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Crowdfunding
e contenuti liquidi
Il giornalismo partecipativo e digitale di @tigella

conversazione con Claudia Vago
a cura di Mario Tedeschini Lalli




N     ella primavera del 2012 una giovane donna si è seduta da-
       vanti a me in redazione e mi ha chiesto che cosa mi aspet-
tassi da lei e dal suo lavoro. Sono un vecchio giornalista, di
agenzia, di quotidiano, digitale, multimediale e di tanto altro
ancora, insomma un giornalista veramente vecchio e nella mia
vita professionale non era mai capitato di essere consultato come
«editore». Un editore che insieme a qualche altra decina di «edi-
tori» come me aveva donato qualche euro per mandare lei, la
giovane donna, negli Stati Uniti per raccontarci il movimento
Occupy Wall Street e lei ci stava incontrando uno per uno per
chiedere consiglio, sapere perché l’’avevamo finanziata e che cosa
ci aspettavamo dalla nostra improbabile «inviata». La donna si
chiama Claudia Vago, all’’epoca aveva 33 anni ed era più nota al
grande pubblico –– dal quale aveva pescato i suoi occasionali
«editori» –– con il nome dato al suo blog: Tigella (http://
tigella.altervista.org/), come la tigella modenese, uno dei prodotti
di quell’’Emilia dove fino ad allora Claudia aveva vissuto e lavo-
rato come responsabile della comunicazione di una serie di enti
pubblici e aziende locali. È un fatto però che al momento in cui
scrivo, se si cerca «tigella» su Google si ottiene come primo link

                                                                       187


Problemi dell’’informazione / a. XXXVII, n. 2, agosto 2012
il lavoro dei giornalisti/2


                      l’’account Twitter di Claudia «@Tigella» Vago, e solo al secondo
                      posto la voce di Wikipedia sul prodotto dal quale ha preso il
                      nome.
                      Gli è che @tigella è diventata un fenomeno su Twitter, quasi un
                      personaggio che migliaia di «follower» seguono per essere infor-
                      mati. Il tutto era cominciato nel gennaio 2011 con lo scoppio
                      della rivolta popolare in Tunisia, punto di avvio di quella che
                      sarebbe stata poi definita la «primavera araba». Claudia seguiva
                      alcuni account tunisini, insieme al marito di origine in parte tu-
                      nisina, e cominciò a valutarli e ri-twittarne i contenuti (cioè a
                      rilanciarli), diventando in Italia uno dei punti di snodo dell’’in-
                      formazione sulla rivoluzione araba sui network sociali. Una popo-
                      larità che l’’ha spinta l’’anno successivo a tentare un esperimento
                      di «crowdfunding»: chiedere al proprio pubblico un finanzia-
                      mento per andare di persona negli Stati Uniti a raccontare da
                      vicino un altro movimento popolare, quello che era iniziato il 17
                      settembre 2011 sotto il nome di Occupy Wall Street.
                      Claudia ce l’’ha fatta, ha raccolto 2.600 euro in una decina di
                      giorni grazie alla piattaforma «Produzioni dal basso –– nuove co-
                      munità economiche» (http://www.produzionidalbasso.com) e alla
                      fine di aprile è partita per New York, dove ha assistito «da den-
                      tro» a manifestazioni e cortei, per poi spostarsi a Chicago dove il
                      movimento «Occupy» intendeva contestare il vertice della NATO
                      che si svolgeva in quella città. A un certo punto –– lo leggerete
                      nell’’intervista –– Claudia non ha retto alla tensione e alla pressio-
                      ne psicologica del confronto tra manifestanti e polizia, ha molla-
                      to, è tornata a New York, e poi in Italia. A luglio «Problemi del-
                      l’’informazione» ha deciso di intervistarla per fare con lei un bi-
                      lancio dell’’esperimento.
                      Per quanto riguarda questo scrivente «editore», il bilancio non
                      può che riferirsi alle sue attese che –– spiegò a Claudia in quell’’in-
                      contro di primavera –– avevano pochissimo a che vedere con l’’og-
                      getto del suo racconto (il movimento Occupy), e moltissimo con
                      il metodo. Proprio sul piano del metodo la sottoscrizione di
                      Claudia suscitò qualche polemica, specie da quanti la accusavano
                      di «svendere» il proprio lavoro. Allo stesso tempo altri lodarono
                      l’’impresa come un esempio del «giornalismo del futuro».
188
Crowdfunding e contenuti liquidi


Chi scrive ritiene che l’’esperimento sia stato utile e interessante,
anche se sul piano del contenuto è stato assai meno innovativo di
quanto si sarebbe potuto sperare. Qualche riflessione in proposito:
1. Interessante la dimensione del finanziamento diffuso
(crowdfunding), una tecnica che si va diffondendo ampiamente
in diversi settori. Nell’’estate del 2012, per esempio, l’’attrice
Whoopi Goldberg ha raccolto 65.000 dollari sulla piattaforma
Kickstarter per finanziare un documentario che intendeva girare.
E quasi contemporaneamente a Claudia Vago, un altro giornali-
sta italiano, Andrea Marinelli (http://iltradingpost.wordpress.com),
ha raccolto finanziamenti per continuare a seguire tutta la sta-
gione delle primarie presidenziali negli Stati Uniti. Il sistema fun-
ziona, non sarà «il futuro del giornalismo», ma può esserne parte
–– anzi, ne è già parte.
2. Quanto alle accuse che le sono state rivolte di «svendere» il
proprio lavoro, chi scrive è d’’accordo con quello che Claudia af-
ferma nella intervista, ma va oltre: quelle polemiche dimostrano
l’’incomunicabilità e l’’irriducibilità del mondo digitale al mondo
analogico.
È vero, probabilmente questo «deprezza» il lavoro del giornalista,
ma (ci piaccia o no) è un lavoro il cui prezzo nell’’universo digi-
tale tende a zero, ed è abbastanza clamoroso che comunque
Claudia sia stata «pagata» per questo e se non lo faceva Claudia
lo avrebbe fatto qualcun altro, lo ha fatto in effetti qualcun al-
tro, vedi qui sopra Andrea Marinelli. Il digitale disintermedia e
occorre fare radicalmente i conti con questa realtà, non ci posso-
no essere né istituzioni o norme che re-intermedino l’’informazio-
ne giornalistica (della serie: «Tu a New York non ci vai e non
scrivi nulla perché non hai la patente e non vieni pagata quanto
teoricamente ––?–– dovresti»), né soluzioni politico-moralistiche
(«convincere» le Claudie di questo mondo che non è «giusto»
non muterebbe la realtà della disintermediazione).
L’’esperimento di Claudia piuttosto dimostra come anche nel di-
gitale sia possibile creare valore e come, in una certa misura, la
«reputation economy» funzioni: con il suo lavoro precedente, con
la sua credibilità così ottenuta, Claudia è riuscita ad ottenere un
prezzo, per quanto basso.
                                                                                  189
il lavoro dei giornalisti/2


                      3. Anche intorno a questo episodio si sono ripetute le diatribe sul
                      giornalismo professionistico e su quello amatoriale. Questione mal
                      posta, essendo quello del digitale un universo dai confini permea-
                      bili. Claudia stessa –– lo leggerete –– mette ripetutamente le mani
                      avanti per spiegare che non è «una giornalista», che non ha mai
                      pensato di esserlo, ecc. È una excusatio non petita: quello che
                      Claudia è andata a fare in America è giornalismo, che lo volesse
                      o no, buono, cattivo, ma giornalismo. Un giornalismo fatto da
                      una –– forse –– non giornalista.
                      D’’altra parte, andando avanti nella chiacchierata, @tigella parla
                      di fatto da giornalista: lamenta l’’assenza di una «redazione» alle
                      sue spalle, ammette che lo scoprire, verificare e raccontare storie
                      è una funzione tanto sua quanto dell’’ipotetico «giornalista» e ––
                      specialmente –– accetta di discutere gli scopi e gli esiti del suo
                      esperimento nell’’ambito di una discussione sul giornalismo.
                      Anche per questo è utile che l’’esperimento sia avvenuto.
                      4. I risultati sul piano del contenuto sono stati inferiori alle attese
                      della stessa Claudia. Claudia ha toccato con mano i limiti di un
                      approccio non professionale a un mestiere complicato. Si badi:
                      qui si intende professionale non in senso giuridico, ma in via di
                      fatto: mancanza di una redazione di supporto, mancanza di pre-
                      parazione pratica e psicologica, scarsa abitudine alla pressione.
                      Questo non vuol dire che non sia possibile avere tutto questo
                      anche in ambito amatoriale, o semi professionistico, solo che in
                      questo caso non c’’è stato.
                      5. Sempre sul piano dei contenuti era particolarmente interessan-
                      te l’’idea –– questa, sì, assai distante dai modelli tradizionali di
                      reportage giornalistico –– di produrre contenuti «liquidi», singoli
                      elementi informativi (un tweet, un video, un piccolo testo, una
                      foto) da collocare in una griglia dove su un asse si sarebbero or-
                      dinati i «luoghi», le «persone», gli «oggetti» ecc., mentre sull’’al-
                      tro asse si sarebbero ordinati gli eventi («cortei», «discussioni»,
                      «arresti», o cose così). Sarebbe stato così possibile «leggere» i con-
                      tenuti secondo i percorsi di maggiore interesse per i fruitori, ad
                      esempio: tutti gli arresti, tutti gli arresti in quel luogo, tutte le
                      persone in quel luogo in quel giorno, ecc. Sarebbero stati forniti
                      tanti «puntini» che ognuno avrebbe potuto unire secondo propri
190
Crowdfunding e contenuti liquidi


criteri creando un proprio «disegno». Claudia stessa si ripropone-
va di offrire a un certo punto un proprio disegno.
6. La griglia è un’’idea che Claudia ha mutuato da Federico Ba-
daloni, che si occupa di architettura dell’’informazione e proget-
tazione web per il Gruppo Editoriale L’’Espresso, un’’idea la cui
realizzazione è rimasta tuttavia molto al di qua delle speranze. Il
«disegno» di Claudia non si è concretizzato né in corso d’’opera,
né successivamente. Nell’’intervista –– effettuata a luglio –– ha an-
nunciato che avrebbe pubblicato qualcosa per il 17 settembre, in
occasione del primo anniversario del movimento Occupy Wall
Street. Ciò che è stato effettivamente messo in rete (http://
occupywallst.altervista.org/), al momento della redazione di que-
sta intervista appariva in realtà ancora molto lontano da ciò che
la stessa autrice si proponeva.
7. Per quanto riguarda la crisi psicologica subita verso la fine
della sua impresa è curioso notare –– nel racconto di Claudia ––
un tipico scambio caporedattore-inviato, della serie «Non ti la-
mentare, muoviti e torna sul posto», solo che il «caporedattore»
era in realtà un lettore-editore.
Sempre a proposito della crisi è bene tener presente che tecnica-
mente non è possibile per gli stranieri lavorare come giornalista
negli Stati Uniti se non si ha un visto stampa sulla base di un
accredito di una testata: fosse stata fermata dalla polizia, Clau-
dia avrebbe dovuto scegliere tra dire che stava manifestando (ed
essere incriminata con una delle numerose strane accuse che la
polizia ha fatto ai manifestanti arrestati) o affermare di essere
una giornalista, ma senza il visto rischiava l’’espulsione dal Paese.
Basta commenti, seguono ampi estratti dell’’intervista a Claudia
Vago, raccolti per argomento. Il testo –– trascritto dalla registrazio-
ne audio –– è stato in parte accorciato ed editato solo in modo
molto lieve. L’’ordine degli argomenti affrontati è quello dell’’in-
tervista originale, con l’’eccezione del secondo e terzo paragrafo
della parte su «giornalismo professionale» o no, che sono stati
pronunciati successivamente e aggregati al primo per ragioni di
coerenza narrativa. Dovunque si interrompa la trascrizione delle
parole di Claudia compare il segno [...], tra parentesi quadra le
pochissime interpolazioni redazionali.
                                                                                    191
il lavoro dei giornalisti/2


        C he cosa fa   «Mi sono sempre definita una contastorie, nel senso che attraver-
      Claudia Vago,    so la rete quello che faccio per lavoro, per passione, per passare il
         di che cosa
           si occupa   tempo, è raccontare storie. Che sia il racconto di un territorio, dei
                       suoi prodotti tipici, dei suoi personaggi, la sua storia, le sue ca-
                       ratteristiche ecc., per promuovere il turismo in una regione o che
                       sia raccontare una rivolta in una qualche parte del mondo [...]
                       una contastorie digitale –– perché i pezzi, i frammenti che cucio
                       insieme per costruire una storia arrivano dal web. [...] Nel mon-
                       do anglosassone chi fa quello che faccio io si chiama ““social media
                       curator””. È qualcuno che cura i flussi di informazioni che circo-
                       lano sui social media. E curare significa... intanto trovarli [...]
                       sembra una cosa banale, ma non sempre è così, trovarli, filtrarli,
                       capire di che cosa si sta parlando, capire da chi provengono le
                       informazioni, quindi capire se la fonte è una fonte affidabile e
                       autorevole, se l’’informazione è vera o no, se è completa o no e
                       sulla base di questo decidere se usarla e come usarla».

  Il suo rapporto      «Non mi sono mai definita una giornalista, perché non lo sono.
con il giornalismo     Non ho esperienza di giornalismo, non ho mai lavorato per una
                       redazione, avrò scritto quattro articoli in croce per un giornale
                       locale dieci anni fa, quindi non mi posso definire una giornali-
                       sta». [...]
                       «[Anche dopo essere tornata]continuo a non pensarmi come gior-
                       nalista, perché sarebbe assurdo insomma. Anche perché non è
                       strettamente giornalismo quello che faccio, per cui è forse ridut-
                       tivo dire giornalista. Poi è chiaro che spesso, per semplificare,
                       quando anche a New York mi dovevo presentare a qualcuno di-
                       cevo che ero una giornalista free lance, che era molto più semplice
                       di dover stare a spiegare... poi quando si entrava nel dettaglio
                       spiegavo la faccenda della ““curation””, il lavoro che avevo fatto
                       sulla primavera araba...». [...]
                       «È complicato, ecco. [...] Per me giornalismo è raccontare storie,
                       quindi tutto sommato non è molto diverso da quello che faccio.
                       È osservare il mondo, capire quello che si guarda per poi poterlo
                       raccontare, per me è questo e non è molto diverso da quel che
                       faccio. In realtà io osservo –– che sia attraverso lo schermo di un
                       computer o andando in un posto –– [io] cerco di capire quello che
192
Crowdfunding e contenuti liquidi


mi sta passando davanti agli occhi e cerco il modo di
riorganizzar[lo][...] per costruire una storia da raccontare».

«Prima di andare a New York ero questo, facevo questa cosa, solo       Le ragioni
ed esclusivamente attraverso uno schermo di computer [...] fil-        dell’’esperimento
trando contenuti che altri condividevano sui social network. E
poi ho pensato di fare questo salto, di provare a vedere com’’era
essere dall’’altra parte». [...]
«Per capire meglio questo movimento, Occupy Wall Street [...] mi
interessava vederlo da vicino, perché attraverso uno schermo di
computer comunque si ha una visione parziale delle cose, manca
il contesto, mancano un sacco di elementi che servono a capire e
meglio. [...] È un anno che lo seguo questo movimento e sentivo
il bisogno, per continuare a raccontarlo, di vederlo e quindi ho
detto: ““Facciamo il passo dall’’altra parte dello schermo””».
«Mi sono anche detta che tutto sommato –– adesso la dico magari
un po’’ brutalmente –– io era più di un anno che facevo in qual-
che modo un servizio a chi mi seguiva, con tanto di riconosci-
menti, di gente che mi ringraziava, [che diceva] ““Se non ci fossi
tu queste cose non le sapremmo...”” e allora mi sono detta: perché
non provare a chiedere a queste persone che sono così contente di
quello che faccio, che mi ringraziano eccetera, se hanno voglia
non dico di investire una grande cifra ma dieci euro per aiutarmi
a coprire le spese sostanzialmente, o poco più, per andare a ve-
dere questa cosa di Occupy Wall Street? Lì è nata l’’idea di fare
del crowdfunding per finanziare la missione».

«A me interessava principalmente riuscire a farla questa cosa più      Le polemiche
che guadagnarci uno stipendio. [...] Non [avevo intenzione di di-      prima della
                                                                       partenza
scutere] se questo sia un modello sostenibile o no per il giornali-    sui modelli
smo, c’’era chi diceva di no perché con così pochi soldi non ci        di giornalismo
campi. E questo è vero, però a me principalmente interessava
riuscire a farla questa cosa, dimostrare che si può fare, per poi
eventualmente la prossima volta alzare il prezzo e dire: oltre alle
spese mi pagate anche le ore di lavoro che ci metterò per elabo-
rare tutto il materiale che avrò raccolto e prodotto. Però credo che
fosse importante riuscire a farlo, dimostrare che c’’è anche questo
                                                                                        193
il lavoro dei giornalisti/2


                       modo per fare le cose, che da noi era una novità –– infatti è stato
                       accolto come una rivoluzione, ma in realtà inchieste prodotte in
                       questo modo altrove nel mondo sono la normalità. Mi interessava
                       provare a importare un modello».
                       «Non è un modello replicabile da chiunque. Io ce l’’ho fatta perché
                       mi sono costruita una reputazione in qualche modo, in un anno e
                       mezzo di lavoro fatto credo bene, per cui mi è stato facile trovare
                       persone che mi sostenessero, mi finanziassero. Allo stesso modo
                       Andrea Marinelli, che poco dopo di me ha fatto anche lui la sua
                       raccolta fondi per seguire le primarie repubblicane in giro per gli
                       Stati Uniti, anche lui è riuscito nel suo intento di raccogliere i fon-
                       di che gli servivano perché anche lui ha una sua reputazione co-
                       struita nel tempo, persone che lo leggono e che quindi volevano il
                       suo sguardo sulle primarie e hanno dato il loro contributo. [...] È
                       un po’’ come quando io compro il giornale: io compro Repubblica
                       perché mi fido di Repubblica, del suo punto di vista, io non ho
                       idea di che cosa ci sarà scritto dentro nel giornale di oggi». [...]
                       «Non sarà una soluzione per il giornalismo, cioè che da domani
                       il giornalismo sarà finanziato in crowdfunding e tutti finanzie-
                       ranno il loro cronista preferito con servizi online di raccolta fondi.
                       Il futuro è fatto di tantissime forme diverse e io non riesco nean-
                       che a immaginarle tutte sinceramente [...] So di certo che questa
                       potrebbe essere una delle cose, perché può succedere che una
                       determinata storia mi interessi leggerla attraverso le parole e gli
                       occhi di una determinata persona che so conoscere bene la mate-
                       ria, che so avere una passione particolare per quella cosa, perché
                       mi piace come scrive, mi piace lo sguardo che ha sulle cose e
                       quindi quella cosa lì me la voglio far raccontare da lui e non da
                       un altro e allora finanzio lui. Però appunto è una forma, non
                       credo che sia possibile tenere in piedi il sistema dell’’informazione
                       in questo modo».

         L a griglia   «L’’idea era di raccogliere ogni singolo stimolo, informazione, no-
       dei contenuti   tizia, parola sentita o vista, immagini di qualsiasi tipo e collocar-
                       li in una sorta di tavola ideale, di matrice, all’’incrocio di un paio
                       di punti che indicassero il contenuto –– cioè che cos’’era l’’informa-
                       zione, lo stimolo –– e che tipo di racconto definiva, cercando però
194
Crowdfunding e contenuti liquidi


di non avere già in testa la storia: ogni frammento è un fram-
mento, che viene collocato in un punto e la storia viene poi co-
struita mettendo insieme questi frammenti, collegandoli per il
tipo di senso che si vuole dare alla storia. Quindi mettendo insie-
me tutti i ““luoghi”” che si sono visti, i ““volti””, o incrociando i vol-
ti con i luoghi; incrociando –– che so –– i rapporti dei manifestanti
con la polizia con i luoghi, per capire come i luoghi influenzino
questo tipo di rapporto, e quindi costruire il senso».
«Costruire il racconto DOPO, in una seconda fase, non mentre si
stanno guardando le cose, avendo già in testa dove si vuole an-
dare a parare prima che le cose si siano completamente svelate.
Questo è per me un modo di lavorare molto digitale, nel senso
che è fatto di bit, cioè sono ““piccoli frammenti””, pezzetti che in
sé hanno un significato, ma che ne acquisiscono di più quando
vengono collegati gli uni agli altri. E io li collego in un determi-
nato modo perché vedo delle storie e racconto quelle storie, ma
questi frammenti possono essere utilizzati da chiunque altro, col-
legati in altro modo, magari in modo che io non avevo neanche
immaginato, per costruire altre storie. E questa è veramente la
differenza tra l’’analogico e il digitale, il fatto che chiunque possa
farsi la sua storia a partire dagli stessi elementi che vengono
[messi] a disposizione».
«Si tratta di raccogliere tutto quello che lì per lì [sembra] avere un
senso, essere importante, però senza mentre sei lì costruire collega-
menti con le altre [cose] perché non si sa che collegamenti possano
esserci tra i vari elementi. In un secondo momento si passa alla fase
in cui questi puntini vengono uniti e ne esce un disegno».

«Molto faticoso, però... Io ho avuto la fortuna di osservare tutte           Il lavoro
queste cose perché sono arrivata con questo status non esatta-               a New York
                                                                             e a Chicago,
mente da giornalista, per quello mi sentivo a tratti un’’antropolo-          coinvolgimento
ga più che una giornalista. [...] anche se io ero sempre molto in            e distacco
disparte. Nel senso che alle riunioni non ho mai detto nulla, a              «professionale»
parte le presentazioni di rito –– perché lì quando si ritrovano fan-
no sempre un primo giro in cui uno dice chi è cosa fa lì, anche se
si conoscono tutti –– quindi io, a parte presentarmi e dire ““Sono
Claudia e vengo dall’’Italia, sono qui per guardarvi e raccontarvi””,
                                                                                           195
il lavoro dei giornalisti/2


                         a parte questo non ho mai detto la mia su nulla. Non era il mio
                         ruolo, io non ero lì per fare Occupy Wall Street, ero lì per guar-
                         dare Occupy Wall Street. Poi, sì, ho partecipato alle manifestazio-
                         ni, ma [...] ero sempre da un lato a guardare. Ovviamente, per
                         capire la manifestazione e le dinamiche anche nel rapporto con la
                         polizia eccetera, bisognava esserci dentro non si poteva farlo da
                         due strade più in là o da casa e poi farselo raccontare da chi
                         c’’era, bisognava per forza essere lì. Però essere lì per guardare,
                         non per... per –– non so –– manifestare... Per quanto in alcuni casi
                         potevo essere d’’accordo con loro o magari se fossi stata in un al-
                         tro contesto avrei anche manifestato insieme a loro, però io non
                         ero lì per quello. [Necessità di una distanza] ma non tanto per
                         una questione di obiettività, perché quella chissà poi nemmeno se
                         esiste, ma perché per osservare troppo coinvolgimento impedisce
                         di guardare come si deve, mette un po’’ i paraocchi, mentre lo
                         sguardo deve poter spaziare».

      L
      a mancanza         «Una cosa che è mancata completamente a me è una redazione a
di una «redazione»       casa che mi desse una mano. L’’essere completamente da sola...
                         andava bene che ero in un posto dove c’’era connessione ovun-
                         que, per cui potevo sempre bene o male collegarmi, sistemare le
                         cose che non ero riuscita a fare dal telefono, per esempio. Però
                         non sempre era possibile, perché gli impegni erano tanti, le cose
                         da fare erano tante, posti da vedere, persone da incontrare, per-
                         sone con cui parlare. Ho avuto un mese di giornate pienissime:
                         avessi avuto qualcuno a casa che mi facesse un po’’ da redazione
                         sarebbe stato meglio. Credo che in questo tipo di lavoro quello
                         che serve è quello, che mi è mancato e che la prossima volta
                         dovrei avere. [...] Quando stai in giro tutto il giorno e magari
                         non hai il tempo, avere qualcuno, una redazione che si preoccu-
                         pa di fare il back office di quello che stai facendo è utile».

             L a crisi   «Ho letteralmente gettato la spugna negli ultimi giorni, dopo
          di Chicago     Chicago. [...] Tornata da Chicago [a New York] sono andata da
          e la «resa»
                         una psicologa... è vero: io psicologicamente non ce l’’ho più fatta.
                         Un po’’ perché, appunto, mi mancava un appoggio dietro, mi
                         sentivo completamente sola, dall’’altra parte dell’’oceano da sola a
196
Crowdfunding e contenuti liquidi


dover gestire questa enorme mole di cose. E poi le giornate di
Chicago sono state veramente molto dure, perché era dura la si-
tuazione. C’’era una pressione psicologica pazzesca da parte della
polizia, sembrava quasi di stare in guerra. Se lo racconto in Ita-
lia, mi sento ridicola, perché noi abbiamo visto [il G8 di] Geno-
va e se racconto che cosa è stato Chicago la gente ride, perché
violenze-violenze ce ne sono state pochissime, giusto nella giorna-
ta di domenica la polizia ha manganellato qualcuno, ma vera-
mente poca roba –– non ci sono stati lanci di lacrimogeni, non c’’è
stato nulla dello scenario che ci si immagina per una manifesta-
zione violenta. Però c’’era questa violenza psicologica costante per
tre giorni che sono stata lì, che mi ha fatto completamente crol-
lare. Sono arrivata a un certo punto che non ce la facevo più.
Tutta la stanchezza accumulata nelle tre settimane prima, poi
quei giorni lì, io sono tornata completamente annientata e ho
detto: ““Basta, non ce la faccio, non c’’è nessuno che mi dà sup-
porto, quello che faccio va a finire un po’’ nel nulla”” [...] Finiva
un po’’ nel nulla perché non c’’era nessuno che me lo riorganizzas-
se secondo quella ordinata e quella ascissa che ci eravamo dati e
io non sempre riuscivo a farlo, perché se ero nel mezzo di una
manifestazione non sempre riuscivo a indicare in quale punto
della matrice dovesse andare a finire quel pezzetto che avevo rac-
colto e mi sarebbe servito qualcuno a casa che lo facesse per
me». [...]
«Ho scritto in tweet scherzando, che io a New York avevo l’’avvo-
cato e lo psicologo, quindi potevo cominciare a chiamarla casa,
perché ero appena uscita da questo incontro con un’’amica di
un’’amica che fa la psicologa. E mi ricordo che questa amica del-
l’’amica, quando ha saputo che andavo a Chicago... alla mia ami-
ca ha detto: ““Ah, se quando torna ha bisogno di parlare, dille
che ci sono””. Lei me lo ha riferito e io l’’ho presa in ridere: ““Sì,
figurati, perché mai...”” E poi sull’’aereo mentre tornavo da Chi-
cago ci ripensavo e appena sbarcata ho mandato un messaggio
dicendo: ““Senti un po’’, non è che la tua amica ha tempo domani
di vedermi””? Quindi appena sbarcata a New York la prima cosa
che ho fatto è stata chiedere [notizie di] un amico mio [che era]
stato arrestato vedendone la foto su ““Huffington Post””, e l’’altra
                                                                                   197
il lavoro dei giornalisti/2


                       immediatamente dopo è stata mandare questo messaggio per
                       chiedere appuntamento con la psicologa. Per cui, sì, oggettiva-
                       mente negli ultimi giorni ero completamente annientata». [...]
                       «Trovarsi dall’’altra parte dell’’oceano, da sola, con tutti gli occhi
                       puntati addosso –– perché comunque c’’era una discreta attenzione
                       per quello che stavo facendo –– quindi con la paura di deludere,
                       con un universo da scoprire, in una città in cui non ero mai stata
                       nella vita, perché era la mia prima volta a New York (e anche se
                       non sembra, non è banalissimo da gestirsi in una città come New
                       York), da sola, senza nessuno che da casa mi facesse un lavoro di
                       back office, il tutto per più di tre settimane... diciamo che quan-
                       do sono arrivata ero abbastanza arrivata in fondo».

         Le critiche   «A un certo punto mi sono anche sentita sgridare perché la do-
          per aver     menica a un certo punto mi sono allontanata dalla manifestazio-
         «mollato»
                       ne. C’’è qualcuno su twitter che mi ha detto: ““Cosa fai sei matta,
                       torna là, devi essere lì dentro a raccontare”” e io cercavo di far
                       capire che sembra facile, ma ti trovi da sola... anche perché io,
                       per evitare troppi problemi, in realtà durante le manifestazioni
                       non stavo mai con questi amici newyorchesi: loro stavano per i
                       fatti loro a manifestare e io andavo libera in giro, così... mi spo-
                       stavo, andavo... proprio per poter osservare e quindi ero da sola,
                       da sola in quel contesto con tutta quella polizia, armata a quel
                       modo con la pressione che faceva, col fatto che se anche ti allon-
                       tanavi dalla manifestazione, ammesso che ci riuscissi (un paio di
                       volte non me l’’hanno fatto fare) bisognava spostarsi di quattro
                       cinque [isolati] prima di smettere di avere centinaia di poliziotti
                       intorno. È dura, non sembra, ma tu non hai nient’’altro che il tuo
                       zainetto sulle spalle...». [...]
                       «C’’è stata su twitter un po’’ di discussione, solo con lui... c’’era
                       qualcuno che mi ha difeso. Soprattutto mi ha difeso gente che
                       conosce la realtà delle manifestazioni americane. Lui sosteneva:
                       ““Vabbè, stai appena fuori dalla manifestazione e guarda””. Ma tu
                       non hai idea, io non posso stare appena fuori dalla manifestazio-
                       ne perché non mi ci fanno stare. Perché o mi tengono dentro alla
                       manifestazione, quindi col pericolo di essere arrestata, di prender-
                       le se cominciano a darle ecc., oppure se ne esco, ne esco –– nel
198
Crowdfunding e contenuti liquidi


senso che mi fanno proprio andare via. Non esiste l’’osservare ap-
pena fuori, o ci sei dentro o la leggi da Twitter. E io in un paio
di momenti mi allontanavo [...] perché quando capivo che l’’aria
si metteva male, che cominciavano arresti ecc. [...] io non volevo
essere arrestata e quindi cercavo di allontanarmi. Anche perché
sarebbe stato veramente ridicolo: essere arrestata perché stavo lì a
protestare, va bene, lo metto in conto, ci sta –– ma essere arrestata
perché sono lì a fare delle foto, a guardarmi intorno a prendere
appunti su quello che succede, mi sembra veramente ridicolo».

«Quando hai un cartellino con scritto PRESS addosso è tutto                                           Il tesserino
più facile, io credo che se avessi avuto quello credo che l’’avrei                                    «stampa»
                                                                                                      è utile
vissuta diversamente. Nel senso che avrei avuto molta meno
paura, mi sarei dovuta guardare molto meno alle spalle, nel sen-
so che se mi avessero preso avevo comunque un tesserino che di-
ceva ““Stampa”” e che giustificava il mio essere lì pur da cittadina
straniera. Invece così sono una cittadina straniera che si trova nel
mezzo di una manifestazione e vaglielo a spiegare che io sono lì
per raccontarlo. [...] Se uno non ha visto che cosa è una manife-
stazione lì, non si rende conto del rischio che si corre, costante-
mente. Io qui in Italia non mi preoccuperei minimamente di ave-
re un cartellino che dice che io sono stampa a una manifestazio-
ne, perché basta stare a una distanza ragionevole da dove c’’è
casino per non rischiare nulla. O comunque è abbastanza facile
uscirne. Lì le dinamiche di piazza sono completamente diverse e
quindi non è detto che il fatto di stare lontano dal casino».

«[Sono state fatte] poche cose: alcuni Storify1 [...], qualche ten-                                   La scarsa
tativo sia pur molto timido c’’è stato. È anche vero che era un                                       riutilizzazione
                                                                                                      dei suoi materiali
primissimo esperimento, e che i materiali non erano facilmente                                        e il modello
estraibili dal sito, per come l’’avevamo fatto. [...] Avremmo dovu-                                   di informazione
to avere un contenitore, un sito migliore; [è successo] forse anche                                   partecipata



1 Storify è uno strumento che consente di aggregare materiali presi dai media sociali (Twitter,
Facebook, YouTube, ecc.), selezionarli, mischiarli con testi propri, elementi presi da altre pagine
web e comporre un racconto composito.
                                                                                                                     199
il lavoro dei giornalisti/2


                      perché l’’idea che gli altri erano liberi di prendere e usare l’’ho
                      spiegata abbondantemente (ci ho dedicato un paio di post prima
                      di partire), però era una cosa anche un po’’ nuova... [...] Quando
                      ho fatto il mio giro di telefonate a un po’’ di finanziatori facevo
                      questa domanda: ““Se io metto a disposizione questi materiali, li
                      useresti e come? Che tipo di materiali ti servirebbe di più: video,
                      foto, testi””? Era una domanda che spiazzava, sono rimasti tutti
                      spiazzati all’’idea di riutilizzare il materiale. [...] Uno si aspetta il
                      racconto fatto e finito, mentre io non volevo fare un racconto che
                      fosse fatto e finito. Volevo che ci fosse il mio racconto, il mio
                      sguardo, il mio punto di vista, ma che chiunque potesse metterci
                      il suo. E secondo me era la parte più ““innovativa””, forse, e
                      quindi quella più difficile da capire. Forse anche per questo non
                      ha funzionato. [...] Sono convinta che ci sia un insieme di ragioni
                      per cui non ha funzionato quella cosa, non è una sola ragione. E
                      sono anche convinta che il modello sia possibile, probabilmente
                      bisogna trovare un tema più... più... Probabilmente se fossi occu-
                      pata delle primarie del PD avrei trovato più...» [ascolto].
                      «Può darsi anche [che ci fossero troppi elementi informativi] e
                      quindi ho complicato il panorama per chi guardava, faticava a
                      trovare una strada. È possibile. Soprattutto quando hanno co-
                      minciato a moltiplicarsi i temi e quindi naturalmente districarsi
                      diventa più complicato. Però io sono abbastanza serena, nel senso
                      che era un esperimento, io non pensavo di partire per fare una
                      cosa perfetta. Io pensavo di partire per verificare se questa cosa
                      era fattibile [...]. Io rimango convinta che sia un modello interes-
                      sante e probabilmente non applicabile a tutto... non tutto può
                      essere raccontato in questo modo. Indubbiamente c’’è bisogno di
                      una professionalizzazione, nel senso di avere appunto una reda-
                      zione alle spalle, persone che siano in grado di sviluppare degli
                      strumenti informatici che servono per automatizzare una serie di
                      operazioni, per rendere più facilmente navigabile e ricercabile il
                      sito, per rendere probabilmente anche visibile la matrice, quei
                      puntini... forse sarebbe stato anche più facile per la gente capire.
                      Noi ci abbiamo provato a pensare come farlo e non siamo riusciti
                      a trovare un modo e abbiamo lasciato perdere. Però, anche lì,
                      con del tempo a disposizione, probabilmente saremmo riusciti a
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Tigella

  • 1. Crowdfunding e contenuti liquidi Il giornalismo partecipativo e digitale di @tigella conversazione con Claudia Vago a cura di Mario Tedeschini Lalli N ella primavera del 2012 una giovane donna si è seduta da- vanti a me in redazione e mi ha chiesto che cosa mi aspet- tassi da lei e dal suo lavoro. Sono un vecchio giornalista, di agenzia, di quotidiano, digitale, multimediale e di tanto altro ancora, insomma un giornalista veramente vecchio e nella mia vita professionale non era mai capitato di essere consultato come «editore». Un editore che insieme a qualche altra decina di «edi- tori» come me aveva donato qualche euro per mandare lei, la giovane donna, negli Stati Uniti per raccontarci il movimento Occupy Wall Street e lei ci stava incontrando uno per uno per chiedere consiglio, sapere perché l’’avevamo finanziata e che cosa ci aspettavamo dalla nostra improbabile «inviata». La donna si chiama Claudia Vago, all’’epoca aveva 33 anni ed era più nota al grande pubblico –– dal quale aveva pescato i suoi occasionali «editori» –– con il nome dato al suo blog: Tigella (http:// tigella.altervista.org/), come la tigella modenese, uno dei prodotti di quell’’Emilia dove fino ad allora Claudia aveva vissuto e lavo- rato come responsabile della comunicazione di una serie di enti pubblici e aziende locali. È un fatto però che al momento in cui scrivo, se si cerca «tigella» su Google si ottiene come primo link 187 Problemi dell’’informazione / a. XXXVII, n. 2, agosto 2012
  • 2. il lavoro dei giornalisti/2 l’’account Twitter di Claudia «@Tigella» Vago, e solo al secondo posto la voce di Wikipedia sul prodotto dal quale ha preso il nome. Gli è che @tigella è diventata un fenomeno su Twitter, quasi un personaggio che migliaia di «follower» seguono per essere infor- mati. Il tutto era cominciato nel gennaio 2011 con lo scoppio della rivolta popolare in Tunisia, punto di avvio di quella che sarebbe stata poi definita la «primavera araba». Claudia seguiva alcuni account tunisini, insieme al marito di origine in parte tu- nisina, e cominciò a valutarli e ri-twittarne i contenuti (cioè a rilanciarli), diventando in Italia uno dei punti di snodo dell’’in- formazione sulla rivoluzione araba sui network sociali. Una popo- larità che l’’ha spinta l’’anno successivo a tentare un esperimento di «crowdfunding»: chiedere al proprio pubblico un finanzia- mento per andare di persona negli Stati Uniti a raccontare da vicino un altro movimento popolare, quello che era iniziato il 17 settembre 2011 sotto il nome di Occupy Wall Street. Claudia ce l’’ha fatta, ha raccolto 2.600 euro in una decina di giorni grazie alla piattaforma «Produzioni dal basso –– nuove co- munità economiche» (http://www.produzionidalbasso.com) e alla fine di aprile è partita per New York, dove ha assistito «da den- tro» a manifestazioni e cortei, per poi spostarsi a Chicago dove il movimento «Occupy» intendeva contestare il vertice della NATO che si svolgeva in quella città. A un certo punto –– lo leggerete nell’’intervista –– Claudia non ha retto alla tensione e alla pressio- ne psicologica del confronto tra manifestanti e polizia, ha molla- to, è tornata a New York, e poi in Italia. A luglio «Problemi del- l’’informazione» ha deciso di intervistarla per fare con lei un bi- lancio dell’’esperimento. Per quanto riguarda questo scrivente «editore», il bilancio non può che riferirsi alle sue attese che –– spiegò a Claudia in quell’’in- contro di primavera –– avevano pochissimo a che vedere con l’’og- getto del suo racconto (il movimento Occupy), e moltissimo con il metodo. Proprio sul piano del metodo la sottoscrizione di Claudia suscitò qualche polemica, specie da quanti la accusavano di «svendere» il proprio lavoro. Allo stesso tempo altri lodarono l’’impresa come un esempio del «giornalismo del futuro». 188
  • 3. Crowdfunding e contenuti liquidi Chi scrive ritiene che l’’esperimento sia stato utile e interessante, anche se sul piano del contenuto è stato assai meno innovativo di quanto si sarebbe potuto sperare. Qualche riflessione in proposito: 1. Interessante la dimensione del finanziamento diffuso (crowdfunding), una tecnica che si va diffondendo ampiamente in diversi settori. Nell’’estate del 2012, per esempio, l’’attrice Whoopi Goldberg ha raccolto 65.000 dollari sulla piattaforma Kickstarter per finanziare un documentario che intendeva girare. E quasi contemporaneamente a Claudia Vago, un altro giornali- sta italiano, Andrea Marinelli (http://iltradingpost.wordpress.com), ha raccolto finanziamenti per continuare a seguire tutta la sta- gione delle primarie presidenziali negli Stati Uniti. Il sistema fun- ziona, non sarà «il futuro del giornalismo», ma può esserne parte –– anzi, ne è già parte. 2. Quanto alle accuse che le sono state rivolte di «svendere» il proprio lavoro, chi scrive è d’’accordo con quello che Claudia af- ferma nella intervista, ma va oltre: quelle polemiche dimostrano l’’incomunicabilità e l’’irriducibilità del mondo digitale al mondo analogico. È vero, probabilmente questo «deprezza» il lavoro del giornalista, ma (ci piaccia o no) è un lavoro il cui prezzo nell’’universo digi- tale tende a zero, ed è abbastanza clamoroso che comunque Claudia sia stata «pagata» per questo e se non lo faceva Claudia lo avrebbe fatto qualcun altro, lo ha fatto in effetti qualcun al- tro, vedi qui sopra Andrea Marinelli. Il digitale disintermedia e occorre fare radicalmente i conti con questa realtà, non ci posso- no essere né istituzioni o norme che re-intermedino l’’informazio- ne giornalistica (della serie: «Tu a New York non ci vai e non scrivi nulla perché non hai la patente e non vieni pagata quanto teoricamente ––?–– dovresti»), né soluzioni politico-moralistiche («convincere» le Claudie di questo mondo che non è «giusto» non muterebbe la realtà della disintermediazione). L’’esperimento di Claudia piuttosto dimostra come anche nel di- gitale sia possibile creare valore e come, in una certa misura, la «reputation economy» funzioni: con il suo lavoro precedente, con la sua credibilità così ottenuta, Claudia è riuscita ad ottenere un prezzo, per quanto basso. 189
  • 4. il lavoro dei giornalisti/2 3. Anche intorno a questo episodio si sono ripetute le diatribe sul giornalismo professionistico e su quello amatoriale. Questione mal posta, essendo quello del digitale un universo dai confini permea- bili. Claudia stessa –– lo leggerete –– mette ripetutamente le mani avanti per spiegare che non è «una giornalista», che non ha mai pensato di esserlo, ecc. È una excusatio non petita: quello che Claudia è andata a fare in America è giornalismo, che lo volesse o no, buono, cattivo, ma giornalismo. Un giornalismo fatto da una –– forse –– non giornalista. D’’altra parte, andando avanti nella chiacchierata, @tigella parla di fatto da giornalista: lamenta l’’assenza di una «redazione» alle sue spalle, ammette che lo scoprire, verificare e raccontare storie è una funzione tanto sua quanto dell’’ipotetico «giornalista» e –– specialmente –– accetta di discutere gli scopi e gli esiti del suo esperimento nell’’ambito di una discussione sul giornalismo. Anche per questo è utile che l’’esperimento sia avvenuto. 4. I risultati sul piano del contenuto sono stati inferiori alle attese della stessa Claudia. Claudia ha toccato con mano i limiti di un approccio non professionale a un mestiere complicato. Si badi: qui si intende professionale non in senso giuridico, ma in via di fatto: mancanza di una redazione di supporto, mancanza di pre- parazione pratica e psicologica, scarsa abitudine alla pressione. Questo non vuol dire che non sia possibile avere tutto questo anche in ambito amatoriale, o semi professionistico, solo che in questo caso non c’’è stato. 5. Sempre sul piano dei contenuti era particolarmente interessan- te l’’idea –– questa, sì, assai distante dai modelli tradizionali di reportage giornalistico –– di produrre contenuti «liquidi», singoli elementi informativi (un tweet, un video, un piccolo testo, una foto) da collocare in una griglia dove su un asse si sarebbero or- dinati i «luoghi», le «persone», gli «oggetti» ecc., mentre sull’’al- tro asse si sarebbero ordinati gli eventi («cortei», «discussioni», «arresti», o cose così). Sarebbe stato così possibile «leggere» i con- tenuti secondo i percorsi di maggiore interesse per i fruitori, ad esempio: tutti gli arresti, tutti gli arresti in quel luogo, tutte le persone in quel luogo in quel giorno, ecc. Sarebbero stati forniti tanti «puntini» che ognuno avrebbe potuto unire secondo propri 190
  • 5. Crowdfunding e contenuti liquidi criteri creando un proprio «disegno». Claudia stessa si ripropone- va di offrire a un certo punto un proprio disegno. 6. La griglia è un’’idea che Claudia ha mutuato da Federico Ba- daloni, che si occupa di architettura dell’’informazione e proget- tazione web per il Gruppo Editoriale L’’Espresso, un’’idea la cui realizzazione è rimasta tuttavia molto al di qua delle speranze. Il «disegno» di Claudia non si è concretizzato né in corso d’’opera, né successivamente. Nell’’intervista –– effettuata a luglio –– ha an- nunciato che avrebbe pubblicato qualcosa per il 17 settembre, in occasione del primo anniversario del movimento Occupy Wall Street. Ciò che è stato effettivamente messo in rete (http:// occupywallst.altervista.org/), al momento della redazione di que- sta intervista appariva in realtà ancora molto lontano da ciò che la stessa autrice si proponeva. 7. Per quanto riguarda la crisi psicologica subita verso la fine della sua impresa è curioso notare –– nel racconto di Claudia –– un tipico scambio caporedattore-inviato, della serie «Non ti la- mentare, muoviti e torna sul posto», solo che il «caporedattore» era in realtà un lettore-editore. Sempre a proposito della crisi è bene tener presente che tecnica- mente non è possibile per gli stranieri lavorare come giornalista negli Stati Uniti se non si ha un visto stampa sulla base di un accredito di una testata: fosse stata fermata dalla polizia, Clau- dia avrebbe dovuto scegliere tra dire che stava manifestando (ed essere incriminata con una delle numerose strane accuse che la polizia ha fatto ai manifestanti arrestati) o affermare di essere una giornalista, ma senza il visto rischiava l’’espulsione dal Paese. Basta commenti, seguono ampi estratti dell’’intervista a Claudia Vago, raccolti per argomento. Il testo –– trascritto dalla registrazio- ne audio –– è stato in parte accorciato ed editato solo in modo molto lieve. L’’ordine degli argomenti affrontati è quello dell’’in- tervista originale, con l’’eccezione del secondo e terzo paragrafo della parte su «giornalismo professionale» o no, che sono stati pronunciati successivamente e aggregati al primo per ragioni di coerenza narrativa. Dovunque si interrompa la trascrizione delle parole di Claudia compare il segno [...], tra parentesi quadra le pochissime interpolazioni redazionali. 191
  • 6. il lavoro dei giornalisti/2 C he cosa fa «Mi sono sempre definita una contastorie, nel senso che attraver- Claudia Vago, so la rete quello che faccio per lavoro, per passione, per passare il di che cosa si occupa tempo, è raccontare storie. Che sia il racconto di un territorio, dei suoi prodotti tipici, dei suoi personaggi, la sua storia, le sue ca- ratteristiche ecc., per promuovere il turismo in una regione o che sia raccontare una rivolta in una qualche parte del mondo [...] una contastorie digitale –– perché i pezzi, i frammenti che cucio insieme per costruire una storia arrivano dal web. [...] Nel mon- do anglosassone chi fa quello che faccio io si chiama ““social media curator””. È qualcuno che cura i flussi di informazioni che circo- lano sui social media. E curare significa... intanto trovarli [...] sembra una cosa banale, ma non sempre è così, trovarli, filtrarli, capire di che cosa si sta parlando, capire da chi provengono le informazioni, quindi capire se la fonte è una fonte affidabile e autorevole, se l’’informazione è vera o no, se è completa o no e sulla base di questo decidere se usarla e come usarla». Il suo rapporto «Non mi sono mai definita una giornalista, perché non lo sono. con il giornalismo Non ho esperienza di giornalismo, non ho mai lavorato per una redazione, avrò scritto quattro articoli in croce per un giornale locale dieci anni fa, quindi non mi posso definire una giornali- sta». [...] «[Anche dopo essere tornata]continuo a non pensarmi come gior- nalista, perché sarebbe assurdo insomma. Anche perché non è strettamente giornalismo quello che faccio, per cui è forse ridut- tivo dire giornalista. Poi è chiaro che spesso, per semplificare, quando anche a New York mi dovevo presentare a qualcuno di- cevo che ero una giornalista free lance, che era molto più semplice di dover stare a spiegare... poi quando si entrava nel dettaglio spiegavo la faccenda della ““curation””, il lavoro che avevo fatto sulla primavera araba...». [...] «È complicato, ecco. [...] Per me giornalismo è raccontare storie, quindi tutto sommato non è molto diverso da quello che faccio. È osservare il mondo, capire quello che si guarda per poi poterlo raccontare, per me è questo e non è molto diverso da quel che faccio. In realtà io osservo –– che sia attraverso lo schermo di un computer o andando in un posto –– [io] cerco di capire quello che 192
  • 7. Crowdfunding e contenuti liquidi mi sta passando davanti agli occhi e cerco il modo di riorganizzar[lo][...] per costruire una storia da raccontare». «Prima di andare a New York ero questo, facevo questa cosa, solo Le ragioni ed esclusivamente attraverso uno schermo di computer [...] fil- dell’’esperimento trando contenuti che altri condividevano sui social network. E poi ho pensato di fare questo salto, di provare a vedere com’’era essere dall’’altra parte». [...] «Per capire meglio questo movimento, Occupy Wall Street [...] mi interessava vederlo da vicino, perché attraverso uno schermo di computer comunque si ha una visione parziale delle cose, manca il contesto, mancano un sacco di elementi che servono a capire e meglio. [...] È un anno che lo seguo questo movimento e sentivo il bisogno, per continuare a raccontarlo, di vederlo e quindi ho detto: ““Facciamo il passo dall’’altra parte dello schermo””». «Mi sono anche detta che tutto sommato –– adesso la dico magari un po’’ brutalmente –– io era più di un anno che facevo in qual- che modo un servizio a chi mi seguiva, con tanto di riconosci- menti, di gente che mi ringraziava, [che diceva] ““Se non ci fossi tu queste cose non le sapremmo...”” e allora mi sono detta: perché non provare a chiedere a queste persone che sono così contente di quello che faccio, che mi ringraziano eccetera, se hanno voglia non dico di investire una grande cifra ma dieci euro per aiutarmi a coprire le spese sostanzialmente, o poco più, per andare a ve- dere questa cosa di Occupy Wall Street? Lì è nata l’’idea di fare del crowdfunding per finanziare la missione». «A me interessava principalmente riuscire a farla questa cosa più Le polemiche che guadagnarci uno stipendio. [...] Non [avevo intenzione di di- prima della partenza scutere] se questo sia un modello sostenibile o no per il giornali- sui modelli smo, c’’era chi diceva di no perché con così pochi soldi non ci di giornalismo campi. E questo è vero, però a me principalmente interessava riuscire a farla questa cosa, dimostrare che si può fare, per poi eventualmente la prossima volta alzare il prezzo e dire: oltre alle spese mi pagate anche le ore di lavoro che ci metterò per elabo- rare tutto il materiale che avrò raccolto e prodotto. Però credo che fosse importante riuscire a farlo, dimostrare che c’’è anche questo 193
  • 8. il lavoro dei giornalisti/2 modo per fare le cose, che da noi era una novità –– infatti è stato accolto come una rivoluzione, ma in realtà inchieste prodotte in questo modo altrove nel mondo sono la normalità. Mi interessava provare a importare un modello». «Non è un modello replicabile da chiunque. Io ce l’’ho fatta perché mi sono costruita una reputazione in qualche modo, in un anno e mezzo di lavoro fatto credo bene, per cui mi è stato facile trovare persone che mi sostenessero, mi finanziassero. Allo stesso modo Andrea Marinelli, che poco dopo di me ha fatto anche lui la sua raccolta fondi per seguire le primarie repubblicane in giro per gli Stati Uniti, anche lui è riuscito nel suo intento di raccogliere i fon- di che gli servivano perché anche lui ha una sua reputazione co- struita nel tempo, persone che lo leggono e che quindi volevano il suo sguardo sulle primarie e hanno dato il loro contributo. [...] È un po’’ come quando io compro il giornale: io compro Repubblica perché mi fido di Repubblica, del suo punto di vista, io non ho idea di che cosa ci sarà scritto dentro nel giornale di oggi». [...] «Non sarà una soluzione per il giornalismo, cioè che da domani il giornalismo sarà finanziato in crowdfunding e tutti finanzie- ranno il loro cronista preferito con servizi online di raccolta fondi. Il futuro è fatto di tantissime forme diverse e io non riesco nean- che a immaginarle tutte sinceramente [...] So di certo che questa potrebbe essere una delle cose, perché può succedere che una determinata storia mi interessi leggerla attraverso le parole e gli occhi di una determinata persona che so conoscere bene la mate- ria, che so avere una passione particolare per quella cosa, perché mi piace come scrive, mi piace lo sguardo che ha sulle cose e quindi quella cosa lì me la voglio far raccontare da lui e non da un altro e allora finanzio lui. Però appunto è una forma, non credo che sia possibile tenere in piedi il sistema dell’’informazione in questo modo». L a griglia «L’’idea era di raccogliere ogni singolo stimolo, informazione, no- dei contenuti tizia, parola sentita o vista, immagini di qualsiasi tipo e collocar- li in una sorta di tavola ideale, di matrice, all’’incrocio di un paio di punti che indicassero il contenuto –– cioè che cos’’era l’’informa- zione, lo stimolo –– e che tipo di racconto definiva, cercando però 194
  • 9. Crowdfunding e contenuti liquidi di non avere già in testa la storia: ogni frammento è un fram- mento, che viene collocato in un punto e la storia viene poi co- struita mettendo insieme questi frammenti, collegandoli per il tipo di senso che si vuole dare alla storia. Quindi mettendo insie- me tutti i ““luoghi”” che si sono visti, i ““volti””, o incrociando i vol- ti con i luoghi; incrociando –– che so –– i rapporti dei manifestanti con la polizia con i luoghi, per capire come i luoghi influenzino questo tipo di rapporto, e quindi costruire il senso». «Costruire il racconto DOPO, in una seconda fase, non mentre si stanno guardando le cose, avendo già in testa dove si vuole an- dare a parare prima che le cose si siano completamente svelate. Questo è per me un modo di lavorare molto digitale, nel senso che è fatto di bit, cioè sono ““piccoli frammenti””, pezzetti che in sé hanno un significato, ma che ne acquisiscono di più quando vengono collegati gli uni agli altri. E io li collego in un determi- nato modo perché vedo delle storie e racconto quelle storie, ma questi frammenti possono essere utilizzati da chiunque altro, col- legati in altro modo, magari in modo che io non avevo neanche immaginato, per costruire altre storie. E questa è veramente la differenza tra l’’analogico e il digitale, il fatto che chiunque possa farsi la sua storia a partire dagli stessi elementi che vengono [messi] a disposizione». «Si tratta di raccogliere tutto quello che lì per lì [sembra] avere un senso, essere importante, però senza mentre sei lì costruire collega- menti con le altre [cose] perché non si sa che collegamenti possano esserci tra i vari elementi. In un secondo momento si passa alla fase in cui questi puntini vengono uniti e ne esce un disegno». «Molto faticoso, però... Io ho avuto la fortuna di osservare tutte Il lavoro queste cose perché sono arrivata con questo status non esatta- a New York e a Chicago, mente da giornalista, per quello mi sentivo a tratti un’’antropolo- coinvolgimento ga più che una giornalista. [...] anche se io ero sempre molto in e distacco disparte. Nel senso che alle riunioni non ho mai detto nulla, a «professionale» parte le presentazioni di rito –– perché lì quando si ritrovano fan- no sempre un primo giro in cui uno dice chi è cosa fa lì, anche se si conoscono tutti –– quindi io, a parte presentarmi e dire ““Sono Claudia e vengo dall’’Italia, sono qui per guardarvi e raccontarvi””, 195
  • 10. il lavoro dei giornalisti/2 a parte questo non ho mai detto la mia su nulla. Non era il mio ruolo, io non ero lì per fare Occupy Wall Street, ero lì per guar- dare Occupy Wall Street. Poi, sì, ho partecipato alle manifestazio- ni, ma [...] ero sempre da un lato a guardare. Ovviamente, per capire la manifestazione e le dinamiche anche nel rapporto con la polizia eccetera, bisognava esserci dentro non si poteva farlo da due strade più in là o da casa e poi farselo raccontare da chi c’’era, bisognava per forza essere lì. Però essere lì per guardare, non per... per –– non so –– manifestare... Per quanto in alcuni casi potevo essere d’’accordo con loro o magari se fossi stata in un al- tro contesto avrei anche manifestato insieme a loro, però io non ero lì per quello. [Necessità di una distanza] ma non tanto per una questione di obiettività, perché quella chissà poi nemmeno se esiste, ma perché per osservare troppo coinvolgimento impedisce di guardare come si deve, mette un po’’ i paraocchi, mentre lo sguardo deve poter spaziare». L a mancanza «Una cosa che è mancata completamente a me è una redazione a di una «redazione» casa che mi desse una mano. L’’essere completamente da sola... andava bene che ero in un posto dove c’’era connessione ovun- que, per cui potevo sempre bene o male collegarmi, sistemare le cose che non ero riuscita a fare dal telefono, per esempio. Però non sempre era possibile, perché gli impegni erano tanti, le cose da fare erano tante, posti da vedere, persone da incontrare, per- sone con cui parlare. Ho avuto un mese di giornate pienissime: avessi avuto qualcuno a casa che mi facesse un po’’ da redazione sarebbe stato meglio. Credo che in questo tipo di lavoro quello che serve è quello, che mi è mancato e che la prossima volta dovrei avere. [...] Quando stai in giro tutto il giorno e magari non hai il tempo, avere qualcuno, una redazione che si preoccu- pa di fare il back office di quello che stai facendo è utile». L a crisi «Ho letteralmente gettato la spugna negli ultimi giorni, dopo di Chicago Chicago. [...] Tornata da Chicago [a New York] sono andata da e la «resa» una psicologa... è vero: io psicologicamente non ce l’’ho più fatta. Un po’’ perché, appunto, mi mancava un appoggio dietro, mi sentivo completamente sola, dall’’altra parte dell’’oceano da sola a 196
  • 11. Crowdfunding e contenuti liquidi dover gestire questa enorme mole di cose. E poi le giornate di Chicago sono state veramente molto dure, perché era dura la si- tuazione. C’’era una pressione psicologica pazzesca da parte della polizia, sembrava quasi di stare in guerra. Se lo racconto in Ita- lia, mi sento ridicola, perché noi abbiamo visto [il G8 di] Geno- va e se racconto che cosa è stato Chicago la gente ride, perché violenze-violenze ce ne sono state pochissime, giusto nella giorna- ta di domenica la polizia ha manganellato qualcuno, ma vera- mente poca roba –– non ci sono stati lanci di lacrimogeni, non c’’è stato nulla dello scenario che ci si immagina per una manifesta- zione violenta. Però c’’era questa violenza psicologica costante per tre giorni che sono stata lì, che mi ha fatto completamente crol- lare. Sono arrivata a un certo punto che non ce la facevo più. Tutta la stanchezza accumulata nelle tre settimane prima, poi quei giorni lì, io sono tornata completamente annientata e ho detto: ““Basta, non ce la faccio, non c’’è nessuno che mi dà sup- porto, quello che faccio va a finire un po’’ nel nulla”” [...] Finiva un po’’ nel nulla perché non c’’era nessuno che me lo riorganizzas- se secondo quella ordinata e quella ascissa che ci eravamo dati e io non sempre riuscivo a farlo, perché se ero nel mezzo di una manifestazione non sempre riuscivo a indicare in quale punto della matrice dovesse andare a finire quel pezzetto che avevo rac- colto e mi sarebbe servito qualcuno a casa che lo facesse per me». [...] «Ho scritto in tweet scherzando, che io a New York avevo l’’avvo- cato e lo psicologo, quindi potevo cominciare a chiamarla casa, perché ero appena uscita da questo incontro con un’’amica di un’’amica che fa la psicologa. E mi ricordo che questa amica del- l’’amica, quando ha saputo che andavo a Chicago... alla mia ami- ca ha detto: ““Ah, se quando torna ha bisogno di parlare, dille che ci sono””. Lei me lo ha riferito e io l’’ho presa in ridere: ““Sì, figurati, perché mai...”” E poi sull’’aereo mentre tornavo da Chi- cago ci ripensavo e appena sbarcata ho mandato un messaggio dicendo: ““Senti un po’’, non è che la tua amica ha tempo domani di vedermi””? Quindi appena sbarcata a New York la prima cosa che ho fatto è stata chiedere [notizie di] un amico mio [che era] stato arrestato vedendone la foto su ““Huffington Post””, e l’’altra 197
  • 12. il lavoro dei giornalisti/2 immediatamente dopo è stata mandare questo messaggio per chiedere appuntamento con la psicologa. Per cui, sì, oggettiva- mente negli ultimi giorni ero completamente annientata». [...] «Trovarsi dall’’altra parte dell’’oceano, da sola, con tutti gli occhi puntati addosso –– perché comunque c’’era una discreta attenzione per quello che stavo facendo –– quindi con la paura di deludere, con un universo da scoprire, in una città in cui non ero mai stata nella vita, perché era la mia prima volta a New York (e anche se non sembra, non è banalissimo da gestirsi in una città come New York), da sola, senza nessuno che da casa mi facesse un lavoro di back office, il tutto per più di tre settimane... diciamo che quan- do sono arrivata ero abbastanza arrivata in fondo». Le critiche «A un certo punto mi sono anche sentita sgridare perché la do- per aver menica a un certo punto mi sono allontanata dalla manifestazio- «mollato» ne. C’’è qualcuno su twitter che mi ha detto: ““Cosa fai sei matta, torna là, devi essere lì dentro a raccontare”” e io cercavo di far capire che sembra facile, ma ti trovi da sola... anche perché io, per evitare troppi problemi, in realtà durante le manifestazioni non stavo mai con questi amici newyorchesi: loro stavano per i fatti loro a manifestare e io andavo libera in giro, così... mi spo- stavo, andavo... proprio per poter osservare e quindi ero da sola, da sola in quel contesto con tutta quella polizia, armata a quel modo con la pressione che faceva, col fatto che se anche ti allon- tanavi dalla manifestazione, ammesso che ci riuscissi (un paio di volte non me l’’hanno fatto fare) bisognava spostarsi di quattro cinque [isolati] prima di smettere di avere centinaia di poliziotti intorno. È dura, non sembra, ma tu non hai nient’’altro che il tuo zainetto sulle spalle...». [...] «C’’è stata su twitter un po’’ di discussione, solo con lui... c’’era qualcuno che mi ha difeso. Soprattutto mi ha difeso gente che conosce la realtà delle manifestazioni americane. Lui sosteneva: ““Vabbè, stai appena fuori dalla manifestazione e guarda””. Ma tu non hai idea, io non posso stare appena fuori dalla manifestazio- ne perché non mi ci fanno stare. Perché o mi tengono dentro alla manifestazione, quindi col pericolo di essere arrestata, di prender- le se cominciano a darle ecc., oppure se ne esco, ne esco –– nel 198
  • 13. Crowdfunding e contenuti liquidi senso che mi fanno proprio andare via. Non esiste l’’osservare ap- pena fuori, o ci sei dentro o la leggi da Twitter. E io in un paio di momenti mi allontanavo [...] perché quando capivo che l’’aria si metteva male, che cominciavano arresti ecc. [...] io non volevo essere arrestata e quindi cercavo di allontanarmi. Anche perché sarebbe stato veramente ridicolo: essere arrestata perché stavo lì a protestare, va bene, lo metto in conto, ci sta –– ma essere arrestata perché sono lì a fare delle foto, a guardarmi intorno a prendere appunti su quello che succede, mi sembra veramente ridicolo». «Quando hai un cartellino con scritto PRESS addosso è tutto Il tesserino più facile, io credo che se avessi avuto quello credo che l’’avrei «stampa» è utile vissuta diversamente. Nel senso che avrei avuto molta meno paura, mi sarei dovuta guardare molto meno alle spalle, nel sen- so che se mi avessero preso avevo comunque un tesserino che di- ceva ““Stampa”” e che giustificava il mio essere lì pur da cittadina straniera. Invece così sono una cittadina straniera che si trova nel mezzo di una manifestazione e vaglielo a spiegare che io sono lì per raccontarlo. [...] Se uno non ha visto che cosa è una manife- stazione lì, non si rende conto del rischio che si corre, costante- mente. Io qui in Italia non mi preoccuperei minimamente di ave- re un cartellino che dice che io sono stampa a una manifestazio- ne, perché basta stare a una distanza ragionevole da dove c’’è casino per non rischiare nulla. O comunque è abbastanza facile uscirne. Lì le dinamiche di piazza sono completamente diverse e quindi non è detto che il fatto di stare lontano dal casino». «[Sono state fatte] poche cose: alcuni Storify1 [...], qualche ten- La scarsa tativo sia pur molto timido c’’è stato. È anche vero che era un riutilizzazione dei suoi materiali primissimo esperimento, e che i materiali non erano facilmente e il modello estraibili dal sito, per come l’’avevamo fatto. [...] Avremmo dovu- di informazione to avere un contenitore, un sito migliore; [è successo] forse anche partecipata 1 Storify è uno strumento che consente di aggregare materiali presi dai media sociali (Twitter, Facebook, YouTube, ecc.), selezionarli, mischiarli con testi propri, elementi presi da altre pagine web e comporre un racconto composito. 199
  • 14. il lavoro dei giornalisti/2 perché l’’idea che gli altri erano liberi di prendere e usare l’’ho spiegata abbondantemente (ci ho dedicato un paio di post prima di partire), però era una cosa anche un po’’ nuova... [...] Quando ho fatto il mio giro di telefonate a un po’’ di finanziatori facevo questa domanda: ““Se io metto a disposizione questi materiali, li useresti e come? Che tipo di materiali ti servirebbe di più: video, foto, testi””? Era una domanda che spiazzava, sono rimasti tutti spiazzati all’’idea di riutilizzare il materiale. [...] Uno si aspetta il racconto fatto e finito, mentre io non volevo fare un racconto che fosse fatto e finito. Volevo che ci fosse il mio racconto, il mio sguardo, il mio punto di vista, ma che chiunque potesse metterci il suo. E secondo me era la parte più ““innovativa””, forse, e quindi quella più difficile da capire. Forse anche per questo non ha funzionato. [...] Sono convinta che ci sia un insieme di ragioni per cui non ha funzionato quella cosa, non è una sola ragione. E sono anche convinta che il modello sia possibile, probabilmente bisogna trovare un tema più... più... Probabilmente se fossi occu- pata delle primarie del PD avrei trovato più...» [ascolto]. «Può darsi anche [che ci fossero troppi elementi informativi] e quindi ho complicato il panorama per chi guardava, faticava a trovare una strada. È possibile. Soprattutto quando hanno co- minciato a moltiplicarsi i temi e quindi naturalmente districarsi diventa più complicato. Però io sono abbastanza serena, nel senso che era un esperimento, io non pensavo di partire per fare una cosa perfetta. Io pensavo di partire per verificare se questa cosa era fattibile [...]. Io rimango convinta che sia un modello interes- sante e probabilmente non applicabile a tutto... non tutto può essere raccontato in questo modo. Indubbiamente c’’è bisogno di una professionalizzazione, nel senso di avere appunto una reda- zione alle spalle, persone che siano in grado di sviluppare degli strumenti informatici che servono per automatizzare una serie di operazioni, per rendere più facilmente navigabile e ricercabile il sito, per rendere probabilmente anche visibile la matrice, quei puntini... forse sarebbe stato anche più facile per la gente capire. Noi ci abbiamo provato a pensare come farlo e non siamo riusciti a trovare un modo e abbiamo lasciato perdere. Però, anche lì, con del tempo a disposizione, probabilmente saremmo riusciti a 200