1. Crowdfunding
e contenuti liquidi
Il giornalismo partecipativo e digitale di @tigella
conversazione con Claudia Vago
a cura di Mario Tedeschini Lalli
N ella primavera del 2012 una giovane donna si è seduta da-
vanti a me in redazione e mi ha chiesto che cosa mi aspet-
tassi da lei e dal suo lavoro. Sono un vecchio giornalista, di
agenzia, di quotidiano, digitale, multimediale e di tanto altro
ancora, insomma un giornalista veramente vecchio e nella mia
vita professionale non era mai capitato di essere consultato come
«editore». Un editore che insieme a qualche altra decina di «edi-
tori» come me aveva donato qualche euro per mandare lei, la
giovane donna, negli Stati Uniti per raccontarci il movimento
Occupy Wall Street e lei ci stava incontrando uno per uno per
chiedere consiglio, sapere perché l’’avevamo finanziata e che cosa
ci aspettavamo dalla nostra improbabile «inviata». La donna si
chiama Claudia Vago, all’’epoca aveva 33 anni ed era più nota al
grande pubblico –– dal quale aveva pescato i suoi occasionali
«editori» –– con il nome dato al suo blog: Tigella (http://
tigella.altervista.org/), come la tigella modenese, uno dei prodotti
di quell’’Emilia dove fino ad allora Claudia aveva vissuto e lavo-
rato come responsabile della comunicazione di una serie di enti
pubblici e aziende locali. È un fatto però che al momento in cui
scrivo, se si cerca «tigella» su Google si ottiene come primo link
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Problemi dell’’informazione / a. XXXVII, n. 2, agosto 2012
2. il lavoro dei giornalisti/2
l’’account Twitter di Claudia «@Tigella» Vago, e solo al secondo
posto la voce di Wikipedia sul prodotto dal quale ha preso il
nome.
Gli è che @tigella è diventata un fenomeno su Twitter, quasi un
personaggio che migliaia di «follower» seguono per essere infor-
mati. Il tutto era cominciato nel gennaio 2011 con lo scoppio
della rivolta popolare in Tunisia, punto di avvio di quella che
sarebbe stata poi definita la «primavera araba». Claudia seguiva
alcuni account tunisini, insieme al marito di origine in parte tu-
nisina, e cominciò a valutarli e ri-twittarne i contenuti (cioè a
rilanciarli), diventando in Italia uno dei punti di snodo dell’’in-
formazione sulla rivoluzione araba sui network sociali. Una popo-
larità che l’’ha spinta l’’anno successivo a tentare un esperimento
di «crowdfunding»: chiedere al proprio pubblico un finanzia-
mento per andare di persona negli Stati Uniti a raccontare da
vicino un altro movimento popolare, quello che era iniziato il 17
settembre 2011 sotto il nome di Occupy Wall Street.
Claudia ce l’’ha fatta, ha raccolto 2.600 euro in una decina di
giorni grazie alla piattaforma «Produzioni dal basso –– nuove co-
munità economiche» (http://www.produzionidalbasso.com) e alla
fine di aprile è partita per New York, dove ha assistito «da den-
tro» a manifestazioni e cortei, per poi spostarsi a Chicago dove il
movimento «Occupy» intendeva contestare il vertice della NATO
che si svolgeva in quella città. A un certo punto –– lo leggerete
nell’’intervista –– Claudia non ha retto alla tensione e alla pressio-
ne psicologica del confronto tra manifestanti e polizia, ha molla-
to, è tornata a New York, e poi in Italia. A luglio «Problemi del-
l’’informazione» ha deciso di intervistarla per fare con lei un bi-
lancio dell’’esperimento.
Per quanto riguarda questo scrivente «editore», il bilancio non
può che riferirsi alle sue attese che –– spiegò a Claudia in quell’’in-
contro di primavera –– avevano pochissimo a che vedere con l’’og-
getto del suo racconto (il movimento Occupy), e moltissimo con
il metodo. Proprio sul piano del metodo la sottoscrizione di
Claudia suscitò qualche polemica, specie da quanti la accusavano
di «svendere» il proprio lavoro. Allo stesso tempo altri lodarono
l’’impresa come un esempio del «giornalismo del futuro».
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3. Crowdfunding e contenuti liquidi
Chi scrive ritiene che l’’esperimento sia stato utile e interessante,
anche se sul piano del contenuto è stato assai meno innovativo di
quanto si sarebbe potuto sperare. Qualche riflessione in proposito:
1. Interessante la dimensione del finanziamento diffuso
(crowdfunding), una tecnica che si va diffondendo ampiamente
in diversi settori. Nell’’estate del 2012, per esempio, l’’attrice
Whoopi Goldberg ha raccolto 65.000 dollari sulla piattaforma
Kickstarter per finanziare un documentario che intendeva girare.
E quasi contemporaneamente a Claudia Vago, un altro giornali-
sta italiano, Andrea Marinelli (http://iltradingpost.wordpress.com),
ha raccolto finanziamenti per continuare a seguire tutta la sta-
gione delle primarie presidenziali negli Stati Uniti. Il sistema fun-
ziona, non sarà «il futuro del giornalismo», ma può esserne parte
–– anzi, ne è già parte.
2. Quanto alle accuse che le sono state rivolte di «svendere» il
proprio lavoro, chi scrive è d’’accordo con quello che Claudia af-
ferma nella intervista, ma va oltre: quelle polemiche dimostrano
l’’incomunicabilità e l’’irriducibilità del mondo digitale al mondo
analogico.
È vero, probabilmente questo «deprezza» il lavoro del giornalista,
ma (ci piaccia o no) è un lavoro il cui prezzo nell’’universo digi-
tale tende a zero, ed è abbastanza clamoroso che comunque
Claudia sia stata «pagata» per questo e se non lo faceva Claudia
lo avrebbe fatto qualcun altro, lo ha fatto in effetti qualcun al-
tro, vedi qui sopra Andrea Marinelli. Il digitale disintermedia e
occorre fare radicalmente i conti con questa realtà, non ci posso-
no essere né istituzioni o norme che re-intermedino l’’informazio-
ne giornalistica (della serie: «Tu a New York non ci vai e non
scrivi nulla perché non hai la patente e non vieni pagata quanto
teoricamente ––?–– dovresti»), né soluzioni politico-moralistiche
(«convincere» le Claudie di questo mondo che non è «giusto»
non muterebbe la realtà della disintermediazione).
L’’esperimento di Claudia piuttosto dimostra come anche nel di-
gitale sia possibile creare valore e come, in una certa misura, la
«reputation economy» funzioni: con il suo lavoro precedente, con
la sua credibilità così ottenuta, Claudia è riuscita ad ottenere un
prezzo, per quanto basso.
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4. il lavoro dei giornalisti/2
3. Anche intorno a questo episodio si sono ripetute le diatribe sul
giornalismo professionistico e su quello amatoriale. Questione mal
posta, essendo quello del digitale un universo dai confini permea-
bili. Claudia stessa –– lo leggerete –– mette ripetutamente le mani
avanti per spiegare che non è «una giornalista», che non ha mai
pensato di esserlo, ecc. È una excusatio non petita: quello che
Claudia è andata a fare in America è giornalismo, che lo volesse
o no, buono, cattivo, ma giornalismo. Un giornalismo fatto da
una –– forse –– non giornalista.
D’’altra parte, andando avanti nella chiacchierata, @tigella parla
di fatto da giornalista: lamenta l’’assenza di una «redazione» alle
sue spalle, ammette che lo scoprire, verificare e raccontare storie
è una funzione tanto sua quanto dell’’ipotetico «giornalista» e ––
specialmente –– accetta di discutere gli scopi e gli esiti del suo
esperimento nell’’ambito di una discussione sul giornalismo.
Anche per questo è utile che l’’esperimento sia avvenuto.
4. I risultati sul piano del contenuto sono stati inferiori alle attese
della stessa Claudia. Claudia ha toccato con mano i limiti di un
approccio non professionale a un mestiere complicato. Si badi:
qui si intende professionale non in senso giuridico, ma in via di
fatto: mancanza di una redazione di supporto, mancanza di pre-
parazione pratica e psicologica, scarsa abitudine alla pressione.
Questo non vuol dire che non sia possibile avere tutto questo
anche in ambito amatoriale, o semi professionistico, solo che in
questo caso non c’’è stato.
5. Sempre sul piano dei contenuti era particolarmente interessan-
te l’’idea –– questa, sì, assai distante dai modelli tradizionali di
reportage giornalistico –– di produrre contenuti «liquidi», singoli
elementi informativi (un tweet, un video, un piccolo testo, una
foto) da collocare in una griglia dove su un asse si sarebbero or-
dinati i «luoghi», le «persone», gli «oggetti» ecc., mentre sull’’al-
tro asse si sarebbero ordinati gli eventi («cortei», «discussioni»,
«arresti», o cose così). Sarebbe stato così possibile «leggere» i con-
tenuti secondo i percorsi di maggiore interesse per i fruitori, ad
esempio: tutti gli arresti, tutti gli arresti in quel luogo, tutte le
persone in quel luogo in quel giorno, ecc. Sarebbero stati forniti
tanti «puntini» che ognuno avrebbe potuto unire secondo propri
190
5. Crowdfunding e contenuti liquidi
criteri creando un proprio «disegno». Claudia stessa si ripropone-
va di offrire a un certo punto un proprio disegno.
6. La griglia è un’’idea che Claudia ha mutuato da Federico Ba-
daloni, che si occupa di architettura dell’’informazione e proget-
tazione web per il Gruppo Editoriale L’’Espresso, un’’idea la cui
realizzazione è rimasta tuttavia molto al di qua delle speranze. Il
«disegno» di Claudia non si è concretizzato né in corso d’’opera,
né successivamente. Nell’’intervista –– effettuata a luglio –– ha an-
nunciato che avrebbe pubblicato qualcosa per il 17 settembre, in
occasione del primo anniversario del movimento Occupy Wall
Street. Ciò che è stato effettivamente messo in rete (http://
occupywallst.altervista.org/), al momento della redazione di que-
sta intervista appariva in realtà ancora molto lontano da ciò che
la stessa autrice si proponeva.
7. Per quanto riguarda la crisi psicologica subita verso la fine
della sua impresa è curioso notare –– nel racconto di Claudia ––
un tipico scambio caporedattore-inviato, della serie «Non ti la-
mentare, muoviti e torna sul posto», solo che il «caporedattore»
era in realtà un lettore-editore.
Sempre a proposito della crisi è bene tener presente che tecnica-
mente non è possibile per gli stranieri lavorare come giornalista
negli Stati Uniti se non si ha un visto stampa sulla base di un
accredito di una testata: fosse stata fermata dalla polizia, Clau-
dia avrebbe dovuto scegliere tra dire che stava manifestando (ed
essere incriminata con una delle numerose strane accuse che la
polizia ha fatto ai manifestanti arrestati) o affermare di essere
una giornalista, ma senza il visto rischiava l’’espulsione dal Paese.
Basta commenti, seguono ampi estratti dell’’intervista a Claudia
Vago, raccolti per argomento. Il testo –– trascritto dalla registrazio-
ne audio –– è stato in parte accorciato ed editato solo in modo
molto lieve. L’’ordine degli argomenti affrontati è quello dell’’in-
tervista originale, con l’’eccezione del secondo e terzo paragrafo
della parte su «giornalismo professionale» o no, che sono stati
pronunciati successivamente e aggregati al primo per ragioni di
coerenza narrativa. Dovunque si interrompa la trascrizione delle
parole di Claudia compare il segno [...], tra parentesi quadra le
pochissime interpolazioni redazionali.
191
6. il lavoro dei giornalisti/2
C he cosa fa «Mi sono sempre definita una contastorie, nel senso che attraver-
Claudia Vago, so la rete quello che faccio per lavoro, per passione, per passare il
di che cosa
si occupa tempo, è raccontare storie. Che sia il racconto di un territorio, dei
suoi prodotti tipici, dei suoi personaggi, la sua storia, le sue ca-
ratteristiche ecc., per promuovere il turismo in una regione o che
sia raccontare una rivolta in una qualche parte del mondo [...]
una contastorie digitale –– perché i pezzi, i frammenti che cucio
insieme per costruire una storia arrivano dal web. [...] Nel mon-
do anglosassone chi fa quello che faccio io si chiama ““social media
curator””. È qualcuno che cura i flussi di informazioni che circo-
lano sui social media. E curare significa... intanto trovarli [...]
sembra una cosa banale, ma non sempre è così, trovarli, filtrarli,
capire di che cosa si sta parlando, capire da chi provengono le
informazioni, quindi capire se la fonte è una fonte affidabile e
autorevole, se l’’informazione è vera o no, se è completa o no e
sulla base di questo decidere se usarla e come usarla».
Il suo rapporto «Non mi sono mai definita una giornalista, perché non lo sono.
con il giornalismo Non ho esperienza di giornalismo, non ho mai lavorato per una
redazione, avrò scritto quattro articoli in croce per un giornale
locale dieci anni fa, quindi non mi posso definire una giornali-
sta». [...]
«[Anche dopo essere tornata]continuo a non pensarmi come gior-
nalista, perché sarebbe assurdo insomma. Anche perché non è
strettamente giornalismo quello che faccio, per cui è forse ridut-
tivo dire giornalista. Poi è chiaro che spesso, per semplificare,
quando anche a New York mi dovevo presentare a qualcuno di-
cevo che ero una giornalista free lance, che era molto più semplice
di dover stare a spiegare... poi quando si entrava nel dettaglio
spiegavo la faccenda della ““curation””, il lavoro che avevo fatto
sulla primavera araba...». [...]
«È complicato, ecco. [...] Per me giornalismo è raccontare storie,
quindi tutto sommato non è molto diverso da quello che faccio.
È osservare il mondo, capire quello che si guarda per poi poterlo
raccontare, per me è questo e non è molto diverso da quel che
faccio. In realtà io osservo –– che sia attraverso lo schermo di un
computer o andando in un posto –– [io] cerco di capire quello che
192
7. Crowdfunding e contenuti liquidi
mi sta passando davanti agli occhi e cerco il modo di
riorganizzar[lo][...] per costruire una storia da raccontare».
«Prima di andare a New York ero questo, facevo questa cosa, solo Le ragioni
ed esclusivamente attraverso uno schermo di computer [...] fil- dell’’esperimento
trando contenuti che altri condividevano sui social network. E
poi ho pensato di fare questo salto, di provare a vedere com’’era
essere dall’’altra parte». [...]
«Per capire meglio questo movimento, Occupy Wall Street [...] mi
interessava vederlo da vicino, perché attraverso uno schermo di
computer comunque si ha una visione parziale delle cose, manca
il contesto, mancano un sacco di elementi che servono a capire e
meglio. [...] È un anno che lo seguo questo movimento e sentivo
il bisogno, per continuare a raccontarlo, di vederlo e quindi ho
detto: ““Facciamo il passo dall’’altra parte dello schermo””».
«Mi sono anche detta che tutto sommato –– adesso la dico magari
un po’’ brutalmente –– io era più di un anno che facevo in qual-
che modo un servizio a chi mi seguiva, con tanto di riconosci-
menti, di gente che mi ringraziava, [che diceva] ““Se non ci fossi
tu queste cose non le sapremmo...”” e allora mi sono detta: perché
non provare a chiedere a queste persone che sono così contente di
quello che faccio, che mi ringraziano eccetera, se hanno voglia
non dico di investire una grande cifra ma dieci euro per aiutarmi
a coprire le spese sostanzialmente, o poco più, per andare a ve-
dere questa cosa di Occupy Wall Street? Lì è nata l’’idea di fare
del crowdfunding per finanziare la missione».
«A me interessava principalmente riuscire a farla questa cosa più Le polemiche
che guadagnarci uno stipendio. [...] Non [avevo intenzione di di- prima della
partenza
scutere] se questo sia un modello sostenibile o no per il giornali- sui modelli
smo, c’’era chi diceva di no perché con così pochi soldi non ci di giornalismo
campi. E questo è vero, però a me principalmente interessava
riuscire a farla questa cosa, dimostrare che si può fare, per poi
eventualmente la prossima volta alzare il prezzo e dire: oltre alle
spese mi pagate anche le ore di lavoro che ci metterò per elabo-
rare tutto il materiale che avrò raccolto e prodotto. Però credo che
fosse importante riuscire a farlo, dimostrare che c’’è anche questo
193
8. il lavoro dei giornalisti/2
modo per fare le cose, che da noi era una novità –– infatti è stato
accolto come una rivoluzione, ma in realtà inchieste prodotte in
questo modo altrove nel mondo sono la normalità. Mi interessava
provare a importare un modello».
«Non è un modello replicabile da chiunque. Io ce l’’ho fatta perché
mi sono costruita una reputazione in qualche modo, in un anno e
mezzo di lavoro fatto credo bene, per cui mi è stato facile trovare
persone che mi sostenessero, mi finanziassero. Allo stesso modo
Andrea Marinelli, che poco dopo di me ha fatto anche lui la sua
raccolta fondi per seguire le primarie repubblicane in giro per gli
Stati Uniti, anche lui è riuscito nel suo intento di raccogliere i fon-
di che gli servivano perché anche lui ha una sua reputazione co-
struita nel tempo, persone che lo leggono e che quindi volevano il
suo sguardo sulle primarie e hanno dato il loro contributo. [...] È
un po’’ come quando io compro il giornale: io compro Repubblica
perché mi fido di Repubblica, del suo punto di vista, io non ho
idea di che cosa ci sarà scritto dentro nel giornale di oggi». [...]
«Non sarà una soluzione per il giornalismo, cioè che da domani
il giornalismo sarà finanziato in crowdfunding e tutti finanzie-
ranno il loro cronista preferito con servizi online di raccolta fondi.
Il futuro è fatto di tantissime forme diverse e io non riesco nean-
che a immaginarle tutte sinceramente [...] So di certo che questa
potrebbe essere una delle cose, perché può succedere che una
determinata storia mi interessi leggerla attraverso le parole e gli
occhi di una determinata persona che so conoscere bene la mate-
ria, che so avere una passione particolare per quella cosa, perché
mi piace come scrive, mi piace lo sguardo che ha sulle cose e
quindi quella cosa lì me la voglio far raccontare da lui e non da
un altro e allora finanzio lui. Però appunto è una forma, non
credo che sia possibile tenere in piedi il sistema dell’’informazione
in questo modo».
L a griglia «L’’idea era di raccogliere ogni singolo stimolo, informazione, no-
dei contenuti tizia, parola sentita o vista, immagini di qualsiasi tipo e collocar-
li in una sorta di tavola ideale, di matrice, all’’incrocio di un paio
di punti che indicassero il contenuto –– cioè che cos’’era l’’informa-
zione, lo stimolo –– e che tipo di racconto definiva, cercando però
194
9. Crowdfunding e contenuti liquidi
di non avere già in testa la storia: ogni frammento è un fram-
mento, che viene collocato in un punto e la storia viene poi co-
struita mettendo insieme questi frammenti, collegandoli per il
tipo di senso che si vuole dare alla storia. Quindi mettendo insie-
me tutti i ““luoghi”” che si sono visti, i ““volti””, o incrociando i vol-
ti con i luoghi; incrociando –– che so –– i rapporti dei manifestanti
con la polizia con i luoghi, per capire come i luoghi influenzino
questo tipo di rapporto, e quindi costruire il senso».
«Costruire il racconto DOPO, in una seconda fase, non mentre si
stanno guardando le cose, avendo già in testa dove si vuole an-
dare a parare prima che le cose si siano completamente svelate.
Questo è per me un modo di lavorare molto digitale, nel senso
che è fatto di bit, cioè sono ““piccoli frammenti””, pezzetti che in
sé hanno un significato, ma che ne acquisiscono di più quando
vengono collegati gli uni agli altri. E io li collego in un determi-
nato modo perché vedo delle storie e racconto quelle storie, ma
questi frammenti possono essere utilizzati da chiunque altro, col-
legati in altro modo, magari in modo che io non avevo neanche
immaginato, per costruire altre storie. E questa è veramente la
differenza tra l’’analogico e il digitale, il fatto che chiunque possa
farsi la sua storia a partire dagli stessi elementi che vengono
[messi] a disposizione».
«Si tratta di raccogliere tutto quello che lì per lì [sembra] avere un
senso, essere importante, però senza mentre sei lì costruire collega-
menti con le altre [cose] perché non si sa che collegamenti possano
esserci tra i vari elementi. In un secondo momento si passa alla fase
in cui questi puntini vengono uniti e ne esce un disegno».
«Molto faticoso, però... Io ho avuto la fortuna di osservare tutte Il lavoro
queste cose perché sono arrivata con questo status non esatta- a New York
e a Chicago,
mente da giornalista, per quello mi sentivo a tratti un’’antropolo- coinvolgimento
ga più che una giornalista. [...] anche se io ero sempre molto in e distacco
disparte. Nel senso che alle riunioni non ho mai detto nulla, a «professionale»
parte le presentazioni di rito –– perché lì quando si ritrovano fan-
no sempre un primo giro in cui uno dice chi è cosa fa lì, anche se
si conoscono tutti –– quindi io, a parte presentarmi e dire ““Sono
Claudia e vengo dall’’Italia, sono qui per guardarvi e raccontarvi””,
195
10. il lavoro dei giornalisti/2
a parte questo non ho mai detto la mia su nulla. Non era il mio
ruolo, io non ero lì per fare Occupy Wall Street, ero lì per guar-
dare Occupy Wall Street. Poi, sì, ho partecipato alle manifestazio-
ni, ma [...] ero sempre da un lato a guardare. Ovviamente, per
capire la manifestazione e le dinamiche anche nel rapporto con la
polizia eccetera, bisognava esserci dentro non si poteva farlo da
due strade più in là o da casa e poi farselo raccontare da chi
c’’era, bisognava per forza essere lì. Però essere lì per guardare,
non per... per –– non so –– manifestare... Per quanto in alcuni casi
potevo essere d’’accordo con loro o magari se fossi stata in un al-
tro contesto avrei anche manifestato insieme a loro, però io non
ero lì per quello. [Necessità di una distanza] ma non tanto per
una questione di obiettività, perché quella chissà poi nemmeno se
esiste, ma perché per osservare troppo coinvolgimento impedisce
di guardare come si deve, mette un po’’ i paraocchi, mentre lo
sguardo deve poter spaziare».
L
a mancanza «Una cosa che è mancata completamente a me è una redazione a
di una «redazione» casa che mi desse una mano. L’’essere completamente da sola...
andava bene che ero in un posto dove c’’era connessione ovun-
que, per cui potevo sempre bene o male collegarmi, sistemare le
cose che non ero riuscita a fare dal telefono, per esempio. Però
non sempre era possibile, perché gli impegni erano tanti, le cose
da fare erano tante, posti da vedere, persone da incontrare, per-
sone con cui parlare. Ho avuto un mese di giornate pienissime:
avessi avuto qualcuno a casa che mi facesse un po’’ da redazione
sarebbe stato meglio. Credo che in questo tipo di lavoro quello
che serve è quello, che mi è mancato e che la prossima volta
dovrei avere. [...] Quando stai in giro tutto il giorno e magari
non hai il tempo, avere qualcuno, una redazione che si preoccu-
pa di fare il back office di quello che stai facendo è utile».
L a crisi «Ho letteralmente gettato la spugna negli ultimi giorni, dopo
di Chicago Chicago. [...] Tornata da Chicago [a New York] sono andata da
e la «resa»
una psicologa... è vero: io psicologicamente non ce l’’ho più fatta.
Un po’’ perché, appunto, mi mancava un appoggio dietro, mi
sentivo completamente sola, dall’’altra parte dell’’oceano da sola a
196
11. Crowdfunding e contenuti liquidi
dover gestire questa enorme mole di cose. E poi le giornate di
Chicago sono state veramente molto dure, perché era dura la si-
tuazione. C’’era una pressione psicologica pazzesca da parte della
polizia, sembrava quasi di stare in guerra. Se lo racconto in Ita-
lia, mi sento ridicola, perché noi abbiamo visto [il G8 di] Geno-
va e se racconto che cosa è stato Chicago la gente ride, perché
violenze-violenze ce ne sono state pochissime, giusto nella giorna-
ta di domenica la polizia ha manganellato qualcuno, ma vera-
mente poca roba –– non ci sono stati lanci di lacrimogeni, non c’’è
stato nulla dello scenario che ci si immagina per una manifesta-
zione violenta. Però c’’era questa violenza psicologica costante per
tre giorni che sono stata lì, che mi ha fatto completamente crol-
lare. Sono arrivata a un certo punto che non ce la facevo più.
Tutta la stanchezza accumulata nelle tre settimane prima, poi
quei giorni lì, io sono tornata completamente annientata e ho
detto: ““Basta, non ce la faccio, non c’’è nessuno che mi dà sup-
porto, quello che faccio va a finire un po’’ nel nulla”” [...] Finiva
un po’’ nel nulla perché non c’’era nessuno che me lo riorganizzas-
se secondo quella ordinata e quella ascissa che ci eravamo dati e
io non sempre riuscivo a farlo, perché se ero nel mezzo di una
manifestazione non sempre riuscivo a indicare in quale punto
della matrice dovesse andare a finire quel pezzetto che avevo rac-
colto e mi sarebbe servito qualcuno a casa che lo facesse per
me». [...]
«Ho scritto in tweet scherzando, che io a New York avevo l’’avvo-
cato e lo psicologo, quindi potevo cominciare a chiamarla casa,
perché ero appena uscita da questo incontro con un’’amica di
un’’amica che fa la psicologa. E mi ricordo che questa amica del-
l’’amica, quando ha saputo che andavo a Chicago... alla mia ami-
ca ha detto: ““Ah, se quando torna ha bisogno di parlare, dille
che ci sono””. Lei me lo ha riferito e io l’’ho presa in ridere: ““Sì,
figurati, perché mai...”” E poi sull’’aereo mentre tornavo da Chi-
cago ci ripensavo e appena sbarcata ho mandato un messaggio
dicendo: ““Senti un po’’, non è che la tua amica ha tempo domani
di vedermi””? Quindi appena sbarcata a New York la prima cosa
che ho fatto è stata chiedere [notizie di] un amico mio [che era]
stato arrestato vedendone la foto su ““Huffington Post””, e l’’altra
197
12. il lavoro dei giornalisti/2
immediatamente dopo è stata mandare questo messaggio per
chiedere appuntamento con la psicologa. Per cui, sì, oggettiva-
mente negli ultimi giorni ero completamente annientata». [...]
«Trovarsi dall’’altra parte dell’’oceano, da sola, con tutti gli occhi
puntati addosso –– perché comunque c’’era una discreta attenzione
per quello che stavo facendo –– quindi con la paura di deludere,
con un universo da scoprire, in una città in cui non ero mai stata
nella vita, perché era la mia prima volta a New York (e anche se
non sembra, non è banalissimo da gestirsi in una città come New
York), da sola, senza nessuno che da casa mi facesse un lavoro di
back office, il tutto per più di tre settimane... diciamo che quan-
do sono arrivata ero abbastanza arrivata in fondo».
Le critiche «A un certo punto mi sono anche sentita sgridare perché la do-
per aver menica a un certo punto mi sono allontanata dalla manifestazio-
«mollato»
ne. C’’è qualcuno su twitter che mi ha detto: ““Cosa fai sei matta,
torna là, devi essere lì dentro a raccontare”” e io cercavo di far
capire che sembra facile, ma ti trovi da sola... anche perché io,
per evitare troppi problemi, in realtà durante le manifestazioni
non stavo mai con questi amici newyorchesi: loro stavano per i
fatti loro a manifestare e io andavo libera in giro, così... mi spo-
stavo, andavo... proprio per poter osservare e quindi ero da sola,
da sola in quel contesto con tutta quella polizia, armata a quel
modo con la pressione che faceva, col fatto che se anche ti allon-
tanavi dalla manifestazione, ammesso che ci riuscissi (un paio di
volte non me l’’hanno fatto fare) bisognava spostarsi di quattro
cinque [isolati] prima di smettere di avere centinaia di poliziotti
intorno. È dura, non sembra, ma tu non hai nient’’altro che il tuo
zainetto sulle spalle...». [...]
«C’’è stata su twitter un po’’ di discussione, solo con lui... c’’era
qualcuno che mi ha difeso. Soprattutto mi ha difeso gente che
conosce la realtà delle manifestazioni americane. Lui sosteneva:
““Vabbè, stai appena fuori dalla manifestazione e guarda””. Ma tu
non hai idea, io non posso stare appena fuori dalla manifestazio-
ne perché non mi ci fanno stare. Perché o mi tengono dentro alla
manifestazione, quindi col pericolo di essere arrestata, di prender-
le se cominciano a darle ecc., oppure se ne esco, ne esco –– nel
198
13. Crowdfunding e contenuti liquidi
senso che mi fanno proprio andare via. Non esiste l’’osservare ap-
pena fuori, o ci sei dentro o la leggi da Twitter. E io in un paio
di momenti mi allontanavo [...] perché quando capivo che l’’aria
si metteva male, che cominciavano arresti ecc. [...] io non volevo
essere arrestata e quindi cercavo di allontanarmi. Anche perché
sarebbe stato veramente ridicolo: essere arrestata perché stavo lì a
protestare, va bene, lo metto in conto, ci sta –– ma essere arrestata
perché sono lì a fare delle foto, a guardarmi intorno a prendere
appunti su quello che succede, mi sembra veramente ridicolo».
«Quando hai un cartellino con scritto PRESS addosso è tutto Il tesserino
più facile, io credo che se avessi avuto quello credo che l’’avrei «stampa»
è utile
vissuta diversamente. Nel senso che avrei avuto molta meno
paura, mi sarei dovuta guardare molto meno alle spalle, nel sen-
so che se mi avessero preso avevo comunque un tesserino che di-
ceva ““Stampa”” e che giustificava il mio essere lì pur da cittadina
straniera. Invece così sono una cittadina straniera che si trova nel
mezzo di una manifestazione e vaglielo a spiegare che io sono lì
per raccontarlo. [...] Se uno non ha visto che cosa è una manife-
stazione lì, non si rende conto del rischio che si corre, costante-
mente. Io qui in Italia non mi preoccuperei minimamente di ave-
re un cartellino che dice che io sono stampa a una manifestazio-
ne, perché basta stare a una distanza ragionevole da dove c’’è
casino per non rischiare nulla. O comunque è abbastanza facile
uscirne. Lì le dinamiche di piazza sono completamente diverse e
quindi non è detto che il fatto di stare lontano dal casino».
«[Sono state fatte] poche cose: alcuni Storify1 [...], qualche ten- La scarsa
tativo sia pur molto timido c’’è stato. È anche vero che era un riutilizzazione
dei suoi materiali
primissimo esperimento, e che i materiali non erano facilmente e il modello
estraibili dal sito, per come l’’avevamo fatto. [...] Avremmo dovu- di informazione
to avere un contenitore, un sito migliore; [è successo] forse anche partecipata
1 Storify è uno strumento che consente di aggregare materiali presi dai media sociali (Twitter,
Facebook, YouTube, ecc.), selezionarli, mischiarli con testi propri, elementi presi da altre pagine
web e comporre un racconto composito.
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14. il lavoro dei giornalisti/2
perché l’’idea che gli altri erano liberi di prendere e usare l’’ho
spiegata abbondantemente (ci ho dedicato un paio di post prima
di partire), però era una cosa anche un po’’ nuova... [...] Quando
ho fatto il mio giro di telefonate a un po’’ di finanziatori facevo
questa domanda: ““Se io metto a disposizione questi materiali, li
useresti e come? Che tipo di materiali ti servirebbe di più: video,
foto, testi””? Era una domanda che spiazzava, sono rimasti tutti
spiazzati all’’idea di riutilizzare il materiale. [...] Uno si aspetta il
racconto fatto e finito, mentre io non volevo fare un racconto che
fosse fatto e finito. Volevo che ci fosse il mio racconto, il mio
sguardo, il mio punto di vista, ma che chiunque potesse metterci
il suo. E secondo me era la parte più ““innovativa””, forse, e
quindi quella più difficile da capire. Forse anche per questo non
ha funzionato. [...] Sono convinta che ci sia un insieme di ragioni
per cui non ha funzionato quella cosa, non è una sola ragione. E
sono anche convinta che il modello sia possibile, probabilmente
bisogna trovare un tema più... più... Probabilmente se fossi occu-
pata delle primarie del PD avrei trovato più...» [ascolto].
«Può darsi anche [che ci fossero troppi elementi informativi] e
quindi ho complicato il panorama per chi guardava, faticava a
trovare una strada. È possibile. Soprattutto quando hanno co-
minciato a moltiplicarsi i temi e quindi naturalmente districarsi
diventa più complicato. Però io sono abbastanza serena, nel senso
che era un esperimento, io non pensavo di partire per fare una
cosa perfetta. Io pensavo di partire per verificare se questa cosa
era fattibile [...]. Io rimango convinta che sia un modello interes-
sante e probabilmente non applicabile a tutto... non tutto può
essere raccontato in questo modo. Indubbiamente c’’è bisogno di
una professionalizzazione, nel senso di avere appunto una reda-
zione alle spalle, persone che siano in grado di sviluppare degli
strumenti informatici che servono per automatizzare una serie di
operazioni, per rendere più facilmente navigabile e ricercabile il
sito, per rendere probabilmente anche visibile la matrice, quei
puntini... forse sarebbe stato anche più facile per la gente capire.
Noi ci abbiamo provato a pensare come farlo e non siamo riusciti
a trovare un modo e abbiamo lasciato perdere. Però, anche lì,
con del tempo a disposizione, probabilmente saremmo riusciti a
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