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REDDITO MINIMO E POLITICHE DI CONTRASTO ALLA POVERTA’
                                              IN ITALIA


                  Versione ridotta e aggiornata del Working Paper URGE 1/2005,
         di prossima pubblicazione in “Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale” n. 3/2005




                                               Stefano Sacchi
                    Unità di Ricerca sulla Governance Europea, Torino
                                         stefano.sacchi@urge.it




           URGE is the Research Unit on European Governance of the Collegio Carlo Alberto Foundation
            Address: URGE, Collegio Carlo Alberto, Via Real Collegio 30, 10024 Moncalieri (Turin), Italy
                                              Website: www.urge.it
1. Introduzione




Dall’unità nazionale sino a pochi anni or sono, l’assistenza sociale è stata questione largamente negletta da
parte dei decisori pubblici italiani1. Il tratto caratteristico di tale settore in Italia è senz’altro l’assenza di una
misura di reddito minimo2. Mancando un programma siffatto, le prestazioni di assistenza sociale sono
rivolte a specifiche categorie di bisognosi quali gli invalidi o gli anziani. Per aver diritto ad una prestazione
di assistenza sociale, un individuo deve in primo luogo appartenere ad una categoria “protetta”, e poi
superare la prova dei mezzi. Piuttosto che in servizi e in prestazioni in natura, tali misure consistono
principalmente in trasferimenti monetari: nel 2004, solo il 21,2% della spesa pubblica per prestazioni di
assistenza sociale andava a servizi o prestazioni in natura. Il restante 78,8% era destinato a trasferimenti
monetari, ed oltre il 57% di questa somma (il 45% della spesa pubblica totale per assistenza sociale) veniva
assorbito dalle pensioni di inabilità civile, che fanno dunque la parte del leone nell’assistenza sociale
italiana3.
Oltre agli schemi nazionali di assistenza sociale, esistono varie misure di assistenza a livello subnazionale
(regionale o comunale). Gli schemi locali di reddito minimo sono un esempio significativo. Sebbene non
esista a livello nazionale una misura di reddito minimo, in alcune realtà locali italiane sono in vigore ormai

1 Al riguardo, vedi M. FERRERA, Il welfare state in Italia, Bologna, 1984, e S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill but
stopping halfway. The troubled journey of the experimental minimum insertion income, in M. FERRERA (a cura di), Welfare State Reform in
Southern Europe, Londra, 2005, 84 ss. Idealtipicamente, per assistenza sociale s’intende una modalità di intervento pubblico volto
ad assicurare protezione sociale attraverso misure rivolte a specifiche categorie di bisognosi, condizionali all’accertamento di un
bisogno individuale manifesto (selettività) e all’impossibilità del bisognoso di farvi fronte con mezzi propri (residualità).
L’erogazione delle prestazioni prescinde da requisiti di tipo contributivo e il finanziamento avviene via fiscalità generale.
Nonostante i caratteri di selettività e residualità, le prestazioni assistenziali configurano dei diritti sociali in quanto erogate
automaticamente a chiunque si trovi nelle condizioni previste. Di particolare rilevanza è il contrasto della modalità dell’assistenza
con quella dell’assicurazione sociale, connotata da un’intervento pubblico che preveda prestazioni standardizzate erogate in modo
automatico a destinatari individuati dal proprio legame con il mercato del lavoro (natura occupazionale), e condizionali al
finanziamento individuale attraverso contributi—seppure col tempo si sia indebolito il legame, per il singolo beneficiario, tra
contributi versati e prestazioni erogate. Vedi, su tutto questo, M. FERRERA, Modelli di solidarietà, Bologna, 1993.
Operativamente, per assistenza sociale si intende di regola l’insieme di quei programmi volti a garantire un livello minimo di
risorse a chi si trovi in condizioni di bisogno manifesto e sottoposti ad una qualche forma di prova dei mezzi, cioè di verifica
dell’impossibilità di far fronte al bisogno con mezzi propri (tipicamente il reddito, ma talora anche il patrimonio). Spesso le
misure di assistenza sociale presentano degli elementi categoriali, condizionando cioè il diritto a fruire di una data prestazione
all’appartenenza del beneficiario ad una categoria (ad esempio quella delle madri con figli minori) il cui criterio di demarcazione
non sia di tipo monetario o patrimoniale. Talvolta, in letteratura, il concetto di assistenza sociale denota tutte le misure che
abbiano finalità redistributive verticali ed orizzontali e siano sottoposte alla prova dei mezzi, indipendentemente dalla loro natura
assistenziale (nel senso idealtipico sopra precisato) o assicurativa (e quindi riservate solo a chi abbia alle spalle una storia
contributiva, sia stato occupato e abbia versato i contributi sociali per un certo periodo di tempo). Quello che conta, in questa
accezione ampia di assistenza sociale, è che la prestazione di protezione sociale sia sottoposta alla prova dei mezzi. In quanto
segue, non adotterò tale accezione di assistenza sociale, termine che denoterà quindi, in quanto segue, soltanto quegli interventi
che non abbiano una natura assicurativa. Questo perché esiste a mio avviso una rilevante differenza tra misure accessibili in via
di principio da tutti i cittadini (o addirittura i residenti) e misure accessibili solo da chi abbia lavorato per un certo periodo (e che
quindi tipicamente si rivolgono ai core workers escludendo gli studenti, i giovani in cerca di prima occupazione, le giovani madri, le
donne con insufficienti storie contributive, molti lavoratori atipici, i lavoratori impiegati nell’economia sommersa, gli immigrati).
Certamente, giacché l’interesse è qui sulle misure di contrasto alla povertà in Italia, verranno prese in considerazione anche le
misure di tipo assicurativo, basate su di una storia contributiva precedente, ma rimarcando la loro differente natura rispetto a
quelle di tipo assistenziale.
2 Vedi N. NEGRI, C. SARACENO, Le politiche contro la povertà in Italia, Bologna, 1996.
3 Fonte: MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese - (2004),

Roma, 2005.

                                                                   1
da tempo degli schemi (detti di minimo vitale) volti a fornire ai poveri una prestazione sottoposta alla prova
dei mezzi e non categoriale (cioè non ristretta a particolari categorie di bisognosi, ma rivolta a tutti i
cittadini che si trovino in una condizione di bisogno)4. In alcuni casi è stata una legge regionale a
disciplinare il minimo vitale, in altri sono stati i singoli comuni a decidere di istituire tale misura
indipendentemente dall’esistenza di una legislazione regionale. Ciò che rileva, comunque, è che tutto questo
è accaduto in modo fortemente disomogeneo sul territorio nazionale. Una differenziazione territoriale di tal
fatta ha inevitabilmente condotto ad una situazione nella quale i cittadini hanno accesso a prestazioni che
variano da luogo a luogo e che non dipendono tanto dalla situazione di bisogno, quanto piuttosto dal luogo
di residenza del richiedente la prestazione. In ogni caso, le prestazioni di minimo vitale non riescono a
configurarsi come diritti soggettivi, giacché la loro erogazione soggiace di regola alla disponibilità di
un’adeguata capienza nei bilanci degli enti locali5.
Le cose hanno iniziato a cambiare, a livello nazionale, a metà degli anni Novanta. L’incontro fra i problemi
derivanti dai mutamenti nei mercati del lavoro, nelle strutture familiari e nelle tendenze demografiche da un
lato ed i vincoli di finanza pubblica del dopo Maastricht dall’altro ha iscritto il tema del futuro
dell’assistenza sociale nell’agenda politica, all’interno della più ampia questione della riforma del welfare
state. Sulla scorta delle proposte avanzate dalla Commissione Onofri vennero intraprese, negli anni
seguenti al 1997, alcune fondamentali riforme: il disegno di un sistema organico di assistenza sociale
(principalmente attraverso l’adozione di una legge quadro di riferimento), la sperimentazione e
l’introduzione di nuovi programmi e, infine, l’introduzione di un nuovo metodo per valutare la situazione
economica dei potenziali beneficiari di prestazioni di assistenza sociale: l’Indicatore della situazione
economica equivalente (ISEE)6. Il pilastro mancante dell’assistenza sociale italiana, uno schema di reddito
minimo (il Reddito minimo d’inserimento) sottoposto alla prova dei mezzi, venne introdotto in fase
“sperimentale” nel 19987. Due importanti misure di contrasto alla povertà vennero anch’esse introdotte alla
fine del 1998: un trasferimento alle famiglie numerose e un trasferimento di maternità destinato a quelle
madri che non hanno diritto agli assegni di maternità di natura assicurativa.
L’innovazione di maggiore momento fu costituita dall’approvazione della legge quadro di riforma del
settore dell’assistenza sociale italiana (legge n. 328 del 2000). Architettura e implicazioni di tale riforma


4 Vedi N. NEGRI, C. SARACENO, Le politiche contro la povertà, cit.
5 Vedi S. GIUBBONI, L’incerta europeizzazione. Diritto della sicurezza sociale e lotta all’esclusione in Italia, in Gior. dir. lav. rel. int., 2003,
563 ss.
6 Per una descrizione delle caratteristiche dell’ISEE, così come delle misure introdotte alla fine degli anni ’90 vedi infra.
7 Come correttamente notato da Boeri e Perotti, quello del Reddito minimo d’inserimento (RMI) non era un esperimento,

poiché non v’era alcun gruppo di controllo, identico a (o proveniente da una scelta randomizzata nello stesso modo di) un
gruppo di trattamento (T. BOERI e R. PEROTTI, Meno pensioni, più welfare, Bologna, 2002). Semplicemente, non si intendeva in
fase “sperimentale” stimare gli effetti della misura sui beneficiari, per poi decidere se procedere alla generalizzazione: si dava per
scontato che la misura fosse efficace, e soprattutto che fosse necessaria, anche per motivi politici (l’Italia era, ed è tuttora, uno
dei due stati membri dell’Unione europea a 15 – l’altro è la Grecia – ad esser priva di uno schema nazionale di reddito minimo).
L’intento della “sperimentazione” era di carattere amministrativo-organizzativo: si voleva accertare quali fossero,
operativamente, i problemi incontrati dalle amministrazioni locali nell’erogare la misura, gestire i programmi di inserimento,
combattere le frodi e via dicendo. In questo senso, la “sperimentazione” dell’RMI ha fornito una messe di evidenza che, per
quanto aneddotica, sarebbe bene non denigrare né disperdere.

                                                                         2
sono state esaurientemente descritte e analizzate dalla letteratura di stampo giuridico e sociologico, alla
quale rimando, sicché l’unico rilievo che mette conto di formulare qui è la grande novità costituita, nel
contesto delle politiche contro la povertà in Italia, dal principio dell’universalità dell’accesso, con una
priorità accordata ai soggetti in condizione di bisogno economico, di inabilità psichica o fisica8. Sempre nel
2000 vedeva la luce, al Consiglio europeo di Lisbona, la strategia europea di lotta alla povertà e
all’esclusione sociale9.
Tale direzione sembra però esser stata smarrita negli anni più recenti. Alcuni eventi occorsi a partire dal
2001 hanno tolto vigore a quella spinta riformatrice che, dagli anni della Commissione Onofri, aveva
iniziato a muovere l’Italia verso la costruzione di un sistema che garantisca quegli standard minimi di
assistenza sociale ai quali molti cittadini europei hanno diritto10.
La riforma del Titolo V della Costituzione, entrata in vigore nell’ottobre 2001 a seguito dell’esito favorevole
del referendum confermativo ma promossa dalla coalizione di centrosinistra al governo sino alla primavera
del 2001, ha modificato la ripartizione delle potestà legislative in capo ai diversi livelli di governo11. Per
quanto riguarda l’assistenza sociale, la riforma ne ha implicitamente attribuito la competenza esclusiva alle
regioni, fatta salva la competenza del livello centrale a fissare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti
i diritti sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e l’esercizio del potere sostitutivo
volto a tutelare tali livelli essenziali12. Di fatto, anche in considerazione dell’oggettiva difficoltà di
determinare i livelli essenziali delle prestazioni sociali non monetarie, la riforma costituzionale ha almeno
parzialmente svuotato di significato la legge 328 di riforma dell’assistenza, privando il livello nazionale di
governo di quegli strumenti di coordinamento e programmazione che questo era riuscito faticosamente a
darsi dopo un’attesa di un quarto di secolo13. In conseguenza delle nuove disposizioni costituzionali, lo
stato non può dotarsi di un nuovo Piano sociale per sostituire quello scaduto nel 2003. Il coordinamento
dell’azione di policy delle regioni e dei vari enti locali in un sistema coerente appare ora considerevolmente
più difficile. L’attuazione della legge quadro sta avvenendo, in modo alquanto disarticolato, al solo livello

8 Vedi ad esempio E. BALBONI, B. BARONI, A. MATTIONI, G. PASTORI (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali.

Commento alla legge n. 328 del 2000 e provvedimenti attuativi dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Milano, 2003 tra la letteratura di
stampo giuridico e C. GORI (a cura di), La riforma dei servizi sociali in Italia, Roma, 2004 tra quella di stampo sociologico. Vedi
inoltre E. ALES, Diritto del lavoro, diritto della previdenza sociale, diritti di cittadinanza sociale: per un «sistema integrato di microsistemi», in
Arg. dir. lav., 2001, 981 ss., per una discussione del sistema integrato di servizi e interventi sociali, nonché S. GIUBBONI,
L’incerta europeizzazione, cit., per un apprezzamento della novità della legge 328 del 2000 nel contesto italiano.
9 Vedi M. FERRERA, M. MATSAGANIS, S. SACCHI, Open coordination against poverty: the new EU ‘Social inclusion process’, in Journ.

of Europ. Soc. Pol., 2002, 227 ss.
10 Per una più ampia e argomentata discussione di questi eventi, e delle conseguenze che hanno sortito, mi sia consentito di

rimandare a S. SACCHI, New Modes of Governance in the EU and Italy’s Institutional Capability, in Riv. it. pol. pubbl., 2004, 5 ss.
11 Legge costituzionale n. 3 del 2001.
12 In realtà, non si può dare per scontato che l’attribuzione della competenza circa l’assistenza sociale in capo alle regioni sia

inderogabilmente e staticamente decisa una volta per tutte: sarà qui fondamentale la judicial politics, e segnatamente il ruolo della
Corte Costituzionale. Vedi ad es. la sentenza della Corte n. 303 del 2003, nella quale si afferma che “limitare l’attività unificante
dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di
potestà concorrente, ... significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe
anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale
giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze ...”.
13 Sulla difficoltà di fissare i livelli minimi per le prestazioni non monetarie, e in particolare per le prestazioni volte a prevenire

l’esclusione ed a promuovere l’inclusione, vedi C.GORI, Applicare i livelli essenziali nel sociale, in Prosp. Soc. Sanit., 2003.

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subnazionale14. Il problema è che, in assenza di regia da parte del livello nazionale, l’attuazione è lasciata al
libero volere dei governi regionali e locali, così perpetuando precisamente quanto la legge 328 del 2000
intendeva contrastare: le disparità territoriali nel godimento dei diritti sociali, in particolare (ma non
esclusivamente) tra nord e sud15.
Pur all’interno del nuovo quadro di riferimento dettato dal Titolo V della Costituzione, potrebbe però
esservi maggiore spazio per l’iniziativa del governo centrale di quello che il governo Berlusconi II, in carica
dal giugno 2001, sia parso incline a sfruttare. Esso è parso sin qui determinato a considerare obsoleta la
legge 328 alla luce della riforma costituzionale, e per conseguenza a non curarsi della sua attuazione16. Nel
febbraio 2003 il governo ha pubblicato un “Libro bianco sul welfare”, che è però pressoché privo di
rilevanza pratica a fini di politica pubblica, ed anzi acquisisce interesse solo in quanto promuove un
approccio che si pone in totale contraddizione con le prescrizioni normative della scienza sociale
contemporanea17. L’impressione generale che si ricava è che il livello centrale di governo si sia ritratto dal
settore dell’assistenza sociale – e per conseguenza dall’azione politica volta a combattere la povertà e
l’esclusione sociale – anche più di quanto sarebbe congruente con la riforma costituzionale. Con maggiore
accuratezza, però, l’operato del governo Berlusconi nel settore dell’assistenza sociale può essere descritto
come mosso dall’intento di riorientare le priorità dell’azione di policy verso l’emissione di sporadici
interventi categoriali rivolti agli anziani e alle famiglie, rafforzando il carattere implicito dell’azione di policy
contro la povertà in Italia, a tutto detrimento della possibilità stessa di predisporre una strategia coerente,
una vera e propria politica esplicita di lotta alla povertà e all’esclusione sociale18.
In questo mutato contesto, non v’è posto per una rete di sicurezza generalizzata su base nazionale. Lungi
dall’essere esteso a tutto il territorio italiano così come previsto dalla legge 328 del 2000, il Reddito minimo
di inserimento, definito dal Ministro del welfare Maroni “un meccanismo costoso e inefficace”19, è stato
abbandonato. Tale misura dovrebbe naturaliter far parte di quei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti
i diritti sociali che lo stato ha la potestà di fissare, ed essere anzi uno dei più agevoli da progettare per
quanto riguarda la componente monetaria20. Ciononostante, il Reddito minimo di inserimento è stato


14 Vedi il caso dei piani di zona in U. DE AMBROGIO, Il piano di zona, in C. GORI (a cura di), La riforma dei servizi sociali in Italia,
Roma, 2004, 99 ss.
15 Sull’attuazione dei vari aspetti della legge 328 vedi i saggi contenuti nel volume curato da C. GORI, La riforma dei servizi sociali,

cit.
16 S. SACCHI, New modes, cit. Vedi anche, sul punto, E. RANCI ORTIGOSA, I temi e lo scenario, in C. GORI, La riforma dei servizi

sociali, cit., 21 ss., e C. GORI, L’approvazione della 328 e il dibattito successivo, in C. GORI, La riforma dei servizi sociali, cit., 31 ss.
17 MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, Libro bianco sul welfare. Proposte per una società dinamica e

solidale, Roma, 2003. In particolare, nel Libro bianco si assume che la famiglia (fondata sul matrimonio) sia, e debba continuare
ad essere, il principale fornitore di protezione dai rischi sociali e la pietra angolare del sistema di welfare italiano, senza
considerare in alcun modo la ridotta efficienza e le deleterie conseguenze distributive di un tale approccio, icasticamente definito
da Giubboni di “«modernizzazione conservatrice» del familismo tipico del welfare regime nazionale” (S. GIUBBONI, L’incerta
europeizzazione, cit., 590).
18 La caratterizzazione di quelle italiane come politiche “implicite” di lotta alla povertà risale a N. NEGRI, C. SARACENO, Le

politiche contro la povertà, cit.
19 “La Repubblica”, 19 settembre 2003.
20 “[A] ben vedere, pochi istituti come il RMI o, in genere, un istituto di di minimo vitale appaiono inderogabili dalla

determinazione statale dei livelli essenziali, costituendo quello [...] un istituto costituzionalmente necessario”, F. PIZZOLATO,

                                                                      4
espunto dall’agenda di policy del governo Berlusconi II sin dal 2002, mentre la previsione, riportata nella
legge finanziaria per il 2004, della compartecipazione finanziaria da parte dello stato per quelle regioni che
avessero deciso di istituire una misura detta “Reddito di ultima istanza” è rimasta per lunghi mesi inattuata,
per esser poi resa impossibile da una pronunzia della Corte Costituzionale21.




2. L’assistenza sociale nell’edificio del welfare state italiano


Appare chiara, da quanto detto sinora, la condizione di minorità dell’assistenza sociale all’interno
dell’edificio del welfare state italiano. Un rapido sguardo ad alcuni dati di sintesi può bastare ad evidenziare
gli squilibri più marcati di tale edificio. Particolarmente significativa è la comparazione fra la composizione
interna della spesa per protezione sociale in Italia e nell’Unione europea. Sebbene la quota di PIL dedicata
alla spesa per protezione sociale non sia in Italia troppo distante dalla media europea (26,1% a fronte del
28% della media UE-15 nel 2002), l’allocazione della spesa sociale per funzione mette in luce alcune
distinte “anomalie”. Le figure 1 e 2 mostrano che l’Italia concentra la maggior parte del proprio welfare effort
sulla funzione “vecchiaia e superstiti” (61,9% del totale della spesa per prestazioni sociali a fronte di una
media UE-15 del 45,8%) e destina proporzionalmente meno risorse della media europea alla funzione
“malattia, sanità e invalidità” (32,2% contro 36%). Infine, l’Italia mostra un’allocazione della spesa per
prestazioni sociali notevolmente bassa in prospettiva comparata per quanto riguarda tutte le altre funzioni:
“famiglia e bambini” (3,9% contro 8%), “disoccupazione” (1,7% contro 6,6%) e “abitazione ed esclusione
sociale” (0,3% contro 3,6%)22.


Figura 1 qui


Figura 2 qui


L’incompiuta attuazione del minimo vitale nell’ordinamento italiano, in questa Rivista, 2005, 237. Sui livelli essenziali delle prestazioni nel
campo dell’assistenza sociale vedi C. GORI, I livelli essenziali, in C. GORI, La riforma dei servizi sociali, cit., 55 ss.
21 Vedi infra.
22 Una possibile obiezione riguarda il fatto che il Trattamento di fine rapporto (TFR) viene interamente computato da Eurostat

nella funzione “vecchiaia e superstiti”. Il TFR viene liquidato ad ogni cessazione del rapporto di lavoro dipendente, sia che il
dipendente vada in pensione, sia che lasci il posto di lavoro, sia infine che perda il posto di lavoro. Solo nel primo dei tre casi il
TFR è assimilabile ad un trattamento pensionistico. Nell’ultimo caso, si può considerare che il TFR vada a coprire il rischio di
disoccupazione, mentre nel caso di dimissioni volontarie da parte di lavoratori che contestualmente avviano un nuovo rapporto
di lavoro il TFR non dovrebbe essere considerato una prestazione di protezione sociale, non essendo volto a far fronte
all’esistenza o all’insorgenza di rischi o bisogni di individui o famiglie. Poiché Eurostat (EUROSTAT, Social protection in Europe,
statistics in Focus, Population and Social Conditions, Theme 3 – 6/2004, a cura di G. ABRAMOVICI, Lussemburgo, 2004) stima la
spesa totale per TFR nel 6% della spesa per prestazioni sociali, non vi è modo che una differente allocazione del TFR possa
anche solo sfumare il quadro complessivo per quanto riguarda lo sbilanciamento a favore degli anziani della spesa sociale italiana.
(Molto probabilmente, una riallocazione plausibile del TFR non consentirebbe all’Italia di colmare il divario per quanto riguarda
la funzione disoccupazione, mentre potrebbe ridurre la quota di spesa per protezione sociale sul PIL fino ad un punto
percentuale.)

                                                                      5
La figura 3 mostra l’allocazione della spesa sociale tra tipi diversi di programmi di protezione sociale. Nel
2004, il 67% del totale della spesa pubblica per prestazioni di protezione sociale andava a programmi di
tipo assicurativo, il 25,7% andava alla sanità e il 7,3% andava a programmi di tipo assistenziale23.


Figura 3 qui


I dati presentati mettono in luce due distinti squilibri del welfare state italiano:
     •    A favore dei programmi fondati su una logica assicurativa rispetto a quelli fondati su una logica di
          assistenza sociale24;
     •    A favore della protezione contro alcuni rischi piuttosto che contro altri rischi o della protezione di
          altre condizioni di bisogno.


La concentrazione delle risorse su misure di tipo assicurativo implica la maggior protezione di alcune
categorie a pregiudizio di altre. Le misure di assicurazione sociale o fondate sulla contribuzione sociale
sono accessibili soltanto a quegli individui (o ai familiari di quegli individui) che hanno lavorato nel mercato
formale del lavoro e l’hanno fatto continuativamente e per un periodo di tempo sufficiente a maturare il
diritto a ricevere una prestazione. Pertanto, il tratto maggiormente distintivo del welfare state italiano è
forse il carattere dualistico, quasi polarizzato della protezione offerta ai settori posti al centro del mercato
del lavoro da una parte e ai settori più periferici dall’altra. Ciò crea “vuoti di protezione” per categorie quali
lavoratori irregolari e anziani con diritti contributivi inadeguati o assenti25. Tale situazione parrebbe inoltre
destinata ad aggravarsi, giusta la progressiva precarizzazione de facto dei rapporti di lavoro, nonché l’assenza
– o quantomeno la paucità – del contraltare della sicurezza all’enfasi posta sulla flessibilità dalle recenti
innovazioni legislative riguardanti il mercato del lavoro (legge n. 30 del 2003 e d.lgs. n. 276 del 2003)26.
Per quanto riguarda il secondo squilibrio, quando messo a confronto con le sue controparti europee il
welfare state italiano fornisce in modo sproporzionato prestazioni per vecchiaia, invalidità e malattia breve,
mentre concede protezione ridotta ai rischi originati dall’appartenenza a famiglie numerose, dalla mancanza

23 Vedi nota 1. Inoltre, quasi il 45% della spesa pubblica per prestazioni di assistenza sociale andava nel 2004 ad un’unica misura:
le pensioni di invalidità civile.
24 L’unica prestazione sociale monetaria a carattere universale in Italia è l’indennità di accompagnamento (vedi infra). Al di fuori

dei trasferimenti monetari, il quadro è differente: le prestazioni sanitarie hanno per esempio carattere universale.
25 Questo può essere apprezzato guardando alla composizione dei beneficiari in una simulazione di una misura di reddito

minimo approntata dall’ISAE (vedi ISAE, Rapporto trimestrale – finanza pubblica e redistribuzione, Roma, 2004, per la definizione della
misura e la metodologia della simulazione). Tale sostegno al reddito sarebbe infatti “concentrato tra i nuclei con capofamiglia
giovane … e, ancor più, fra quelli con a capo un disoccupato, un pensionato sociale o una casalinga” (ISAE, Rapporto trimestrale,
cit., 93).
26 Aumentare la flessibilità del mercato del lavoro senza al contempo fornire protezione sociale ha (almeno) tre effetti. Da un lato

genera rischi di precarietà e impoverimento tra chi è toccato dalla flessibilità, dall’altro rafforza ed anzi acuisce le iniquità esistenti
tra categorie risparmiate e categorie interessate dalla deregolamentazione, così approfondendo il solco tra insiders e outsiders.
Infine, l’assenza di una tutela generalizzata offerta dal welfare state aumenta il valore delle tutele esistenti rispetto alle alternative
e ne rende costosa la riforma, cementando l’interesse di generazioni sovrapposte alla conservazione delle rendite ottenute dagli
“insiders di famiglia”.

                                                                    6
totale di occupazione o risorse, dal bisogno di assistenza sanitaria di lunga durata e da problemi abitativi27.
Per portare un esempio, per ogni euro speso nel 2002 in Italia per prestazioni connesse ad abitazione ed
esclusione sociale ne venivano spesi 206 per prestazioni connesse a vecchiaia (e superstiti), a fronte di un
rapporto medio nell’Unione a 15 di 1 a 1328. Incrociandosi con il primo, questo secondo squilibrio induce
una distribuzione sociale fortemente polarizzata che, data la geografia del mercato del lavoro italiano,
possiede anche una forte componente territoriale. In accordo con i dati sulla povertà che seguono,
svantaggiate da tale distribuzione sembrano essere in primo luogo le famiglie numerose con coniugi
disoccupati residenti nel Mezzogiorno.




3. La povertà in Italia


Gli studi sulla povertà in Italia forniscono dati sia sulla povertà relativa, sia su quella assoluta29. Poiché i
criteri utilizzati dall’Istat per operativizzare la povertà assoluta sono attualmente in fase di ripensamento, in
quanto segue verranno mostrati solo i dati riguardanti la povertà relativa. A livello nazionale, la povertà
relativa mostra negli anni recenti una tendenza relativamente stabile, con un lieve declino nell’ultimo
periodo (vedi tabella 1)30.


Tabella 1 qui



27 Una possibile obiezione a questo riguardo è che potrebbe ben darsi che l’Italia destini la maggior parte della sua spesa sociale
alle pensioni (e non, poniamo, a famiglia e bambini) semplicemente perché ha una quota particolarmente elevata di popolazione
anziana. Invero, l’Italia ha una quota particolarmente elevata di popolazione anziana: nel 2000, il rapporto tra la popolazione con
almeno 65 anni di età e la popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni era pari al 27%, a fronte di una media europea pari al
24% (COMITATO DI POLITICA ECONOMICA, Budgetary challenges posed by ageing populations: the impact on public spending on
pensions, health and long-term care for the elderly and possible indicators of the long-term sustainability of public finances, EPC/ECFIN/655/01-
EN final, Bruxelles, 2001). Ma tale rapporto aveva lo stesso valore in Svezia, che però ha una composizione interna della spesa
sociale molto meno sbilanciata a favore degli anziani rispetto all’Italia: nel 2000 in Svezia solo il 39,1% della spesa per prestazioni
sociali era destinata alla funzione “vecchiaia e superstiti” (a fronte del 63,4% in Italia), mentre il 10,8% della medesima spesa
andava alla funzione “famiglia e bambini” (a fronte del 3,8% in Italia). Pertanto, l’allocazione della spesa sociale tra le funzioni è
una questione di scelta politica (e di eredità di policy) a fronte di sfide ambientali.
28 Inoltre, non solo la spesa per pensioni è sproporzionata, ma ha addirittura effetti redistributivi perversi, favorendo le famiglie a

reddito elevato. Boeri e Perotti mostrano che il rapporto tra la quota dei trasferimenti pensionistici sul reddito disponibile delle
famiglie con reddito disponibile inferiore alla media e la stessa quota per quelle con reddito disponibile superiore alla media è il
più basso tra i paesi rappresentati nel campione ECHP (European Community Household Panel). Vedi T. BOERI e R. PEROTTI,
Meno pensioni, cit.
29 Per misurare la povertà assoluta si fa comunemente riferimento ad una linea di povertà costante nel tempo in termini di potere

d’acquisto, consentendo il consumo di un determinato paniere di beni e servizi che rappresenta per esempio la possibilità di
soddisfare un catalogo di bisogni elementari. Una linea di povertà relativa è definita in termini di un indice di posizione
(normalmente la media o la mediana) della distribuzione di reddito o spesa per consumi all’interno di un sistema economico, e
varia con quello.
30 Sia il calo dal 2000 al 2001, sia quello dal 2001 al 2002 furono però dovuti alla contrazione della spesa per consumi tra le

famiglie più agiate (vedi S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill, cit.), mentre il calo intercorso dal 2002 al 2003 non è
statisticamente significativo (ISTAT, La povertà relativa in Italia nel 2003, Famiglia e società, Statistiche in breve, Roma, 2004). I
dati sulla povertà assoluta, disponibili sino al 2002, evidenziano la stabilità del fenomeno – definito in termini assoluti - negli anni
recenti (S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill, cit.). Ricordo che, a differenza di quello di povertà relativa, l’indicatore di
povertà assoluta non dipende direttamente da caratteristiche e comportamento economico dei non poveri.

                                                                       7
La povertà relativa viene definita dall’Istat in termini di spesa per consumi e non di reddito. Una delle
ragioni è la maggiore affidabilità attribuita in Italia alle indagini sui consumi rispetto alle indagini fondate
sulla dichiarazione dei redditi personali31. La soglia di povertà relativa è fissata dall’Istat secondo
l’International Standard of Poverty Line (ISPL): è povera una famiglia di due persone la cui spesa per consumi
sia inferiore o eguale alla spesa nazionale pro capite, stimata attraverso l’annuale Indagine sui consumi delle
famiglie (la taglia del campione è di circa 28mila famiglie, più dell’1,2‰ della popolazione delle famiglie
italiane). Fissata in questo modo, nel 2003 la soglia di povertà relativa era pari a 869,50 euro al mese per
una famiglia di due persone. Sulla base di questa soglia ed applicando la scala di equivalenza Carbonaro
(che prende in considerazione soltanto il numero dei membri della famiglia e non anche possibili suoi
bisogni particolari, quali quelli connessi alla presenza di disabili), la percentuale di famiglie povere sul totale
di famiglie residenti, qui detta tasso o incidenza di povertà (poverty head-count ratio), era pari all’10,6%32. La
percentuale degli individui sotto la linea di povertà era dell’11,8%. In termini assoluti, questo significa circa
2.360.000 famiglie e 6.786.000 individui (vedi tabella 1).
L’analisi dei dati sulla povertà in Italia mostra la distribuzione fortemente diseguale di questo fenomeno sia
a livello territoriale, sia tra tipologie familiari distinte.
Lo squilibrio territoriale tra il centro-nord ed il sud è forse la caratteristica più evidente e distintiva della
povertà in Italia (vedi tabella 2). Nelle regioni del sud e nelle isole l’incidenza della povertà era nel 2003
oltre tre volte e mezza più elevata che al centro, e circa quattro volte quella del nord33.


Tabella 2 qui


Come mostrato in tabella 3, mentre la quota delle famiglie italiane che risiedono al sud ammonta a un terzo,
circa due terzi delle famiglie italiane povere risiedono in tale area. Lo squilibrio è invertito per il nord, che
ospita solo un quarto delle famiglie italiane povere a fronte di metà del totale delle famiglie italiane.


Tabella 3 qui




31 Dati sulla povertà basati sul reddito possono essere ottenuti dall’indagine su reddito e ricchezza delle famiglie condotta ogni

due anni dalla Banca d’Italia (vedi A. BRANDOLINI, The Distribution of Personal Income in Post-war Italy. Source Description, Data
Quality, and the Time Pattern of Income Inequality, Temi di discussione n. 350, Roma, 1999). Utilizzando tale fonte e la scala di
equivalenza OCSE modificata, Boeri e Brandolini mostrano che la povertà relativa tra gli individui è rimasta costante nell’ultimo
decennio (1993-2002) anche adottando una definizione in termini di reddito. Tale risultato è particolarmente robusto, valendo
per due soglie di povertà distinte (50% e 60% del reddito mediano equivalente). Vedi T. BOERI, A. BRANDOLINI, The
puzzling evolution of poverty in Italy, paper presentato alla conferenza su «Nuovi temi per la politica economica», Roma, 2004.
32 Qui e in seguito, per dati relativi ad un’altra importante misura di povertà, l’intensità di povertà (average poverty gap ratio), si

rimanda a ISTAT, La povertà relativa, cit.
33 È peraltro vero che il livello dei prezzi presenta, in Italia, una considerevole variabilità spaziale, ed è in generale inferiore nel

Mezzogiorno rispetto al nord. In base ad una linea di povertà assoluta calcolata su base regionale, l’ISAE mostra come le
differenze territoriali nell’incidenza di povertà assoluta si assottiglino, permanendo però considerevoli: vedi tabella 2 in ISAE,
Rapporto trimestrale, cit., 89.

                                                                   8
Le tabelle 4 e 5 indicano le caratteristiche delle famiglie particolarmente esposte al rischio di essere povere.
Famiglie numerose, famiglie con più di due figli e famiglie nelle quali la persona di riferimento non è
occupata sono quelle che sperimentano l’incidenza di povertà più elevata. Almeno a livello nazionale,
invece, il genere della persona di riferimento non sembra incidere sul rischio di povertà della famiglia: il
rischio relativo di povertà per una famiglia con una donna come persona di riferimento è solo
marginalmente più elevato che per una famiglia con capofamiglia maschio, e la differenza non è
significativa34.


Tabella 4 qui


In tutto il paese, la povertà colpisce più duramente le famiglie numerose: a livello nazionale il 20,9% delle
famiglie con cinque o più membri sono povere, a fronte dell’8,7% delle famiglie composte da un unico
membro. L’analisi della composizione familiare getta luce anche su altri fattori di rischio, e segnatamente la
presenza in famiglia di membri minori e di membri anziani. Le famiglie con almeno un membro minore
hanno un tasso di povertà superiore alla media e pari al 12,6%, quelle con almeno tre minori un tasso di
povertà del 21,8%, mentre in tutte le aree geografiche il rischio relativo di povertà diventa maggiore
dell’unità con la presenza in famiglia di un secondo membro minore35. Al sud e nelle isole, l’incidenza di
povertà per le famiglie con almeno tre minori è del 31,3%. Per quanto riguarda gli anziani, le famiglie con
almeno un membro sopra i 65 anni mostrano un tasso di povertà superiore alla media e pari al 13,6%.
Volgendo l’attenzione alle famiglie composte da un solo membro, l’incidenza di povertà fra gli
ultrasessantacinquenni che vivono soli è più di tre volte superiore che tra i single di età inferiore ai 65 anni
(12,7% rispetto a 3,9%). Parimenti, le coppie nelle quali il capofamiglia ha più di 65 anni sono oltre quattro
volte più a rischio di essere povere delle coppie nelle quali il capofamiglia ha meno di 65 anni (i tassi di
povertà sono pari a 15,6% e 3,5%, rispettivamente). Nel considerare questi ultimi dati, occorre però tenere
a mente che una definizione di povertà basata sul consumo tende, rispetto ad una basata sul reddito, a
sovrastimare l’incidenza della povertà tra gli anziani, tipicamente a causa dei ridotti consumi in tale
segmento della popolazione36. Tale differenza risulta ancora maggiore se la definizione di reddito



34 1,02 (capofamiglia femmina) contro 0,99 (capofamiglia maschio), quindi il rapporto tra i due è in pratica l’unità (1,03). Qui e in

seguito per rischio relativo di povertà si intende il rapporto tra l’incidenza di povertà all’interno di una data categoria e quella per
la popolazione completa. Il rapporto tra due rischi relativi di povertà equivale allora al rapporto tra i tassi di povertà per le due
categorie prese in considerazione.
35 Conviene anche notare che in Italia il tasso di povertà fra le famiglie con un solo genitore è solo marginalmente più alto di

quello medio.
36 Uno studio prodotto dalla Commissione d’indagine sull’esclusione sociale applicando il medesimo standard procedurale (ISPL)

e la medesima scala di equivalenza (Carbonaro) ai dati relativi a reddito (indagine Banca d’Italia) e consumo (indagine Istat) delle
famiglie nel medesimo anno (1998) mostra che il rischio relativo di povertà per le famiglie con capofamiglia
ultrasessantacinquenne è pari a 0,78 quando la variabile di riferimento è il reddito (il valore più basso tra tutte le famiglie per
classe di età del capofamiglia) e 1,34 quando la variabile di riferimento è il consumo (il valore più elevato tra tutte le famiglie per
classe di età del capofamiglia). Vedi Tabella 6.1 in COMMISSIONE D’INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto
sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale 1997-2001, a cura di C. SARACENO, Roma, 2002, 124.

                                                                   9
comprende una componente dovuta ai canoni di locazione figurativi per le famiglie che vivono in casa di
proprietà.
Quando si passa a considerare la condizione professionale del capofamiglia, l’incidenza di povertà più
elevata appartiene a quelle famiglie dove la persona di riferimento è in cerca di occupazione: il 38% nel
2003, ben oltre il triplo del tasso di povertà complessivo (vedi tabella 5).


Tabella 5 qui


In prospettiva comparata, l’Italia si situa tra i sei paesi dell’Unione europea a 15 con la più alta incidenza di
povertà (figura 4) ed il più alto tasso di persistenza in povertà (figura 5)37.


Figura 4 qui


Figura 5 qui


Il confronto tra rischi relativi di povertà di categorie selezionate in Italia e nell’Unione europea può però
risultare più interessante del semplice confronto fra tassi totali di povertà. I dati raccolti da Boeri e Perotti
mostrano come – nel 1995 – il rischio di povertà delle famiglie con figli relativamente a quello delle
famiglie senza figli fosse notevolmente superiore nel sottocampione italiano dell’ECHP che nel campione
complessivo ECHP (vedi tabella 10)38. La situazione diventa ancora più drammatica quando si volge
l’attenzione dalla povertà in un dato anno alla persistenza in povertà: rispetto alle famiglie senza figli, nel
1995 le famiglie con figli avevano nel campione italiano una probabilità doppia di esser state povere per tre
anni di fila rispetto al campione complessivo ECHP. Lo stesso accade quando vengono considerate le sole
famiglie con due adulti. Ma i risultati più sorprendenti, in prospettiva comparata, sono quelli illustrati nelle
ultime due righe della tabella 6: mentre nel complesso dei paesi ECHP le famiglie con un solo membro
adulto, con o senza figli, sono considerevolmente più a rischio di essere povere di quelle con due adulti con
figli (una volta e mezzo di più nel caso nel caso di un solo adulto con figli), in Italia accade il contrario.




Tabella 6 qui

37 I dati vengono dall’ottava wave dell’ECHP. Sono stati raccolti nel 2001 e riflettono la situazione reddituale degli intervistati nel
2000. I limiti dell’ECHP sono ben noti – vedi EUROSTAT, Poverty and social exclusion in the EU, Statistics in Focus, Population and
Social Conditions, 16/2004, autori I. DENNIS e A. GUIO, Lussemburgo, 2004, per un succinto resoconto di metodologia e limiti.
Tuttavia, sebbene vecchi e di qualità questionabile, quelli provenienti dall’ECHP sono gli unici dati comparabili tra i paesi
dell’Unione. La variabile di riferimento è il reddito disponibile equivalente (scala OCSE ridotta) e la linea di povertà è fissata al
60% del reddito disponibile equivalente nazionale mediano. Sono a rischio persistente di povertà quegli individui il cui reddito
disponibile equivalente sia inferiore alla linea di povertà nell’anno di riferimento e in almeno due dei tre anni precedenti.
38 Boeri e Perotti usano dati dalle waves I, II e III di ECHP, raccolti tra il 1994 e il 1996 e relativi ai redditi degli intervistati dal

1993 al 1995 (T. BOERI, R. PEROTTI, Meno pensioni, cit.). La soglia di povertà è fissata al 50% del reddito mediano equivalente.
La persistenza in povertà è definita qui come essere poveri per tre anni di fila.

                                                                   10
Un altro tratto comparativamente peculiare del profilo della povertà in Italia riguarda la notevole differenza
nei rischi relativi di povertà per famiglie con a capo un ultrasessantacinquenne a seconda che almeno un
membro della famiglia riceva una pensione o no. Elaborando i dati forniti da Boeri e Perotti, si trova che il
rischio di povertà per una famiglia con a capo un ultrasessantacinquenne dove nessun membro riceve una
pensione relativo a quello di una famiglia simile con almeno una pensione è oltre una volta e mezza più alto
in Italia che nel complesso dei paesi ECHP (2,49 rispetto a 1,55)39. Questo significa che, per famiglie con a
capo un anziano, il costo (in termini di rischio di povertà) di non ricevere una pensione è molto più elevato
in Italia che nel complesso dei paesi ECHP.
Per tirare le somme, tutti i risultati puntano nella medesima direzione: la povertà in Italia è concentrata al
sud, in famiglie numerose, in famiglie con tre o più figli, in famiglie con a capo un disoccupato e tra gli
anziani che non hanno diritto ad una pensione di tipo assicurativo. Questi risultati portano
immediatamente a considerare le misure di contrasto alla povertà in Italia: il loro disegno, la loro efficacia,
le loro conseguenze distributive.




4. Le principali politiche contro la povertà in Italia


Identificare le politiche nazionali con un impatto sulla povertà non è un compito semplice in Italia. Questa
sezione prende in considerazione soltanto le principali misure nazionali che raggiungono i poveri e
distingue le misure di tipo assicurativo da quelle di tipo assistenziale sulla base della logica che ne sta alla
base: la possibilità di un individuo di accedere a misure del primo tipo dipende principalmente dalla sua
storia occupazionale e quindi contributiva. L’unica misura universalistica nel panorama dei trasferimenti
monetari italiani è l’indennità di accompagnamento, rivolta a individui incapaci di deambulare o di badare a se
stessi e che abbisognano quindi di assistenza continuativa, che non siano ricoverati gratuitamente presso
strutture pubbliche da più di un mese. L’erogazione è condizionale ad un accertamento medico delle
condizioni fisiche del richiedente, ma non è sottoposta ad alcuna prova dei mezzi. L’importo era pari nel
2003 a 431 € al mese per 12 mensilità40. Negli anni, giusta l’evoluzione demografica, questa misura è
divenuta sempre più importante come fonte di protezione sociale per gli anziani non autosufficienti.
Tra le misure di tipo assicurativo, di grande rilevanza sono:




39 Tabella 25 in T. BOERI, R. PEROTTI, Meno pensioni, cit., 56-57. I dati vengono dalla wave IV di ECHP e si riferiscono ai
redditi degli intervistati nel 1996.
40 Per permettere la comparabilità delle prestazioni previste dalle varie misure, in ciò che segue tutte le prestazioni monetarie e,

qualora presenti, i tetti di reddito sono riferiti all’anno 2003, se non altrimenti specificato.

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•   L’assegno per il nucleo familiare. È un trasferimento mensile sottoposto a prova del reddito e destinato
         alle famiglie di lavoratori dipendenti o di pensionati che erano lavoratori dipendenti41. L’importo del
         trasferimento è positivamente correlato alla dimensione della famiglia e negativamente correlato al
         suo reddito totale. A titolo indicativo, per il periodo luglio 2003 - giugno 2004 una famiglia con
         entrambi i genitori ed almeno un minore, senza membri inabili e con un reddito inferiore a 11.700
         €, riceveva un trasferimento mensile (per 13 mensilità) di 250 € se composta di quattro persone, di
         359 € se composta di cinque.
     •   L’integrazione al trattamento minimo delle pensioni. È una prestazione erogata ai beneficiari di una
         pensione di tipo retributivo volta ad integrare tale trattamento sino a portarlo ad un minimo
         stabilito, circa 5.227 € all’anno nel 2003. L’erogazione del supplemento è condizionale alla prova del
         reddito imponibile del potenziale beneficiario (e del coniuge, per chi ha fatto richiesta per la
         prestazione dopo il 1994) ed a requisiti di contribuzione (20 anni di contribuzioni)42. Sono previste
         maggiorazioni (“maggiorazioni sociali”) di importo variabile con l’età per i pensionati
         ultrasessantenni. In particolare, la legge finanziaria per il 2002 ha incrementato l’importo per gli
         ultrasettantenni, che godono di un’integrazione sino a 6.836 € all’anno quando hanno un reddito
         (definito in modo più ampio di quello imponibile) inferiore a tale importo se non coniugati43. Chi
         ha incominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995 non potrà in futuro avere accesso al
         trattamento minimo, giacché con il passaggio ad un sistema a ripartizione con prestazioni calcolate
         con il metodo contributivo, il trattamento pensionistico equivarrà ad una frazione del montante
         contributivo, senza supplementi. Gli stessi soggetti potranno però avere accesso all’assegno sociale
         (vedi infra).
     •   Le pensioni di invalidità INPS (più correttamente: pensione di inabilità e assegno ordinario di invalidità).
         Queste prestazioni sono erogate a lavoratori che abbiano contribuito per almeno cinque anni (dei
         quali almeno tre negli ultimi cinque anni). L’erogazione del beneficio è condizionale ad una visita
         medica. L’assegno ordinario di invalidità è cumulabile con redditi da lavoro, variabile secondo il
         reddito ed è concesso a fronte di una riduzione permanente della capacità lavorativa di almeno due
         terzi44. La pensione di inabilità è una pensione vera e propria e viene concessa ad individui in
         possesso dei suddetti requisiti contributivi e totalmente inabili al lavoro45. Prima che una riforma
         adottata nel 1984 introducesse controlli medici più severi e la revisione periodica delle condizioni

41 Dal 1998 la misura è stata estesa agli iscritti alla gestione separata Inps per i lavoratori autonomi (collaboratori coordinati e
continuativi, lavoratori a progetto, venditori porta a porta, liberi professionisti), ma continua ad essere inaccessibile per i
lavoratori autonomi propriamente detti.
42 Per i pensionati non coniugati il tetto di reddito è pari a due volte l’importo annuo del trattamento minimo; per i pensionati

coniugati vige un doppio tetto di reddito: quello personale e quello cumulato (la somma dei redditi dei coniugi non deve superare
il quadruplo dell’importo annuo del trattamento minimo).
43 Se coniugati, il reddito proprio deve essere inferiore a 6.836 €, quello cumulato col coniuge a circa 11.500 €.
44 Per beneficiari con redditi modesti, il trattamento viene integrato sino all’importo dell’assegno sociale.
45 L’importo della pensione, calcolato aggiungendo all’anzianità contributiva un “bonus contributivo” che consenta di arrivare

all’età pensionabile, viene integrato al minimo se necessario. Le maggiorazioni sociali previste per gli ultrasettantenni valgono in
caso di pensione di inabilità già a partire dai 60 anni.

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fisiche del beneficiario, questi programmi servivano – in particolar modo al sud - come un
         equivalente funzionale dell’assente misura di reddito minimo. Parimenti, servivano come moneta di
         scambio clientelare fra politici ed elettori46.
Per quanto riguarda le misure di tipo assistenziale, sono da ricordare:
     •   Le pensioni di invalidità civile (più correttamente: pensione di inabilità civile ed assegno di assistenza). Queste
         misure non sono contributive, e pertanto sono accessibili anche a chi non sia in possesso dei
         requisiti previsti per le pensioni di invalidità di tipo assicurativo. La pensione di inabilità civile è
         riservata ad individui totalmente inabili al lavoro con un reddito annuo inferiore a 13.100 €, mentre
         l’assegno di assistenza è riservato ad individui in età da lavoro con una riduzione della capacità
         lavorativa di almeno il 74% ed un reddito annuo inferiore a circa 3.850 €, e si trasforma in pensione
         sociale al compimento dei 65 anni. Per entrambe le misure, l’importo erogato nel 2003 era pari a
         circa 224 € al mese (13 mensilità) e                      la prova del reddito è strettamente personale,
         indipendentemente dal reddito familiare47. Dopo il 1984, questi programmi hanno sostituito le
         pensioni di invalidità Inps come strumenti di quel meccanismo clientelare sopra descritto.
     •   La pensione sociale. È uno schema di reddito minimo per ultrasessantacinquenni che non abbiano
         maturato il diritto a ricevere una pensione di tipo retributivo, e pertanto nemmeno il trattamento
         minimo. L’importo annuo intero era di 3.846 € nel 2003 (per soggetti totalmente privi di reddito).
         La prestazione è soggetta a prova del reddito: per un richiedente non coniugato la pensione sociale
         spetta a complemento del reddito personale fino al limite di 3.846 €, per un richiedente coniugato
         essa spetta - sempre nella misura massima di 3.846 € - a complemento del reddito complessivo dei
         coniugi fino al limite di 13.253 €48. Valgono le maggiorazioni per gli ultrasettantenni introdotte dalla
         legge finanziaria per il 2002. Dal 1996 questo schema è stato sostituito dall’assegno sociale, e
         continua ad essere erogato solo per chi ne abbia fatto richiesta prima del 31 dicembre 1995.
     •   L’assegno     sociale.   Tale    misura,     introdotta      nel    1995,     è    una     prestazione      rivolta    agli
         ultrasessantacinquenni che - a causa della mancanza dei requisiti contributivi - non hanno diritto ad
         una pensione di tipo retributivo né ad una di tipo contributivo, oppure che hanno diritto ad una
         pensione di tipo contributivo di importo inferiore a quello dell’assegno sociale medesimo. Ha
         sostituito, per i nuovi richiedenti, la pensione sociale a partire dal 1 gennaio 1996. L’importo annuo
         intero dell’assegno sociale era nel 2003 di 4.667 € (per soggetti totalmente privi di reddito).
         L’assegno sociale è sottoposto a prova del reddito (definito in modo più ampio rispetto a quello
         imponibile): viene erogato a complemento del reddito personale fino al limite di 4.667 € se il
         richiedente non è coniugato e a complemento del reddito complessivo di richiedente e coniuge fino


46 Vedi M. FERRERA, Il modello sud-europeo di welfare state, in Riv. it. sci. pol., 1996, 67 ss.
47 Anche nel caso della pensione di inabilità civile le maggiorazioni sociali previste per gli ultrasettantenni valgono già a partire
dai 60 anni.
48 Se il richiedente è coniugato vanno superati entrambi i test del reddito, cioè il reddito personale deve comunque essere

inferiore a 3.846 € anche qualora il reddito complessivo sia inferiore al tetto di 13.253 €.

                                                                13
al limite di 9.334 €, sempre comunque nella misura massima di 4.667 €, quando il richiedente è
         coniugato49. Valgono le maggiorazioni per gli ultrasettantenni introdotte dalla legge finanziaria per il
         2002.
     •   L’assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori (detto assegno al terzo figlio). È volto ad alleviare la
         povertà nelle famiglie numerose, proprio quelle che i dati prima considerati mostrano avere un
         rischio relativo di povertà particolarmente elevato. Introdotto dalla legge finanziaria per il 1999, è
         rivolto a famiglie di cittadini italiani o comunitari con tre o più figli minori. L’ammontare mensile
         era pari nel 2003 a 113 € al mese per 13 mesi, con la possibilità di rinnovo. L’assegno è sottoposto a
         prova dei mezzi, e lo strumento utilizzato è l’Indicatore della situazione economica equivalente
         (ISEE), introdotto nel 1998. Per una famiglia di cinque componenti, la soglia ISEE era nel 2003
         pari a 20.381 €. Nel 2000, 244.000 famiglie (l’1,1% delle famiglie italiane) hanno goduto di questo
         trasferimento. Le famiglie beneficiarie erano principalmente concentrate nelle regioni del
         Mezzogiorno50.
     •   L’assegno di maternità. Introdotto anch’esso dalla legge finanziaria per il 1999, è rivolto alle madri
         italiane, comunitarie o extracomunitarie in possesso di un permesso di soggiorno che siano
         sprovviste dei requisiti contributivi per l’indennità di maternità di natura assicurativa. L’evento che
         dà titolo al godimento della prestazione non è soltanto la nascita di un figlio, ma anche
         l’affidamento preadottivo e l’adozione di un minore. L’importo dell’assegno per il 2003 era di circa
         271 € al mese, per cinque mesi per ciascun figlio nato. L’assegno è sottoposto a prova dei mezzi
         attraverso l’ISEE: per una famiglia di due genitori e un figlio la soglia ISEE era posta nel 2003 a
         28.308 €. Nel 2000, circa 173.000 madri hanno ottenuto questa prestazione51.
Come appare evidente, questa lista di provvedimenti è rivolta per la più gran parte ad anziani e disabili
(rectius: inabili al lavoro): Benassi stima che, non considerando le misure più recenti (assegno di maternità e
al terzo figlio), più del 90% della spesa complessiva per tutte le politiche contro la povertà in Italia (non
solo quelle qui considerate più importanti) vada a beneficio di tali due categorie52. Inoltre, e sempre
escludendo le due misure più recenti, ciò che colpisce delle prestazioni qui elencate è che non venga presa
in considerazione la dimensione della famiglia, né la sua composizione (ad esempio la presenza di
componenti disabili). Le prestazioni di invalidità civile guardano al solo reddito del richiedente, mentre
integrazione al minimo, pensione e assegno sociale considerano il reddito del richiedente e del coniuge in
modo ingenuo, senza utilizzare una scala di equivalenza. Per quanto riguarda gli assegni per il nucleo
familiare, poi, secondo la Commissione d’indagine sull’esclusione sociale “gli importi degli assegni variano
da nucleo a nucleo, da reddito a reddito senza alcun riferimento a scale d’equivalenza, tanto che non risulta

49 A differenza della pensione sociale, l’assegno sociale spetta anche nel caso in cui il richiedente coniugato superi il tetto di
reddito personale, purché il reddito complessivo cumulato con il coniuge sia inferiore a 9.334 €.
50 Circa l’80% di esse era in sei regioni: Campania, Sicilia, Puglia, Calabria, Basilicata e Sardegna (COMMISSIONE

D’INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto sulle politiche, 2002, cit.).
51 Ibidem.
52 D. BENASSI, Le politiche nazionali contro la povertà in Italia, Roma, 2000.


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possibile definire con esattezza la logica entro cui si muove oggi l’istituto”53. La prova del reddito avviene
poi con definizioni differenti da misura a misura. Soltanto le due misure più recenti, l’assegno di maternità e
quello al terzo figlio, utilizzano una scala di equivalenza (quella dell’ISEE) ed un criterio rigoroso di
accertamento delle possibilità economiche del soggetto richiedente: l’ISEE per l’appunto, strumento che
conviene esaminare in dettaglio.
L’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), introdotto in via sperimentale nel 1998 e poi
disciplinato in via definitiva nel 2000, è un metodo per valutare la situazione economica di “coloro che
richiedono prestazioni o servizi sociali o assistenziali non destinati alla generalità dei soggetti o comunque
collegati nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche” (Art. 1 del d.lgs. n. 109 del 1998).
La condizione economica del richiedente è valutata non solo in termini di reddito, ma anche di patrimonio,
aggiungendo alla componente reddituale una componente patrimoniale54. L’unità di riferimento è la
famiglia, pertanto vengono sommate le componenti (reddituale e patrimoniale) di ciascun membro
familiare, e al risultato è applicata una scala di equivalenza. La lista delle fonti di reddito e dei tipi di attività
patrimoniali considerate è piuttosto estesa. La componente reddituale è costituita dalla base imponibile
dell’imposta personale sui redditi (corretta se il richiedente è un lavoratore autonomo) e da un reddito
finanziario convenzionale, ottenuto applicando al patrimonio mobiliare del richiedente un tasso pari al
rendimento medio annuo dei titoli decennali del Tesoro. Se la famiglia risiede in un’abitazione in locazione
si applica una detrazione pari a 5.165 €55. La componente patrimoniale è costituita dalla somma del
patrimonio mobiliare e immobiliare, moltiplicata per un coefficiente pari a 0,2. Nel calcolo del patrimonio
si applicano sostanziali franchigie: 15.494 € per il patrimonio mobiliare e fino a 51.646 € per quello
immobiliare, se la famiglia risiede in abitazione di proprietà. Alla somma delle due componenti, detta ISE
(indicatore della situazione economica) viene poi applicata una scala di equivalenza che prende in
considerazione sia la numerosità familiare, sia la presenza di membri con bisogni speciali, ottenendo così
l’ISEE.
Allo stato attuale, le uniche prestazioni sociali nazionali ad utilizzare l’ISEE come criterio per la selezione
dei beneficiari sono le misure introdotte nel 1999: l’assegno al terzo figlio e l’assegno di maternità. Le altre
prestazioni analizzate in questa sezione sono state finora esentate dall’applicazione dell’ISEE, e se ne
comprende bene il motivo. Se generalizzata, infatti, a tutte le prestazioni sociali sottoposte alla prova dei
mezzi, l’applicazione dell’ISEE modificherebbe certamente l’attuale platea di beneficiari di queste ultime,

53 COMMISSIONE D’INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale,
Roma, 2003, 35. Inoltre, il modo in cui è disegnata la riduzione degli assegni per il nucleo familiare all’aumentare del reddito
familiare genera, nell’interazione con l’imposizione personale sul reddito, delle trappole della povertà: in corrispondenza di taluni
gradini di reddito, all’aumentare del reddito imponibile si riduce il reddito disponibile familiare. Vedi C. DE VINCENTI, Sostegno
alle responsabilità familiari e contrasto della povertà: ipotesi di riforma – II, in Riv. pol. soc., 2004, 167 ss.
54 Sebbene vi siano salde ragioni teoriche per prendere in considerazione la ricchezza nella prova dei mezzi, questo viene fatto

nel caso dell’ISEE principalmente per ragioni pratiche, al fine di evitare che prestazioni di tipo assistenziale possano andare a
beneficio di chi evade l’imposta sul reddito. Vedi sul punto M. BALDINI, P. BOSI, S. TOSO, Targeting Welfare in Italy: Old
Problems and Perspectives of Reform, Materiali di discussione 337, CAPP, Dipartimento di Economia Politica, Università degli Studi di
Modena e Reggio Emilia, 2000.
55 Di nuovo, questi sono i valori di riferimento per il 2003.


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consentendo l’accesso a cittadini ora esclusi ed escludendo dal beneficio parte degli attuali beneficiari (ad
esempio, chi a fronte di redditi dichiarati bassi o nulli possieda ingenti attività patrimoniali)56. Politicamente
meno pericolosa appare l’applicazione dell’ISEE a nuovi programmi, così come è stato fatto per le misure
introdotte nel 1999. È quindi auspicabile che, a differenza di quanto fatto nel 1998 con il Reddito minimo
d’inserimento, il disegno di una futura misura di reddito minimo preveda l’ISEE come strumento di
accertamento dei mezzi.




5. Efficacia ed esiti distributivi delle politiche di contrasto alla povertà


Una rassegna delle principali misure che, pur in assenza di una safety net generalizzata, offrono protezione
contro il rischio di essere poveri non può tralasciare gli aspetti distributivi (chi sono i beneficiari?) e di
efficacia (la povertà viene ridotta?) di tali misure.
Per quanto riguarda gli esiti distributivi, utilizzando un modello di microsimulazione tax-benefit e i dati
dell’indagine su reddito e ricchezza delle famiglie della Banca d’Italia del 1998, Baldini, Bosi e Toso
riescono a stimare come si distribuisce la spesa per le varie misure tra i decili della distribuzione del
reddito57. Tra i risultati più importanti, essi trovano che quasi un terzo della spesa per le integrazioni al
trattamento minimo va alla metà più ricca della popolazione, e lo stesso accade per le pensioni sociali (vedi
tabella 7). Ancor più sorprendentemente, più del 15% della spesa per le integrazioni al minimo va al 30%
più ricco della popolazione (più del 10% nel caso delle pensioni sociali). Per quanto riguarda le pensioni di
invalidità civile, più del 30% della spesa va ai più poveri (primo decile), ma quasi il 30% va a soggetti
sicuramente non poveri e oltre il 10% va al 30% più ricco della popolazione, nonostante che questa misura
sia sottoposta alla prova del reddito (con una soglia però elevata). Più chiara appare la funzione di contrasto
alla povertà delle pensioni di invalidità di tipo assicurativo: qui più del 35% della spesa va al primo decile di
reddito, e quasi il 50% ai primi due.


Tabella 7 qui


Per quanto riguarda la capacità delle misure prese in rassegna di incidere sulla povertà Toso, con la stessa
metodologia di Baldini, Bosi e Toso e utilizzando dati dall’indagine della Banca d’Italia del 1995, mostra
l’impatto marginale di alcune di tali misure sull’incidenza di povertà, cioè di quanto ciascuna misura riduce
l’incidenza di povertà quando viene introdotta dopo tutte le altre58. La misura che sembra avere il maggior


56 Vedi M. BALDINI, P. BOSI, S. TOSO, Targeting Welfare , cit., per un esercizio di microsimulazione al riguardo.
57 M. BALDINI, P. BOSI, S. TOSO, Targeting Welfare, cit. I dati sono stati opportunamente corretti per tener conto dei fenomeni
di non-reporting e under-reporting.
58 S. TOSO, Effetti distributivi della spesa per assistenza in Italia, in S. TOSO (a cura di), Selettività e assistenza sociale, Milano,

2002, 84 ss.

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impatto marginale sulla povertà è l’integrazione al minimo, quella con l’impatto minore è la pensione di
invalidità civile. Questi risultati sono confermati dall’ultima colonna della tabella 8, tratta da Baldini, Bosi e
Toso: tra le misure precedentemente descritte, l’integrazione al trattamento minimo è la più efficace nel
ridurre la distanza tra il reddito medio dei poveri e la linea di povertà (colma quasi il 18% di tale distanza),
le pensioni di invalidità civile la meno efficace (meno del 2%)59. Nonostante le considerevoli risorse
destinate a quest’ultima misura (quasi la metà della spesa pubblica per assistenza sociale in Italia), la sua
efficacia nel contrastare la povertà appare molto limitata.


Tabella 8 qui


Quanto appena detto circa l’efficacia dell’integrazione al minimo non deve sembrare in contraddizione con
quanto prima asserito circa la sua bassa capacità redistributiva: una misura può ben essere efficace solo in
virtù delle massicce risorse finanziarie ad essa destinate. Proprio questo pare accadere nel caso
dell’integrazione al minimo: la prima colonna nella tabella 8 riporta, per ciascuna misura, la quota della
spesa che va alle famiglie che sono povere prima del trasferimento. Pertanto, più del 56% della spesa per
integrazioni al minimo va a famiglie non povere già prima di ricevere la prestazione. Ancora peggiore è la
target efficiency delle pensioni di invalidità civile. Che fra efficienza selettiva (la capacità di andare
effettivamente ai poveri) di una misura e sua efficacia nel ridurre la povertà si frappongano le risorse di cui
tale misura dispone è evidente anche dalla considerazione dell’assegno al terzo figlio, il quale ha una elevata
target efficiency ma poche risorse per incidere maggiormente sulla povertà. Si può constatare poi come, pur
ricordando che si tratta di una simulazione, uno schema di reddito minimo modellato sulla componente di
trasferimento monetario dell’RMI (vedi infra) sia al contempo efficiente nel raggiungere solo i poveri ed
efficace nel ridurre la povertà, a fronte di un costo notevolmente inferiore alla spesa per pensioni di
invalidità civile60.
Da ultimo, conviene considerare come il sempre più frequente uso dello strumento fiscale (detrazioni a
ridurre l’imposta dovuta e deduzioni a ridurre il reddito imponibile) tipicamente sortisca effetti trascurabili
sulla povertà, in particolare su quella estrema61. Questo avviene perché – in assenza di un’imposta negativa
sul reddito – lo strumento fiscale rileva se vi è reddito imponibile sufficiente a compensare le deduzioni o a
generare imposta lorda a cui applicare le detrazioni, ma non quando – ed è il caso tipico di molti poveri – vi


59 M. BALDINI, P. BOSI, S. TOSO, Targeting Welfare, cit. La povertà è definita con riferimento al reddito disponibile equivalente
prima dei trasferimenti sociali e la linea di povertà è fissata al 60% della mediana di tale reddito. La scala di equivalenza è data
elevando la numerosità familiare alla potenza 0,65 (il coefficiente della scala dell’ISEE).
60 La spesa per estendere l’RMI al territorio nazionale è stimabile per eccesso in 3.000 milioni di euro all’anno, meno dello 0,23%

del PIL nel 2004 (vedi anche P. SESTITO, V. NIGRO, La sensibilità alle regole di accesso della spesa aggregata e della composizione dei
beneficiari nel sostegno al reddito di ultima istanza: alcune valutazioni, 2004, manoscritto non pubblicato). Nel 2004, la spesa per le
pensioni di invalidità civile è stata di oltre 10.600 milioni di euro, pari ad oltre lo 0,75% del PIL (fonte: MINISTERO
DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, Relazione generale, cit.).
61 Mi riferisco all’aumento delle detrazioni d’imposta per figli a carico introdotto dalla Legge finanziaria per il 2002 e alla

sostituzione di tali detrazioni con le deduzioni per oneri di famiglia introdotta dalla Legge finanziaria per il 2005.

                                                                 17
è incapienza. Pertanto, con l’ovvia eccezione dell’imposta negativa sul reddito, quando vi sia incapienza lo
strumento fiscale non ha effetto alcuno. In tal caso, servono delle misure di policy.




6. La sperimentazione del Reddito minimo di inserimento


L’illustrazione delle misure nazionali che svolgono una funzione di contrasto alla povertà e, soprattutto,
delle loro caratteristiche distributive rende drammaticamente evidente l’assenza in Italia di una misura non
categoriale di sostegno del reddito, rivolta a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro età o dalle loro
condizioni fisiche62. Come detto, una misura siffatta è stata “sperimentata” negli anni passati in alcuni
comuni italiani – principalmente del Mezzogiorno - sotto il nome di Reddito minimo d’inserimento (RMI),
e in particolare in 39 comuni tra il 1998 e il 2000 e in 306 comuni in seguito63. Nella prima fase di
sperimentazione, tra il 1998 e il 2000, la misura ha coinvolto più di 34mila famiglie per un’erogazione totale
di benefici pari a circa 220 milioni di €. La seconda fase ha subito alterne vicende, ma si può ritenere
conclusa nel 2002 sotto il profilo della sua rilevanza politica64. Per entrambe le fasi sono state disposte delle
valutazioni da parte di istituti di ricerca indipendenti. Il rapporto di valutazione della prima fase di
sperimentazione non è mai stato ufficialmente pubblicato, né i suoi risultati presentati dal governo al
Parlamento, come invece previsto65.
L’RMI era inteso ad alleviare la povertà finanziaria e l’esclusione sociale e consisteva di due componenti: a
quella monetaria, sottoposta alla prova dei mezzi, si accompagnava infatti una componente di “attivazione”
dei beneficiari66.
La componente monetaria consisteva in un trasferimento pari alla differenza tra una certa soglia, aggiustata
per dimensioni e composizione familiare attraverso la scala di equivalenza dell’ISEE, e il reddito mensile
disponibile della famiglia beneficiaria. A titolo esemplificativo, nel 2001 la soglia (e quindi l’importo
massimo del trasferimento monetario) era pari a 660 € per una famiglia di quattro componenti, 274€ (circa
il 14,6% del PIL pro capite) per una famiglia composta da un unico membro. Nonostante la famiglia

62 Di un simile sostegno al reddito sono prive, nell’Unione europea a 15, soltanto Italia e Grecia. Per una rassegna delle linee di

tendenza delle safety net in Europa, vedi C. DE RITA, G. MONALDI, Linee di tendenza dei dispositivi di ultima rete: un quadro
sull’Europa, in Riv. pol. soc., 2004, 275 ss. Su origini e sviluppo delle safety net vedi M. FERRERA, Welfare states and social safety nets in
Southern Europe: an introduction, in M. FERRERA (a cura di), Welfare State Reform, cit., 1 ss.
63 Sul disegno della “sperimentazione” e dello strumento, nonché sui risultati ottenuti mi sia consentito di rimandare a S.

SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill, cit. Sull’esperienza dell’RMI vedi anche i saggi contenuti in P. CALZA BINI,O.
NICOLAUS, S. TURCIO, (a cura di), Reddito minimo di inserimento. Che fare?, Roma, 2003 e D. MESINI, E. RANCI ORTIGOSA
Il reddito minimo di inserimento, in C. GORI (a cura di), La riforma dei servizi sociali, cit., 69 ss, nonché i numeri monografici di
L’assistenza sociale, 3/4, luglio-dicembre 2002, e di Prospettive sociali e sanitarie, 13/15, luglio-settembre 2002.
64 La seconda fase prevede tuttora una coda, relativa all’effettiva utilizzazione dei fondi, che giunge sino al 2006: vedi infra.
65 Il rapporto di valutazione è stato redatto dall’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS), dal Centro Studi e Fromazione Sociale

Emanuela Zancan e dal Centro di Ricerche e Studi sui Problemi del Lavoro, dell’Economia e dello Sviluppo (CLES). I principali
risultati del rapporto sono pubblicati in COMMISSIONE DI INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto sulle
politiche, 2002, cit., 47 ss.
66 In questo modo l’RMI, se generalizzato, avrebbe attuato il dettato costituzionale, rispettandone anche la richiesta, rivolta al

beneficiario della prestazione monetaria che sia lavoratore potenziale, della contropartita della “laboriosità”: vedi sul punto F.
PIZZOLATO, L’incompiuta attuazione, cit.

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costituisse l’unità di riferimento per l’applicazione della misura e venisse utilizzata la scala di equivalenza
dell’ISEE, la prova dei mezzi non prevedeva l’utilizzo dello strumento dell’Indicatore della situazione
economica equivalente: la variabile di riferimento era infatti il reddito familiare totale, con alcune esenzioni
e franchigie. Tra queste, la più importante riguardava il reddito da lavoro, incluso nel calcolo del reddito
totale solo per il 75%, al fine di evitare trappole della povertà e della disoccupazione. Molte ulteriori
esenzioni sono poi state introdotte autonomamente dai comuni coinvolti nella sperimentazione (erano
infatti i comuni ad essere i responsabili della gestione e attuazione del programma) sovente in modo
discorde da un comune all’altro. Lo stesso è accaduto per quanto riguarda il trattamento del patrimonio67.
Insomma: la mancata utilizzazione dello strumento dell’ISEE ha dato luogo ad un’elevata varianza nel
trattamento di situazioni simili a seconda del comune di residenza del potenziale beneficiario.
In modo affine agli altri schemi di reddito minimo di ultima generazione introdotti a partire dagli anni
Ottanta nei paesi europei in precedenza privi di misure di reddito garantito, il cui modello è il Revenu
minimum d’insertion francese introdotto nel 1988, il Reddito minimo d’inserimento italiano legava poi la
componente monetaria ad un progetto personalizzato e contrattato con l’amministrazione locale, volto
all’inserimento (o al reinserimento) scolastico, lavorativo e sociale del beneficiario68. Sebbene il requisito
della disponibilità al lavoro da parte dei potenziali beneficiari accomuni ormai gli schemi di reddito minimo
in tutti i paesi europei che di tali schemi siano dotati, Saraceno nota come permangano delle differenze tra
quei sistemi (Svezia, Germania e Regno Unito tra gli altri) nei quali “l’obbligo di essere disponibili ad
accettare un lavoro viene applicato rigorosamente e ci si aspetta che i beneficiari cerchino un lavoro con
tutti i mezzi possibili, inclusi quelli offerti dai servizi sociali stessi” e quelli (Francia, Belgio, Portogallo) nei
quali “la disponibilità al lavoro è integrata, e talvolta sostituita, da altre obbligazioni che possono riguardare
la cura dell’igiene e della salute, l’istruzione, il recupero delle capacità di base; è anche più frequente
l’insistenza sulla capacità dei soggetti di definire la propria situazione e di negoziare le proposte che
ricevono, anche tramite meccanismi insieme formali e simbolici come la firma di accordi, contratti e così
via”69. Nel suo disegno, ma ancor più nella sua realizzazione concreta, il Reddito minimo d’inserimento
italiano appariva vicino a quest’ultimo modello, condizionando l’erogazione monetaria alla disponibilità del
potenziale beneficiario a partecipare a programmi personalizzati di integrazione sociale, mirati a recuperare
e promuovere le sue capacità individuali, costruiti tenendo conto della sua specifica condizione di
emarginazione e rivolti anche ai suoi familiari. In particolare, ai soggetti in età lavorativa, non occupati ed
abili al lavoro erano richieste la disponibilità a frequentare corsi di formazione professionale e la
disponibilità al lavoro.

67 In modo draconiano ed invero abbastanza iniquo, il decreto istitutivo dell’RMI (d.lgs. n. 237 del 1998) prevedeva che, ad

eccezione dell’abitazione di proprietà, qualsiasi patrimonio mobiliare o immobiliare, seppur di modestissimo valore, desse luogo
ad incompatibilità con la fruizione dell’RMI. Molti comuni hanno disapplicato tale disposizione, consentendo patrimoni di
modesta entità.
68 Sull’esperienza nei paesi europei vedi G. BUSILACCHI, Redditi di base e misure selettive di attivazione: antitesi o convivenza?, in Ass.

soc., 3/4, l 2002, 93 ss.
69 C. SARACENO, Introduzione. L’analisi delle dinamiche dell’assistenza economica, in C. SARACENO (a cura di), Le dinamiche

assistenziali in Europa. Sistemi nazionali e locali di contrasto alla povertà, Bologna, 2004, 36-37.

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L’esperienza della sperimentazione dell’RMI, così come documentata dal rapporto di valutazione, ha messo
in luce errori di disegno dello strumento, ma soprattutto la ridotta capacità, da parte di molte
amministrazioni comunali, di attuazione della prova dei mezzi da un lato e di progettazione e gestione dei
programmi di inserimento dall’altro70. La disponibilità dei programmi di inserimento lavorativo, però, non
dipende soltanto dalla capacità istituzionale delle amministrazioni comunali responsabili della gestione della
misura, ma anche dalle condizioni del mercato del lavoro prevalenti nella zona in cui il comune si trova.
Tali condizioni erano, per i comuni coinvolti nella sperimentazione, in molti casi proibitive. In un quadro
siffatto, il rischio è che uno schema di reddito minimo perda la sua funzione precipua, quella di rete di
sicurezza generalizzata volta al contrasto della povertà finanziaria più grave, per diventare un equivalente
funzionale degli assenti o comunque inaccessibili schemi di mantenimento del reddito per i disoccupati.




7. L’illusione del reddito minimo: dall’RMI al RUI


Come accennato più sopra, il decreto istitutivo del Reddito minimo d’inserimento in forma sperimentale
prevedeva che entro la metà del 2001 il governo presentasse al Parlamento una relazione sull'attuazione
della sperimentazione e sui risultati conseguiti. Successivamente, la legge 328 del 2000 istituì formalmente
l’RMI come una misura generale di contrasto della povertà, alla quale ricondurre altri interventi di sostegno
del reddito quali l’assegno e la pensione sociale, lasciando però ad un successivo provvedimento normativo
il compito di definirne i dettagli e, ciò che più rileva, di porla in essere operativamente. Prima che ciò
potesse avvenire, la legge finanziaria per il 2001 prolungò la sperimentazione di due anni, sino al 31
dicembre 2002, estendendola inoltre sino a includere 306 comuni71.
La decisione di prolungare la sperimentazione – adottata dall’ultimo dei governi dell’Ulivo, quello di
Amato, apparentemente per mancanza di risorse da destinare alla generalizzazione della misura72 – si è
rivelata fatale per l’RMI. Il cambio di coalizione di maggioranza ha infatti portato seco la sua terminazione.
Il primo Piano nazionale di azione per l’inclusione sociale, presentato nel luglio 2001 sotto il governo Berlusconi
nell’ambito del processo europeo di coordinamento aperto contro la povertà e l’esclusione sociale, ma
figlio del precedente governo Amato, è stato l’ultimo documento governativo a lodare l’RMI, indicandolo


70 A titolo di esempio, a Orta di Atella (Campania), metà delle famiglie residenti percepivano l’RMI. Percentuali simili sono

riscontrabili anche a Isola Capo Rizzuto e Cutro (Calabria). La percentuale dei beneficiari coinvolti in programmi di inserimento
variava da oltre il 90% a Massa e Nichelino (Piemonte) a circa il 10% a Caserta e Orta di Atella.
71 La sperimentazione venne estesa ai comuni appartenenti ad un patto territoriale del quale facessero parte i 39 comuni della

prima fase della sperimentazione. La ragione ufficiale di tale criterio di inclusione era connessa all’aspettativa che i programmi di
inserzione fossero maggiormente efficaci là dove vi fossero reti già sviluppate di partenariato tra amministrazioni pubbliche, parti
sociali, soggetti privati e organizzazioni no profit. In realtà, sembrano aver giocato un peso rilevante considerazioni legate ai
possibili ritorni elettorali dell’estensione, legate alla sovrapposizione tra patti territoriali e importanti constituencies.
72 Nella stessa legge finanziaria, però, venivano aumentate le detrazioni per figli a carico, nonché rafforzato il trattamento

economico delle misure categoriali riservate agli anziani, per restare nell’ambito delle politiche sociali. Al tempo stesso, il costo
stimato degli interventi di riduzione dell’Irpef previsti dalla manovra finanziaria per il 2001 ammontava a 8,5 miliardi di € (fonte:
ISAE, Rapporto trimestrale, cit., 95).

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come best practice73. Un anno più tardi, il Patto per l’Italia suonava le campane a morto per l’RMI, asserendo
che “la sperimentazione del reddito minimo di inserimento ha consentito di verificare l’impraticabilità di
individuare attraverso la legge dello Stato soggetti aventi diritto ad entrare in questa rete di sicurezza
sociale” ed esprimendo la preferenza dei firmatari del patto (governo, organizzazioni datoriali e
organizzazioni sindacali ad eccezione della CGIL) per il cofinanziamento da parte dello stato di programmi
regionali di reddito minimo. Sotto il titolo Il sostegno al reddito di ultima istanza si afferma che “il sistema di
sostegno al reddito verrà completato da uno strumento di ultima istanza, caratterizzato da elementi
solidaristici e finanziato dalla fiscalità generale”74.
Nell’ottobre 2002, a causa di ritardi nell’erogazione dei fondi, uniti al timore di ritrovarsi con gli stessi
problemi di ordine pubblico che avevano caratterizzato la cessazione dei Lavori Socialmente Utili, venne
prorogato al 31 dicembre 2004 il termine ultimo di “conclusione dei processi attuativi della
sperimentazione”75. Poco dopo, nel febbraio 2003, il Libro bianco sul welfare ribadiva il giudizio negativo
sull’RMI ed affermava che “per l’anno 2003, scaduta la sperimentazione del Reddito minimo di
inserimento, il sistema di sostegno al reddito è completato da uno strumento di ultima istanza,
caratterizzato da elementi solidaristici e finanziato dalla fiscalità generale”76.
Il secondo Piano nazionale di azione per l’inclusione sociale, presentato nel luglio 2003 per il periodo 2003-05, ha
espresso una volta di più l’intenzione del governo di introdurre il Reddito di ultima istanza (RUI). In tale
documento si nota anche come l’esperienza dell’RMI abbia evidenziato “una serie di problemi, in parte
imputabili alle caratteristiche dello strumento di sostegno economico, in parte alla scarsa capacità di
disegno ed attuazione delle misure di reinserimento sociale, in parte ancora al sovraccarico di funzioni che
si determinano a causa di tradizionali carenze del sistema di welfare italiano”77. Come ho già avuto modo di
affermare, questa non è certo una rappresentazione deformata della realtà: la sperimentazione dell’RMI ha
invero messo in luce molte magagne della misura, nel suo disegno come nella sua attuazione, nella sua
componente monetaria come in quella d’inserimento. Ma proprio a questo mirava la sperimentazione: a
individuare i difetti e le incongruenze che avrebbero dovuto essere corrette prima di procedere alla
generalizzazione dell’RMI all’intero territorio nazionale.
Così non è avvenuto, e nella legge finanziaria per il 2004 venne alfine prevista l’introduzione del RUI: “lo
Stato concorre al finanziamento delle regioni che istituiscono il reddito di ultima istanza quale strumento di
accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale, destinato ai nuclei familiari a rischio
di esclusione sociale ed i cui componenti non siano beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti


73 Sul cosiddetto Processo inclusione sociale vedi M. FERRERA, M. MATSAGANIS, S. SACCHI, Open coordination, cit. Sulle
modalità di partecipazione dell’Italia a tale processo europeo vedi S. SACCHI, New modes, cit.
74 Patto per l’Italia. Contratto per il lavoro. Intesa per la competitività e l’inclusione sociale, punto 2.7.
75 Art. 5, d.l. n. 236 del 2002. Successivamente, sempre al fine di consentire ai comuni interessati di esaurire i fondi ricevuti (in

ritardo), il termine è stato ulteriormente prorogato al 30 aprile 2006 (art. 7 undecies, d.l. n. 7 del 2005).
76 MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, Libro bianco, cit., 37.
77 MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, Piano di azione nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale

2003-2005, Roma, 2003, 27-28.

                                                                21
privi di lavoro”78. La formulazione della norma era, a tutta evidenza, estremamente ambigua, sia per quanto
concerne il rapporto tra stato e regioni sia circa i criteri di individuazione dei beneficiari della misura,
mentre le modalità di attuazione del RUI non sono mai state specificate.
La pur brevissima vicenda del RUI si è interrotta negli ultimi giorni del 2004, quando la Corte
Costituzionale ha decretato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni citate giacché, non essendo la
misura inclusa nei livelli essenziali delle prestazioni di assistenza (a tutt’oggi inesistenti), lo stato non ha
titolo a prevederne il cofinanziamento vincolato da parte delle regioni79.




8. Conclusioni


La sperimentazione del Reddito minimo di inserimento costituisce l’emblema di una stagione di riforme
attenta alle politiche di inclusione sociale e culminata nell’approvazione della legge 328 del 2000.
L’abbandono dell’RMI segna il tramonto di tale stagione, e l’ostinato fin de non-recevoir governativo circa
l’attuazione del suo previsto successore, il Reddito di ultima istanza, ancor più della sentenza della Corte
Costituzionale che l’avrebbe affossato, non fa che rafforzare tale convinzione.
D’altro canto, che la rete di sicurezza che manca al sistema di protezione sociale italiano non trovi
realizzazione nel contesto presente non preclude la possibilità che tale misura venga introdotta in futuro,
nella collocazione che più le sarebbe congeniale, tra i livelli essenziali delle prestazioni sociali. In tal caso, le
difficoltà emerse durante la sperimentazione dell’RMI dovrebbero essere considerate e risolte, pena
l’inefficacia della nuova misura.
I fattori critici che hanno afflitto la sperimentazione dell’RMI possono essere classificati in tre gruppi: il
disegno della componente monetaria; la mancanza di capacità amministrative e di risorse da parte di molte
amministrazioni locali, con conseguenze negative per il disegno e l’attuazione dei programmi di inserimento
e per l’amministrazione della prova dei mezzi; infine il rischio di sovraccarico funzionale della misura di
reddito minimo.
I principali errori di disegno della componente monetaria sono stati la mancanza di considerazione della
variabilità territoriale nel costo della vita, l’erratico trattamento del patrimonio, la variabilità e financo errori
logici nei criteri di computo del reddito. In alcuni contesti locali, le deroghe fatte alla normativa nazionale,
sebbene in qualche modo giustificate dalla necessità di piegare alle circostanze locali la rigidità del quadro di
riferimento nazionale, hanno condotto all’inclusione tra i beneficiari di una considerevole frazione della
popolazione, così mettendo a repentaglio gli scopi di inserimento della misura attraverso plausibili effetti di
disincentivazione dell’offerta di lavoro.


78 Art. 3, n. 101, legge n. 350 del 2003.
79 Sentenza della Corte Costituzionale n. 423 del 2004. Per una serrata critica di tale sentenza, per la parte in cui essa nega al RUI
la valenza di livello essenziale, vedi F. PIZZOLATO, L’incompiuta attuazione, cit.

                                                                 22
Questi difetti della componente monetaria dell’RMI dovrebbero essere corretti in fase di progettazione di
qualsivoglia futuro schema di reddito minimo. Alcuni accorgimenti, quali l’inclusione del patrimonio nella
prova dei mezzi attraverso l’utilizzo dell’ISEE, o la considerazione della variabilità territoriale del costo
delle abitazioni a seconda della residenza del beneficiario, o migliori incentivi all’offerta di lavoro, possono
essere realizzati con relativa facilità. Tuttavia, l’estensione della misura a quote eccessive della popolazione
residente conduce a considerare le altre due sfide emerse dalla sperimentazione dell’RMI, ben più difficili
da risolvere attraverso operazioni di ingegneria istituzionale: il basso grado di capacità istituzionali e di
risorse disponibili a molte amministrazioni locali, e il rischio di scaricare sulla rete di sicurezza troppi dei
bisogni lasciati insoddisfatti da un sistema di welfare che sappiamo essere per molti versi lacunoso.
La sperimentazione dell’RMI ha consentito ad assistenti sociali e funzionari dei comuni coinvolti di venire a
conoscenza di situazioni di deprivazione ed esclusione prima ignote, e li ha dotati di uno strumento di policy
adatto a fronteggiarle. In alcuni comuni, l’introduzione dell’RMI ha stimolato la riorganizzazione del
sistema di welfare locale esistente, favorendone la razionalizzazione. Al contempo, però, a molti comuni
sono mancati le capacità e il personale necessario per amministrare la misura, per quanto riguarda lo
sviluppo e la gestione dei progetti di inserimento da un lato, e l’amministrazione della prova dei mezzi
dall’altro.
Le prestazioni basate sulla prova dei mezzi richiedono notevoli capacità istituzionali e abilità manageriali da
parte dei soggetti erogatori80. Date le caratteristiche del contesto socioeconomico che genera domanda per
tali prestazioni in Italia, e in particolare nel Mezzogiorno, le abilità manageriali necessarie devono essere
particolarmente sviluppate. È vero che potrebbe molto giovare alle amministrazioni locali l’adozione di
strumenti e accorgimenti standardizzati per la prova dei mezzi, quali l’ISEE e l’imputazione automatica di
un reddito presunto predeterminato. Parimenti, potrebbe essere molto utile una maggiore collaborazione
da parte dell’amministrazione tributaria e della Guardia di Finanza, così come disposizioni che
concedessero alle amministrazioni locali il potere di effettuare controlli su reddito e patrimonio di
beneficiari e richiedenti. Resta però il fatto che, date le pressioni esterne alle quali molte amministrazioni
locali sono sottoposte nel Mezzogiorno, nonché il diffuso utilizzo di prestazioni sociali per scambi
clientelari tra politici ed elettori (e guardando a certi casi non si ha ragione di dubitare che questo sia
avvenuto anche nel caso dell’RMI), sembra onesto riconoscere che questo non è in alcun modo un
problema semplice da risolvere, a maggior ragione se le regioni e le amministrazioni locali meno attrezzate
non vengono adeguatamente sostenute dal governo centrale.
A tutta evidenza, le capacità amministrative costituiscono un fattore critico anche per i programmi di
inserimento. La sperimentazione dell’RMI ha mostrato come la progettazione e l’amministrazione di tali
programmi possa risultare impossibile per i comuni più piccoli a causa della mancanza di personale e di
competenze, ma anche perché è spesso fuori della loro portata l’attivazione di quelle reti tra attori
socioeconomici necessarie per ottenere risultati positivi in termini di inserimento sociale e lavorativo dei

80   Vedi M. FERRERA, Welfare State Reform, cit.

                                                      23
beneficiari della misura. Quest’ultimo rilievo solleva la questione circa l’ambito territoriale più adatto ad
amministrare una misura che preveda programmi di inserimento, e se tale ambito non sia da rintracciarsi,
tranne che nel caso dei comuni maggiori, nelle zone previste dalla Legge 328 del 2000.
Ma c’è un altro aspetto messo in luce dalla sperimentazione dell’RMI con riguardo ai programmi di
inserimento che merita di essere approfondito. La differenza tra nord e centro da un lato e sud dall’altro
nelle percentuali di beneficiari dell’RMI che hanno effettivamente preso parte a un programma di
inserimento porta in primo piano la questione del funzionamento di uno schema di reddito minimo dato il
contesto socioeconomico nel quale è immersa la povertà nel Mezzogiorno d’Italia81. Questo è d’ovvia
rilevanza per i programmi di inserimento: come si può pensare che gli amministratori locali riescano ad
attivare gli abili al lavoro in un ambiente economicamente depresso? Ma potrebbe avere conseguenze di
ancor più grande momento per la rete di sicurezza in quanto tale: senza un mercato del lavoro funzionante,
e dati i vuoti di copertura del welfare state italiano, uno schema di reddito minimo rischia seriamente di
cader vittima di un sovraccarico funzionale. Ciò appare ancor più grave se si considera la peculiarità
dell’economia sommersa nei paesi sudeuropei, e in particolare in Italia, rispetto a quanto accade nei paesi
del nordeuropa: mentre in questi ultimi tale economia – pur talora rilevante per dimensioni – è dovuta
soprattutto al moonlighting, al secondo lavoro, nei primi essa tende ad essere in competizione con l’economia
e l’occupazione regolare. Il rischio è allora che uno schema di reddito minimo divenga “l’unica fonte di
reddito legale in aree afflitte da disoccupazione cronica, dove la vasta maggioranza della popolazione
residente è composta da outsiders privi di opportunità di lavoro nell’economia formale e di possibilità di
ottenere prestazioni di assicurazione sociale”82.
Le sezioni precedenti di questo scritto hanno messo in rilievo le caratteristiche e la gravità della povertà in
Italia, così come l’inefficienza, la ridotta efficacia e l’iniquità delle politiche di contrasto alla povertà
esistenti. Ad onta delle prevedibili difficoltà di funzionamento e amministrazione, una misura non
categoriale di reddito minimo rimane a tutta evidenza necessaria. Per evitare che questa affondi sotto il
peso della debolezza economica del contesto e delle mancanze del welfare state italiano, occorre però un
ampio menù di politiche di coesione sociale, di sviluppo locale e di protezione sociale83. In particolare,
riguardo a queste ultime, uno schema di reddito minimo trova la sua collocazione all’interno di una riforma
del welfare italiano che accentui l’offerta di servizi alla famiglia, costruisca un sistema di ammortizzatori
sociali degno di tal nome, e riveda radicalmente gli istituti di sostegno monetario alle responsabilità
familiari84. Una strategia di policy in tal senso potrebbe ripartire proprio dai lavori di quella Commissione
Onofri che per prima, un decennio orsono, diede l’impulso ad una (troppo breve) stagione di riforma
dell’assistenza sociale italiana.

81 Vedi sul punto S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill, cit.
82 M. FERRERA, Welfare State Reform, cit., 16.
83 Vedi M. FERRERA, Welfare State Reform, cit., per una discussione di questi aspetti.
84 Su quest’ultimo punto è in corso un interessante dibattito: vedi C., DE VINCENTI, C. POLLASTRI, Imposta negativa,

universalismo e incentivo al lavoro, in Italianieuropei, 2003, 77 ss; M. BALDINI, P. BOSI, M. MATTEUZZI, Sostegno alle responsabilità
familiari e contrasto della povertà: ipotesi di riforma – I, in Riv. pol. soc., 2004, 147 ss; e C. DE VINCENTI, Sostegno alle responsabilità, cit.

                                                                       24
25
FIGURE E TABELLE



Figura 1: Spesa per prestazioni sociali per gruppi di funzioni 2002 (% spesa totale per prestazioni sociali)
                              70,0


                              60,0


                              50,0


                              40,0


                              30,0


                              20,0


                              10,0


                                  0,0
                                        vecchiaia e superstiti       malattia, sanità e invalidità       tutte le altre funzioni

                                                                          Italia     UE-15
Fonte: EUROSTAT, European Social Statistics. Social Protection. Expenditure and Receipts. Data 1994-2002, Lussemburgo, 2005.


Figura 2: “Altre” prestazioni sociali 2002 (% della spesa totale per prestazioni sociali)
                            9,0

                            8,0

                            7,0

                            6,0

                            5,0

                            4,0

                            3,0

                            2,0

                            1,0

                            0,0
                                        famiglia/bambini                  disoccupazione             abitazione ed esclusione sociale

                                                                         Italia      UE-15
Fonte: EUROSTAT, European Social Statistics, cit.




                                                                             26
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Reddito Minimo e Politiche di Contrasto alla Povertà in Italia - 2005 - URGE

  • 1. REDDITO MINIMO E POLITICHE DI CONTRASTO ALLA POVERTA’ IN ITALIA Versione ridotta e aggiornata del Working Paper URGE 1/2005, di prossima pubblicazione in “Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale” n. 3/2005 Stefano Sacchi Unità di Ricerca sulla Governance Europea, Torino stefano.sacchi@urge.it URGE is the Research Unit on European Governance of the Collegio Carlo Alberto Foundation Address: URGE, Collegio Carlo Alberto, Via Real Collegio 30, 10024 Moncalieri (Turin), Italy Website: www.urge.it
  • 2. 1. Introduzione Dall’unità nazionale sino a pochi anni or sono, l’assistenza sociale è stata questione largamente negletta da parte dei decisori pubblici italiani1. Il tratto caratteristico di tale settore in Italia è senz’altro l’assenza di una misura di reddito minimo2. Mancando un programma siffatto, le prestazioni di assistenza sociale sono rivolte a specifiche categorie di bisognosi quali gli invalidi o gli anziani. Per aver diritto ad una prestazione di assistenza sociale, un individuo deve in primo luogo appartenere ad una categoria “protetta”, e poi superare la prova dei mezzi. Piuttosto che in servizi e in prestazioni in natura, tali misure consistono principalmente in trasferimenti monetari: nel 2004, solo il 21,2% della spesa pubblica per prestazioni di assistenza sociale andava a servizi o prestazioni in natura. Il restante 78,8% era destinato a trasferimenti monetari, ed oltre il 57% di questa somma (il 45% della spesa pubblica totale per assistenza sociale) veniva assorbito dalle pensioni di inabilità civile, che fanno dunque la parte del leone nell’assistenza sociale italiana3. Oltre agli schemi nazionali di assistenza sociale, esistono varie misure di assistenza a livello subnazionale (regionale o comunale). Gli schemi locali di reddito minimo sono un esempio significativo. Sebbene non esista a livello nazionale una misura di reddito minimo, in alcune realtà locali italiane sono in vigore ormai 1 Al riguardo, vedi M. FERRERA, Il welfare state in Italia, Bologna, 1984, e S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill but stopping halfway. The troubled journey of the experimental minimum insertion income, in M. FERRERA (a cura di), Welfare State Reform in Southern Europe, Londra, 2005, 84 ss. Idealtipicamente, per assistenza sociale s’intende una modalità di intervento pubblico volto ad assicurare protezione sociale attraverso misure rivolte a specifiche categorie di bisognosi, condizionali all’accertamento di un bisogno individuale manifesto (selettività) e all’impossibilità del bisognoso di farvi fronte con mezzi propri (residualità). L’erogazione delle prestazioni prescinde da requisiti di tipo contributivo e il finanziamento avviene via fiscalità generale. Nonostante i caratteri di selettività e residualità, le prestazioni assistenziali configurano dei diritti sociali in quanto erogate automaticamente a chiunque si trovi nelle condizioni previste. Di particolare rilevanza è il contrasto della modalità dell’assistenza con quella dell’assicurazione sociale, connotata da un’intervento pubblico che preveda prestazioni standardizzate erogate in modo automatico a destinatari individuati dal proprio legame con il mercato del lavoro (natura occupazionale), e condizionali al finanziamento individuale attraverso contributi—seppure col tempo si sia indebolito il legame, per il singolo beneficiario, tra contributi versati e prestazioni erogate. Vedi, su tutto questo, M. FERRERA, Modelli di solidarietà, Bologna, 1993. Operativamente, per assistenza sociale si intende di regola l’insieme di quei programmi volti a garantire un livello minimo di risorse a chi si trovi in condizioni di bisogno manifesto e sottoposti ad una qualche forma di prova dei mezzi, cioè di verifica dell’impossibilità di far fronte al bisogno con mezzi propri (tipicamente il reddito, ma talora anche il patrimonio). Spesso le misure di assistenza sociale presentano degli elementi categoriali, condizionando cioè il diritto a fruire di una data prestazione all’appartenenza del beneficiario ad una categoria (ad esempio quella delle madri con figli minori) il cui criterio di demarcazione non sia di tipo monetario o patrimoniale. Talvolta, in letteratura, il concetto di assistenza sociale denota tutte le misure che abbiano finalità redistributive verticali ed orizzontali e siano sottoposte alla prova dei mezzi, indipendentemente dalla loro natura assistenziale (nel senso idealtipico sopra precisato) o assicurativa (e quindi riservate solo a chi abbia alle spalle una storia contributiva, sia stato occupato e abbia versato i contributi sociali per un certo periodo di tempo). Quello che conta, in questa accezione ampia di assistenza sociale, è che la prestazione di protezione sociale sia sottoposta alla prova dei mezzi. In quanto segue, non adotterò tale accezione di assistenza sociale, termine che denoterà quindi, in quanto segue, soltanto quegli interventi che non abbiano una natura assicurativa. Questo perché esiste a mio avviso una rilevante differenza tra misure accessibili in via di principio da tutti i cittadini (o addirittura i residenti) e misure accessibili solo da chi abbia lavorato per un certo periodo (e che quindi tipicamente si rivolgono ai core workers escludendo gli studenti, i giovani in cerca di prima occupazione, le giovani madri, le donne con insufficienti storie contributive, molti lavoratori atipici, i lavoratori impiegati nell’economia sommersa, gli immigrati). Certamente, giacché l’interesse è qui sulle misure di contrasto alla povertà in Italia, verranno prese in considerazione anche le misure di tipo assicurativo, basate su di una storia contributiva precedente, ma rimarcando la loro differente natura rispetto a quelle di tipo assistenziale. 2 Vedi N. NEGRI, C. SARACENO, Le politiche contro la povertà in Italia, Bologna, 1996. 3 Fonte: MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese - (2004), Roma, 2005. 1
  • 3. da tempo degli schemi (detti di minimo vitale) volti a fornire ai poveri una prestazione sottoposta alla prova dei mezzi e non categoriale (cioè non ristretta a particolari categorie di bisognosi, ma rivolta a tutti i cittadini che si trovino in una condizione di bisogno)4. In alcuni casi è stata una legge regionale a disciplinare il minimo vitale, in altri sono stati i singoli comuni a decidere di istituire tale misura indipendentemente dall’esistenza di una legislazione regionale. Ciò che rileva, comunque, è che tutto questo è accaduto in modo fortemente disomogeneo sul territorio nazionale. Una differenziazione territoriale di tal fatta ha inevitabilmente condotto ad una situazione nella quale i cittadini hanno accesso a prestazioni che variano da luogo a luogo e che non dipendono tanto dalla situazione di bisogno, quanto piuttosto dal luogo di residenza del richiedente la prestazione. In ogni caso, le prestazioni di minimo vitale non riescono a configurarsi come diritti soggettivi, giacché la loro erogazione soggiace di regola alla disponibilità di un’adeguata capienza nei bilanci degli enti locali5. Le cose hanno iniziato a cambiare, a livello nazionale, a metà degli anni Novanta. L’incontro fra i problemi derivanti dai mutamenti nei mercati del lavoro, nelle strutture familiari e nelle tendenze demografiche da un lato ed i vincoli di finanza pubblica del dopo Maastricht dall’altro ha iscritto il tema del futuro dell’assistenza sociale nell’agenda politica, all’interno della più ampia questione della riforma del welfare state. Sulla scorta delle proposte avanzate dalla Commissione Onofri vennero intraprese, negli anni seguenti al 1997, alcune fondamentali riforme: il disegno di un sistema organico di assistenza sociale (principalmente attraverso l’adozione di una legge quadro di riferimento), la sperimentazione e l’introduzione di nuovi programmi e, infine, l’introduzione di un nuovo metodo per valutare la situazione economica dei potenziali beneficiari di prestazioni di assistenza sociale: l’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)6. Il pilastro mancante dell’assistenza sociale italiana, uno schema di reddito minimo (il Reddito minimo d’inserimento) sottoposto alla prova dei mezzi, venne introdotto in fase “sperimentale” nel 19987. Due importanti misure di contrasto alla povertà vennero anch’esse introdotte alla fine del 1998: un trasferimento alle famiglie numerose e un trasferimento di maternità destinato a quelle madri che non hanno diritto agli assegni di maternità di natura assicurativa. L’innovazione di maggiore momento fu costituita dall’approvazione della legge quadro di riforma del settore dell’assistenza sociale italiana (legge n. 328 del 2000). Architettura e implicazioni di tale riforma 4 Vedi N. NEGRI, C. SARACENO, Le politiche contro la povertà, cit. 5 Vedi S. GIUBBONI, L’incerta europeizzazione. Diritto della sicurezza sociale e lotta all’esclusione in Italia, in Gior. dir. lav. rel. int., 2003, 563 ss. 6 Per una descrizione delle caratteristiche dell’ISEE, così come delle misure introdotte alla fine degli anni ’90 vedi infra. 7 Come correttamente notato da Boeri e Perotti, quello del Reddito minimo d’inserimento (RMI) non era un esperimento, poiché non v’era alcun gruppo di controllo, identico a (o proveniente da una scelta randomizzata nello stesso modo di) un gruppo di trattamento (T. BOERI e R. PEROTTI, Meno pensioni, più welfare, Bologna, 2002). Semplicemente, non si intendeva in fase “sperimentale” stimare gli effetti della misura sui beneficiari, per poi decidere se procedere alla generalizzazione: si dava per scontato che la misura fosse efficace, e soprattutto che fosse necessaria, anche per motivi politici (l’Italia era, ed è tuttora, uno dei due stati membri dell’Unione europea a 15 – l’altro è la Grecia – ad esser priva di uno schema nazionale di reddito minimo). L’intento della “sperimentazione” era di carattere amministrativo-organizzativo: si voleva accertare quali fossero, operativamente, i problemi incontrati dalle amministrazioni locali nell’erogare la misura, gestire i programmi di inserimento, combattere le frodi e via dicendo. In questo senso, la “sperimentazione” dell’RMI ha fornito una messe di evidenza che, per quanto aneddotica, sarebbe bene non denigrare né disperdere. 2
  • 4. sono state esaurientemente descritte e analizzate dalla letteratura di stampo giuridico e sociologico, alla quale rimando, sicché l’unico rilievo che mette conto di formulare qui è la grande novità costituita, nel contesto delle politiche contro la povertà in Italia, dal principio dell’universalità dell’accesso, con una priorità accordata ai soggetti in condizione di bisogno economico, di inabilità psichica o fisica8. Sempre nel 2000 vedeva la luce, al Consiglio europeo di Lisbona, la strategia europea di lotta alla povertà e all’esclusione sociale9. Tale direzione sembra però esser stata smarrita negli anni più recenti. Alcuni eventi occorsi a partire dal 2001 hanno tolto vigore a quella spinta riformatrice che, dagli anni della Commissione Onofri, aveva iniziato a muovere l’Italia verso la costruzione di un sistema che garantisca quegli standard minimi di assistenza sociale ai quali molti cittadini europei hanno diritto10. La riforma del Titolo V della Costituzione, entrata in vigore nell’ottobre 2001 a seguito dell’esito favorevole del referendum confermativo ma promossa dalla coalizione di centrosinistra al governo sino alla primavera del 2001, ha modificato la ripartizione delle potestà legislative in capo ai diversi livelli di governo11. Per quanto riguarda l’assistenza sociale, la riforma ne ha implicitamente attribuito la competenza esclusiva alle regioni, fatta salva la competenza del livello centrale a fissare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e l’esercizio del potere sostitutivo volto a tutelare tali livelli essenziali12. Di fatto, anche in considerazione dell’oggettiva difficoltà di determinare i livelli essenziali delle prestazioni sociali non monetarie, la riforma costituzionale ha almeno parzialmente svuotato di significato la legge 328 di riforma dell’assistenza, privando il livello nazionale di governo di quegli strumenti di coordinamento e programmazione che questo era riuscito faticosamente a darsi dopo un’attesa di un quarto di secolo13. In conseguenza delle nuove disposizioni costituzionali, lo stato non può dotarsi di un nuovo Piano sociale per sostituire quello scaduto nel 2003. Il coordinamento dell’azione di policy delle regioni e dei vari enti locali in un sistema coerente appare ora considerevolmente più difficile. L’attuazione della legge quadro sta avvenendo, in modo alquanto disarticolato, al solo livello 8 Vedi ad esempio E. BALBONI, B. BARONI, A. MATTIONI, G. PASTORI (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali. Commento alla legge n. 328 del 2000 e provvedimenti attuativi dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Milano, 2003 tra la letteratura di stampo giuridico e C. GORI (a cura di), La riforma dei servizi sociali in Italia, Roma, 2004 tra quella di stampo sociologico. Vedi inoltre E. ALES, Diritto del lavoro, diritto della previdenza sociale, diritti di cittadinanza sociale: per un «sistema integrato di microsistemi», in Arg. dir. lav., 2001, 981 ss., per una discussione del sistema integrato di servizi e interventi sociali, nonché S. GIUBBONI, L’incerta europeizzazione, cit., per un apprezzamento della novità della legge 328 del 2000 nel contesto italiano. 9 Vedi M. FERRERA, M. MATSAGANIS, S. SACCHI, Open coordination against poverty: the new EU ‘Social inclusion process’, in Journ. of Europ. Soc. Pol., 2002, 227 ss. 10 Per una più ampia e argomentata discussione di questi eventi, e delle conseguenze che hanno sortito, mi sia consentito di rimandare a S. SACCHI, New Modes of Governance in the EU and Italy’s Institutional Capability, in Riv. it. pol. pubbl., 2004, 5 ss. 11 Legge costituzionale n. 3 del 2001. 12 In realtà, non si può dare per scontato che l’attribuzione della competenza circa l’assistenza sociale in capo alle regioni sia inderogabilmente e staticamente decisa una volta per tutte: sarà qui fondamentale la judicial politics, e segnatamente il ruolo della Corte Costituzionale. Vedi ad es. la sentenza della Corte n. 303 del 2003, nella quale si afferma che “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di potestà concorrente, ... significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze ...”. 13 Sulla difficoltà di fissare i livelli minimi per le prestazioni non monetarie, e in particolare per le prestazioni volte a prevenire l’esclusione ed a promuovere l’inclusione, vedi C.GORI, Applicare i livelli essenziali nel sociale, in Prosp. Soc. Sanit., 2003. 3
  • 5. subnazionale14. Il problema è che, in assenza di regia da parte del livello nazionale, l’attuazione è lasciata al libero volere dei governi regionali e locali, così perpetuando precisamente quanto la legge 328 del 2000 intendeva contrastare: le disparità territoriali nel godimento dei diritti sociali, in particolare (ma non esclusivamente) tra nord e sud15. Pur all’interno del nuovo quadro di riferimento dettato dal Titolo V della Costituzione, potrebbe però esservi maggiore spazio per l’iniziativa del governo centrale di quello che il governo Berlusconi II, in carica dal giugno 2001, sia parso incline a sfruttare. Esso è parso sin qui determinato a considerare obsoleta la legge 328 alla luce della riforma costituzionale, e per conseguenza a non curarsi della sua attuazione16. Nel febbraio 2003 il governo ha pubblicato un “Libro bianco sul welfare”, che è però pressoché privo di rilevanza pratica a fini di politica pubblica, ed anzi acquisisce interesse solo in quanto promuove un approccio che si pone in totale contraddizione con le prescrizioni normative della scienza sociale contemporanea17. L’impressione generale che si ricava è che il livello centrale di governo si sia ritratto dal settore dell’assistenza sociale – e per conseguenza dall’azione politica volta a combattere la povertà e l’esclusione sociale – anche più di quanto sarebbe congruente con la riforma costituzionale. Con maggiore accuratezza, però, l’operato del governo Berlusconi nel settore dell’assistenza sociale può essere descritto come mosso dall’intento di riorientare le priorità dell’azione di policy verso l’emissione di sporadici interventi categoriali rivolti agli anziani e alle famiglie, rafforzando il carattere implicito dell’azione di policy contro la povertà in Italia, a tutto detrimento della possibilità stessa di predisporre una strategia coerente, una vera e propria politica esplicita di lotta alla povertà e all’esclusione sociale18. In questo mutato contesto, non v’è posto per una rete di sicurezza generalizzata su base nazionale. Lungi dall’essere esteso a tutto il territorio italiano così come previsto dalla legge 328 del 2000, il Reddito minimo di inserimento, definito dal Ministro del welfare Maroni “un meccanismo costoso e inefficace”19, è stato abbandonato. Tale misura dovrebbe naturaliter far parte di quei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti sociali che lo stato ha la potestà di fissare, ed essere anzi uno dei più agevoli da progettare per quanto riguarda la componente monetaria20. Ciononostante, il Reddito minimo di inserimento è stato 14 Vedi il caso dei piani di zona in U. DE AMBROGIO, Il piano di zona, in C. GORI (a cura di), La riforma dei servizi sociali in Italia, Roma, 2004, 99 ss. 15 Sull’attuazione dei vari aspetti della legge 328 vedi i saggi contenuti nel volume curato da C. GORI, La riforma dei servizi sociali, cit. 16 S. SACCHI, New modes, cit. Vedi anche, sul punto, E. RANCI ORTIGOSA, I temi e lo scenario, in C. GORI, La riforma dei servizi sociali, cit., 21 ss., e C. GORI, L’approvazione della 328 e il dibattito successivo, in C. GORI, La riforma dei servizi sociali, cit., 31 ss. 17 MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, Libro bianco sul welfare. Proposte per una società dinamica e solidale, Roma, 2003. In particolare, nel Libro bianco si assume che la famiglia (fondata sul matrimonio) sia, e debba continuare ad essere, il principale fornitore di protezione dai rischi sociali e la pietra angolare del sistema di welfare italiano, senza considerare in alcun modo la ridotta efficienza e le deleterie conseguenze distributive di un tale approccio, icasticamente definito da Giubboni di “«modernizzazione conservatrice» del familismo tipico del welfare regime nazionale” (S. GIUBBONI, L’incerta europeizzazione, cit., 590). 18 La caratterizzazione di quelle italiane come politiche “implicite” di lotta alla povertà risale a N. NEGRI, C. SARACENO, Le politiche contro la povertà, cit. 19 “La Repubblica”, 19 settembre 2003. 20 “[A] ben vedere, pochi istituti come il RMI o, in genere, un istituto di di minimo vitale appaiono inderogabili dalla determinazione statale dei livelli essenziali, costituendo quello [...] un istituto costituzionalmente necessario”, F. PIZZOLATO, 4
  • 6. espunto dall’agenda di policy del governo Berlusconi II sin dal 2002, mentre la previsione, riportata nella legge finanziaria per il 2004, della compartecipazione finanziaria da parte dello stato per quelle regioni che avessero deciso di istituire una misura detta “Reddito di ultima istanza” è rimasta per lunghi mesi inattuata, per esser poi resa impossibile da una pronunzia della Corte Costituzionale21. 2. L’assistenza sociale nell’edificio del welfare state italiano Appare chiara, da quanto detto sinora, la condizione di minorità dell’assistenza sociale all’interno dell’edificio del welfare state italiano. Un rapido sguardo ad alcuni dati di sintesi può bastare ad evidenziare gli squilibri più marcati di tale edificio. Particolarmente significativa è la comparazione fra la composizione interna della spesa per protezione sociale in Italia e nell’Unione europea. Sebbene la quota di PIL dedicata alla spesa per protezione sociale non sia in Italia troppo distante dalla media europea (26,1% a fronte del 28% della media UE-15 nel 2002), l’allocazione della spesa sociale per funzione mette in luce alcune distinte “anomalie”. Le figure 1 e 2 mostrano che l’Italia concentra la maggior parte del proprio welfare effort sulla funzione “vecchiaia e superstiti” (61,9% del totale della spesa per prestazioni sociali a fronte di una media UE-15 del 45,8%) e destina proporzionalmente meno risorse della media europea alla funzione “malattia, sanità e invalidità” (32,2% contro 36%). Infine, l’Italia mostra un’allocazione della spesa per prestazioni sociali notevolmente bassa in prospettiva comparata per quanto riguarda tutte le altre funzioni: “famiglia e bambini” (3,9% contro 8%), “disoccupazione” (1,7% contro 6,6%) e “abitazione ed esclusione sociale” (0,3% contro 3,6%)22. Figura 1 qui Figura 2 qui L’incompiuta attuazione del minimo vitale nell’ordinamento italiano, in questa Rivista, 2005, 237. Sui livelli essenziali delle prestazioni nel campo dell’assistenza sociale vedi C. GORI, I livelli essenziali, in C. GORI, La riforma dei servizi sociali, cit., 55 ss. 21 Vedi infra. 22 Una possibile obiezione riguarda il fatto che il Trattamento di fine rapporto (TFR) viene interamente computato da Eurostat nella funzione “vecchiaia e superstiti”. Il TFR viene liquidato ad ogni cessazione del rapporto di lavoro dipendente, sia che il dipendente vada in pensione, sia che lasci il posto di lavoro, sia infine che perda il posto di lavoro. Solo nel primo dei tre casi il TFR è assimilabile ad un trattamento pensionistico. Nell’ultimo caso, si può considerare che il TFR vada a coprire il rischio di disoccupazione, mentre nel caso di dimissioni volontarie da parte di lavoratori che contestualmente avviano un nuovo rapporto di lavoro il TFR non dovrebbe essere considerato una prestazione di protezione sociale, non essendo volto a far fronte all’esistenza o all’insorgenza di rischi o bisogni di individui o famiglie. Poiché Eurostat (EUROSTAT, Social protection in Europe, statistics in Focus, Population and Social Conditions, Theme 3 – 6/2004, a cura di G. ABRAMOVICI, Lussemburgo, 2004) stima la spesa totale per TFR nel 6% della spesa per prestazioni sociali, non vi è modo che una differente allocazione del TFR possa anche solo sfumare il quadro complessivo per quanto riguarda lo sbilanciamento a favore degli anziani della spesa sociale italiana. (Molto probabilmente, una riallocazione plausibile del TFR non consentirebbe all’Italia di colmare il divario per quanto riguarda la funzione disoccupazione, mentre potrebbe ridurre la quota di spesa per protezione sociale sul PIL fino ad un punto percentuale.) 5
  • 7. La figura 3 mostra l’allocazione della spesa sociale tra tipi diversi di programmi di protezione sociale. Nel 2004, il 67% del totale della spesa pubblica per prestazioni di protezione sociale andava a programmi di tipo assicurativo, il 25,7% andava alla sanità e il 7,3% andava a programmi di tipo assistenziale23. Figura 3 qui I dati presentati mettono in luce due distinti squilibri del welfare state italiano: • A favore dei programmi fondati su una logica assicurativa rispetto a quelli fondati su una logica di assistenza sociale24; • A favore della protezione contro alcuni rischi piuttosto che contro altri rischi o della protezione di altre condizioni di bisogno. La concentrazione delle risorse su misure di tipo assicurativo implica la maggior protezione di alcune categorie a pregiudizio di altre. Le misure di assicurazione sociale o fondate sulla contribuzione sociale sono accessibili soltanto a quegli individui (o ai familiari di quegli individui) che hanno lavorato nel mercato formale del lavoro e l’hanno fatto continuativamente e per un periodo di tempo sufficiente a maturare il diritto a ricevere una prestazione. Pertanto, il tratto maggiormente distintivo del welfare state italiano è forse il carattere dualistico, quasi polarizzato della protezione offerta ai settori posti al centro del mercato del lavoro da una parte e ai settori più periferici dall’altra. Ciò crea “vuoti di protezione” per categorie quali lavoratori irregolari e anziani con diritti contributivi inadeguati o assenti25. Tale situazione parrebbe inoltre destinata ad aggravarsi, giusta la progressiva precarizzazione de facto dei rapporti di lavoro, nonché l’assenza – o quantomeno la paucità – del contraltare della sicurezza all’enfasi posta sulla flessibilità dalle recenti innovazioni legislative riguardanti il mercato del lavoro (legge n. 30 del 2003 e d.lgs. n. 276 del 2003)26. Per quanto riguarda il secondo squilibrio, quando messo a confronto con le sue controparti europee il welfare state italiano fornisce in modo sproporzionato prestazioni per vecchiaia, invalidità e malattia breve, mentre concede protezione ridotta ai rischi originati dall’appartenenza a famiglie numerose, dalla mancanza 23 Vedi nota 1. Inoltre, quasi il 45% della spesa pubblica per prestazioni di assistenza sociale andava nel 2004 ad un’unica misura: le pensioni di invalidità civile. 24 L’unica prestazione sociale monetaria a carattere universale in Italia è l’indennità di accompagnamento (vedi infra). Al di fuori dei trasferimenti monetari, il quadro è differente: le prestazioni sanitarie hanno per esempio carattere universale. 25 Questo può essere apprezzato guardando alla composizione dei beneficiari in una simulazione di una misura di reddito minimo approntata dall’ISAE (vedi ISAE, Rapporto trimestrale – finanza pubblica e redistribuzione, Roma, 2004, per la definizione della misura e la metodologia della simulazione). Tale sostegno al reddito sarebbe infatti “concentrato tra i nuclei con capofamiglia giovane … e, ancor più, fra quelli con a capo un disoccupato, un pensionato sociale o una casalinga” (ISAE, Rapporto trimestrale, cit., 93). 26 Aumentare la flessibilità del mercato del lavoro senza al contempo fornire protezione sociale ha (almeno) tre effetti. Da un lato genera rischi di precarietà e impoverimento tra chi è toccato dalla flessibilità, dall’altro rafforza ed anzi acuisce le iniquità esistenti tra categorie risparmiate e categorie interessate dalla deregolamentazione, così approfondendo il solco tra insiders e outsiders. Infine, l’assenza di una tutela generalizzata offerta dal welfare state aumenta il valore delle tutele esistenti rispetto alle alternative e ne rende costosa la riforma, cementando l’interesse di generazioni sovrapposte alla conservazione delle rendite ottenute dagli “insiders di famiglia”. 6
  • 8. totale di occupazione o risorse, dal bisogno di assistenza sanitaria di lunga durata e da problemi abitativi27. Per portare un esempio, per ogni euro speso nel 2002 in Italia per prestazioni connesse ad abitazione ed esclusione sociale ne venivano spesi 206 per prestazioni connesse a vecchiaia (e superstiti), a fronte di un rapporto medio nell’Unione a 15 di 1 a 1328. Incrociandosi con il primo, questo secondo squilibrio induce una distribuzione sociale fortemente polarizzata che, data la geografia del mercato del lavoro italiano, possiede anche una forte componente territoriale. In accordo con i dati sulla povertà che seguono, svantaggiate da tale distribuzione sembrano essere in primo luogo le famiglie numerose con coniugi disoccupati residenti nel Mezzogiorno. 3. La povertà in Italia Gli studi sulla povertà in Italia forniscono dati sia sulla povertà relativa, sia su quella assoluta29. Poiché i criteri utilizzati dall’Istat per operativizzare la povertà assoluta sono attualmente in fase di ripensamento, in quanto segue verranno mostrati solo i dati riguardanti la povertà relativa. A livello nazionale, la povertà relativa mostra negli anni recenti una tendenza relativamente stabile, con un lieve declino nell’ultimo periodo (vedi tabella 1)30. Tabella 1 qui 27 Una possibile obiezione a questo riguardo è che potrebbe ben darsi che l’Italia destini la maggior parte della sua spesa sociale alle pensioni (e non, poniamo, a famiglia e bambini) semplicemente perché ha una quota particolarmente elevata di popolazione anziana. Invero, l’Italia ha una quota particolarmente elevata di popolazione anziana: nel 2000, il rapporto tra la popolazione con almeno 65 anni di età e la popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni era pari al 27%, a fronte di una media europea pari al 24% (COMITATO DI POLITICA ECONOMICA, Budgetary challenges posed by ageing populations: the impact on public spending on pensions, health and long-term care for the elderly and possible indicators of the long-term sustainability of public finances, EPC/ECFIN/655/01- EN final, Bruxelles, 2001). Ma tale rapporto aveva lo stesso valore in Svezia, che però ha una composizione interna della spesa sociale molto meno sbilanciata a favore degli anziani rispetto all’Italia: nel 2000 in Svezia solo il 39,1% della spesa per prestazioni sociali era destinata alla funzione “vecchiaia e superstiti” (a fronte del 63,4% in Italia), mentre il 10,8% della medesima spesa andava alla funzione “famiglia e bambini” (a fronte del 3,8% in Italia). Pertanto, l’allocazione della spesa sociale tra le funzioni è una questione di scelta politica (e di eredità di policy) a fronte di sfide ambientali. 28 Inoltre, non solo la spesa per pensioni è sproporzionata, ma ha addirittura effetti redistributivi perversi, favorendo le famiglie a reddito elevato. Boeri e Perotti mostrano che il rapporto tra la quota dei trasferimenti pensionistici sul reddito disponibile delle famiglie con reddito disponibile inferiore alla media e la stessa quota per quelle con reddito disponibile superiore alla media è il più basso tra i paesi rappresentati nel campione ECHP (European Community Household Panel). Vedi T. BOERI e R. PEROTTI, Meno pensioni, cit. 29 Per misurare la povertà assoluta si fa comunemente riferimento ad una linea di povertà costante nel tempo in termini di potere d’acquisto, consentendo il consumo di un determinato paniere di beni e servizi che rappresenta per esempio la possibilità di soddisfare un catalogo di bisogni elementari. Una linea di povertà relativa è definita in termini di un indice di posizione (normalmente la media o la mediana) della distribuzione di reddito o spesa per consumi all’interno di un sistema economico, e varia con quello. 30 Sia il calo dal 2000 al 2001, sia quello dal 2001 al 2002 furono però dovuti alla contrazione della spesa per consumi tra le famiglie più agiate (vedi S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill, cit.), mentre il calo intercorso dal 2002 al 2003 non è statisticamente significativo (ISTAT, La povertà relativa in Italia nel 2003, Famiglia e società, Statistiche in breve, Roma, 2004). I dati sulla povertà assoluta, disponibili sino al 2002, evidenziano la stabilità del fenomeno – definito in termini assoluti - negli anni recenti (S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill, cit.). Ricordo che, a differenza di quello di povertà relativa, l’indicatore di povertà assoluta non dipende direttamente da caratteristiche e comportamento economico dei non poveri. 7
  • 9. La povertà relativa viene definita dall’Istat in termini di spesa per consumi e non di reddito. Una delle ragioni è la maggiore affidabilità attribuita in Italia alle indagini sui consumi rispetto alle indagini fondate sulla dichiarazione dei redditi personali31. La soglia di povertà relativa è fissata dall’Istat secondo l’International Standard of Poverty Line (ISPL): è povera una famiglia di due persone la cui spesa per consumi sia inferiore o eguale alla spesa nazionale pro capite, stimata attraverso l’annuale Indagine sui consumi delle famiglie (la taglia del campione è di circa 28mila famiglie, più dell’1,2‰ della popolazione delle famiglie italiane). Fissata in questo modo, nel 2003 la soglia di povertà relativa era pari a 869,50 euro al mese per una famiglia di due persone. Sulla base di questa soglia ed applicando la scala di equivalenza Carbonaro (che prende in considerazione soltanto il numero dei membri della famiglia e non anche possibili suoi bisogni particolari, quali quelli connessi alla presenza di disabili), la percentuale di famiglie povere sul totale di famiglie residenti, qui detta tasso o incidenza di povertà (poverty head-count ratio), era pari all’10,6%32. La percentuale degli individui sotto la linea di povertà era dell’11,8%. In termini assoluti, questo significa circa 2.360.000 famiglie e 6.786.000 individui (vedi tabella 1). L’analisi dei dati sulla povertà in Italia mostra la distribuzione fortemente diseguale di questo fenomeno sia a livello territoriale, sia tra tipologie familiari distinte. Lo squilibrio territoriale tra il centro-nord ed il sud è forse la caratteristica più evidente e distintiva della povertà in Italia (vedi tabella 2). Nelle regioni del sud e nelle isole l’incidenza della povertà era nel 2003 oltre tre volte e mezza più elevata che al centro, e circa quattro volte quella del nord33. Tabella 2 qui Come mostrato in tabella 3, mentre la quota delle famiglie italiane che risiedono al sud ammonta a un terzo, circa due terzi delle famiglie italiane povere risiedono in tale area. Lo squilibrio è invertito per il nord, che ospita solo un quarto delle famiglie italiane povere a fronte di metà del totale delle famiglie italiane. Tabella 3 qui 31 Dati sulla povertà basati sul reddito possono essere ottenuti dall’indagine su reddito e ricchezza delle famiglie condotta ogni due anni dalla Banca d’Italia (vedi A. BRANDOLINI, The Distribution of Personal Income in Post-war Italy. Source Description, Data Quality, and the Time Pattern of Income Inequality, Temi di discussione n. 350, Roma, 1999). Utilizzando tale fonte e la scala di equivalenza OCSE modificata, Boeri e Brandolini mostrano che la povertà relativa tra gli individui è rimasta costante nell’ultimo decennio (1993-2002) anche adottando una definizione in termini di reddito. Tale risultato è particolarmente robusto, valendo per due soglie di povertà distinte (50% e 60% del reddito mediano equivalente). Vedi T. BOERI, A. BRANDOLINI, The puzzling evolution of poverty in Italy, paper presentato alla conferenza su «Nuovi temi per la politica economica», Roma, 2004. 32 Qui e in seguito, per dati relativi ad un’altra importante misura di povertà, l’intensità di povertà (average poverty gap ratio), si rimanda a ISTAT, La povertà relativa, cit. 33 È peraltro vero che il livello dei prezzi presenta, in Italia, una considerevole variabilità spaziale, ed è in generale inferiore nel Mezzogiorno rispetto al nord. In base ad una linea di povertà assoluta calcolata su base regionale, l’ISAE mostra come le differenze territoriali nell’incidenza di povertà assoluta si assottiglino, permanendo però considerevoli: vedi tabella 2 in ISAE, Rapporto trimestrale, cit., 89. 8
  • 10. Le tabelle 4 e 5 indicano le caratteristiche delle famiglie particolarmente esposte al rischio di essere povere. Famiglie numerose, famiglie con più di due figli e famiglie nelle quali la persona di riferimento non è occupata sono quelle che sperimentano l’incidenza di povertà più elevata. Almeno a livello nazionale, invece, il genere della persona di riferimento non sembra incidere sul rischio di povertà della famiglia: il rischio relativo di povertà per una famiglia con una donna come persona di riferimento è solo marginalmente più elevato che per una famiglia con capofamiglia maschio, e la differenza non è significativa34. Tabella 4 qui In tutto il paese, la povertà colpisce più duramente le famiglie numerose: a livello nazionale il 20,9% delle famiglie con cinque o più membri sono povere, a fronte dell’8,7% delle famiglie composte da un unico membro. L’analisi della composizione familiare getta luce anche su altri fattori di rischio, e segnatamente la presenza in famiglia di membri minori e di membri anziani. Le famiglie con almeno un membro minore hanno un tasso di povertà superiore alla media e pari al 12,6%, quelle con almeno tre minori un tasso di povertà del 21,8%, mentre in tutte le aree geografiche il rischio relativo di povertà diventa maggiore dell’unità con la presenza in famiglia di un secondo membro minore35. Al sud e nelle isole, l’incidenza di povertà per le famiglie con almeno tre minori è del 31,3%. Per quanto riguarda gli anziani, le famiglie con almeno un membro sopra i 65 anni mostrano un tasso di povertà superiore alla media e pari al 13,6%. Volgendo l’attenzione alle famiglie composte da un solo membro, l’incidenza di povertà fra gli ultrasessantacinquenni che vivono soli è più di tre volte superiore che tra i single di età inferiore ai 65 anni (12,7% rispetto a 3,9%). Parimenti, le coppie nelle quali il capofamiglia ha più di 65 anni sono oltre quattro volte più a rischio di essere povere delle coppie nelle quali il capofamiglia ha meno di 65 anni (i tassi di povertà sono pari a 15,6% e 3,5%, rispettivamente). Nel considerare questi ultimi dati, occorre però tenere a mente che una definizione di povertà basata sul consumo tende, rispetto ad una basata sul reddito, a sovrastimare l’incidenza della povertà tra gli anziani, tipicamente a causa dei ridotti consumi in tale segmento della popolazione36. Tale differenza risulta ancora maggiore se la definizione di reddito 34 1,02 (capofamiglia femmina) contro 0,99 (capofamiglia maschio), quindi il rapporto tra i due è in pratica l’unità (1,03). Qui e in seguito per rischio relativo di povertà si intende il rapporto tra l’incidenza di povertà all’interno di una data categoria e quella per la popolazione completa. Il rapporto tra due rischi relativi di povertà equivale allora al rapporto tra i tassi di povertà per le due categorie prese in considerazione. 35 Conviene anche notare che in Italia il tasso di povertà fra le famiglie con un solo genitore è solo marginalmente più alto di quello medio. 36 Uno studio prodotto dalla Commissione d’indagine sull’esclusione sociale applicando il medesimo standard procedurale (ISPL) e la medesima scala di equivalenza (Carbonaro) ai dati relativi a reddito (indagine Banca d’Italia) e consumo (indagine Istat) delle famiglie nel medesimo anno (1998) mostra che il rischio relativo di povertà per le famiglie con capofamiglia ultrasessantacinquenne è pari a 0,78 quando la variabile di riferimento è il reddito (il valore più basso tra tutte le famiglie per classe di età del capofamiglia) e 1,34 quando la variabile di riferimento è il consumo (il valore più elevato tra tutte le famiglie per classe di età del capofamiglia). Vedi Tabella 6.1 in COMMISSIONE D’INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale 1997-2001, a cura di C. SARACENO, Roma, 2002, 124. 9
  • 11. comprende una componente dovuta ai canoni di locazione figurativi per le famiglie che vivono in casa di proprietà. Quando si passa a considerare la condizione professionale del capofamiglia, l’incidenza di povertà più elevata appartiene a quelle famiglie dove la persona di riferimento è in cerca di occupazione: il 38% nel 2003, ben oltre il triplo del tasso di povertà complessivo (vedi tabella 5). Tabella 5 qui In prospettiva comparata, l’Italia si situa tra i sei paesi dell’Unione europea a 15 con la più alta incidenza di povertà (figura 4) ed il più alto tasso di persistenza in povertà (figura 5)37. Figura 4 qui Figura 5 qui Il confronto tra rischi relativi di povertà di categorie selezionate in Italia e nell’Unione europea può però risultare più interessante del semplice confronto fra tassi totali di povertà. I dati raccolti da Boeri e Perotti mostrano come – nel 1995 – il rischio di povertà delle famiglie con figli relativamente a quello delle famiglie senza figli fosse notevolmente superiore nel sottocampione italiano dell’ECHP che nel campione complessivo ECHP (vedi tabella 10)38. La situazione diventa ancora più drammatica quando si volge l’attenzione dalla povertà in un dato anno alla persistenza in povertà: rispetto alle famiglie senza figli, nel 1995 le famiglie con figli avevano nel campione italiano una probabilità doppia di esser state povere per tre anni di fila rispetto al campione complessivo ECHP. Lo stesso accade quando vengono considerate le sole famiglie con due adulti. Ma i risultati più sorprendenti, in prospettiva comparata, sono quelli illustrati nelle ultime due righe della tabella 6: mentre nel complesso dei paesi ECHP le famiglie con un solo membro adulto, con o senza figli, sono considerevolmente più a rischio di essere povere di quelle con due adulti con figli (una volta e mezzo di più nel caso nel caso di un solo adulto con figli), in Italia accade il contrario. Tabella 6 qui 37 I dati vengono dall’ottava wave dell’ECHP. Sono stati raccolti nel 2001 e riflettono la situazione reddituale degli intervistati nel 2000. I limiti dell’ECHP sono ben noti – vedi EUROSTAT, Poverty and social exclusion in the EU, Statistics in Focus, Population and Social Conditions, 16/2004, autori I. DENNIS e A. GUIO, Lussemburgo, 2004, per un succinto resoconto di metodologia e limiti. Tuttavia, sebbene vecchi e di qualità questionabile, quelli provenienti dall’ECHP sono gli unici dati comparabili tra i paesi dell’Unione. La variabile di riferimento è il reddito disponibile equivalente (scala OCSE ridotta) e la linea di povertà è fissata al 60% del reddito disponibile equivalente nazionale mediano. Sono a rischio persistente di povertà quegli individui il cui reddito disponibile equivalente sia inferiore alla linea di povertà nell’anno di riferimento e in almeno due dei tre anni precedenti. 38 Boeri e Perotti usano dati dalle waves I, II e III di ECHP, raccolti tra il 1994 e il 1996 e relativi ai redditi degli intervistati dal 1993 al 1995 (T. BOERI, R. PEROTTI, Meno pensioni, cit.). La soglia di povertà è fissata al 50% del reddito mediano equivalente. La persistenza in povertà è definita qui come essere poveri per tre anni di fila. 10
  • 12. Un altro tratto comparativamente peculiare del profilo della povertà in Italia riguarda la notevole differenza nei rischi relativi di povertà per famiglie con a capo un ultrasessantacinquenne a seconda che almeno un membro della famiglia riceva una pensione o no. Elaborando i dati forniti da Boeri e Perotti, si trova che il rischio di povertà per una famiglia con a capo un ultrasessantacinquenne dove nessun membro riceve una pensione relativo a quello di una famiglia simile con almeno una pensione è oltre una volta e mezza più alto in Italia che nel complesso dei paesi ECHP (2,49 rispetto a 1,55)39. Questo significa che, per famiglie con a capo un anziano, il costo (in termini di rischio di povertà) di non ricevere una pensione è molto più elevato in Italia che nel complesso dei paesi ECHP. Per tirare le somme, tutti i risultati puntano nella medesima direzione: la povertà in Italia è concentrata al sud, in famiglie numerose, in famiglie con tre o più figli, in famiglie con a capo un disoccupato e tra gli anziani che non hanno diritto ad una pensione di tipo assicurativo. Questi risultati portano immediatamente a considerare le misure di contrasto alla povertà in Italia: il loro disegno, la loro efficacia, le loro conseguenze distributive. 4. Le principali politiche contro la povertà in Italia Identificare le politiche nazionali con un impatto sulla povertà non è un compito semplice in Italia. Questa sezione prende in considerazione soltanto le principali misure nazionali che raggiungono i poveri e distingue le misure di tipo assicurativo da quelle di tipo assistenziale sulla base della logica che ne sta alla base: la possibilità di un individuo di accedere a misure del primo tipo dipende principalmente dalla sua storia occupazionale e quindi contributiva. L’unica misura universalistica nel panorama dei trasferimenti monetari italiani è l’indennità di accompagnamento, rivolta a individui incapaci di deambulare o di badare a se stessi e che abbisognano quindi di assistenza continuativa, che non siano ricoverati gratuitamente presso strutture pubbliche da più di un mese. L’erogazione è condizionale ad un accertamento medico delle condizioni fisiche del richiedente, ma non è sottoposta ad alcuna prova dei mezzi. L’importo era pari nel 2003 a 431 € al mese per 12 mensilità40. Negli anni, giusta l’evoluzione demografica, questa misura è divenuta sempre più importante come fonte di protezione sociale per gli anziani non autosufficienti. Tra le misure di tipo assicurativo, di grande rilevanza sono: 39 Tabella 25 in T. BOERI, R. PEROTTI, Meno pensioni, cit., 56-57. I dati vengono dalla wave IV di ECHP e si riferiscono ai redditi degli intervistati nel 1996. 40 Per permettere la comparabilità delle prestazioni previste dalle varie misure, in ciò che segue tutte le prestazioni monetarie e, qualora presenti, i tetti di reddito sono riferiti all’anno 2003, se non altrimenti specificato. 11
  • 13. L’assegno per il nucleo familiare. È un trasferimento mensile sottoposto a prova del reddito e destinato alle famiglie di lavoratori dipendenti o di pensionati che erano lavoratori dipendenti41. L’importo del trasferimento è positivamente correlato alla dimensione della famiglia e negativamente correlato al suo reddito totale. A titolo indicativo, per il periodo luglio 2003 - giugno 2004 una famiglia con entrambi i genitori ed almeno un minore, senza membri inabili e con un reddito inferiore a 11.700 €, riceveva un trasferimento mensile (per 13 mensilità) di 250 € se composta di quattro persone, di 359 € se composta di cinque. • L’integrazione al trattamento minimo delle pensioni. È una prestazione erogata ai beneficiari di una pensione di tipo retributivo volta ad integrare tale trattamento sino a portarlo ad un minimo stabilito, circa 5.227 € all’anno nel 2003. L’erogazione del supplemento è condizionale alla prova del reddito imponibile del potenziale beneficiario (e del coniuge, per chi ha fatto richiesta per la prestazione dopo il 1994) ed a requisiti di contribuzione (20 anni di contribuzioni)42. Sono previste maggiorazioni (“maggiorazioni sociali”) di importo variabile con l’età per i pensionati ultrasessantenni. In particolare, la legge finanziaria per il 2002 ha incrementato l’importo per gli ultrasettantenni, che godono di un’integrazione sino a 6.836 € all’anno quando hanno un reddito (definito in modo più ampio di quello imponibile) inferiore a tale importo se non coniugati43. Chi ha incominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995 non potrà in futuro avere accesso al trattamento minimo, giacché con il passaggio ad un sistema a ripartizione con prestazioni calcolate con il metodo contributivo, il trattamento pensionistico equivarrà ad una frazione del montante contributivo, senza supplementi. Gli stessi soggetti potranno però avere accesso all’assegno sociale (vedi infra). • Le pensioni di invalidità INPS (più correttamente: pensione di inabilità e assegno ordinario di invalidità). Queste prestazioni sono erogate a lavoratori che abbiano contribuito per almeno cinque anni (dei quali almeno tre negli ultimi cinque anni). L’erogazione del beneficio è condizionale ad una visita medica. L’assegno ordinario di invalidità è cumulabile con redditi da lavoro, variabile secondo il reddito ed è concesso a fronte di una riduzione permanente della capacità lavorativa di almeno due terzi44. La pensione di inabilità è una pensione vera e propria e viene concessa ad individui in possesso dei suddetti requisiti contributivi e totalmente inabili al lavoro45. Prima che una riforma adottata nel 1984 introducesse controlli medici più severi e la revisione periodica delle condizioni 41 Dal 1998 la misura è stata estesa agli iscritti alla gestione separata Inps per i lavoratori autonomi (collaboratori coordinati e continuativi, lavoratori a progetto, venditori porta a porta, liberi professionisti), ma continua ad essere inaccessibile per i lavoratori autonomi propriamente detti. 42 Per i pensionati non coniugati il tetto di reddito è pari a due volte l’importo annuo del trattamento minimo; per i pensionati coniugati vige un doppio tetto di reddito: quello personale e quello cumulato (la somma dei redditi dei coniugi non deve superare il quadruplo dell’importo annuo del trattamento minimo). 43 Se coniugati, il reddito proprio deve essere inferiore a 6.836 €, quello cumulato col coniuge a circa 11.500 €. 44 Per beneficiari con redditi modesti, il trattamento viene integrato sino all’importo dell’assegno sociale. 45 L’importo della pensione, calcolato aggiungendo all’anzianità contributiva un “bonus contributivo” che consenta di arrivare all’età pensionabile, viene integrato al minimo se necessario. Le maggiorazioni sociali previste per gli ultrasettantenni valgono in caso di pensione di inabilità già a partire dai 60 anni. 12
  • 14. fisiche del beneficiario, questi programmi servivano – in particolar modo al sud - come un equivalente funzionale dell’assente misura di reddito minimo. Parimenti, servivano come moneta di scambio clientelare fra politici ed elettori46. Per quanto riguarda le misure di tipo assistenziale, sono da ricordare: • Le pensioni di invalidità civile (più correttamente: pensione di inabilità civile ed assegno di assistenza). Queste misure non sono contributive, e pertanto sono accessibili anche a chi non sia in possesso dei requisiti previsti per le pensioni di invalidità di tipo assicurativo. La pensione di inabilità civile è riservata ad individui totalmente inabili al lavoro con un reddito annuo inferiore a 13.100 €, mentre l’assegno di assistenza è riservato ad individui in età da lavoro con una riduzione della capacità lavorativa di almeno il 74% ed un reddito annuo inferiore a circa 3.850 €, e si trasforma in pensione sociale al compimento dei 65 anni. Per entrambe le misure, l’importo erogato nel 2003 era pari a circa 224 € al mese (13 mensilità) e la prova del reddito è strettamente personale, indipendentemente dal reddito familiare47. Dopo il 1984, questi programmi hanno sostituito le pensioni di invalidità Inps come strumenti di quel meccanismo clientelare sopra descritto. • La pensione sociale. È uno schema di reddito minimo per ultrasessantacinquenni che non abbiano maturato il diritto a ricevere una pensione di tipo retributivo, e pertanto nemmeno il trattamento minimo. L’importo annuo intero era di 3.846 € nel 2003 (per soggetti totalmente privi di reddito). La prestazione è soggetta a prova del reddito: per un richiedente non coniugato la pensione sociale spetta a complemento del reddito personale fino al limite di 3.846 €, per un richiedente coniugato essa spetta - sempre nella misura massima di 3.846 € - a complemento del reddito complessivo dei coniugi fino al limite di 13.253 €48. Valgono le maggiorazioni per gli ultrasettantenni introdotte dalla legge finanziaria per il 2002. Dal 1996 questo schema è stato sostituito dall’assegno sociale, e continua ad essere erogato solo per chi ne abbia fatto richiesta prima del 31 dicembre 1995. • L’assegno sociale. Tale misura, introdotta nel 1995, è una prestazione rivolta agli ultrasessantacinquenni che - a causa della mancanza dei requisiti contributivi - non hanno diritto ad una pensione di tipo retributivo né ad una di tipo contributivo, oppure che hanno diritto ad una pensione di tipo contributivo di importo inferiore a quello dell’assegno sociale medesimo. Ha sostituito, per i nuovi richiedenti, la pensione sociale a partire dal 1 gennaio 1996. L’importo annuo intero dell’assegno sociale era nel 2003 di 4.667 € (per soggetti totalmente privi di reddito). L’assegno sociale è sottoposto a prova del reddito (definito in modo più ampio rispetto a quello imponibile): viene erogato a complemento del reddito personale fino al limite di 4.667 € se il richiedente non è coniugato e a complemento del reddito complessivo di richiedente e coniuge fino 46 Vedi M. FERRERA, Il modello sud-europeo di welfare state, in Riv. it. sci. pol., 1996, 67 ss. 47 Anche nel caso della pensione di inabilità civile le maggiorazioni sociali previste per gli ultrasettantenni valgono già a partire dai 60 anni. 48 Se il richiedente è coniugato vanno superati entrambi i test del reddito, cioè il reddito personale deve comunque essere inferiore a 3.846 € anche qualora il reddito complessivo sia inferiore al tetto di 13.253 €. 13
  • 15. al limite di 9.334 €, sempre comunque nella misura massima di 4.667 €, quando il richiedente è coniugato49. Valgono le maggiorazioni per gli ultrasettantenni introdotte dalla legge finanziaria per il 2002. • L’assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori (detto assegno al terzo figlio). È volto ad alleviare la povertà nelle famiglie numerose, proprio quelle che i dati prima considerati mostrano avere un rischio relativo di povertà particolarmente elevato. Introdotto dalla legge finanziaria per il 1999, è rivolto a famiglie di cittadini italiani o comunitari con tre o più figli minori. L’ammontare mensile era pari nel 2003 a 113 € al mese per 13 mesi, con la possibilità di rinnovo. L’assegno è sottoposto a prova dei mezzi, e lo strumento utilizzato è l’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), introdotto nel 1998. Per una famiglia di cinque componenti, la soglia ISEE era nel 2003 pari a 20.381 €. Nel 2000, 244.000 famiglie (l’1,1% delle famiglie italiane) hanno goduto di questo trasferimento. Le famiglie beneficiarie erano principalmente concentrate nelle regioni del Mezzogiorno50. • L’assegno di maternità. Introdotto anch’esso dalla legge finanziaria per il 1999, è rivolto alle madri italiane, comunitarie o extracomunitarie in possesso di un permesso di soggiorno che siano sprovviste dei requisiti contributivi per l’indennità di maternità di natura assicurativa. L’evento che dà titolo al godimento della prestazione non è soltanto la nascita di un figlio, ma anche l’affidamento preadottivo e l’adozione di un minore. L’importo dell’assegno per il 2003 era di circa 271 € al mese, per cinque mesi per ciascun figlio nato. L’assegno è sottoposto a prova dei mezzi attraverso l’ISEE: per una famiglia di due genitori e un figlio la soglia ISEE era posta nel 2003 a 28.308 €. Nel 2000, circa 173.000 madri hanno ottenuto questa prestazione51. Come appare evidente, questa lista di provvedimenti è rivolta per la più gran parte ad anziani e disabili (rectius: inabili al lavoro): Benassi stima che, non considerando le misure più recenti (assegno di maternità e al terzo figlio), più del 90% della spesa complessiva per tutte le politiche contro la povertà in Italia (non solo quelle qui considerate più importanti) vada a beneficio di tali due categorie52. Inoltre, e sempre escludendo le due misure più recenti, ciò che colpisce delle prestazioni qui elencate è che non venga presa in considerazione la dimensione della famiglia, né la sua composizione (ad esempio la presenza di componenti disabili). Le prestazioni di invalidità civile guardano al solo reddito del richiedente, mentre integrazione al minimo, pensione e assegno sociale considerano il reddito del richiedente e del coniuge in modo ingenuo, senza utilizzare una scala di equivalenza. Per quanto riguarda gli assegni per il nucleo familiare, poi, secondo la Commissione d’indagine sull’esclusione sociale “gli importi degli assegni variano da nucleo a nucleo, da reddito a reddito senza alcun riferimento a scale d’equivalenza, tanto che non risulta 49 A differenza della pensione sociale, l’assegno sociale spetta anche nel caso in cui il richiedente coniugato superi il tetto di reddito personale, purché il reddito complessivo cumulato con il coniuge sia inferiore a 9.334 €. 50 Circa l’80% di esse era in sei regioni: Campania, Sicilia, Puglia, Calabria, Basilicata e Sardegna (COMMISSIONE D’INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto sulle politiche, 2002, cit.). 51 Ibidem. 52 D. BENASSI, Le politiche nazionali contro la povertà in Italia, Roma, 2000. 14
  • 16. possibile definire con esattezza la logica entro cui si muove oggi l’istituto”53. La prova del reddito avviene poi con definizioni differenti da misura a misura. Soltanto le due misure più recenti, l’assegno di maternità e quello al terzo figlio, utilizzano una scala di equivalenza (quella dell’ISEE) ed un criterio rigoroso di accertamento delle possibilità economiche del soggetto richiedente: l’ISEE per l’appunto, strumento che conviene esaminare in dettaglio. L’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), introdotto in via sperimentale nel 1998 e poi disciplinato in via definitiva nel 2000, è un metodo per valutare la situazione economica di “coloro che richiedono prestazioni o servizi sociali o assistenziali non destinati alla generalità dei soggetti o comunque collegati nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche” (Art. 1 del d.lgs. n. 109 del 1998). La condizione economica del richiedente è valutata non solo in termini di reddito, ma anche di patrimonio, aggiungendo alla componente reddituale una componente patrimoniale54. L’unità di riferimento è la famiglia, pertanto vengono sommate le componenti (reddituale e patrimoniale) di ciascun membro familiare, e al risultato è applicata una scala di equivalenza. La lista delle fonti di reddito e dei tipi di attività patrimoniali considerate è piuttosto estesa. La componente reddituale è costituita dalla base imponibile dell’imposta personale sui redditi (corretta se il richiedente è un lavoratore autonomo) e da un reddito finanziario convenzionale, ottenuto applicando al patrimonio mobiliare del richiedente un tasso pari al rendimento medio annuo dei titoli decennali del Tesoro. Se la famiglia risiede in un’abitazione in locazione si applica una detrazione pari a 5.165 €55. La componente patrimoniale è costituita dalla somma del patrimonio mobiliare e immobiliare, moltiplicata per un coefficiente pari a 0,2. Nel calcolo del patrimonio si applicano sostanziali franchigie: 15.494 € per il patrimonio mobiliare e fino a 51.646 € per quello immobiliare, se la famiglia risiede in abitazione di proprietà. Alla somma delle due componenti, detta ISE (indicatore della situazione economica) viene poi applicata una scala di equivalenza che prende in considerazione sia la numerosità familiare, sia la presenza di membri con bisogni speciali, ottenendo così l’ISEE. Allo stato attuale, le uniche prestazioni sociali nazionali ad utilizzare l’ISEE come criterio per la selezione dei beneficiari sono le misure introdotte nel 1999: l’assegno al terzo figlio e l’assegno di maternità. Le altre prestazioni analizzate in questa sezione sono state finora esentate dall’applicazione dell’ISEE, e se ne comprende bene il motivo. Se generalizzata, infatti, a tutte le prestazioni sociali sottoposte alla prova dei mezzi, l’applicazione dell’ISEE modificherebbe certamente l’attuale platea di beneficiari di queste ultime, 53 COMMISSIONE D’INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, Roma, 2003, 35. Inoltre, il modo in cui è disegnata la riduzione degli assegni per il nucleo familiare all’aumentare del reddito familiare genera, nell’interazione con l’imposizione personale sul reddito, delle trappole della povertà: in corrispondenza di taluni gradini di reddito, all’aumentare del reddito imponibile si riduce il reddito disponibile familiare. Vedi C. DE VINCENTI, Sostegno alle responsabilità familiari e contrasto della povertà: ipotesi di riforma – II, in Riv. pol. soc., 2004, 167 ss. 54 Sebbene vi siano salde ragioni teoriche per prendere in considerazione la ricchezza nella prova dei mezzi, questo viene fatto nel caso dell’ISEE principalmente per ragioni pratiche, al fine di evitare che prestazioni di tipo assistenziale possano andare a beneficio di chi evade l’imposta sul reddito. Vedi sul punto M. BALDINI, P. BOSI, S. TOSO, Targeting Welfare in Italy: Old Problems and Perspectives of Reform, Materiali di discussione 337, CAPP, Dipartimento di Economia Politica, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2000. 55 Di nuovo, questi sono i valori di riferimento per il 2003. 15
  • 17. consentendo l’accesso a cittadini ora esclusi ed escludendo dal beneficio parte degli attuali beneficiari (ad esempio, chi a fronte di redditi dichiarati bassi o nulli possieda ingenti attività patrimoniali)56. Politicamente meno pericolosa appare l’applicazione dell’ISEE a nuovi programmi, così come è stato fatto per le misure introdotte nel 1999. È quindi auspicabile che, a differenza di quanto fatto nel 1998 con il Reddito minimo d’inserimento, il disegno di una futura misura di reddito minimo preveda l’ISEE come strumento di accertamento dei mezzi. 5. Efficacia ed esiti distributivi delle politiche di contrasto alla povertà Una rassegna delle principali misure che, pur in assenza di una safety net generalizzata, offrono protezione contro il rischio di essere poveri non può tralasciare gli aspetti distributivi (chi sono i beneficiari?) e di efficacia (la povertà viene ridotta?) di tali misure. Per quanto riguarda gli esiti distributivi, utilizzando un modello di microsimulazione tax-benefit e i dati dell’indagine su reddito e ricchezza delle famiglie della Banca d’Italia del 1998, Baldini, Bosi e Toso riescono a stimare come si distribuisce la spesa per le varie misure tra i decili della distribuzione del reddito57. Tra i risultati più importanti, essi trovano che quasi un terzo della spesa per le integrazioni al trattamento minimo va alla metà più ricca della popolazione, e lo stesso accade per le pensioni sociali (vedi tabella 7). Ancor più sorprendentemente, più del 15% della spesa per le integrazioni al minimo va al 30% più ricco della popolazione (più del 10% nel caso delle pensioni sociali). Per quanto riguarda le pensioni di invalidità civile, più del 30% della spesa va ai più poveri (primo decile), ma quasi il 30% va a soggetti sicuramente non poveri e oltre il 10% va al 30% più ricco della popolazione, nonostante che questa misura sia sottoposta alla prova del reddito (con una soglia però elevata). Più chiara appare la funzione di contrasto alla povertà delle pensioni di invalidità di tipo assicurativo: qui più del 35% della spesa va al primo decile di reddito, e quasi il 50% ai primi due. Tabella 7 qui Per quanto riguarda la capacità delle misure prese in rassegna di incidere sulla povertà Toso, con la stessa metodologia di Baldini, Bosi e Toso e utilizzando dati dall’indagine della Banca d’Italia del 1995, mostra l’impatto marginale di alcune di tali misure sull’incidenza di povertà, cioè di quanto ciascuna misura riduce l’incidenza di povertà quando viene introdotta dopo tutte le altre58. La misura che sembra avere il maggior 56 Vedi M. BALDINI, P. BOSI, S. TOSO, Targeting Welfare , cit., per un esercizio di microsimulazione al riguardo. 57 M. BALDINI, P. BOSI, S. TOSO, Targeting Welfare, cit. I dati sono stati opportunamente corretti per tener conto dei fenomeni di non-reporting e under-reporting. 58 S. TOSO, Effetti distributivi della spesa per assistenza in Italia, in S. TOSO (a cura di), Selettività e assistenza sociale, Milano, 2002, 84 ss. 16
  • 18. impatto marginale sulla povertà è l’integrazione al minimo, quella con l’impatto minore è la pensione di invalidità civile. Questi risultati sono confermati dall’ultima colonna della tabella 8, tratta da Baldini, Bosi e Toso: tra le misure precedentemente descritte, l’integrazione al trattamento minimo è la più efficace nel ridurre la distanza tra il reddito medio dei poveri e la linea di povertà (colma quasi il 18% di tale distanza), le pensioni di invalidità civile la meno efficace (meno del 2%)59. Nonostante le considerevoli risorse destinate a quest’ultima misura (quasi la metà della spesa pubblica per assistenza sociale in Italia), la sua efficacia nel contrastare la povertà appare molto limitata. Tabella 8 qui Quanto appena detto circa l’efficacia dell’integrazione al minimo non deve sembrare in contraddizione con quanto prima asserito circa la sua bassa capacità redistributiva: una misura può ben essere efficace solo in virtù delle massicce risorse finanziarie ad essa destinate. Proprio questo pare accadere nel caso dell’integrazione al minimo: la prima colonna nella tabella 8 riporta, per ciascuna misura, la quota della spesa che va alle famiglie che sono povere prima del trasferimento. Pertanto, più del 56% della spesa per integrazioni al minimo va a famiglie non povere già prima di ricevere la prestazione. Ancora peggiore è la target efficiency delle pensioni di invalidità civile. Che fra efficienza selettiva (la capacità di andare effettivamente ai poveri) di una misura e sua efficacia nel ridurre la povertà si frappongano le risorse di cui tale misura dispone è evidente anche dalla considerazione dell’assegno al terzo figlio, il quale ha una elevata target efficiency ma poche risorse per incidere maggiormente sulla povertà. Si può constatare poi come, pur ricordando che si tratta di una simulazione, uno schema di reddito minimo modellato sulla componente di trasferimento monetario dell’RMI (vedi infra) sia al contempo efficiente nel raggiungere solo i poveri ed efficace nel ridurre la povertà, a fronte di un costo notevolmente inferiore alla spesa per pensioni di invalidità civile60. Da ultimo, conviene considerare come il sempre più frequente uso dello strumento fiscale (detrazioni a ridurre l’imposta dovuta e deduzioni a ridurre il reddito imponibile) tipicamente sortisca effetti trascurabili sulla povertà, in particolare su quella estrema61. Questo avviene perché – in assenza di un’imposta negativa sul reddito – lo strumento fiscale rileva se vi è reddito imponibile sufficiente a compensare le deduzioni o a generare imposta lorda a cui applicare le detrazioni, ma non quando – ed è il caso tipico di molti poveri – vi 59 M. BALDINI, P. BOSI, S. TOSO, Targeting Welfare, cit. La povertà è definita con riferimento al reddito disponibile equivalente prima dei trasferimenti sociali e la linea di povertà è fissata al 60% della mediana di tale reddito. La scala di equivalenza è data elevando la numerosità familiare alla potenza 0,65 (il coefficiente della scala dell’ISEE). 60 La spesa per estendere l’RMI al territorio nazionale è stimabile per eccesso in 3.000 milioni di euro all’anno, meno dello 0,23% del PIL nel 2004 (vedi anche P. SESTITO, V. NIGRO, La sensibilità alle regole di accesso della spesa aggregata e della composizione dei beneficiari nel sostegno al reddito di ultima istanza: alcune valutazioni, 2004, manoscritto non pubblicato). Nel 2004, la spesa per le pensioni di invalidità civile è stata di oltre 10.600 milioni di euro, pari ad oltre lo 0,75% del PIL (fonte: MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, Relazione generale, cit.). 61 Mi riferisco all’aumento delle detrazioni d’imposta per figli a carico introdotto dalla Legge finanziaria per il 2002 e alla sostituzione di tali detrazioni con le deduzioni per oneri di famiglia introdotta dalla Legge finanziaria per il 2005. 17
  • 19. è incapienza. Pertanto, con l’ovvia eccezione dell’imposta negativa sul reddito, quando vi sia incapienza lo strumento fiscale non ha effetto alcuno. In tal caso, servono delle misure di policy. 6. La sperimentazione del Reddito minimo di inserimento L’illustrazione delle misure nazionali che svolgono una funzione di contrasto alla povertà e, soprattutto, delle loro caratteristiche distributive rende drammaticamente evidente l’assenza in Italia di una misura non categoriale di sostegno del reddito, rivolta a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro età o dalle loro condizioni fisiche62. Come detto, una misura siffatta è stata “sperimentata” negli anni passati in alcuni comuni italiani – principalmente del Mezzogiorno - sotto il nome di Reddito minimo d’inserimento (RMI), e in particolare in 39 comuni tra il 1998 e il 2000 e in 306 comuni in seguito63. Nella prima fase di sperimentazione, tra il 1998 e il 2000, la misura ha coinvolto più di 34mila famiglie per un’erogazione totale di benefici pari a circa 220 milioni di €. La seconda fase ha subito alterne vicende, ma si può ritenere conclusa nel 2002 sotto il profilo della sua rilevanza politica64. Per entrambe le fasi sono state disposte delle valutazioni da parte di istituti di ricerca indipendenti. Il rapporto di valutazione della prima fase di sperimentazione non è mai stato ufficialmente pubblicato, né i suoi risultati presentati dal governo al Parlamento, come invece previsto65. L’RMI era inteso ad alleviare la povertà finanziaria e l’esclusione sociale e consisteva di due componenti: a quella monetaria, sottoposta alla prova dei mezzi, si accompagnava infatti una componente di “attivazione” dei beneficiari66. La componente monetaria consisteva in un trasferimento pari alla differenza tra una certa soglia, aggiustata per dimensioni e composizione familiare attraverso la scala di equivalenza dell’ISEE, e il reddito mensile disponibile della famiglia beneficiaria. A titolo esemplificativo, nel 2001 la soglia (e quindi l’importo massimo del trasferimento monetario) era pari a 660 € per una famiglia di quattro componenti, 274€ (circa il 14,6% del PIL pro capite) per una famiglia composta da un unico membro. Nonostante la famiglia 62 Di un simile sostegno al reddito sono prive, nell’Unione europea a 15, soltanto Italia e Grecia. Per una rassegna delle linee di tendenza delle safety net in Europa, vedi C. DE RITA, G. MONALDI, Linee di tendenza dei dispositivi di ultima rete: un quadro sull’Europa, in Riv. pol. soc., 2004, 275 ss. Su origini e sviluppo delle safety net vedi M. FERRERA, Welfare states and social safety nets in Southern Europe: an introduction, in M. FERRERA (a cura di), Welfare State Reform, cit., 1 ss. 63 Sul disegno della “sperimentazione” e dello strumento, nonché sui risultati ottenuti mi sia consentito di rimandare a S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill, cit. Sull’esperienza dell’RMI vedi anche i saggi contenuti in P. CALZA BINI,O. NICOLAUS, S. TURCIO, (a cura di), Reddito minimo di inserimento. Che fare?, Roma, 2003 e D. MESINI, E. RANCI ORTIGOSA Il reddito minimo di inserimento, in C. GORI (a cura di), La riforma dei servizi sociali, cit., 69 ss, nonché i numeri monografici di L’assistenza sociale, 3/4, luglio-dicembre 2002, e di Prospettive sociali e sanitarie, 13/15, luglio-settembre 2002. 64 La seconda fase prevede tuttora una coda, relativa all’effettiva utilizzazione dei fondi, che giunge sino al 2006: vedi infra. 65 Il rapporto di valutazione è stato redatto dall’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS), dal Centro Studi e Fromazione Sociale Emanuela Zancan e dal Centro di Ricerche e Studi sui Problemi del Lavoro, dell’Economia e dello Sviluppo (CLES). I principali risultati del rapporto sono pubblicati in COMMISSIONE DI INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto sulle politiche, 2002, cit., 47 ss. 66 In questo modo l’RMI, se generalizzato, avrebbe attuato il dettato costituzionale, rispettandone anche la richiesta, rivolta al beneficiario della prestazione monetaria che sia lavoratore potenziale, della contropartita della “laboriosità”: vedi sul punto F. PIZZOLATO, L’incompiuta attuazione, cit. 18
  • 20. costituisse l’unità di riferimento per l’applicazione della misura e venisse utilizzata la scala di equivalenza dell’ISEE, la prova dei mezzi non prevedeva l’utilizzo dello strumento dell’Indicatore della situazione economica equivalente: la variabile di riferimento era infatti il reddito familiare totale, con alcune esenzioni e franchigie. Tra queste, la più importante riguardava il reddito da lavoro, incluso nel calcolo del reddito totale solo per il 75%, al fine di evitare trappole della povertà e della disoccupazione. Molte ulteriori esenzioni sono poi state introdotte autonomamente dai comuni coinvolti nella sperimentazione (erano infatti i comuni ad essere i responsabili della gestione e attuazione del programma) sovente in modo discorde da un comune all’altro. Lo stesso è accaduto per quanto riguarda il trattamento del patrimonio67. Insomma: la mancata utilizzazione dello strumento dell’ISEE ha dato luogo ad un’elevata varianza nel trattamento di situazioni simili a seconda del comune di residenza del potenziale beneficiario. In modo affine agli altri schemi di reddito minimo di ultima generazione introdotti a partire dagli anni Ottanta nei paesi europei in precedenza privi di misure di reddito garantito, il cui modello è il Revenu minimum d’insertion francese introdotto nel 1988, il Reddito minimo d’inserimento italiano legava poi la componente monetaria ad un progetto personalizzato e contrattato con l’amministrazione locale, volto all’inserimento (o al reinserimento) scolastico, lavorativo e sociale del beneficiario68. Sebbene il requisito della disponibilità al lavoro da parte dei potenziali beneficiari accomuni ormai gli schemi di reddito minimo in tutti i paesi europei che di tali schemi siano dotati, Saraceno nota come permangano delle differenze tra quei sistemi (Svezia, Germania e Regno Unito tra gli altri) nei quali “l’obbligo di essere disponibili ad accettare un lavoro viene applicato rigorosamente e ci si aspetta che i beneficiari cerchino un lavoro con tutti i mezzi possibili, inclusi quelli offerti dai servizi sociali stessi” e quelli (Francia, Belgio, Portogallo) nei quali “la disponibilità al lavoro è integrata, e talvolta sostituita, da altre obbligazioni che possono riguardare la cura dell’igiene e della salute, l’istruzione, il recupero delle capacità di base; è anche più frequente l’insistenza sulla capacità dei soggetti di definire la propria situazione e di negoziare le proposte che ricevono, anche tramite meccanismi insieme formali e simbolici come la firma di accordi, contratti e così via”69. Nel suo disegno, ma ancor più nella sua realizzazione concreta, il Reddito minimo d’inserimento italiano appariva vicino a quest’ultimo modello, condizionando l’erogazione monetaria alla disponibilità del potenziale beneficiario a partecipare a programmi personalizzati di integrazione sociale, mirati a recuperare e promuovere le sue capacità individuali, costruiti tenendo conto della sua specifica condizione di emarginazione e rivolti anche ai suoi familiari. In particolare, ai soggetti in età lavorativa, non occupati ed abili al lavoro erano richieste la disponibilità a frequentare corsi di formazione professionale e la disponibilità al lavoro. 67 In modo draconiano ed invero abbastanza iniquo, il decreto istitutivo dell’RMI (d.lgs. n. 237 del 1998) prevedeva che, ad eccezione dell’abitazione di proprietà, qualsiasi patrimonio mobiliare o immobiliare, seppur di modestissimo valore, desse luogo ad incompatibilità con la fruizione dell’RMI. Molti comuni hanno disapplicato tale disposizione, consentendo patrimoni di modesta entità. 68 Sull’esperienza nei paesi europei vedi G. BUSILACCHI, Redditi di base e misure selettive di attivazione: antitesi o convivenza?, in Ass. soc., 3/4, l 2002, 93 ss. 69 C. SARACENO, Introduzione. L’analisi delle dinamiche dell’assistenza economica, in C. SARACENO (a cura di), Le dinamiche assistenziali in Europa. Sistemi nazionali e locali di contrasto alla povertà, Bologna, 2004, 36-37. 19
  • 21. L’esperienza della sperimentazione dell’RMI, così come documentata dal rapporto di valutazione, ha messo in luce errori di disegno dello strumento, ma soprattutto la ridotta capacità, da parte di molte amministrazioni comunali, di attuazione della prova dei mezzi da un lato e di progettazione e gestione dei programmi di inserimento dall’altro70. La disponibilità dei programmi di inserimento lavorativo, però, non dipende soltanto dalla capacità istituzionale delle amministrazioni comunali responsabili della gestione della misura, ma anche dalle condizioni del mercato del lavoro prevalenti nella zona in cui il comune si trova. Tali condizioni erano, per i comuni coinvolti nella sperimentazione, in molti casi proibitive. In un quadro siffatto, il rischio è che uno schema di reddito minimo perda la sua funzione precipua, quella di rete di sicurezza generalizzata volta al contrasto della povertà finanziaria più grave, per diventare un equivalente funzionale degli assenti o comunque inaccessibili schemi di mantenimento del reddito per i disoccupati. 7. L’illusione del reddito minimo: dall’RMI al RUI Come accennato più sopra, il decreto istitutivo del Reddito minimo d’inserimento in forma sperimentale prevedeva che entro la metà del 2001 il governo presentasse al Parlamento una relazione sull'attuazione della sperimentazione e sui risultati conseguiti. Successivamente, la legge 328 del 2000 istituì formalmente l’RMI come una misura generale di contrasto della povertà, alla quale ricondurre altri interventi di sostegno del reddito quali l’assegno e la pensione sociale, lasciando però ad un successivo provvedimento normativo il compito di definirne i dettagli e, ciò che più rileva, di porla in essere operativamente. Prima che ciò potesse avvenire, la legge finanziaria per il 2001 prolungò la sperimentazione di due anni, sino al 31 dicembre 2002, estendendola inoltre sino a includere 306 comuni71. La decisione di prolungare la sperimentazione – adottata dall’ultimo dei governi dell’Ulivo, quello di Amato, apparentemente per mancanza di risorse da destinare alla generalizzazione della misura72 – si è rivelata fatale per l’RMI. Il cambio di coalizione di maggioranza ha infatti portato seco la sua terminazione. Il primo Piano nazionale di azione per l’inclusione sociale, presentato nel luglio 2001 sotto il governo Berlusconi nell’ambito del processo europeo di coordinamento aperto contro la povertà e l’esclusione sociale, ma figlio del precedente governo Amato, è stato l’ultimo documento governativo a lodare l’RMI, indicandolo 70 A titolo di esempio, a Orta di Atella (Campania), metà delle famiglie residenti percepivano l’RMI. Percentuali simili sono riscontrabili anche a Isola Capo Rizzuto e Cutro (Calabria). La percentuale dei beneficiari coinvolti in programmi di inserimento variava da oltre il 90% a Massa e Nichelino (Piemonte) a circa il 10% a Caserta e Orta di Atella. 71 La sperimentazione venne estesa ai comuni appartenenti ad un patto territoriale del quale facessero parte i 39 comuni della prima fase della sperimentazione. La ragione ufficiale di tale criterio di inclusione era connessa all’aspettativa che i programmi di inserzione fossero maggiormente efficaci là dove vi fossero reti già sviluppate di partenariato tra amministrazioni pubbliche, parti sociali, soggetti privati e organizzazioni no profit. In realtà, sembrano aver giocato un peso rilevante considerazioni legate ai possibili ritorni elettorali dell’estensione, legate alla sovrapposizione tra patti territoriali e importanti constituencies. 72 Nella stessa legge finanziaria, però, venivano aumentate le detrazioni per figli a carico, nonché rafforzato il trattamento economico delle misure categoriali riservate agli anziani, per restare nell’ambito delle politiche sociali. Al tempo stesso, il costo stimato degli interventi di riduzione dell’Irpef previsti dalla manovra finanziaria per il 2001 ammontava a 8,5 miliardi di € (fonte: ISAE, Rapporto trimestrale, cit., 95). 20
  • 22. come best practice73. Un anno più tardi, il Patto per l’Italia suonava le campane a morto per l’RMI, asserendo che “la sperimentazione del reddito minimo di inserimento ha consentito di verificare l’impraticabilità di individuare attraverso la legge dello Stato soggetti aventi diritto ad entrare in questa rete di sicurezza sociale” ed esprimendo la preferenza dei firmatari del patto (governo, organizzazioni datoriali e organizzazioni sindacali ad eccezione della CGIL) per il cofinanziamento da parte dello stato di programmi regionali di reddito minimo. Sotto il titolo Il sostegno al reddito di ultima istanza si afferma che “il sistema di sostegno al reddito verrà completato da uno strumento di ultima istanza, caratterizzato da elementi solidaristici e finanziato dalla fiscalità generale”74. Nell’ottobre 2002, a causa di ritardi nell’erogazione dei fondi, uniti al timore di ritrovarsi con gli stessi problemi di ordine pubblico che avevano caratterizzato la cessazione dei Lavori Socialmente Utili, venne prorogato al 31 dicembre 2004 il termine ultimo di “conclusione dei processi attuativi della sperimentazione”75. Poco dopo, nel febbraio 2003, il Libro bianco sul welfare ribadiva il giudizio negativo sull’RMI ed affermava che “per l’anno 2003, scaduta la sperimentazione del Reddito minimo di inserimento, il sistema di sostegno al reddito è completato da uno strumento di ultima istanza, caratterizzato da elementi solidaristici e finanziato dalla fiscalità generale”76. Il secondo Piano nazionale di azione per l’inclusione sociale, presentato nel luglio 2003 per il periodo 2003-05, ha espresso una volta di più l’intenzione del governo di introdurre il Reddito di ultima istanza (RUI). In tale documento si nota anche come l’esperienza dell’RMI abbia evidenziato “una serie di problemi, in parte imputabili alle caratteristiche dello strumento di sostegno economico, in parte alla scarsa capacità di disegno ed attuazione delle misure di reinserimento sociale, in parte ancora al sovraccarico di funzioni che si determinano a causa di tradizionali carenze del sistema di welfare italiano”77. Come ho già avuto modo di affermare, questa non è certo una rappresentazione deformata della realtà: la sperimentazione dell’RMI ha invero messo in luce molte magagne della misura, nel suo disegno come nella sua attuazione, nella sua componente monetaria come in quella d’inserimento. Ma proprio a questo mirava la sperimentazione: a individuare i difetti e le incongruenze che avrebbero dovuto essere corrette prima di procedere alla generalizzazione dell’RMI all’intero territorio nazionale. Così non è avvenuto, e nella legge finanziaria per il 2004 venne alfine prevista l’introduzione del RUI: “lo Stato concorre al finanziamento delle regioni che istituiscono il reddito di ultima istanza quale strumento di accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale, destinato ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale ed i cui componenti non siano beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti 73 Sul cosiddetto Processo inclusione sociale vedi M. FERRERA, M. MATSAGANIS, S. SACCHI, Open coordination, cit. Sulle modalità di partecipazione dell’Italia a tale processo europeo vedi S. SACCHI, New modes, cit. 74 Patto per l’Italia. Contratto per il lavoro. Intesa per la competitività e l’inclusione sociale, punto 2.7. 75 Art. 5, d.l. n. 236 del 2002. Successivamente, sempre al fine di consentire ai comuni interessati di esaurire i fondi ricevuti (in ritardo), il termine è stato ulteriormente prorogato al 30 aprile 2006 (art. 7 undecies, d.l. n. 7 del 2005). 76 MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, Libro bianco, cit., 37. 77 MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, Piano di azione nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale 2003-2005, Roma, 2003, 27-28. 21
  • 23. privi di lavoro”78. La formulazione della norma era, a tutta evidenza, estremamente ambigua, sia per quanto concerne il rapporto tra stato e regioni sia circa i criteri di individuazione dei beneficiari della misura, mentre le modalità di attuazione del RUI non sono mai state specificate. La pur brevissima vicenda del RUI si è interrotta negli ultimi giorni del 2004, quando la Corte Costituzionale ha decretato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni citate giacché, non essendo la misura inclusa nei livelli essenziali delle prestazioni di assistenza (a tutt’oggi inesistenti), lo stato non ha titolo a prevederne il cofinanziamento vincolato da parte delle regioni79. 8. Conclusioni La sperimentazione del Reddito minimo di inserimento costituisce l’emblema di una stagione di riforme attenta alle politiche di inclusione sociale e culminata nell’approvazione della legge 328 del 2000. L’abbandono dell’RMI segna il tramonto di tale stagione, e l’ostinato fin de non-recevoir governativo circa l’attuazione del suo previsto successore, il Reddito di ultima istanza, ancor più della sentenza della Corte Costituzionale che l’avrebbe affossato, non fa che rafforzare tale convinzione. D’altro canto, che la rete di sicurezza che manca al sistema di protezione sociale italiano non trovi realizzazione nel contesto presente non preclude la possibilità che tale misura venga introdotta in futuro, nella collocazione che più le sarebbe congeniale, tra i livelli essenziali delle prestazioni sociali. In tal caso, le difficoltà emerse durante la sperimentazione dell’RMI dovrebbero essere considerate e risolte, pena l’inefficacia della nuova misura. I fattori critici che hanno afflitto la sperimentazione dell’RMI possono essere classificati in tre gruppi: il disegno della componente monetaria; la mancanza di capacità amministrative e di risorse da parte di molte amministrazioni locali, con conseguenze negative per il disegno e l’attuazione dei programmi di inserimento e per l’amministrazione della prova dei mezzi; infine il rischio di sovraccarico funzionale della misura di reddito minimo. I principali errori di disegno della componente monetaria sono stati la mancanza di considerazione della variabilità territoriale nel costo della vita, l’erratico trattamento del patrimonio, la variabilità e financo errori logici nei criteri di computo del reddito. In alcuni contesti locali, le deroghe fatte alla normativa nazionale, sebbene in qualche modo giustificate dalla necessità di piegare alle circostanze locali la rigidità del quadro di riferimento nazionale, hanno condotto all’inclusione tra i beneficiari di una considerevole frazione della popolazione, così mettendo a repentaglio gli scopi di inserimento della misura attraverso plausibili effetti di disincentivazione dell’offerta di lavoro. 78 Art. 3, n. 101, legge n. 350 del 2003. 79 Sentenza della Corte Costituzionale n. 423 del 2004. Per una serrata critica di tale sentenza, per la parte in cui essa nega al RUI la valenza di livello essenziale, vedi F. PIZZOLATO, L’incompiuta attuazione, cit. 22
  • 24. Questi difetti della componente monetaria dell’RMI dovrebbero essere corretti in fase di progettazione di qualsivoglia futuro schema di reddito minimo. Alcuni accorgimenti, quali l’inclusione del patrimonio nella prova dei mezzi attraverso l’utilizzo dell’ISEE, o la considerazione della variabilità territoriale del costo delle abitazioni a seconda della residenza del beneficiario, o migliori incentivi all’offerta di lavoro, possono essere realizzati con relativa facilità. Tuttavia, l’estensione della misura a quote eccessive della popolazione residente conduce a considerare le altre due sfide emerse dalla sperimentazione dell’RMI, ben più difficili da risolvere attraverso operazioni di ingegneria istituzionale: il basso grado di capacità istituzionali e di risorse disponibili a molte amministrazioni locali, e il rischio di scaricare sulla rete di sicurezza troppi dei bisogni lasciati insoddisfatti da un sistema di welfare che sappiamo essere per molti versi lacunoso. La sperimentazione dell’RMI ha consentito ad assistenti sociali e funzionari dei comuni coinvolti di venire a conoscenza di situazioni di deprivazione ed esclusione prima ignote, e li ha dotati di uno strumento di policy adatto a fronteggiarle. In alcuni comuni, l’introduzione dell’RMI ha stimolato la riorganizzazione del sistema di welfare locale esistente, favorendone la razionalizzazione. Al contempo, però, a molti comuni sono mancati le capacità e il personale necessario per amministrare la misura, per quanto riguarda lo sviluppo e la gestione dei progetti di inserimento da un lato, e l’amministrazione della prova dei mezzi dall’altro. Le prestazioni basate sulla prova dei mezzi richiedono notevoli capacità istituzionali e abilità manageriali da parte dei soggetti erogatori80. Date le caratteristiche del contesto socioeconomico che genera domanda per tali prestazioni in Italia, e in particolare nel Mezzogiorno, le abilità manageriali necessarie devono essere particolarmente sviluppate. È vero che potrebbe molto giovare alle amministrazioni locali l’adozione di strumenti e accorgimenti standardizzati per la prova dei mezzi, quali l’ISEE e l’imputazione automatica di un reddito presunto predeterminato. Parimenti, potrebbe essere molto utile una maggiore collaborazione da parte dell’amministrazione tributaria e della Guardia di Finanza, così come disposizioni che concedessero alle amministrazioni locali il potere di effettuare controlli su reddito e patrimonio di beneficiari e richiedenti. Resta però il fatto che, date le pressioni esterne alle quali molte amministrazioni locali sono sottoposte nel Mezzogiorno, nonché il diffuso utilizzo di prestazioni sociali per scambi clientelari tra politici ed elettori (e guardando a certi casi non si ha ragione di dubitare che questo sia avvenuto anche nel caso dell’RMI), sembra onesto riconoscere che questo non è in alcun modo un problema semplice da risolvere, a maggior ragione se le regioni e le amministrazioni locali meno attrezzate non vengono adeguatamente sostenute dal governo centrale. A tutta evidenza, le capacità amministrative costituiscono un fattore critico anche per i programmi di inserimento. La sperimentazione dell’RMI ha mostrato come la progettazione e l’amministrazione di tali programmi possa risultare impossibile per i comuni più piccoli a causa della mancanza di personale e di competenze, ma anche perché è spesso fuori della loro portata l’attivazione di quelle reti tra attori socioeconomici necessarie per ottenere risultati positivi in termini di inserimento sociale e lavorativo dei 80 Vedi M. FERRERA, Welfare State Reform, cit. 23
  • 25. beneficiari della misura. Quest’ultimo rilievo solleva la questione circa l’ambito territoriale più adatto ad amministrare una misura che preveda programmi di inserimento, e se tale ambito non sia da rintracciarsi, tranne che nel caso dei comuni maggiori, nelle zone previste dalla Legge 328 del 2000. Ma c’è un altro aspetto messo in luce dalla sperimentazione dell’RMI con riguardo ai programmi di inserimento che merita di essere approfondito. La differenza tra nord e centro da un lato e sud dall’altro nelle percentuali di beneficiari dell’RMI che hanno effettivamente preso parte a un programma di inserimento porta in primo piano la questione del funzionamento di uno schema di reddito minimo dato il contesto socioeconomico nel quale è immersa la povertà nel Mezzogiorno d’Italia81. Questo è d’ovvia rilevanza per i programmi di inserimento: come si può pensare che gli amministratori locali riescano ad attivare gli abili al lavoro in un ambiente economicamente depresso? Ma potrebbe avere conseguenze di ancor più grande momento per la rete di sicurezza in quanto tale: senza un mercato del lavoro funzionante, e dati i vuoti di copertura del welfare state italiano, uno schema di reddito minimo rischia seriamente di cader vittima di un sovraccarico funzionale. Ciò appare ancor più grave se si considera la peculiarità dell’economia sommersa nei paesi sudeuropei, e in particolare in Italia, rispetto a quanto accade nei paesi del nordeuropa: mentre in questi ultimi tale economia – pur talora rilevante per dimensioni – è dovuta soprattutto al moonlighting, al secondo lavoro, nei primi essa tende ad essere in competizione con l’economia e l’occupazione regolare. Il rischio è allora che uno schema di reddito minimo divenga “l’unica fonte di reddito legale in aree afflitte da disoccupazione cronica, dove la vasta maggioranza della popolazione residente è composta da outsiders privi di opportunità di lavoro nell’economia formale e di possibilità di ottenere prestazioni di assicurazione sociale”82. Le sezioni precedenti di questo scritto hanno messo in rilievo le caratteristiche e la gravità della povertà in Italia, così come l’inefficienza, la ridotta efficacia e l’iniquità delle politiche di contrasto alla povertà esistenti. Ad onta delle prevedibili difficoltà di funzionamento e amministrazione, una misura non categoriale di reddito minimo rimane a tutta evidenza necessaria. Per evitare che questa affondi sotto il peso della debolezza economica del contesto e delle mancanze del welfare state italiano, occorre però un ampio menù di politiche di coesione sociale, di sviluppo locale e di protezione sociale83. In particolare, riguardo a queste ultime, uno schema di reddito minimo trova la sua collocazione all’interno di una riforma del welfare italiano che accentui l’offerta di servizi alla famiglia, costruisca un sistema di ammortizzatori sociali degno di tal nome, e riveda radicalmente gli istituti di sostegno monetario alle responsabilità familiari84. Una strategia di policy in tal senso potrebbe ripartire proprio dai lavori di quella Commissione Onofri che per prima, un decennio orsono, diede l’impulso ad una (troppo breve) stagione di riforma dell’assistenza sociale italiana. 81 Vedi sul punto S. SACCHI, F. BASTAGLI, Italy: striving uphill, cit. 82 M. FERRERA, Welfare State Reform, cit., 16. 83 Vedi M. FERRERA, Welfare State Reform, cit., per una discussione di questi aspetti. 84 Su quest’ultimo punto è in corso un interessante dibattito: vedi C., DE VINCENTI, C. POLLASTRI, Imposta negativa, universalismo e incentivo al lavoro, in Italianieuropei, 2003, 77 ss; M. BALDINI, P. BOSI, M. MATTEUZZI, Sostegno alle responsabilità familiari e contrasto della povertà: ipotesi di riforma – I, in Riv. pol. soc., 2004, 147 ss; e C. DE VINCENTI, Sostegno alle responsabilità, cit. 24
  • 26. 25
  • 27. FIGURE E TABELLE Figura 1: Spesa per prestazioni sociali per gruppi di funzioni 2002 (% spesa totale per prestazioni sociali) 70,0 60,0 50,0 40,0 30,0 20,0 10,0 0,0 vecchiaia e superstiti malattia, sanità e invalidità tutte le altre funzioni Italia UE-15 Fonte: EUROSTAT, European Social Statistics. Social Protection. Expenditure and Receipts. Data 1994-2002, Lussemburgo, 2005. Figura 2: “Altre” prestazioni sociali 2002 (% della spesa totale per prestazioni sociali) 9,0 8,0 7,0 6,0 5,0 4,0 3,0 2,0 1,0 0,0 famiglia/bambini disoccupazione abitazione ed esclusione sociale Italia UE-15 Fonte: EUROSTAT, European Social Statistics, cit. 26