della fondatrice come lei stessa ammise: “Ho
detto che il nero era tutto. Il bianco è lo stesso. Sono di una
bellezza assoluta. È l’accordo perfetto. Guardate [per
esempio] una donna vestita di bianco o di nero ad un
ballo: non si vede che lei.1”.
Ed è di parola: le collezioni, tranne rari
casi di trame variopinte (ma pur sempre attinenti
ai canoni), e senza considerare il rosso, altro
colore di rilievo nella couture di Chanel, si
destreggiano sempre secondo questi due colori.
Camice bianche sotto tailleur neri, le celebri
scarpe da sera con la punta nera, ma anche gli
stivali interamente bicolore o lo splendido J12, l’orologio ideato da Jacques
Helleu2, interamente scolpito nella ceramica bianca o nera. Ritroviamo i
colori anche nella cosmetica, dove il nero intensifica uno sguardo e il bianco
lo drammatizza in un gioco di ombre che per Coco Chanel “sono altrettanto
belle che il viso stesso3”
Prescindendo dalle mode, la dualistica coppia incarna ancora
oggi l’essenza dell’eleganza e del lusso idealizzata dalla creatrice,
sottolineando come la semplicità estetica sia di più gradevole effetto rispetto
ad uno sfarzo caotico e ridondante.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
48
1 Morand, P 1996
2 Jacques Helleu: è stato direttore artistico di Chanel Profumi e Chanel Orologeria per 51 anni, fino al 1 Ottobre
2007, quando morì a Parigi.
3 ibid.
Collezione Haute Couture P-E
2005
Fonte: Stiletto n° 5, 05/05/2005:38
Conclusioni
Abbiamo visto nel corso dell’elaborato che il concetto di lusso
nasce dalla società ed evolve insieme ad essa tessendo un legame biunivoco:
da un lato esso ha un ascendente sul comportamento, sulle azioni degli
individui che lo adottano come indice di prestigio, dall’altro son proprio gli
individui, i fruitori dei beni di lusso, a ridefinirne le connotazioni di volta in
volta. Ciò che in passato è nato come appannaggio di pochi, è divenuto
grazie alla nascita del consumismo globale indice della propria estrazione
sociale dando alla luce sostanzialmente due fenomeni: in primo luogo ciò
che Veblen ha definito lo “sciupio vistoso”, ovvero l’ostentazione del
possedimento, ed in secondo luogo il progressivo delineamento di un nuovo
consumatore sempre più attento al valore simbolico e “sociale” dell’oggetto
a discapito della sua funzionalità.
È su queste due nozioni che si è via via strutturata a partire dagli
anni Ottanta, una strategia di comunicazione peculiare dei luxury brand,
quella basata sulla definizione di valori aziendali che consentano da una
parte la differenziazione del marchio nella variegata moltitudine offerta dal
mercato, e dall’altro una forma di adozione selettiva da parte del
consumatore.
Il consumatore moderno, come abbiamo visto, ha soddisfatto
ampiamente i propri bisogni primari e si concentra ora sulla esperienza di
acquisto: deve essere entusiasmante, appagante, coinvolgente. L’acquisto
deve tramutarsi in una avventura, un mezzo di gratificazione ed evasione,
sensazioni trasmesse dall’atto in sé ancora prima che dalle caratteristiche
peculiari del prodotto.
Egli ha bisogno di riconoscersi nel marchio e di vedere in esso
una estensione del suo essere. I brand in questo modo non saranno più un
semplice nome, un logo stampato sul prodotto, ma si fanno portavoce di un
sistema simbolico in perenne mutazione, al pari passo con il mercato a cui si
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
49
riferiscono. Nell’elaborato è stata presa in analisi la maison Chanel poiché è
stata pioniera in questo caso, concentrandosi sin dal principio su una
strategia di comunicazione del proprio universo di marca fondata
sull’ereditarietà dei valori della fondatrice.
Il dualismo del marchio, le sue contraddizioni e
contrapposizioni, la semplicità estrema delle linee, hanno dettato nel tempo i
canoni di uno stile divenuto esso stesso simbolo di femminilità
imprescindibile, giunto ai giorni nostri attraverso due guerre mondiali e
innumerevoli modificazioni del tessuto sociale. Gabrielle Chanel, prima, e
Karl Lagerfeld dopo, hanno saputo costruire nell’arco di quasi un secolo,
una immagine del marchio tanto ancorata al passato storico della fondatrice,
quanto attuale nella sua estetica, coniugando sapientemente stili, visioni e
creatività che hanno avuto il potere di giungere fino ad oggi pressoché
immutati e quindi riconoscibili dal pubblico a colpo d’occhio.
Le scelte cromatiche del packaging dei prodotti, l’appeal
estetico sempre essenziale ed elegante, il marcato romanticismo1 degli spot
televisivi e la stessa comunicazione del brand in senso lato (basti pensare
che la stessa azienda francese mi ha fornito il materiale di cui avevo bisogno
semplicemente domandandoglielo), contribuiscono a formare una idea del
marchio vincente, sempre sulla cresta dell’onda anche se non à la mode.
È la continuità di cui si è parlato nel capitolo 1.3, dimostrazione
che una difficile scelta quale si rivela essere quella di mantenere inalterati
nel tempo i canoni di un marchio di moda, se ben strutturata e declinata
negli anni, fornisce due grandi vantaggi: la fedeltà del pubblico, di
importanza vitale per un marchio, e la perenne riconoscibilità.
A più riprese si è parlato di declinare nel tempo i tratti essenziali
del brand, di adeguarli al contesto. Floch delineò quelli della Maison Chanel
nella sua opera “L’indémodable total look de Chanel2”, molti anni prima
della stesura di questo elaborato, eppure dopo tanto tempo li ritroviamo a
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
50
1 nel senso etimologico del termine, strutturati, soprattutto negli ultimi anni, come veri e propri romanzi trasporti
sul piccolo schermo.
2 all’interno di Floch, J.M. Identités Visivuelles (1995)
costituirne l’odierno total look, semplicemente arricchiti, plasmati intorno
alle necessità dei consumatori, ai gusti, all’epoca.
Analogamente la medesima cosa è successa ai prodotti
pubblicitari: Chanel ha saputo sfruttare appieno il potere mediatico
adattandosi alle innovazioni tecnologiche. Da spot reclamizzanti il prodotto
affiancato ad una testimonial (fra i modelli di comunicazione pubblicitaria
più semplice) si è giunti a veri e propri cortometraggi caratterizzati da una
trama avvincente ed articolata capace di trascinare, come nell’ultimo caso
analizzato, lo spettatore al suo interno, fornendogli la chiave per leggere il
testo e viverlo in prima persona: riconoscercisi.
Ecco allora il punto di forza della strategia di comunicazione
adottata da Chanel, un sapiente mélange di romanticismo e marketing che
coinvolge e avvolge il consumatore del nuovo millennio fornendogli un
bouquet di simboli che richiamano ora il potere, ora una discreta eleganza,
ora la discreta femminilità di una donna sì, determinata, ma sempre donna.
Particolari di racconto durato decine di anni che, parafrasando la
Calefato (Lusso, 2003:30), dona linfa al prodotto stesso suscitando il
desiderio di essere posseduto proprio in virtù della vita che reca nascosta al
suo interno, quell’alone etereo e quasi mitologico che alcuni prodotti
possiedono; che trainano il luxury brand nella costellazione dei marchi
senza tempo.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
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53
Testa, Annamaria
2007 La pubblicità - Suscitare emozioni per accendere desideri Il Mulino, Bologna
Veblen, Thorstein
1899 La teoria della classe agiata (trad. it. Mondadori, Milano, 1969)
Volli, Ugo
1990 Contro la moda Feltrinelli, Milano
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
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Luxury Brand Identity: il caso Chanel

  • 1. A L M A M A T E R S T U D I O R U M U N I V E R S I T À D I B O L O G N A FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione ELABORATO FINALE DI LAUREA IN Semiotica II L U X U R Y B R A N D I D E N T I T Y I L C A S O C H A N E L Relatore Presentato da: Prof.ssa Giovanna Cosenza Nicolò Montevecchi Sottocommissione: Prof.re Roberto Grandi Prof.ssa Giovanna Cosenza Prof.re Celestino Ferrari Sessione II - Novembre Anno Accademico 2009-2010
  • 2.
  • 3. Introduzione 5 Capitolo 1 8 1.1 La teoria della classe agiata: base della moderna concezione del consumo 9 1.2 Lusso e moda: così simili e così diversi 11 1.3 Continuità e discontinuità: strategie nella gestione del brand 14 1.4 Identità di marca ed esperienza cognitiva 16 1.5 Verso la semiotica della moda 19 Capitolo 2 22 2.1 Comunicare il brand di lusso: strategie di comunicazione pubblicitaria 23 2.2 Comunicare il brand di lusso: significato di marca 26 2.3 Ereditarietà, etica ed estetica 29 Capitolo 3 33 3.1 Coco: la determinazione di una donna 34 3.2 L’advertising Tv di Chanel No.5: etica ed estetica di un profumo 37 3.3 L’identità: un look atemporale 42 3.3.1 Essenziale: la catena dorata 46 3.3.2 Essenziale: i fili di perle 46 3.3.3 Essenziale: la camelia 47 3.3.4 Essenziale: il bianco e il nero 47 Conclusioni 49 Bibliografia 52
  • 4. A chi con sincera critica e onesto parere ha commentato tanto la stesura di questo testo, quanto la mia vita, suggerendo, come in una bozza, le modifiche da apportarvi.
  • 5. Introduzione Cronologicamente antecedente alla nascita delle odierne concezioni di marketing e di pubblicità, il sociologo ed economista statunitense Thorstein Veblen tracciò nel suo saggio “La teoria della classe agiata1” i fondamenti di un pensiero sorprendentemente attuale. Egli seppe cogliere gli aspetti comportamentali di quella che, nel corso del XX secolo, si consolidò come l’attuale società dei consumi fondamentalmente dominata dal concetto di ostentazione. La proprietà privata dei beni è intrinsecamente legata alla connotazione simbolica che essi posseggono: all’oggetto, al bene posseduto, viene associato un valore più o meno riconosciuto dal tessuto sociale al quale ci si riferisce. Questo valore ha dunque la capacità di trasformarlo da semplice possedimento in un vero e proprio plus della persona, un ‘di più’ che ne esalta il prestigio e lo status sociale. Vi è quindi una sostanziale evoluzione anche nella concezione di ricchezza: lo scopo non è più, come accadeva in passato, accumularla ma mostrarla, esplicitando così la propria collocazione sociale a quelli con cui si è soliti confrontarsi. Si entra in questo modo in un circolo vizioso dove, se è vero che possedere un numero e una tipologia di beni pari al gruppo sociale di riferimento contribuisce ad un personale senso di benessere, il superamento di questa parità produrrà un appagamento nell’individuo costituendo così un aumento dell’agonismo sociale che sfocerà in un maggiore divario fra gli individui. In questo contesto agonistico si delinea poco a poco la nuova figura del consumatore postmoderno2, estremamente più attento che in passato alla componente comunicativa e simbolica del bene che intende acquistare e desideroso di soddisfare non più esclusivamente i bisogni NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 5 1 Veblen, T 1899 2 Fabri, G 2007
  • 6. tangibili e primari ma che, ora più che mai, si orienta verso l’impalpabilità delle emozioni, dell’estetica e delle esperienze d’uso. Una tendenza che porterà nel tempo ad una transizione nelle modalità di fruizione dei beni dove l’acquisto non viene più mosso dalla reale necessità ma dal desiderio di soddisfare il proprio immaginario. Il settore del lusso evolve così in modo da assecondare in primis questo bisogno associando alle qualità materiali e formali del bene, qualità emozionali che si aggiungono al valore di esclusività insito per antonomasia nel bene di lusso. Caratteristiche che esplicitano, come detto, il modus vivendi del consumatore e non più solo il suo status. Il “fruitore - tipo” di questa categoria di beni ricerca in essi il mezzo per esacerbare la propria appartenenza ad una élite che condivide il medesimo stile di vita, appartenenza legittimata dal possesso di beni ritenuti ‘superiori’ per qualità, fattura, prezzo. I produttori operanti in questo settore sono consapevoli dell’evoluzione del loro target in questo senso: il compratore non si accontenta più di sterili informazioni sulla qualità e funzionalità del prodotto; nasce il bisogno di costruire intorno al marchio una identità che racchiuda un universo simbolico di grande attrazione, capace di trasmettere i valori alla base del marchio nel quale il consumatore possa riflettercisi. Il marchio, non più solo un nome stampato sul prodotto, diventa l’elemento portante della comunicazione fra l’azienda ed il fruitore finale grazie al patrimonio simbolico che custodisce contribuendo alla creazione di un fitto sistema immaterialmente affascinante e seducente che sfocia nella odierna comunicazione del luxury brand caratterizzata da valori costituenti il così detto lifestyle prima ancora di una dimensione funzionale del prodotto. La trasmissione dei valori fondamentali del marchio, del suo patrimonio storico e artistico, diviene allora essenziale. Il marchio di lusso, come quello di moda, si presta particolarmente al caso poiché sinonimi di adesione a determinati modelli, valori, modus vivendi. La comunicazione di moda abbandona dunque la mera comunicazione del prodotto in favore della propria identità di marca gettando così le basi discriminanti secondo le quali NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 6
  • 7. un prodotto diventerà, agli occhi del consumatore, immediatamente distinguibile da quello di una casa affine. L’elaborato costituirà un percorso tanto storico quanto interdisciplinare affrontando nel primo capitolo la problematica dell’evoluzione dei consumi negli anni dal punto di vista sociologico e transitando poi nel terreno squisitamente semiotico dei capitoli successivi dove cercherò di individuarne le caratteristiche salienti, fino a giungere infine al caso di riferimento rappresentato da Chanel dove, dopo una breve parte introduttiva alla storia della fondatrice e della Maison, cercherò di analizzare le scelte in fatto di comunicazione ed il capitale simbolico che esse trasmettono. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 7
  • 8. Capitolo 1 Sin dai tempi più remoti la necessità di distinguersi dagli individui propri simili è stata determinante nelle dinamiche di ogni società. La distinzione e segmentazione, sia che fosse in classi, caste o ceti, ha da sempre servito allo scopo fornendo agli appartenenti una sorta di etichetta che li ponesse alternativamente in una posizione di rilievo o meno rispetto agli occhi dei simili. Gli indici di appartenenza ad un determinato status sociale li possiamo reperire sotto ogni aspetto della quotidianità, dalla forma d’espressione dell’attore preso in esame, alle pietanze di cui si ciba, dal portamento all’abito. Fondamentalmente ci si riferisce così facendo al suo bagaglio simbolico fatto di beni materiali e immateriali che egli sfoggia costantemente e più o meno inconsciamente, per marcare e riaffermare il proprio status, per definire la sua posizione. In questo capitolo vedremo come Veblen, nella sua teoria formulata ben prima della nascita delle moderne concezioni di marketing e comunicazione di prodotto, denota un allora innovativo aspetto della proprietà privata legato non più alla pura necessità di sussistenza ma intesa come segno distintivo e di prestigio sociale utile a mettere in evidenza la propria persona. Lo scopo non è più dunque accumulare ricchezza, ma esporla mediante l’acquisto di beni ‘di livello1’, tanto economicamente quanto esteticamente, che denotino il proprio status. Il “volere qualcosa più degli altri2”, definizione di lusso secondo l’autore, permea così le strategie di comunicazione dei brand operanti nel lusso, come vedremo accadrà per Chanel che saprà creare una costellazione di concetti nei quali il consumatore postmoderno che si definirà nel tempo potrà riconoscersi. Ma cosa è classificabile come ‘lusso’? NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 8 1 Veblen, T 1899 2 ibid.
  • 9. 1.1 La teoria della classe agiata: base della moderna concezione del consumo Thorstein Veblen (1857 - 1929) redasse questa critica al consumo statunitense nel 1899 prendendo spunto da una indagine sociologica sulle società arcaiche. Egli giunse all’osservazione della nuova borghesia americana caratterizzata dal possesso e l’ostentazione di beni di notevole peso economico, possesso mirato al solo scopo di emulare i propri pari denotando un prestigio sociale e una classe di appartenenza ben precisi nel proprio immaginario. La deduzione di Veblen evidenzia quindi che, se nei contesti storicamente precedenti le società feudali il possesso della ricchezza era intrinsecamente legato alla superiorità bellica (i beni posseduti erano stati quasi sempre razziati), al contrario, a partire dalla società di tipo feudale la ricchezza assume nel tempo una connotazione sempre più psicologica e immateriale. Il bene viene posseduto in funzione del prestigio sociale che è in grado di comunicare e diviene quindi un mezzo per appagare il proprio ego, per soddisfare una necessità rarefatta e intangibile. Il ruolo di maggior rilievo lo assume in questo modo il concetto di rispetto inteso come il rispetto che ti viene concesso dai tuoi vicini. In quest’ottica diverrebbe dunque essenziale il possedimento di tanti beni quanti quelli posseduti dagli individui con i quali ci si intende confrontare: una sorta di soglia di sicurezza psicologica che sfocerebbe in un ‘di più’ piacevolmente appagante. Il risvolto di questo agonismo sociale è costituito da un sentimento di cronica insoddisfazione personale fino quando l’individuo non vincerà il paragone, ma ciò costituirà semplicemente un circolo vizioso poiché una volta raggiunta la soglia per la quale si tendeva, si porrà il nuovo limite del livello immediatamente superiore e via dicendo. Per Veblen quindi il raggiungimento del ‘livello di riferimento’ è una illusione, una utopia in continua evoluzione e crescita fin quando gli attori in gioco tenderanno al raggiungimento della così detta rispettabilità finanziaria alla cui base risiede l’agiatezza vistosa, unico mezzo per conquistare il rispetto degli altri. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 9
  • 10. Sarà durante il periodo post rivoluzione industriale che questa tendenza si consoliderà, quando cioè, in concomitanza con i primi stadi dello sviluppo economico, i consumi della classe agiata eccederanno lo stretto indispensabile alla sussistenza. Il fenomeno del consumo vistoso si espande in questo periodo in modo capillare nelle società industriali, nelle metropoli, dove il fenomeno dell’imitazione è maggiormente marcato a causa della netta distinzioni fra i ricchi industriali e la classe operaia. In questo contesto i gruppi “inferiori” cercano appena loro possibile di imitare quelli sovrastanti impossessandosi dei beni che veicolano quel determinato status, beni che però nel medesimo istante perdono di valore simbolico non essendo più intrinsecamente legati ad uno stile di vita specifico e che vengono, di conseguenza, abbandonati in favore di altri in cui riconoscersi maggiormente. Si ritrova in questo modo un circolo vizioso nel quale vi è una vera e propria rincorsa al confronto che da luogo al ciclo vitale del bene che viene così idealizzato, desiderato, raggiunto e, infine, ‘scaricato’ in favore di un nuovo prodotto nel quale identificarsi e diversificarsi. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 10
  • 11. 1.2 Lusso e moda: così simili e così diversi Fino ad ora abbiamo parlato indiscriminatamente di lusso riferendoci a quella categoria di beni generalmente di difficile accesso, senza soffermarci sulla reale connotazione del lusso, ammesso che vi si possa dare una definizione unanime. Etimologicamente legato al latino, il termine luxus, sostantivo, denota sovrabbondanza ed eccesso, e si accosta all’aggettivo luxus (-a, -um), ovvero slogato, lussato. Il lusso moderno è quindi indice di esagerazione di sovrabbondanza? Sì, se si considera la prima accezione, ma se si prende in analisi la seconda, esso può altresì veicolare il concetto di lussazione, di slogatura, ovvero, in definitiva, di una distorsione1 di ciò che, in caso contrario, sarebbe normalità. La normalità, nel contesto, viene identificata come la dimensione seriale del vivere caratterizzata dalla riproducibilità e dalla massificazione. Ecco allora che la caratteristica prima dei beni di lusso è quella di tracciare una linea di demarcazione e rottura con il concetto di produzione seriale tipico del largo consumo. La massificazione antagonista del lusso, il largo consumo di cui sopra, è rappresentata dalla moda. Per lungo tempo i due termini sono stati confusi. Simmel, nel suo saggio La Moda 2 redatto nel 1976, afferma che: La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di un appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono [..] nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi [...] Così la moda non è altro che una delle forme di vita con le quali la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale si congiungono. Tuttavia, malgrado la definizione si sovrapponga in parte agli studi di Veblen, vediamo che la sostanziale differenza con il lusso risiede nella periodicità e limitata durata temporale della moda. L’oggetto di moda gode quindi di una certa fugacità a causa del suo continuo (e ciclico) rinnovamento, mentre l’oggetto di lusso rappresenta così la continuità, la NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 11 1 Il dizionario DeAgostini riporta: “Slogatura: distorsione, lussazione articolare.” 2 Simmel, G. 1895
  • 12. sedimentazione e la trasmissione di valori etici ed estetici1. Moda e lusso possono quindi coesistere, ma solo per brevi lassi temporali nei quali la moda sposa la modernità proponendo novità mutevoli perfettamente allineate alla frenesia dei tempi d’oggi e, poiché effimere e fugaci, percepite come illimitate. Ecco quindi che la moda si affianca al lusso in qualità di suo momentaneo sostituto: essa offre un appiglio provvisorio a chi vuole sottolineare la propria indipendenza e distinzione pur mantenendo un certo distacco. Il parallelo con la logica Vebleniana avviene nei processi di imitazione attuati nel contesto moda, dove essi, come per i generici beni di lusso, procedono dall’alto verso il basso (il cosidetto trickle-down2, o sgocciolamento) inducendo un abbandono della “nuova moda” da parte delle classi più agiate nel momento in cui essa diviene appannaggio di tutti. Il prêt-à-porter ha così una funzione di securizzazione psicologica, è uno strumento di partecipazione indiretta attraverso il quale, grazie alla democratizzazione della moda, tutti possono, seppure per un breve periodo di tempo, raggiungere il livello ideale teorizzato da Veblen. Se è vero, quindi, che in passato lusso e moda erano perfettamente sovrapponibili in quanto un prodotto di moda era di per sé lussuoso, il grande cambiamento dei nostri tempi è costituito da una progressiva separazione dei due fenomeni che procedono ora per vie distinte. Storicamente, nelle società tradizionali caratterizzata da un elevato divario sociale, il lusso era tutelato legalmente dalle così dette “leggi suntuarie”, la protezione del lusso era così rigida da consentire il fenomeno di esibizione ostentativa teorizzata da Veblen. In seguito, al contrario, in concomitanza con lo sviluppo della società industriale e la relativa scomparsa dei meccanismi di protezione, nonché il miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno privilegiate, l’esclusività di questa NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 12 1 In questo caso si parla di etica nel senso etimologico del termine, come patrimonio di valori insito in un soggetto: si fa quindi riferimento alla storia del marchio. 2 Simmel, G 1895: teoria secondo la quale il meccanismo di diffusione della moda e dei beni di lusso è identificabile in una goccia che cade dall’alto verso il basso, dalle classi sociali agiate alle masse, e che si estende in seguito orizzontalmente grazie ai meccanismi di imitazione per poi venire rimpiazzato, in un nuovo ciclo, da quello della distinzione.
  • 13. categoria particolare di beni viene minacciata. Le nuove condizioni venutesi a creare costringono ad una transizione verso un tipo di protezione economica caratterizzata dall’elevato prezzo d’accesso che limita la domanda. In teoria, quindi, tutti possono acquistare il bene, ma il prezzo elevato garantisce una sorta di selezione passiva. Con l’avvento del consumismo di massa però anche questo mezzo di protezione viene a vacillare. L’impiego esponenziale di risorse nella comunicazione del marchio avvenuto nel periodo del boom1 ed il relativo benessere economico contribuiscono a fornire un accesso ai beni pregiati da parte delle masse. Al giorno d’oggi, quindi, la protezione di questa categoria di beni viene relegata ad una ulteriore forma maggiormente articolata caratterizzata dalla simultaneità del possedimento di un bene. Ecco quindi che se in passato per distinguersi bastava sfoggiare una borsa firmata, oggi la medesima borsa conserva il suo carattere di lusso se e solo se viene posseduta insieme ad un altro prodotto che ne rafforzi il significato trascinando il consumatore in una contestualizzata ridondanza simbolica conosciuta solo dagli appartenenti a quella categoria: non più, in definitiva, un oggetto, ma una composizione articolata di beni che costituiscono lo stile di lusso inaccessibile come lo erano i singoli beni in precedenza. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 13 1 in riferimento alla seconda metà del Novecento dove si riconobbe il così detto boom economico che vide nascere il concetto di consumismo, la classe impiegatizia ed una Italia sempre più industriale.
  • 14. 1.3 Continuità e discontinuità: strategie nella gestione del brand Parafrasando la celebre frase di Chanel “La moda passa, lo stile resta1” e ponendola in corrispondenza con il pensiero di Flaubert secondo il quale sia la continuità che costituisce lo stile, è chiaro il riferimento all’opposizione fra moda e stile che pone l’attenzione sulla relazione fra il marchio ed il tempo. A che punto della vita di una marca avviene la transizione da “fatto di moda” a “fatto di stile”? Ci viene in aiuto in questo caso la distinzione in categorie semantiche di continuità e discontinuità operata da Floch. Poiché la grande differenza fra un marchio di lusso ed uno di moda risiede nell’inscrizione del primo in un ciclo di lunga durata, il rapporto con il tempo è, almeno inizialmente, il medesimo della gestione dell’identità stilistica. Individuiamo nel quadrato semiotico2 offerto da Floch queste categorie. Fonte: Curcio, A.M. 2007: 42 La prima categoria che incontriamo è costituita da quelle marche che pongono l’accento sulla propria discontinuità, sull’assenza di un riferimento al passato e su una imprevedibilità del futuro. È il caso di Christian Dior con l’incontro di John Galliano, l’attuale direttore artistico della Maison: egli non considera il patrimonio stilistico precedente in favore di una visione personale della moda, mutabile ad ogni collezione e per questo tanto rischiosa quanto spettacolare. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 14 1 cit. orig. “Fashion fades, only style remains the same” in Gidel, Henry Coco Chanel - La Biografia 2 modello di quadrato semiotico già adoperato in Sémiotique, marketing et communication per la definizione dei viaggiatori tipo nella metropolitana di Parigi.
  • 15. L’espressione contraria è costituita dalla non discontinuità e abbraccia in parte il fulcro di questo elaborato: quelle marche che fanno della trasmissione e dell’ereditarietà il valore cardine della propria identità. È il caso di marchi così detti patrimoniali come Louis Vuitton, Hermès, Patek Philippe, maison di lusso cristallizzate in una sorta di istituzione volta alla (ri)produzione della medesima identità stilistica negli anni, indipendentemente da quale che sia il direttore artistico. La non continuità costituisce, al contrario, la totale rottura, il “colpo di stato” e la “prodezza”. La storia del marchio viene bruscamente interrotta, accantonata, in favore di un nuovo inizio. Strategia vincente solo nel caso di marchi che necessitano di nuova vita, o in presenza di un direttore artistico dotato di abilità innate nel saper gestire una nuova identità di marca partendo da zero. L’ultima strategia, infine, è quella su cui porremo l’accento nel delineare, nei prossimi capitoli, l’identità del marchio Chanel. La continuità costituisce la transizione del marchio nel tempo e l’adeguazione delle sue caratteristiche. In Chanel il gusto e la filosofia a cardine del marchio, così come erano stati interpretati dalla fondatrice, vengono mantenuti e rivisitati da Karl Lagerfeld per adeguarli ai canoni moderni. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 15
  • 16. 1.4 Identità di marca ed esperienza cognitiva È dunque il concetto di coerenza ad essere alla base dell’identità di un brand di lusso: il sapere coniugare il proprio patrimonio simbolico e storico all’evolvere delle necessità contemporanee. Se è vero che fino ad un passato non troppo distante la marca, il nome stampato sul prodotto, altro non era che quello, al giorno d’oggi assistiamo ad una importante inversione di tendenza che vede i brand, in particolar modo quelli operanti nel luxury businnes, incentrare la propria attenzione e le proprie strategie sulla gestione del brand stesso. Avremo così il celeberrimo monogramma di Louis Vuitton, che campeggia su ogni prodotto in maniera ridondante e declinata in ogni forma e maniera, il famoso motivo a righe incrociate di Burberry, le due “G” di Gucci, analoghe al caso che a noi sta a cuore, le “C” di Chanel, derivate dalle iniziali della sua fondatrice, Gabrielle “Coco” Chanel. Ecco allora che il prodotto diviene immediatamente riconoscibile fornendo quella sicurezza sociale teorizzata nei capitoli precedenti che ha alla base, lo ricordiamo, l’identificazione dell’individuo e il suo inserimento in un gruppo. Ma come avviene questo riconoscimento nella marca? Presupposto che la differenza sostanziale fra due prodotti del medesimo segmento, poniamo due borse da viaggio, risieda nel marchio, esse sono identiche strutturalmente e si differenziano per il solo brand riportato sul canvas1, si può affermare dunque che il procedimento di branding2 avviene sostanzialmente in maniera inconscia nel consumatore che assume una posizione nella scelta del prodotto. Il valore della marca, ovvero “la differenza di prezzo che il consumatore è disposto a pagare per il prodotto brand rispetto al corrispettivo senza marca3”, è di fondamentale importanza poiché costituisce, in questo caso, una forte discriminante. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 16 1 il tessuto che costituisce la valigia 2 per branding si intende, negli studi di Communication Design, l’insieme di attributi tangibili e intangibili che, sintetizzati in un segno, il marchio, rappresentano in modo univoco e distintivo una data azienda. Il processo di branding in questione è dato dall’associazione fra segno e significato che avviene, in via teorica, nella mente del consumatore 3 Cappellari, R 2008
  • 17. L’esperienza di fruizione di beni di lusso ha assunto nel tempo quindi una connotazione prettamente cognitiva. Il luxury good non è più vincolato al reale valore d’uso ma tende ad una immaterialità simbolica. Un borsone di Vuitton, un abito di Brioni, un foulard di Hermes avranno, agli occhi del pubblico, una propria ‘anima’ e verranno percepiti come incentivo alla personalità e allo status di chi li indossa. Questo processo di forte caratterizzazione trasporta il brand in un contesto di difficile sostituibilità che contribuisce a fidelizzare il cliente permettendogli di offrire il fianco all’imposizione di un premium price1 a volte molto elevato diminuendo la sua sensibilità al prezzo. Più alta sarà la brand reputation, maggiore sarà il prezzo che il fruitore sarà disposto a pagare per ottenere il bene. La strategia da seguire è dunque volta a creare un legame forte fra il marchio ed il cliente, costruire una coscienza di marca tale che il consumatore possa rispecchiarsi in quell’insieme di pensieri, filosofie, sensazioni veicolate dal marchio. Questo, soprattutto nel marchio di moda, è costituito dall’identità stilistica, dall’insieme di codici permanenti che caratterizzano nell’arco del tempo i prodotti di una maison e veicolano negli anni la personalità del fondatore. Facendo un breve excursus nello specifico, si pensi a Chanel, che dall’inizio del Novecento mantiene una forte connotazione tanto femminile quanto carismatica. Il contesto in cui nacque la Maison è quello della prima Guerra Mondiale dove si assistette alla progressiva emancipazione femminile: le donne abbandonarono lo sfarzoso abbigliamento dei secoli precedenti per abbracciare la comodità. Con i mariti al fronte, la figura femminile si trova sola ad affrontare i problemi di una famiglia avvolta dal tremendo contesto bellico. Chanel seppe riconoscere il setting offrendo loro abiti confezionati nel medesimo tessuto delle divise dei mariti, comodi e sempre eleganti, chiave stilistica della donna determinata che caratterizzerà la comunicazione futura della maison. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 17 1 Secondo Michael Porter (economista), “un’impresa si differenzia dai concorrenti quando fornisce qualcosa di unico che abbia valore per i suoi acquirenti” (Porter, 1985). Per fare in modo che il prodotto sia differenziato, vi è la necessità che esso sia in qualche modo unico; deve avere, cioè, caratteristiche, siano esse reali o percepite, non riscontrabili in altri prodotti concorrenti, e che queste caratteristiche abbiano un valore per gli acquirenti tale che essi siano disposti a pagare. La differenza massima di prezzo che in questo modo il produttore può imporre al consumatore viene detta premium price
  • 18. Il brand deve quindi essere prima di tutto in sintonia con le aspettative del consumatore, saperle interpretare e, spesso, anticipare. Ma prima di tutto deve sapere evolvere con esso nel tempo accompagnando la metamorfosi costantemente, pena la perdita di fedeltà. In Chanel questa evoluzione del marchio avvenne con il passaggio della direzione artistica alla morte della fondatrice. Karl Lagerfeld, il successore, ha saputo conciliare la modernità imposta dal nuovo secolo ai canoni della fondatrice proponendo un prodotto sempre riconoscibile, ma anche innovativo. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 18
  • 19. 1.5 Verso la semiotica della moda Celebre per lo studio in merito denominato Il Sistema della Moda (1976), Roland Barthes è senza dubbio precursore degli studi semiotici applicati alla moda. Coadiuvato da studi storici e sociologici relativi al costume, Barthes indaga e ritrova in essi una forte carenza strutturale in quanto essi trascurano l’aspetto istituzionale del fenomeno: in nessuno degli studi di carattere storico-sociale fatti fino a quegli anni emergeva il costume inteso come “struttura i cui elementi, di per sé privi di valore, risultano significanti solo in quanto legati da un insieme di norme collettive1”. Il sistema, quindi, comprende quell’insieme di norme che - tollerando, interdicendo, giustificando o obbligando - regolano l’assortimento vestiario di un individuo. Alle basi del costume vi è dunque l’appropriazione di una forma da parte della società; a questo proposito, gli storici e sociologi secondo Barthes dovrebbero interessarsi al modo in cui l’indumento individuale si inserisce in un contesto formale e regolamentato. Barthes propone allora il parallelo fra linguaggio e vestito: così come l’abito, anche il linguaggio è simultaneamente sistema e storia, individualità e collettività, poiché rappresentano entrambi strutture complete costituite dalla coesistenza di forme e norme; una fitta rete relazionale dove la modifica di un solo elemento costituisce la trasformazione di tutto l’insieme. Barthes considera quindi la linguistica, poiché disciplina consolidata, come base per la costruzione di schemi utili all’analisi del fenomeno. Analogamente ai due aspetti emersi dal Corso di Linguistica Generale (Saussure, 1916), secondo il quale il linguaggio umano può essere studiato sotto l’aspetto della langue (formale e sociale) e della parole (pragmatico e individuale), Barthes trasla il concetto applicandolo al vestito: [...] sembra utile distinguere una realtà, che proponiamo di chiamare “costume”, corrispondente alla langue di Saussure, e una seconda realtà, che chiameremo “abbigliamento”, corrispondente alla parole. La prima, realtà istituzionale e sociale, è indipendente dall’individuo, è una sorta di riserva sistemica all’interno della quale il singolo organizza la propria tenuta; la seconda è una realtà individuale, vero e proprio atto del “vestirsi” attraverso il quale l’individuo attualizza su NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 19 1 Barthes, R 1976
  • 20. di sé l’istituzione generale del costume. Costume e abbigliamento formano così un insieme generico al quale proponiamo di riservare il nome di “vestito” corrispondente al “linguaggio” di Saussure.1 La scelta di un abbigliamento a discapito di un altro è dunque dettata dal gruppo sociale di appartenenza: determinati accorgimenti o carenze (bottoni non allacciati, usura dei vestiti, disordine, vestiti improvvisati...) costituiscono così la dimensione individuale del vestito, utile in analisi dal punto di vista psicologico ma meno rilevanti in questo contesto di evoluzione che punterà l’indice maggiormente sul fenomeno “costume”. Esso, al contrario dell’abbigliamento che veicola poche informazioni personali, identifica le relazioni fra individuo e gruppo. Una distinzione blanda e in continua metamorfosi poiché fenomeni di costume possono divenire fenomeni di abbigliamento: si pensi alla moda che propone di volta in volta modelli che verranno adottati, in seguito, nell’abbigliamento, e viceversa. La moda allora rappresenta sempre un fenomeno di costume. Elaborata da specialisti, si propaga su scala collettiva costituendo un fenomeno d’abbigliamento che si inserisce nell’individualità. Ma la moda stessa, a monte, risente delle costrizioni sociali, del contesto storico, che trascendono dalla creatività e dall’estro del direttore artistico; e parallelamente opera sulle scelte individuali del singolo che, inconsciamente, crederà di scegliere sulla base di gusti personali che al contrario saranno dettati da codici estetici e sociali. È proprio quando si parla di codici però che sorge il problema nell’analisi di un oggetto di moda. Se, come abbiamo visto nel capitolo 1.2, fin quando vigevano le leggi suntuarie gli abiti erano regolamentati da codici iper-codificati2 che non lasciavano spazio ad ambiguità, estremamente è diverso il discorso attuale riguardante la moda. Si tratta di un codice ipo-codificato dove “impercettibili sfumature del significante possono dar luogo a rilevanti scarti nell’universo semantico3”; un codice NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 20 1 Barthes, R 1977 2 Baldini, M 2005:22 3 ibid.
  • 21. rudimentale, essenziale che utilizza i convenzionali simboli tattili e visivi di una cultura per produrre un risultato ambiguo ed allusivo, in mutazione. Considerata questa mutevolezza, prima di attribuire un determinato significato ad un abito bisogna dunque tener conto del contesto, della persona che lo indossa, l’occasione o il luogo. Inoltre, un abito non necessariamente significa la medesima cosa nel corso degli anni o per altre persone, anche nella stessa sfera sociale. L’ostacolo principale alla comprensione di una moda, scrive Edward Sapir sull’enciclopedia1 alla voce Fashion, è la mancanza di una conoscenza precisa dei simbolismi inconsci relativi ad una determinata cultura. In questo particolare e problematico contesto, emerge la necessità di rendere, di conseguenza, un brand riconoscibile e attualizzabile da il più ampio bacino di clienti possibili, veicolando un brand image plausibile per più culture differenti fra loro, pianificando una strategia di comunicazione dell’universo di marca. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 21 1 Sapir, E 1935:141
  • 22. Capitolo 2 Esaurite le premesse di carattere sociologico utili per introdurre l’argomento a contestualizzare il soggetto della tesi, procediamo ora con l’analisi delle strategie di comunicazione nel peculiare segmento di mercato dei così detti luxury goods. Sempre più, la pubblicità permea la quotidianità di ognuno di noi veicolando messaggi, brand values, che noi interpretiamo e nei quali sappiamo riconoscerci: valori e simboli che ci trasportano inconsciamente in una dimensione di dipendenza dal prodotto. Nell’arco del tempo, dalla nascita della pubblicità nel XIX secolo con l’avvento del manifesto pubblicitario, abbiamo assistito ad una evoluzione nel concetto di comunicazione pubblicitaria, determinata dalla sempre più presente componente emozionale e simbolica che ha via via soppiantato la referenzialità del prodotto in favore di un appeal più intimo e soggettivo. Concederò una breve introduzione su quelle caratteristiche proprie della pubblicità degli ultimi anni per concentrarmi poi sulla comunicazione della marca e scendere così nel campo della comunicazione del luxury brand in modo da introdurre l’ultimo capitolo dell’elaborato riguardante Chanel. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 22
  • 23. 2.1 Comunicare il brand di lusso: strategie di comunicazione pubblicitaria Le ultime due decadi de XX secolo hanno decretato il trionfo della pubblicità. Le aziende, perfettamente consce delle potenzialità del mezzo pubblicitario, coadiuvate dal nascente consumismo di massa, scelsero di investire enormemente in essa. Ben presto però la situazione si ripiegò su se stessa, il mercato pubblicitario divenne saturo costringendo il consumatore ad una sorta di rifiuto nei suoi confronti. Se da un lato la pubblicità, intesa come mezzo, subì un declino, il fenomeno della marca riuscì a trarne giovamento grazie all’estrema competizione ed la conseguente omologazione dei prodotti finali. Le aziende cercarono così spasmodicamente di delineare caratteristiche di esclusività per differenziare la propria offerta. Questa nuova tendenza delle aziende trova presto un riscontro nella figura del consumatore di fine millennio, sempre maggiormente in cerca di nuove forme di gratificazione psicologica che gli permettano di scavalcare la mera utilità materiale del bene. La sedimentazione nel tempo e la reiterata coerenza con lo stile di marca permette al consumatore di riconoscere immediatamente i codici nel quale identificarsi e identificare il bene ricercato. Il linguaggio metaforico e simbolico sul quale si fonda il “discorso di marca” diviene così un segno visibile e immediato che riesce a comunicare il senso completo del brand in modo tale che non sia più solo il prodotto stesso ad essere riconoscibile, ma anche il solo packaging (per esempio) possa rimandare all’universo di marca. Nel caso di Chanel basti pensare al sempre presente abbinamento nero/oro o nero/bianco, tanto nel prodotto quando nelle confezioni, stile inconfondibile della Maison che ha permesso attraverso più di un secolo di riconoscere il marchio in ogni sua declinazione. In questo modo è sufficiente vedere le due “C” intrecciate per riconoscere e ricordare in maniera vivida tutte le particolarità del marchio, il suo bagaglio simbolico e storico. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 23
  • 24. La comunicazione pubblicitaria assume così un ruolo di fondamentale importanza nella costruzione e nel mantenimento della percezione del lusso associato al marchio. Essa permette, nell’insieme delle percezioni visive e testuali utilizzate negli annunci come nei prodotti multimediali, all’osservatore di cogliere le caratteristiche salienti della marca o del prodotto poiché è innato nell’individuo il processo di inferenza di determinati attributi quali il prestigio, il sogno, la qualità associata ad un oggetto. Il ruolo della comunicazione pubblicitaria nel veicolare un determinato livello di status di un bene si palesa, quindi, nell’adozione di uno specifico patrimonio lessicale utile nell’associare al prodotto la filosofia e gli attributi idealizzati dal produttore. Uno dei mezzi più semplici ed efficaci per veicolare questi valori è l’associazione al bene reclamizzato di un altro prodotto o personaggio che gode di uno status già riconosciuto. È il caso, per esempio, dei testimonial come accade nella totalità delle pubblicità televisive di Chanel. Allo scopo di rafforzare il messaggio trasmesso, vengono utilizzati in questo contesto elementi lussuosi che forniscano un contorno, uno sfondo efficace e ridondante che ne potenzino i connotati. Il colore oro, nello specifico, è da sempre utilizzato in questo caso nella progettazione: lo si trova spesso in ogni parte dell’annuncio, quale che sia il mezzo. L’ambientazione, quindi, si basa sull’assunzione che il possedimento dei beni da parte di un individuo ne rivelino determinate informazioni (il prodotto è in genere presentato in mano a personaggi carismatici, benestanti, di classe). Dall’altro senso, si denota come gli individui cerchino di trasmettere informazioni su loro stessi attraverso scelte di consumo oculate e pianificate. La scelta di un capo di abbigliamento, di una vettura o di semplici attività ricreative sono utili per l’assegnazione reciproca di determinati livelli di status sociale. Il consumatore fruisce passivamente della comunicazione pubblicitaria per estrapolarne determinati attributi di status da associare alla marca: esso utilizza l’immagine per identificare gli elementi distintivi di uno stile di lusso ed applicarli, in seguito, al proprio ideale di consumo. È chiaro a questo punto quanto sia tattico enfatizzare gli NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 24
  • 25. elementi utili ad individuare la dimensione aziendale in un prodotto pubblicitario. Goffman nel 1979 definì gli annunci pubblicitari come “non descrittivi della vita reale, bensì descrizioni iper-ritualizzate del modo in cui le persone ritengono dovrebbe essere (e vorrebbero fosse) il proprio ambiente di riferimento. La pubblicità quindi è un insieme fittizio di simboli culturalmente costruito in cui inserire il prodotto da reclamizzare. Grant McCracken, antropologo statunitense, nel 1988 propose tre fasi nel processo di creazione dell’annuncio pubblicitario che prevedono così in primo luogo l’identificazione delle caratteristiche, i valori che si vogliono associare al bene; ne segue l’identificazione di dette caratteristiche nell’ambiente culturale circostante, il così detto setting, dove l’ambientazione verrà creata ad hoc per comporre l’annuncio; ne succederà, in conclusione, la creazione di componenti verbali e visive che sottolineino e richiamino le “proprietà” in ridondanza completando così il processo di trasferimento di significato dal contesto descritto nell’annuncio al bene reclamizzato. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 25
  • 26. 2.2 Comunicare il brand di lusso: significato di marca Approfitto di un breve excursus storico per introdurre l’argomento: nel corso degli anni vi è stato una progressiva evoluzione nella gestione del brand di lusso determinata dal sostanziale passaggio da un modello di businness singolo alla logica manageriale articolata delle odierne holding multinazionali. Ciò implica una serie di attenzioni maggiori: se in passato il creatore/imprenditore si occupava del solo marchio vincolato ad una ristretta cerchia di prodotti, con il fenomeno dell’estensione di marca, ci si trova a fare fronte ad una nuova necessità, quella di potenziare il sistema di valori intrinsechi della marca in modo che essa possa “coprire” una più vasta area. Al giorno d’oggi il primo passo effettuato per implementare il senso di marca è quello di associare strettamente ad essa la figura del suo imprenditore o stilista, facendo quasi diventare quest’ultimo testimonial di se stesso. È il caso di Lagerfeld per Chanel: l’immagine costruita del personaggio, i “suoi” colori e linee, l’impostazione e lo stile, rispecchiano i valori e le connotazioni simboliche del marchio e, ancor più, fanno del personaggio il portavoce di ciò che era il patrimonio relazionale della fondatrice senza, però, rubarle la scena (basti pensare alle foto che ritraggono lo stilista nei laboratori della Maison o negli uffici sempre attorniato di immagini ritraenti Coco). L’attività dello stilista è, quindi, sempre di primaria importante nelle pubbliche relazioni del marchio, ma non sufficiente nel creare la domanda per un oggetto che, la maggior parte delle volte, è superfluo oltre che eccessivamente costoso in rapporto al valore d’uso. La chiave è trasformare l’acquisto in una esperienza. I quattro passaggi teorizzati da Chevalier e Mazzalovo conducono il consumatore dalla percezione della marca fino all’acquisto effettivo: il significato di marca è la chiave di volta del processo, se ne illustrano, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, i punti salienti transitandoli graficamente nel prodotto pubblicitario rendendone possibile la memorizzazione. Viene da sé che se una marca non ha significato, ovvero NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 26
  • 27. non ha una solida base su cui fondare la propria comunicazione, sarà impossibile metterne a punto una strategia: ciò che non comunica un “senso” non può creare un desiderio. Ma come definire e soprattutto trasmettere in modo immediato questi valori di marca, questi concetti astratti e quasi filosofici? La via più ovvia, come ci suggerisce Marrone ( Il discorso di marca, 2007), è quello di esprimere l’universo tematico di marca tramite la denominazione, ovvero quando il tema1viene esplicitato dallo stesso brand name. Esso, indipendentemente dalla sua origine, è il fulcro del marchio intorno al quale si dipana la costruzione della sua immagine, dentro il quale si condensa il patrimonio simbolico della marca. Se si prende per esempio il caso di Nike, vi troviamo “innatamente” la tematica della vittoria, in Magnum quella della grandezza, in Smart ,la scaltrezza, l’intelligenza. Il processo di significazione insito nel nome proprio della marca è quasi sempre quello dell’antonomasia: un nome del tutto arbitrario, proprio e senza un significato specifico, diviene portavoce di un significato forte in quanto segno di una marca di successo: è il meccanismo della così detta motivazione a posteriori. Ecco allora che come Marlboro è sinonimo per antonomasia di una vita selvaggia, avventurosa; Harley Davidson rinvia a uno stile di vita duro, burbero; Chanel, nel nostro caso, diviene così sinonimo di classe ed eleganza tale che basti il solo logo, le celebri “c” intrecciate, per rievocare il patrimonio simbolico. È dunque a livello visuale che il logo si trova a svolgere un ruolo analogo a quello del nome proprio, cioè quando egli è presente in modo netto e perfettamente riconoscibile, in grado di trasmettere l’universo di marca nella medesima maniera. Talvolta però, si incontrano loghi che invece di esibire tratti figurativi chiari, unanimi e distintivi, si dotano di elementi così detti figurali, ovvero di particelle visive astratti in modo tale da consentire una interpretazione variabile al momento della ricezione, moltiplicando così le linee di senso che vi si articolano intorno. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 27 1 Dimensione tematica: per — del prodotto si intende l’organizzazione formale dei contenuti che la compongono in una struttura tale che siano percepibili e comprensibili al pubblico (p.e. la CocaCola veicola il tema di una America spensierata, giovane, di buoni sentimenti, “colorata”; chi consuma la bevanda si crede, quindi, possa assorbire tutto ciò)
  • 28. Ma è ancora una volta un discorso labile, quello appena fatto: il marchio si nutre del sociale che lo circonda, è specchio di valori ma assorbe dal contesto in cui cresce giorno dopo giorno trasportando al suo interno ideologie, gusti, tendenze che prima non erano state preventivate, ma che ora vengono metabolizzate e ripresentate da un punto di vista simbolico dando così l’idea di una continua attualità. È il caso delle pubblicità, nelle quali, soprattutto tramite i mezzi multimediali, si può notare la sostanziale evoluzione di un marchio e del suo inglobamento di valori attualizzanti che vanno via via ad affiancare il patrimonio storico. Il tema discorsivo della marca è dunque in perenne evoluzione, difficile da identificare univocamente se non in breve lasso temporale. Ve ne si dà quindi una traduzione progressiva, sia internamente alla sfera discorsiva d’appartenenza (l’universo economico-sociale della marca), sia esternamente rispetto ai discorsi sociali che lo circondano, laddove lo stesso confine fra interno ed esterno viene esso stesso ridisegnato di volta in volta tangendo l’identità profonda del marchio. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 28
  • 29. 2.3 Ereditarietà, etica ed estetica Ma di cosa si tratta quando si parla di identità di una marca? Nel paragrafo precedente abbiamo parlato a più riprese del patrimonio simbolico che un marchio possiede, dei valori che trasmette. Cerchiamo ora di descrivere l’importanza dell’identità, come formarla, gestirla e dunque analizzarla. Per poter analizzare e comprendere l’identità di un marchio di lusso bisogna comprendere in cosa essa consista, separando la sua essenza dalle percezioni variabili che produce nei consumatori1. Analogamente alle estensioni della marca di tipo commerciale (si pensi a Lacoste, che oltre alle famose polo produce anche portafogli, profumi, accessori per lo sport), l’identità può essere considerata una estensione con una forte componente umana caratterizzata da una specificità e dalla sua durata nel tempo. Il brand identity può essere riassunto come “la capacità di una marca di essere riconosciuta come unica, nel tempo, senza confusione, grazie agli elementi che la individualizzano2”. L’identità rappresenta dunque il fulcro della marca intorno alla quale elaborare le strategie stilistiche e commerciali, la base di ogni susseguirsi di direzione artistica. Nata negli anni Venti come “anima corporativa”, termine coniato da Bruce Barton3, il concetto di identità s’è sedimentato solo negli anni Ottanta con l’esplosione della pubblicità. Esso, infatti, designava in un senso limitato tutto ciò che poteva identificare la marca, in stretta correlazione con la produzione pubblicitaria. Sarà con il pubblicitario francese Séguéla che l’analisi delle marche verterà maggiormente sull’aspetto psicologico, sul loro stile e sul loro carattere, iniziando a prendere le distanza dal concetto di immagine. Essa, l’immagine, diviene dunque la percezione che il consumatore ha della marca; al contrario l’identità si riferisce alla sostanza, alla sua espressione attraverso ogni canale, in ogni manifestazione della marca stessa. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 29 1 Chevalier, M; Mazzalovo, G; 2008:110 2 ibid. 3 Bruce Fairchild Barton (05/08/1886 - 05/07/1967): politico scritto e pubblicitario statunitense, ha fondato BDO divenuta poi BBDO (Batten, Barton, Durstin & Osborn) e lavorato al naming di General Motors e General Electrics.
  • 30. L’analisi della produzione di significato di un marchio, ovvero della sua manifestazione percepibile, presuppone che le marche siano sistemi che producono senso1. Trattandosi di un ambito squisitamente semiotico, ci viene incontro nello studio Jean-Marie Floch con uno strumento denominato “cerniera” [fig. 2]. Esso permette di stabilire diversi livelli di definizione di universo di marca. Tutti i segni, quindi, sono articolati in virtù di una cerniera, una liaison, tra significante (l’espressione della marca) ed il significato (il contenuto), separando così il contenuto dal contenente permettendoci di porre l’attenzione sulle invarianti che costituiscono la riconoscibilità della marca nel tempo. La cerniera ci permette di caratterizzare l’identità del marchio mediante la sua espressione (l’estetica) ed il suo contenuto (l’etica). In primo luogo è interessante notare come, da un punto di vista estetico, cioè della tipizzazione dell’immagine, delle stilistiche e cromatiche, i marchi nord europei quanto quelli nord americani si rifacciano sostanzialmente ad una estetica di stampo classico. Come vedremo nell’analisi del total look di Chanel, marchi come Lanvin, Vuitton, Jil Sander, ma anche esulanti dalla moda come Audi, si rifanno ad un preciso schema estetico caratterizzato da: • Linee nette e contorni definiti: elementi riconoscibili • Forme chiuse, visibili nell’interezza e piane • Spazio segmentato in zone autonome • Simmetria NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 30 1 Chevalier, M; Mazzalovo, G; 2008:110 fig. 2 - Livelli di analisi o di definizione del brand universe Fonte: Mazzalovo, G; Chevalier, M. 2008
  • 31. • Saturazione dei colori D’altro canto, brand più mediterranei come i nostrani Dolce&Gabbana o Versace, ma anche le spagnole Deƨigual o Loewe, hanno una caratterizzazione marcatamente barocca dove si riconoscono, al contrario: • Linee curve ed intrecci, ombre • Forme aperte, in connessione fra di loro • Spazio “coeso”, non vi è suddivisione in zone autonome ma esse hanno senso solo nell’insieme • Forte presenza di volumi creati dal movimento delle forme • Colori profondi, pieni Ma cosa accade quando l’identità del brand diventa la sua immagine? Il problema è analogo alla comunicazione interpersonale: se è vero che l’identità del brand è di natura emissiva e l’immagine ricettiva, un parallelismo può essere fatto tra le informazioni che io voglio dare di me e quelle che effettivamente vengono recepite. Il messaggio deve sottostare ad un inquinamento, mutamenti, omissioni e variabili che costituiscono la naturale dinamicità del processo comunicativo. L’identità della marca deve essere quindi il più in linea possibile con quella del consumatore e nella formazione della sua corrispettiva estetica bisogna tenere conto della cultura degli individui che ne adotteranno il prodotto. All’interno delle rappresentazioni sociali della marca, vi possono essere molteplici interpretazioni, per questo il messaggio da trasmettere deve essere il più omogeneo, chiaro e permanente possibile. Coerenza e permanenza dell’identità non significa però sedimentarla. L’evoluzione deve esserci, pena la scomparsa dell’appeal. Chanel seppe innovare negli anni Venti, ma seppe anche rinnovarsi nelle decadi successive trasportando e declinando all’evoluzione culturale della società i propri canoni. Ecco quindi che una identità rigida o colma di vincoli e limiti mal si adatterà all’evoluzione del mercato. Si tratta di un equilibrio fra il modellare l’estetica del marchio adattandola al tempo (ma senza NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 31
  • 32. stravolgerla) e scremarne l’etica valorizzando i valori (mi scuso per il gioco di parole) più in sintonia con il mercato. Evoluzione non è quindi sinonimo di sconvolgimento delle invarianti viste nello schema poco sopra, ma operare marginalmente, di fino, senza alterare la sostanza della marca, come vedremo in seguito analizzando sommariamente l’iter storico delle pubblicità di Chanel No.5, cartina di tornasole di questo equilibrio fra evoluzione estetica e mantenimento etico. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 32
  • 33. Capitolo 3 Interamente dedicato alla figura di Coco Chanel e alla sua omonima Maison di moda, questo capitolo ci permetterà di addentrarci nell’universo simbolico del marchio grazie ad una breve introduzione sulla biografia della stilista. Conoscere il background dell’artista risulta necessario per delineare i tratti salienti delle sue opere e la filosofia alla loro base. In seguito si analizzerà il caso emblematico della comunicazione televisiva del prodotto commerciale più famoso del marchio, il profumo “No.5”, che ci transiterà nel vivo dell’elaborato dove cercherò di evidenziare e analizzare le connotazioni stilistiche, grafiche e cromatiche caratteristiche dei prodotti della Maison; quella costellazione di minuscoli e, ai più, insignificanti dettagli che ci permettono di riconoscere un prodotto Chanel da quelli dei marchi concorrenti. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 33
  • 34. 3.1 Coco: la determinazione di una donna Cresciuta sin dalla giovane età in un orfanotrofio, Gabrielle Chanel, detta Coco, nacque a Saumur il 19 agosto 1883. La madre Jeanne, commerciante come il padre, morì quando Coco aveva soltanto dodici anni. Il padre, Albert, poco incline alla vita familiare e dedito ai vizi, non potendo accudirla, decise di affidare lei e le sorelle, Julia e Antoinette, ad un orfanotrofio. Sarà nei periodi di vacanza dagli zii a Varennes, vera e propria fuga dal carcere- orfanotrofio, che Gabrielle sentirà per la prima volta parlare di moda. La zia Costier le insegnerà a cucire e le trasmetterà la passione per i cappelli. Non li acquistava confezionati, bensì comprava forme in feltro che poi avrebbe tagliato e modellato. Grazie a queste elementari pratiche casalinghe Gabrielle capì che il cucito poteva essere molto più di una utile monotonia. Ormai diciottenne, fuggita da un matrimonio combinato nell’orfanotrofio di Obazine, Gabrielle viene accolta come convittrice all’Istituto Notre-Dame di Moulins. All’età di quasi vent’anni, nel 1902, Gabrielle lascia il collegio con l’aiuto delle religiose che si impegnano a “sistemarla” in una ditta specializzata in forniture per sarte e corredi. Presto affiancherà un secondo lavoro dove confeziona, su richiesta di alcuni clienti, abiti e gonne in orario extralavorativo, mansione che le consente di incrementare l’altrimenti esiguo salario e di scoprire quell’innata resistenza al lavoro che la caratterizzerà per tutta la vita. Licenziata poco tempo dopo a causa di un terzo lavoro come cantante nei café-concerto, lavoro che le valse il nomignolo di Coco, NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 34 Coco Chanel ritratta nel 1936 dall’amico Jean Cocteau: abito da sera, gioielli e capelli raccolti fonte: O’Hara Callan, G 2009:60
  • 35. Gabrielle trova in questo momento di stallo un ulteriore slancio: le clienti affezionate continueranno a rivolgersi a lei privatamente per le sue produzioni fornendole così un introito stabile e, soprattutto, l’indipendenza che cercava da sempre. Annoiata dalla vita a Moulins, si trasferirà nella città termale di Vichy abbagliata dal miraggio di poter cantare in pubblico. Presto questo sogno svanirà lasciando una Coco affranta ma pur sempre determinata. Sarà in quel periodo che conoscerà, a ventitré anni, il maresciallo Etienne Balsan, erede di una famiglia proprietaria di industrie tessili. Appassionato di equitazione, Etienne Balsan avrà la capacità di avvicinare a questo mondo la giovane Coco che sin da piccola considerava il cavallo come solo mezzo di locomozione. In quegli anni scopre l’eleganza dell’incedere, del galoppo, la fierezza del portamento delle bestie e gli abiti dei fantini impettiti nelle casacche di seta e i pantaloni bianchi: luccichii che la trascineranno a fare la cavallerizza. È negli stessi anni in cui convivrà con Balsan nella tenuta di Royallieu che Coco si avvicinerà all’alta società dell’epoca, conoscendo un ambiente che fino ad ora aveva sempre guardato di lontano. In concomitanza con quegli anni, scoprirà il piacere degli abiti maschili: Coco “ruba” a Etienne le camicie, le cravatte ed i lunghi mantelli sportivi con gli alamari facendosi riconoscere come una un po’ eccentrica ma che contribuiranno ad accrescere la stima da parte delle amiche di Etienne che si rivolgeranno a lei per farsi confezionare i celebri cappelli. Nel corso degli anni successivi, Coco, stanca di questa attività clandestina, inizia a pensare di aprire una boutique che abbia una immagine importante, in una zona rinomata di Parigi: tra Rue Royale e l’Opéra. Nel 1910 Gabrielle acquista, con il supporto del nuovo amante Boy Capel, amico di Balsan, un grande appartamento al numero 31 di Rue Cambon dove installerà il suo atelier: Chanel Modes. È proprio in quella via che nascerà il mito di Chanel, il modello di femminilità del Novecento plasmato sull’ideale di donna determinata, dedita al lavoro, sportiva, dinamica e autoironica. Negli anni Venti, poco dopo l’apertura della boutique, quest’ultima diventerà sin da subito polo di NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 35
  • 36. interesse per la moda di quella generazione, ma la consacrazione vera e propria la avremo dieci anni dopo con la nascita del celebre tailleur: un pantalone dritto o una gonna lineare sormontata da una giacca di visibile taglio maschile. Lo stile d’ora in poi sarà inconfondibile e una certa androginia sempre palpabile nelle sue sempre femminili creazioni. Chanel seppe rivisitare la moda del secolo adattandola ad una donna sportiva, comoda, libera tanto nei movimenti quanto formalmente. Nel 1916 ispirata dagli uomini al fronte e dalle donne costrette a sopperire la mancanza in fabbrica, adottò per le sue creazioni il jersey1, tessuto appannaggio della classe operaia, che contribuirà a creare il sempre presente contrasto “frivolezza femminile” - “praticità maschile”. Lo stile di Chanel muta negli anni seguendo la società: il tailleur si accorcia rimarcando l’emancipazione femminile, gli abiti si arricchiscono di catene dorate e accessori per sottolinearne la discreta ricchezza. Lo stile, abbiamo detto, muterà negli anni a seguire anche dopo la morte della stilista, avvenuta all’età di 87 anni in una stanza del celebre Hotel Ritz di Parigi, quando la direzione artistica passerà di mano a Karl Lagerfeld. Di vitale importanza, questa breve divagazione storica, ci consente di cogliere la massiccia presenza dei brand values nei prodotti e nella comunicazione del marchio. Come vedremo nel capitolo successivo, la creazione di profumeria più celebre della Maison, No.5, sarà fra i massimi esempi dell’identità stilistica della casa in quanto portavoce nel tempo dei codici stilistici e dei valori impressi dalla fondatrice. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 36 1 stoffa realizzata a maglia rasa, prodotto della maglieria industriale, risulta elastica sia in larghezza che in lunghezza e può essere realizzata con qualsiasi fibra tessile [fonte: O’Hara Callan, G. 2009]
  • 37. 3.2 L’advertising Tv di Chanel No.5: etica ed estetica di un profumo Attraverso gli anni, dalla nascita della comunicazione mediatica di prodotto, il marchio Chanel è da sempre rimasto intrinsecamente legato ai valori della sua fondatrice. Il concetto tutto femminile di eleganza, di sobrietà e understatement vengono costantemente ripresi in ogni strategia pubblicitaria organizzata dal marchio. Coerentemente con quanto detto nel capitolo precedente, vedremo ora, analizzando brevemente la storia delle campagne audiovisive del prodotto, come per No.5 l’etica sia sempre stata mantenuta nel corso degli anni, cesellando secondo i canoni del mercato l’estetica della comunicazione. Sin dagli anni ’50, il marchio Chanel ed il suo celebre profumo, la fragranza No.5 proposta dal chimico e profumiere Ernest Beaux all’allora giovane Coco, sono fortemente legati all’immaginario collettivo della seduzione. La stessa fondatrice chiese ai profumieri di produrre una fragranza che incarnasse una femminilità unica e senza tempo, distinguibile sempre. Da qui nacque No.5, un nome che nome non è, il numero del quinto flacone che il profumiere propose a Chanel, adottato per non confondersi fra i nomi, a detta di lei, ridicolmente altisonanti della concorrenza. I decenni successivi furono costellati dalla comunicazione del prodotto. Complice la dichiarazione di Marylin Monroe, che ammise di coricarsi vestita di due sole gocce di N°5, il profumo venne naturalmente associato al concetto di bellezza, seduzione, femminilità, ricercatezza. Venne così il turno di Carole Bouquet e Catherine Deneuve, portavoce della bellezza “made in France”. Se alla Deneuve venne riconosciuto il merito di scolpire una volta per tutte il nome del profumo nell’immaginario degli spettatori (si ricordi, nei tardi anni 70, lo spot dove, NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 37
  • 38. rivolgendosi a una platea, la Deneuve pronuncia il celebre slogan “Sapete cosa volete: Chanel”), la vera svolta narrativa la si deve a Carole Bouquet negli anni ’80 con due spot emblematici. Nel primo una femminile Bouquet vestita di un tailleur rosso bacia teneramente sulla fronte un signore attempato seduto alla poltrona del suo attico in un grattacielo per poi saltare alla guida di una sportivissima Ferrari nera e perdersi nel deserto. Qui sedurrà un giovane benzinaio e, alla fine dello spot si lancerà in un abbraccio sensuale con un uomo in camicia. Il commercial terminerà con l’attrice poggiata appena, con leggerezza, sulla bottiglia del profumo, che pronuncia lo slogan “Condividi la fantasia... Chanel No. 5”. Ecco allora la chiave di volta della filosofia della Maison: gli spot devono trasmettere l’immagine, ovviamente rivisitata in chiave moderna, della fondatrice. Successo, potere ma anche seduzione e, ancora, femminilità, divengono i cardini degli spot a venire. Il secondo spot recitato da Carole Bouquet [fig.1] vede l’attrice vestita di una morbida vestaglia di seta chiara che ne esalta le forme. Lo scenario è costituito da una camera, probabilmente una stanza d’albergo, di vago gusto art nouveau. Nell’ambiente regna la penombra, fuori dalle finestre si può udire chiaramente un temporale. L’aria che si respira è a metà strada fra il noir e il cinema erotico. Un uomo vestito elegante, di un abito nero, in perfetta contrapposizione simbolica con la purezza della candida e morbida vestaglia dell’attrice, le si para davanti. Vi è uno scambio di battute, lei con fare malizioso gli parla all’orecchio, i suoi occhi incrociano prima quelli dell’uomo e poi corrono sulle labbra di lui. La carica sensuale della scena è chiara e palesata dalle movenze dell’attrice che stringe tra le unghie smaltate rosso vivo la tipica bottiglia da farmacista, nascondendola dietro alla schiena quasi fosse una pozione d’amore. La donna, che nello spot precedente rappresentava l’emancipazione, il successo all’ennesima potenza, è ora ancora più femminile e dannatamente sensuale. Può essere la donna più potente del NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 38 fig.1
  • 39. mondo (si pensi alla Bouquet alla guida della Ferrari) ma non potrà mai rinunciare a un bacio o un abbraccio. Ecco che ancora una volta la protagonista di un commercial rispecchia in parte i valori culturali e sociali del tempo: emancipazione e carriera, sì, ma sempre con l’estrema femminilità della Maison. Sin da questi spot l’aria “francese” inizia così a permeare gli spot di Chanel: il riferimento alle atmosfere della città natale della stilista sono via via sempre più chiare a partire da ora. I richiami sempre più palesi a Parigi e alla Francia negli spot tanto di Chanel quanto delle altre marche di lusso francesi, contribuiranno a consolidare il doppio filo che lega Parigi al lusso. Questo sarà l’ulteriore filo conduttore dei seguenti prodotti pubblicitari televisivi. Chanel conclude il millennio con due spot, andati in onda nel 1998 il primo, e pochi anni dopo il secondo, curati per la prima volta da una figura estremamente conosciuta nel panorama cinematografico. La regia è affidata infatti a Luc Besson (noto regista e sceneggiatore di pellicole d’azione come “Il quinto elemento” o “I fiumi di porpora”). La trama di entrambi ricondurrà ad una moderna cappuccetto rosso che, in veste di ladra, tenterà di sottrarre un flacone del noto profumo. Nel primo spot [fig.2], che venne r e a l i z z a t o c o n l a c o l l a b o r a z i o n e dell’italianissimo Milo Manara, la vediamo percorrere un corridoio sospeso all’interno di un sylos [fig. 3] (interessantissimo riferimento a “1984”, commercial girato da Ridley Scott per Apple [fig. 4] dove una donna armata di martello si scontra con il grande fratello di Orwelliana ispirazione) e si insinua nel caveau di Chanel dove campeggiano intere pareti di bottiglie. L’oro e il rosso vivo dell’abito sono i colori predominanti dell’immagine: ancora una volta lusso e sensualità, opulenza ed erotismo. La ladra riesce nell’intento e ruba il flacone del prezioso ed iconico NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 39 fig.4fig.3 fig.2
  • 40. profumo, corre verso la porta quando dietro di lei si intravede un lupo che la insegue. Lei spalanca la porta, si gira e lo zittisce maliziosamente. Nello sfondo si vede chiaramente la Tour Eiffel illuminata. Il secondo [ f i g . 5 ] r i p r e n d e e s s e n z i a l m e n t e l a filosofia del precedente, viene cambiata solo l’ambientazione. Questa volta siamo al Musée d’Orsay. Il nostro cappuccetto rosso ruba ancora una volta il prezioso profumo, si salva ammutolendo i lupi che la inseguono con il suo solo fascino e si dissolve nel nulla lasciando in primo piano un portone dorato aperto sulla vista della Torre illuminata: ancora una volta ecco veicolati due dei valori fondamentali della Maison, il lusso (la ricchezza del prodotto in termini di ricerca, di unicità della fragranza) e la sua provenienza (la città della moda per eccellenza, la patria dell’haut de gamme). L’evoluzione e la crescente complessità degli schemi narrativi negli spot di Chanel, ci ha portato, nell’arco di pochi lavori, da un semplice slogan recitato al termine di un monologo faccia alla macchina da presa, fino ad un articolato messaggio pregno di retorica e simboli che invita il potenziale fruitore del prodotto ad effettuare una ricerca nel proprio patrimonio cognitivo e bagaglio culturale. Il culmine si ebbe alla fine del 2004 quando venne presentato nel prime time di un giorno di dicembre, lo spot diretto da Baz Luhrmann, celebre per aver ripreso la splendida Nicole Kidman in Moulin rouge!. La trama del film è breve ma non lineare. Le riprese, ovattate e sottoesposte, tese a creare un ambivalente alone tanto romantico quanto drammatico, mostrano e dipanano una narrazione articolata in un susseguirsi di flashback e flashforward, di débrayages ed embrayages che guidano lo spettatore secondo un percorso prestabilito che gli consenta di cogliere i punti salienti del racconto negli esigui centoventi secondi del filmato. I punti salienti del racconto sono pochi e facilmente riconoscibili dal target (sono le ore 20 e 30, le famiglie sono a tavola, il range di età è tanto ampio quanto sensibile alla tematica: l’amore contrastato) e NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 40 fig.5
  • 41. riconducibili al patrimonio della Maison. Troviamo ancora la sensualità racchiusa nella sinuosa e avvenente Kidman nei panni di una attrice che fugge esasperata dai flash dei fotografi; la metropoli quasi sempre ripresa in notturna tempestata di loghi “Chanel” che brillano qua e là incontrastati; e ancora una volta il rosso e l’oro, quasi sempre predominanti in ogni scena. Analizzando il prodotto audiovisivo in quanto testo, e considerandone quindi gli aspetti semiotici, emerge sin dalla semplice distinzione dei ruoli tematici l’evoluzione della comunicazione pubblicitaria televisiva di Chanel. Se negli anni ’80 il perno delle strategie era la veicolazione dell’immagine emancipata della donna, in questo spot l’accento viene posto, sì sulla donna di successo, ma altrettanto sulla sua ricerca di un tempo ed uno spazio intimo, esterno ai riflettori e al pubblico. Ecco allora che Chanel trasla, muta e si adegua ai canoni moderni caratterizzati dalla frenesia, dal voyeurismo, dalla ostentazione pubblica e spasmodica pur rimanendo ancorata ai suoi capisaldi. L’immaginario del marchio, la filosofia e il concetto di linearità, tanto plastica (la linearità delle forme, la pulizia degli abiti) quando formale, nell’aspetto sociale (eleganza, femminilità “pura”) prescindono dal contesto culturale e creano all’interno della sua trasposizione cinematografica un sistema simbolico secondario e a sé stante analogamente a quanto accade nello stile, che analizzeremo nel paragrafo successivo. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 41
  • 42. 3.3 L’identità: un look atemporale Chanel, ben prima che un logo riconoscibile al mondo, era un look, ovvero una proiezione di sé studiata nell’aspetto fisico, nell’abbigliamento. Nel caso di Chanel non si può però parlare di un look ma del total look, dell’insieme di complementi che costituiscono la silhouette femminile secondo Coco Chanel, dalla testa ai piedi. Il look di Chanel, sin dalla sua creazione, è stato caratterizzato da una riconoscibilità immediata grazie a determinati elementi che ne permettono una identificazione pressoché istantanea. Lo stesso Karl Lagerfeld, attuale AD della Maison, nel 1993 in occasione della pubblicazione del primo catalogo Chanel, dipinse cinque tavole con lo scopo di mostrare l’evoluzione della casa di moda. La prima venne intitolata “Les éléments d’identification instantanée de Chanel” [fig.1] e ha come sottotitolo un pragmatico “Il patrimonio spirituale di Chanel”. Vi troviamo la celebre scarpa bicolore, la borsa “2.55” matelassé, una spilla a forma di croce, la camelia ed un bottone con inciso il logo della Casa. La seconda delle tavole si intitola “Le triomphe de Coco” [fig.2] e mostra tre silhouette femminili abbigliate di cui una, di tutto punto, con accanto la dicitura “Le sac, les bijoux, les chaussure, le camélia, les boutons, les chaînes, tout est là”. In effetti è come dice: la figura in primo piano racchiude gli elementi costitutivi del patrimonio stilistico, quelli che, analogamente in linguistica, potremmo definire come unità della manifestazione sintagmatica della NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 42 Lagerfeld, K. 1993 fonte: Floch, J.M. 2004:1 Lagerfeld, K. 1993 fonte: Floch, J.M. 2004:2
  • 43. silhouette di Chanel. Collocando storicamente queste unità, emerge sin da subito la loro essenzialità: Chanel ha depennato nelle sue creazioni tutto ciò che non fosse strettamente correlato alla funzione prima dell’abbigliamento. Il vestito deve servire, essere pratico e confortevole: ripudia le tasche minuscole e puramente estetiche come anche i bottoni senza senso, dona un “gioco” alla schiena delle giacche perché “vi si possa giocare a golf come allacciarsi le scarpe”. Il vestito deve servire la libertà del corpo. Ecco che il look di Chanel, da un punto di vista della semiotica figurativa, mostra un contenuto narrativo volto a descrivere la conquista della libertà individuale declinata nella sua modernità e, quindi, nella sua costante evoluzione. La donna di Chanel è ora sullo stesso piano dell’uomo, è emancipata e in sua concorrenza. Il tessuto con cui fabbrica gli abiti ne è la dimostrazione: il jersey. Ancora una volta, dal punto di vista figurativo, i significanti dell’universo lavorativo maschile vengono assunti e conservati nelle creazioni con lo scopo di correlarli all’esatto contrario: la femminilità. I capelli corti, il tessuto degli abiti, come le cravatte, i berretti ed i gilet sono gli elementi distintivi di questo fenomeno. Una vera e propria inversione di significanti e significati dell’identità sessuale socialmente definita che concorse alla costituzione di quella che sarà, negli anni a seguire, la femminilità secondo Chanel: inequivocabile. È quindi chiaro che, dal punto di vista figurativo, il look di Chanel porta con sé due discorsi: da un lato la femminilità esaltata grazie al paradosso, dall’altro un riferimento alla conquista della libertà del corpo tutto rapportato al contesto storico. Il total look narra quindi di una donna alla scoperta della sua libertà. Ma questo total look concretamente che cos’è? È una sagoma, una silhouette, che occupa uno spazio, una forma sensibile, tangibile, ammirabile. Scelte di luce, di materiali, di colori ne compongono il risultato finale facendo di esso un prodotto visuale, plastico. Di primo acchito, la cosa che salta maggiormente all’occhio è che le unità che compongono il look sono identificabili e, soprattutto, apprezzabili singolarmente. Questo significa che se da un punto di vista NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 43
  • 44. semiotico vi è un sistema di relazioni fra i componenti visivi, da un punto di vista estetico, esso è presente solo in parte. Questo senso di nettezza contribuisce a dare all’insieme un’impressione di aplomb, di stabilità, di rigore. Analizziamo brevemente la silhouette tipo: 1.Le scapre: il fondo e le punte nere delle calzature forniscono un senso di chiusura della figura, di netta separazione dal terreno sulla quale si fonda e allunga il beige. All’opposto, in testa, troviamo un taglio di capelli disegnato, squadrato, definito, appena sopra ad un collo ben visibile che contribuisce a segmentare la figura. 2.Il “peso”: gli abiti, i tessuti, sono appesantiti con cordoncini o catene dorate. La caduta che essi compongono definisce i lineamenti con la medesima precisione di cui sopra, disegnando i contorni e, di conseguenza, la profondità della silhouette. 3.Gli accessori: bracciali, spille, collier, sono presenti con discrezione. Il ruolo di primo piano è dato alla linearità e alla pulizia del look. Masse accessorie possono “esprimersi” ma senza appesantire il senso generale. 4.La luce: i colori cardine delle produzioni Chanel (beige, nero, rosso soprattutto) insieme ai dettagli in diamanti, perle grigie, oro, contribuiscono alla luminosità degli abiti. Il materiale con cui son concepiti, jersey e tweed in particolare, afferra la luce e la trattiene facendo sì che non si perda in fastidiosi riflessi. Abbiamo così identificato quelle caratteristiche salienti dei prodotti Chanel, caratteristiche formali, topologiche e cromatiche intrinsecamente legate alla visione classica1. Contrapposta alla visione barocca, essa non è intesa come corrente epoca storica dell’arte occidentale, bensì come punti di vista, visioni. Ora, dal punto di vista pratico, vi è la NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 44 1 Come la intese Abraham Zemsz, ovvero sistemi visuali analizzabili dal punto di vista semiotico e costituenti il patrimonio di immagini, dipinti, disegni. (Zemsz, A Les optiques cohérentes, Actes sémiotiques - Documents EHESS-CNRS, Paris, 1985)
  • 45. necessità di dotare di un “senso semiotico” queste visioni, ovvero di dotare ciascuna di esse di un piano d’espressione e di uno di contenuto. In generale, la visione classica è caratterizzata dalla predominanza della linearità. Le figure, e le parti delle figure, sono nette e separate da contorni. Ogni parte che compone l’immagine è a sé stante ed estrapolabile, isolata. Al contrario la visione barocca predilige il concatenamento, il dettaglio contribuendo a una sensazione di generale dinamicità, tutta opposta alla stabilità suggerita dalla visione classica. Le figure di stampo classico costituiranno dunque forme chiuse, delimitate, immagini nelle immagini, mentre quelle di stampo barocco parranno in evoluzione, espansione. In Chanel le due visioni coesistono in equilibrio: gli effetti plastici del barocco, gli accessori, la loro interdipendenza, si riconoscono nel total look ma godono sempre e comunque di una localizzazione circoscritta, in equilibrio con la linea dritta e netta del look in generale. Il gioiello, in particolare, concorre nella significazione dell’abito: non è più in primo piano per la sua singola preziosità ma per il rapporto che esso ha con gli altri dettagli che contribuiscono a rendere prezioso e lussuoso l’abito analogamente a quanto detto riguardo il lusso nel capitolo 1.2. Un bricolage, quindi, di stili e visioni, di unità spostate da un sistema semiotico ad un altro: la scelta di un tessuto per le sue qualità tecniche si rivela essere poi una scelta dettata sul gusto estetico, sulla tattilità. Queste scelte rifletteranno poi la silhouette come un fatto di stile proprio grazie alla contrapposizione di configurazioni classiche e barocche degli accessori e dei dettagli essenziali che vedremo brevemente di seguito. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 45
  • 46. 3.3.1 Essenziale: la catena dorata La catena dorata identifica una borsa 2.55 al primo colpo d’occhio, sia che essa sia intrecciata ad una striscia di cuoio nelle borse sportive da giorno, sia che sia sola in tutta la sua lunghezza, per la sera. Fra i codici di Chanel, la lunga tracolla d’orata è senza dubbio fra i più famosi e riconoscibili. Concepita per dare più libertà alle mani delle donne, la tipica catena dorata è presente anche in numerosi capi di abbigliamento, soprattutto giacche e cardigan, con lo scopo di impreziosirli discretamente e di dar loro una maggiore pesantezza. La catena, come abbiamo detto, è presente in moltissimi accessori del total look come bracciale dell’orologio “Première” disegnato per Greta Garbo. Facente parte delle reminiscenze attinte dalla ricchezza dell’arte russa e bizantina, la brillantezza dell’oro o dell’acciaio si impone al pari del nero e del bianco, vero marchio di fabbrica della Maison, incarnando profondamente lo stile e la personalità della fondatrice: secondo Chanel il solo vezzo concesso alla sobrietà erano gioielli e collane. 3.3.2 Essenziale: i fili di perle Christian Dior disse di Coco Chanel che rivoluzionò la moda con un semplice pullover nero e dieci giri di perle. Ed è vero, le perle sono la grande passione della creatrice: vere o finte che siano, pulite e rotonde o intarsiate in stile barocco, applicate su una croce o sul cinturino di una scarpa col tacco, le perle bianche incarnano, insieme alla catena, lo stile di Chanel conferendo al look predominato dal nero, una lucentezza elegante e discreta, ponendo l’accento sul contrasto fra le linee nette degli abiti e la morbidezza delle curve delle perle. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 46 Collezione Haute Couture P-E 2005 Fonte: Stiletto n° 5, 05/05/2005:30
  • 47. Collier, cinture, spille per i capelli ma anche pochette da sera interamente ricoperte, le perle sono presenti in ogni stagione da quando Karl Lagerfeld ne ha reintrodotto il metodo di lavorazione 3.3.3 Essenziale: la camelia Di tanto in tanto appare nelle collezioni, soprattutto primaverili, quelle più inclini ai fronzoli e ai vezzi. Perché Chanel scelse la camelia? Se ne sa poco a riguardo, in realtà: si narra che sia a causa del primo bouquet di fiori che Boy Capel (capitolo 1.1 - Biografica) le donò. Ma la camelia è anche sinonimo di bellezza discreta, di elegante femminilità, raffinata. La sua rotondità geometrica si accorda perfettamente al contesto squadrato delle linee di Chanel: la possiamo trovare declinata in ogni creazione. Ideata in origine in tessuto bianco, aveva il semplice scopo di adornare e arricchire l’abito scuro, analogamente alla funzione svolta dalle perle. Sviluppata in seguito in velluto, seta, cuoio, ma anche in porcellana per i capi di alta moda, viene accostata ai materiali e ai colori scelti di volta in volta per le stagioni risultando così in un accessorio onnipresente nelle collezioni. 3.3.4 Essenziale: il bianco e il nero Lo sport e l’eleganza, femminilità data da tessuti “maschili”, classico e barocco: lo stile di Chanel nasce dalla coesistenza dei contrari, dal gioco di opposizioni. L’abito nero, di taglio diritto, impreziosito e illuminato da fili di perle bianche e rotonde o da camelie; la confezione bianco e nera e la stessa etichetta del profumo No.5, bianca, semplice applicata sulla bottiglietta come fosse una produzione casalinga; oppure lo stesso logo della NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 47 Collezione Haute Couture P-E 2005 Fonte: Stiletto n° 5, 05/05/2005:34
  • 48. Maison, stampato bianco su sfondo nero, o viceversa. Il bianco e il nero sono le due facce dell’anima della fondatrice come lei stessa ammise: “Ho detto che il nero era tutto. Il bianco è lo stesso. Sono di una bellezza assoluta. È l’accordo perfetto. Guardate [per esempio] una donna vestita di bianco o di nero ad un ballo: non si vede che lei.1”. Ed è di parola: le collezioni, tranne rari casi di trame variopinte (ma pur sempre attinenti ai canoni), e senza considerare il rosso, altro colore di rilievo nella couture di Chanel, si destreggiano sempre secondo questi due colori. Camice bianche sotto tailleur neri, le celebri scarpe da sera con la punta nera, ma anche gli stivali interamente bicolore o lo splendido J12, l’orologio ideato da Jacques Helleu2, interamente scolpito nella ceramica bianca o nera. Ritroviamo i colori anche nella cosmetica, dove il nero intensifica uno sguardo e il bianco lo drammatizza in un gioco di ombre che per Coco Chanel “sono altrettanto belle che il viso stesso3” Prescindendo dalle mode, la dualistica coppia incarna ancora oggi l’essenza dell’eleganza e del lusso idealizzata dalla creatrice, sottolineando come la semplicità estetica sia di più gradevole effetto rispetto ad uno sfarzo caotico e ridondante. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 48 1 Morand, P 1996 2 Jacques Helleu: è stato direttore artistico di Chanel Profumi e Chanel Orologeria per 51 anni, fino al 1 Ottobre 2007, quando morì a Parigi. 3 ibid. Collezione Haute Couture P-E 2005 Fonte: Stiletto n° 5, 05/05/2005:38
  • 49. Conclusioni Abbiamo visto nel corso dell’elaborato che il concetto di lusso nasce dalla società ed evolve insieme ad essa tessendo un legame biunivoco: da un lato esso ha un ascendente sul comportamento, sulle azioni degli individui che lo adottano come indice di prestigio, dall’altro son proprio gli individui, i fruitori dei beni di lusso, a ridefinirne le connotazioni di volta in volta. Ciò che in passato è nato come appannaggio di pochi, è divenuto grazie alla nascita del consumismo globale indice della propria estrazione sociale dando alla luce sostanzialmente due fenomeni: in primo luogo ciò che Veblen ha definito lo “sciupio vistoso”, ovvero l’ostentazione del possedimento, ed in secondo luogo il progressivo delineamento di un nuovo consumatore sempre più attento al valore simbolico e “sociale” dell’oggetto a discapito della sua funzionalità. È su queste due nozioni che si è via via strutturata a partire dagli anni Ottanta, una strategia di comunicazione peculiare dei luxury brand, quella basata sulla definizione di valori aziendali che consentano da una parte la differenziazione del marchio nella variegata moltitudine offerta dal mercato, e dall’altro una forma di adozione selettiva da parte del consumatore. Il consumatore moderno, come abbiamo visto, ha soddisfatto ampiamente i propri bisogni primari e si concentra ora sulla esperienza di acquisto: deve essere entusiasmante, appagante, coinvolgente. L’acquisto deve tramutarsi in una avventura, un mezzo di gratificazione ed evasione, sensazioni trasmesse dall’atto in sé ancora prima che dalle caratteristiche peculiari del prodotto. Egli ha bisogno di riconoscersi nel marchio e di vedere in esso una estensione del suo essere. I brand in questo modo non saranno più un semplice nome, un logo stampato sul prodotto, ma si fanno portavoce di un sistema simbolico in perenne mutazione, al pari passo con il mercato a cui si NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 49
  • 50. riferiscono. Nell’elaborato è stata presa in analisi la maison Chanel poiché è stata pioniera in questo caso, concentrandosi sin dal principio su una strategia di comunicazione del proprio universo di marca fondata sull’ereditarietà dei valori della fondatrice. Il dualismo del marchio, le sue contraddizioni e contrapposizioni, la semplicità estrema delle linee, hanno dettato nel tempo i canoni di uno stile divenuto esso stesso simbolo di femminilità imprescindibile, giunto ai giorni nostri attraverso due guerre mondiali e innumerevoli modificazioni del tessuto sociale. Gabrielle Chanel, prima, e Karl Lagerfeld dopo, hanno saputo costruire nell’arco di quasi un secolo, una immagine del marchio tanto ancorata al passato storico della fondatrice, quanto attuale nella sua estetica, coniugando sapientemente stili, visioni e creatività che hanno avuto il potere di giungere fino ad oggi pressoché immutati e quindi riconoscibili dal pubblico a colpo d’occhio. Le scelte cromatiche del packaging dei prodotti, l’appeal estetico sempre essenziale ed elegante, il marcato romanticismo1 degli spot televisivi e la stessa comunicazione del brand in senso lato (basti pensare che la stessa azienda francese mi ha fornito il materiale di cui avevo bisogno semplicemente domandandoglielo), contribuiscono a formare una idea del marchio vincente, sempre sulla cresta dell’onda anche se non à la mode. È la continuità di cui si è parlato nel capitolo 1.3, dimostrazione che una difficile scelta quale si rivela essere quella di mantenere inalterati nel tempo i canoni di un marchio di moda, se ben strutturata e declinata negli anni, fornisce due grandi vantaggi: la fedeltà del pubblico, di importanza vitale per un marchio, e la perenne riconoscibilità. A più riprese si è parlato di declinare nel tempo i tratti essenziali del brand, di adeguarli al contesto. Floch delineò quelli della Maison Chanel nella sua opera “L’indémodable total look de Chanel2”, molti anni prima della stesura di questo elaborato, eppure dopo tanto tempo li ritroviamo a NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 50 1 nel senso etimologico del termine, strutturati, soprattutto negli ultimi anni, come veri e propri romanzi trasporti sul piccolo schermo. 2 all’interno di Floch, J.M. Identités Visivuelles (1995)
  • 51. costituirne l’odierno total look, semplicemente arricchiti, plasmati intorno alle necessità dei consumatori, ai gusti, all’epoca. Analogamente la medesima cosa è successa ai prodotti pubblicitari: Chanel ha saputo sfruttare appieno il potere mediatico adattandosi alle innovazioni tecnologiche. Da spot reclamizzanti il prodotto affiancato ad una testimonial (fra i modelli di comunicazione pubblicitaria più semplice) si è giunti a veri e propri cortometraggi caratterizzati da una trama avvincente ed articolata capace di trascinare, come nell’ultimo caso analizzato, lo spettatore al suo interno, fornendogli la chiave per leggere il testo e viverlo in prima persona: riconoscercisi. Ecco allora il punto di forza della strategia di comunicazione adottata da Chanel, un sapiente mélange di romanticismo e marketing che coinvolge e avvolge il consumatore del nuovo millennio fornendogli un bouquet di simboli che richiamano ora il potere, ora una discreta eleganza, ora la discreta femminilità di una donna sì, determinata, ma sempre donna. Particolari di racconto durato decine di anni che, parafrasando la Calefato (Lusso, 2003:30), dona linfa al prodotto stesso suscitando il desiderio di essere posseduto proprio in virtù della vita che reca nascosta al suo interno, quell’alone etereo e quasi mitologico che alcuni prodotti possiedono; che trainano il luxury brand nella costellazione dei marchi senza tempo. NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 51
  • 52. Bibliografia Baldini, Massimo 2005 Semiotica della moda Armando Editore, Roma Barthes, Roland 1977 Système de la mode Edition de Seuil (trad. it Il sistema della moda Einaudi, Torino 1970) Bassani, Marco; Magne, S.; Ben Youssef, K. 2008 Brand Design - Construire la personnalité d'une marque gagnant Editions De Boeck, Paris (trad. it. Brand Design - Costruire la personalità di una marca vincente Alinea Editore, 2002) Brioschi, Arianna 2000 Comunicare il lusso, Tesi di Laurea Triennale in Comunicazione Interculturale, Università Ca’ Foscari, Venezia Brunel, Charlotte 2005 Culture de rang in Stiletto, Stiletto Editions, Paris, n° 5, 05/05/05, p. 32 Calefato, Patrizia 2003 Lusso Meltemi, Roma Cappellari, Romano 2008 Il marketing della moda e del lusso Carocci, Roma Chevalier, Michel; Mazzalovo, Gérald 2008 Luxury Brand Management: una visione completa sull'identità e la gestione del settore del lusso Franco Angeli, Milano Codeluppi, Vanni 2002 Che cos'è la moda Carocci, Roma Conti, Quirino 2005 Mai il mondo saprà. Conversazioni sulla moda Feltrinelli, Milano Curcio, Anna Maria 2007 Sociologia della moda e del lusso Franco Angeli, Milano Fabris, Giampaolo 2003 Il nuovo consumatore: verso il postmoderno Franco Angeli, Milano NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 52
  • 53. Floch, Jean Marie 1990 Sémiotique, marketing et communication Puf, Paris (trad. it. Semiotica, Marketing e Comunicazione - Dietro i segni, le strategie Franco Angeli, Milano, 2002) 1995 Identités Visuelles Puf, Paris (trad. it. Identità Visive Franco Angeli, Milano, 1997) 2004 L’indéamodable total look de Chanel Editions du Régard, Paris Gidel, Henry 2000 Coco Chanel - Biographie Editions Flammarion, Paris (trad. it. Coco Chanel - La biografia Lindau, Torino) Leone, Roberta 2009 La comunicazione dei luxury brand Tesi di laurea triennale in Comunicazione Interculturale, Università di Milano Bicocca Morand, Paul 1996 L’allure de chanel Hermann, Paris Marrone, Gianfranco 2007 Il discorso di marca: modelli semiotici per il branding Laterza, Roma O’Hara Callan, Georgina 2009 Dictionnaire de la mode Thames & Hudson, Paris Palamara, Giada; La Marca, Patrizia 2005 Strategie di nicchia nel settore moda Ricerca di dottorato in Economia, Università di Pavia Porret, Karine 2005 Maillons griffés in Stiletto, Stiletto Editions, Paris, n° 5, 05/05/05, p. 30 2005 La fleur tromphée in Stiletto, Stiletto Editions, Paris, n° 5, 05/05/05, p. 34 2005 Les inséparables in Stiletto, Stiletto Editions, Paris, n° 5, 05/05/05, p. 38 Pozzato, Maria Pia 2001 Semiotica del testo Carrocci, Roma Sapir, Edward 1935 Fashion in Encyclopædia of the Social Sciences - vol VI Collier-MacMillan, New York Saussure, Ferdinand de 1916 Cours de linguistique générale Payot, Lausanne-Paris (trad.it Corso di linguistica generale Laterza, Bari) Simmel, Georg 1895 La moda (trad. it. Editori Riuniti, Roma, 1976) NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 53
  • 54. Testa, Annamaria 2007 La pubblicità - Suscitare emozioni per accendere desideri Il Mulino, Bologna Veblen, Thorstein 1899 La teoria della classe agiata (trad. it. Mondadori, Milano, 1969) Volli, Ugo 1990 Contro la moda Feltrinelli, Milano NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL 54