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Interventi per un welfare aziendale più moderno
di Daniele Grandi
Tag: #Welfareaziendale, #Benefit, #Fringebenefits, #Fiscalità, #TUIR.

Il welfare aziendale ha storia ormai secolare e presenta nella propria evoluzione forti connotazioni di
paternalismo imprenditoriale, ovvero appare storicamente subordinato alla presenza di una proprietà
con una spiccata sensibilità ai temi sociali. La progressiva strutturazione del welfare state nel nostro
Paese e in particolare le riforme pensionistiche e la strutturazione del sistema sanitario nazionale
portarono però a una progressiva marginalizzazione del fenomeno a partire dagli anni Sessanta. Tale
marginalizzazione si interruppe solo negli anni Ottanta grazie allo sviluppo dei benefit per i
lavoratori, in particolare i più qualificati. Fenomeno tipico delle grandi multinazionali, e quindi nelle
filiali italiane delle aziende di origine statunitense. Da un lato i programmi assistenziali e
previdenziali di matrice aziendale diventarono sempre più ampi e sofisticati, dall’altro vennero
inserite voci retributive indirette che nulla hanno avevano a che fare col welfare (stock options, auto
aziendali, ecc.). Questo nuovo approccio al welfare aziendale si tradusse in uno strumento di politica
retributiva per élite, ovvero limitato ai manager e ai professional delle filiali di grandi società
multinazionali.
È solo in seguito alla crisi degli ultimi anni e alla progressiva riduzione dello spazio d’intervento dello
stato sociale che, a fronte della sempre maggiore evidenza dei limiti di natura organizzativa ed
economica dell’intervento pubblico in materia assistenziale e previdenziale, non può più garantire
“tutto a tutti”, che questo orientamento tende a mutare. Si assiste ormai da anni a un ripensamento del
ruolo del welfare aziendale da parte delle grandi aziende, le quali decidono di passare a un approccio
che possa sfruttare tutti i vantaggi offerti dalla normativa fiscale e previdenziale per fornire beni e
servizi a tutti i dipendenti .
Il welfare aziendale è così oggi generalmente inteso come “l’insieme dei benefit e servizi forniti
dall’azienda ai propri dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e lavorativa, che vanno dal
sostegno al reddito familiare, allo studio, e alla genitorialità, alla tutela della salute e fino a proposte
per il tempo libero e agevolazioni di carattere familiare”. Andando a schierarsi fra le fila di quelle
iniziative che vanno a sostenere il welfare pubblico mobilitando ricchezza privata, il welfare aziendale
entra nel più ampio dibattito che riguarda il “secondo welfare”, ovvero un nuovo welfare mix,
caratterizzato dall’ingresso nell’arena del welfare di soggetti, privati, che possono, grazie al loro
radicamento territoriale e in partnership con gli enti locali, contribuire a dare risposte a vecchi e nuovi
bisogni, per arginare l’arretramento del welfare pubblico.
Oggigiorno le imprese trovano nella normativa fiscale il primo (e più importante) incentivo
all’implementazione di pratiche a contenuto sociale, unitamente alla necessità di trovare nuove
risposte per i bisogni della popolazione aziendale. Il welfare aziendale si configura, nella maggior
parte dei casi, come fringe benefits che vengono messi a disposizione di categorie più o meno vaste di
lavoratori e con modalità quantomeno variegate. Ad esempio: dando la possibilità di scegliere questi
servizi tramite bacheche elettroniche, mettendo a disposizione un pacchetto “standard” di servizi in
maniera incondizionata e uguale per tutti, prevedendo un “premio sociale” (ovvero un premio di
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produttività costituito da benefit a contenuto sociale) di cui il lavoratore può beneficiare operando una
scelta fra questo e il più “classico” premio di produttività.
È opportuno sottolineare come al welfare aziendale siano riconducibili due ulteriori tipi di interventi:
quelli legati alla previdenza e all’assistenza integrativa e/o complementare (riguardanti la “previdenza
complementare” propriamente detta, disciplinata dal d.lgs. n. 252/2005; l’assistenza sanitaria
integrativa, disciplinata dall’art. 9 del d.lgs. n. 502/1992 e dal d.m. 27 ottobre 2009; i c.d.
“ammortizzatori sociali contrattuali”, disciplinati dall’art. 2, comma 28, della l. n. 662/1996); quelli
operati dalle imprese in tema di flessibilità degli orari e organizzazione del lavoro. In particolare,
rientrano in questa seconda categoria tutti quegli strumenti giuridico-organizzativi volti a
incrementare la flessibilità dell’organizzazione, allineando questa a quei bisogni relativi a una
migliore conciliazione vita-lavoro. Strumenti, questi, che se implementati in maniera attenta e
ragionata possono avere conseguenze positive anche per l’organizzazione, oltre che per i lavoratori
beneficiari, portando vantaggi che non si esauriscono in una mera razionalizzazione dei costi, ma che
piuttosto possono sostanziarsi anche in un incremento di produttività. Gli strumenti di cui si parla
sono i più conosciuti piani di part-time e di flessibilità in ingresso nel luogo di lavoro, ma anche le più
innovative forme di flessibilità quali il telelavoro, le isole di lavoro, la banca delle ore e il job sharing.
Questi interventi pur non essendo considerati benefit in senso stretto vanno comunque ad arricchire lo
scambio tipico della relazione di lavoro e giustificano la loro ricomprensione nell’ambito del welfare
aziendale in quanto tesi a soddisfare (in maniera più indiretta rispetto ai fringe benefits) quelle
esigenze, segnatamente quelle relative ad una migliore conciliazione vita-lavoro, che non riescono ad
essere efficacemente soddisfatte dal compenso monetario e a cui il soggetto pubblico non riesce a dare
risposte.
Nel seguito di questo articolo ci si concentrerà principalmente agli interventi di welfare aziendale
riconducibili al tema dei fringe benefits, che oggigiorno la letteratura considera componente
principale del welfare aziendale, nonché quella che mostra margini di innovatività più ampi.
Il trattamento di tali fringe benefits in capo ai dipendenti è regolato dall’art. 51 del TUIR, mentre gli
artt. 95 e 100 definiscono i limiti e le condizioni di deducibilità dei relativi costi in sede di
determinazione del reddito d’impresa e il d.lgs. n. 446/1997 disciplina la loro deducibilità ai fini
dell’Irap.
In particolare, l’art. 51, comma 1, del TUIR prevede che «il reddito di lavoro dipendente è costituito
da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto
forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro», ovvero che qualsiasi utilità percepita
da dipendente nel periodo d’imposta – più precisamente entro il 12 di gennaio del periodo d’imposta
successivo (purché riferiti al precedente periodo), c.d. “principio di cassa allargato” – concorre a
formare il suo reddito imponibile sempreché sussista una specifica relazione causale con il rapporto di
lavoro. Tale principio (c.d. di onnicomprensività) comporta quindi la potenziale imponibilità di tutto
ciò che il dipendente riceve in relazione al rapporto di lavoro, anche da parte di soggetti terzi (in virtù
di accordi o convenzioni che questi ultimi abbiano stipulato con il datore di lavoro).
Il Legislatore ha regolato delle specifiche deroghe a tale principio di onnicomprensività, prevedendo
che taluni benefit, erogati per soddisfare esigenze e contemperare interessi meritevoli di tutela, non
concorrano (o concorrano solo parzialmente) alla formazione del reddito imponibile dei dipendenti e
dunque non siano oggetto di tassazione in capo ad essi. Ed è proprio intorno a tali deroghe che
possono essere individuate le aree di bisogno a cui le imprese cercano di fornire risposte con
l’implementazione di benefit e politiche legate al welfare aziendale.
Tuttavia, le deroghe previste dal Legislatore risultano quantomeno obsolete in quanto i valori a cui
fanno riferimento e le aree di bisogno a cui vene ricondotto il regime di favore fiscale non risultano
più allineate con l’odierno contesto socio-economico. Risulta impossibile non notare l’inadeguatezza
di valori che negli ultimi trent’anni non hanno mai subito né aggiornamenti né indicizzazioni,
cosicché oggi la normativa esclude dalla retribuzione imponibile solo i ticket restaurant nei limiti
dell’importo giornaliero di 5,29 euro e un valore di “beni ceduti e servizi prestati al dipendente” (area
queste che avrebbe il potenziale per fornire ampio spazio all’innovatività e alla sperimentazione da
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parte delle aziende) che non superi complessivamente i 258,23 Euro (500 mila Lire) nel periodo di
imposta. Parimenti, appare evidente come le aree di bisogno identificate dal Legislatore risultino solo
parzialmente in grado di rispondere ai bisogni che caratterizzano la società. Non viene fatta menzione
di situazioni quali cura degli anziani, handicap e long term care (giusto per citarne alcune). Inoltre,
per quel che riguarda le “finalità sociali”, di cui all’art. 51, c. 2, lett. f) del TUIR, il riferimento
operato dal Legislatore appare oltre che datato anche riduttivo, non essendo infatti pensato per
cogliere pienamente la portata del welfare aziendale secondo una più moderna concezione. Si
dovrebbe bensì fare riferimento a una nozione di benessere inteso come capacità degli individui di
sviluppare, nonché mobilitare, al meglio le proprie risorse, in modo tale da poter soddisfare
prerogative sia personali (ovvero fisiche e mentali), sia esterne (ovvero sociali e materiali).
Oltre agli aspetti legati all’ammontare dei valori a cui il TUIR fa riferimento e alle aree di bisogno
delineate dal Legislatore, un’ulteriore questione è legata alla scarsa chiarezza circa le condizioni a cui
la normativa fiscale subordina i benefici fiscali. Esistono, difatti, certi margini di ambiguità e
contraddizioni circa il requisito della “volontarietà” (di cui all’art. 51, c. 2, lett f del TUIR), che rende
imponibili i servizi di welfare aziendale inclusi nella contrattazione collettiva, ponendosi in tal modo
in contraddizione con le previsioni in materia di previdenza complementare e assistenza sanitaria
integrativa, per le quali, invece, la contrattazione collettiva risulta essere requisito per ottenere i
benefici fiscali.
Appaiono dunque chiare le linee guida da seguire per far compiere al welfare aziendale alcuni primi
passi in avanti: in primo luogo sarebbe necessario rivedere la normativa fiscale da un punto di vista
quantitativo aggiustando (perlomeno indicizzando) i valori in essa contenuti. In secondo luogo, appare
necessario aggiornare i contenuti del TUIR in modo tale da renderli più allineati con quelli che sono i
nuovi bisogni e i nuovi rischi sociali che caratterizzano l’odierna società, nonché in un ottica che
abbia come obiettivo quello di fornire all’individuo strumenti facilitanti l’interazione con i contesti
con cui si trova ad interfacciarsi.
Sarebbe opportuno che tali operazioni fossero inserite in un intervento del Legislatore di più ampio
respiro, ovvero volto a fornire maggiore chiarezza e maggiore unitarietà alla normativa a sostegno del
welfare aziendale. Va infatti diffondendosi la convinzione circa la necessità di rendere più unitaria la
variegata fenomenologia che va sotto il nome di welfare aziendale, andando a definire una “nozionecappello” di welfare aziendale e contrattuale, capace di conciliare questi con il tradizionale welfare
redistributivo. In tal modo sarebbe infatti possibile declinare più armonicamente il tradizionale
welfare redistributivo con le politiche aziendali di welfare e, più in generale, di total reward. Punto
cardine di questa nuova concezione dovrebbe essere (come già teorizzato da diversi addetti ai lavori)
la valorizzazione della sussidiarietà orizzontale nelle politiche di welfare, puntando sulla bilateralità.
A sostegno di questo disegno, in un suo scritto (A. Tursi, Il «welfare aziendale»: profili istituzionali,
in La Rivista delle Politiche Sociali, 2012, n. 3, 213-235) il Prof. Armando Tursi arriva a delineare i
principi secondo cui la fiscalità di vantaggio dovrebbe essere ridisegnata, ovvero: la rilevanza
costituzionale dell’assistenza e della previdenza integrativa; la meritevolezza sociale dell’assistenza
sociale privata, anche se non integrativa di quella pubblica, in quanto sorretta dalla “bilateralità”;
infine, l’unificazione dei regimi di assoggettamento contributivo degli importi versati a schemi di
previdenza e assistenza privati alla bilateralità.
Dunque, se sul piano operativo sembra riscontrarsi una sempre più marcata diffusione di best
practices aziendali relativamente al welfare aziendale, bisognerà vedere come (e se) il Legislatore,
all’interno del panorama politico e economico che caratterizza il Paese deciderà di muoversi nei
confronti di tale fenomeno, che oltre al grande consenso che sta riscuotendo fra imprese e sindacati,
ha la possibilità di fornire risposte mirate, capillari e concrete ai bisogni degli individui anche in un
periodo di forte incertezza come quello che stiamo oggi vivendo.
Daniele Grandi
ADAPT Junior Fellow
@DanGrandi
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  • 1. @bollettinoADAPT, 30 ottobre 2013 Interventi per un welfare aziendale più moderno di Daniele Grandi Tag: #Welfareaziendale, #Benefit, #Fringebenefits, #Fiscalità, #TUIR. Il welfare aziendale ha storia ormai secolare e presenta nella propria evoluzione forti connotazioni di paternalismo imprenditoriale, ovvero appare storicamente subordinato alla presenza di una proprietà con una spiccata sensibilità ai temi sociali. La progressiva strutturazione del welfare state nel nostro Paese e in particolare le riforme pensionistiche e la strutturazione del sistema sanitario nazionale portarono però a una progressiva marginalizzazione del fenomeno a partire dagli anni Sessanta. Tale marginalizzazione si interruppe solo negli anni Ottanta grazie allo sviluppo dei benefit per i lavoratori, in particolare i più qualificati. Fenomeno tipico delle grandi multinazionali, e quindi nelle filiali italiane delle aziende di origine statunitense. Da un lato i programmi assistenziali e previdenziali di matrice aziendale diventarono sempre più ampi e sofisticati, dall’altro vennero inserite voci retributive indirette che nulla hanno avevano a che fare col welfare (stock options, auto aziendali, ecc.). Questo nuovo approccio al welfare aziendale si tradusse in uno strumento di politica retributiva per élite, ovvero limitato ai manager e ai professional delle filiali di grandi società multinazionali. È solo in seguito alla crisi degli ultimi anni e alla progressiva riduzione dello spazio d’intervento dello stato sociale che, a fronte della sempre maggiore evidenza dei limiti di natura organizzativa ed economica dell’intervento pubblico in materia assistenziale e previdenziale, non può più garantire “tutto a tutti”, che questo orientamento tende a mutare. Si assiste ormai da anni a un ripensamento del ruolo del welfare aziendale da parte delle grandi aziende, le quali decidono di passare a un approccio che possa sfruttare tutti i vantaggi offerti dalla normativa fiscale e previdenziale per fornire beni e servizi a tutti i dipendenti . Il welfare aziendale è così oggi generalmente inteso come “l’insieme dei benefit e servizi forniti dall’azienda ai propri dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e lavorativa, che vanno dal sostegno al reddito familiare, allo studio, e alla genitorialità, alla tutela della salute e fino a proposte per il tempo libero e agevolazioni di carattere familiare”. Andando a schierarsi fra le fila di quelle iniziative che vanno a sostenere il welfare pubblico mobilitando ricchezza privata, il welfare aziendale entra nel più ampio dibattito che riguarda il “secondo welfare”, ovvero un nuovo welfare mix, caratterizzato dall’ingresso nell’arena del welfare di soggetti, privati, che possono, grazie al loro radicamento territoriale e in partnership con gli enti locali, contribuire a dare risposte a vecchi e nuovi bisogni, per arginare l’arretramento del welfare pubblico. Oggigiorno le imprese trovano nella normativa fiscale il primo (e più importante) incentivo all’implementazione di pratiche a contenuto sociale, unitamente alla necessità di trovare nuove risposte per i bisogni della popolazione aziendale. Il welfare aziendale si configura, nella maggior parte dei casi, come fringe benefits che vengono messi a disposizione di categorie più o meno vaste di lavoratori e con modalità quantomeno variegate. Ad esempio: dando la possibilità di scegliere questi servizi tramite bacheche elettroniche, mettendo a disposizione un pacchetto “standard” di servizi in maniera incondizionata e uguale per tutti, prevedendo un “premio sociale” (ovvero un premio di www.bollettinoadapt.it 1
  • 2. produttività costituito da benefit a contenuto sociale) di cui il lavoratore può beneficiare operando una scelta fra questo e il più “classico” premio di produttività. È opportuno sottolineare come al welfare aziendale siano riconducibili due ulteriori tipi di interventi: quelli legati alla previdenza e all’assistenza integrativa e/o complementare (riguardanti la “previdenza complementare” propriamente detta, disciplinata dal d.lgs. n. 252/2005; l’assistenza sanitaria integrativa, disciplinata dall’art. 9 del d.lgs. n. 502/1992 e dal d.m. 27 ottobre 2009; i c.d. “ammortizzatori sociali contrattuali”, disciplinati dall’art. 2, comma 28, della l. n. 662/1996); quelli operati dalle imprese in tema di flessibilità degli orari e organizzazione del lavoro. In particolare, rientrano in questa seconda categoria tutti quegli strumenti giuridico-organizzativi volti a incrementare la flessibilità dell’organizzazione, allineando questa a quei bisogni relativi a una migliore conciliazione vita-lavoro. Strumenti, questi, che se implementati in maniera attenta e ragionata possono avere conseguenze positive anche per l’organizzazione, oltre che per i lavoratori beneficiari, portando vantaggi che non si esauriscono in una mera razionalizzazione dei costi, ma che piuttosto possono sostanziarsi anche in un incremento di produttività. Gli strumenti di cui si parla sono i più conosciuti piani di part-time e di flessibilità in ingresso nel luogo di lavoro, ma anche le più innovative forme di flessibilità quali il telelavoro, le isole di lavoro, la banca delle ore e il job sharing. Questi interventi pur non essendo considerati benefit in senso stretto vanno comunque ad arricchire lo scambio tipico della relazione di lavoro e giustificano la loro ricomprensione nell’ambito del welfare aziendale in quanto tesi a soddisfare (in maniera più indiretta rispetto ai fringe benefits) quelle esigenze, segnatamente quelle relative ad una migliore conciliazione vita-lavoro, che non riescono ad essere efficacemente soddisfatte dal compenso monetario e a cui il soggetto pubblico non riesce a dare risposte. Nel seguito di questo articolo ci si concentrerà principalmente agli interventi di welfare aziendale riconducibili al tema dei fringe benefits, che oggigiorno la letteratura considera componente principale del welfare aziendale, nonché quella che mostra margini di innovatività più ampi. Il trattamento di tali fringe benefits in capo ai dipendenti è regolato dall’art. 51 del TUIR, mentre gli artt. 95 e 100 definiscono i limiti e le condizioni di deducibilità dei relativi costi in sede di determinazione del reddito d’impresa e il d.lgs. n. 446/1997 disciplina la loro deducibilità ai fini dell’Irap. In particolare, l’art. 51, comma 1, del TUIR prevede che «il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro», ovvero che qualsiasi utilità percepita da dipendente nel periodo d’imposta – più precisamente entro il 12 di gennaio del periodo d’imposta successivo (purché riferiti al precedente periodo), c.d. “principio di cassa allargato” – concorre a formare il suo reddito imponibile sempreché sussista una specifica relazione causale con il rapporto di lavoro. Tale principio (c.d. di onnicomprensività) comporta quindi la potenziale imponibilità di tutto ciò che il dipendente riceve in relazione al rapporto di lavoro, anche da parte di soggetti terzi (in virtù di accordi o convenzioni che questi ultimi abbiano stipulato con il datore di lavoro). Il Legislatore ha regolato delle specifiche deroghe a tale principio di onnicomprensività, prevedendo che taluni benefit, erogati per soddisfare esigenze e contemperare interessi meritevoli di tutela, non concorrano (o concorrano solo parzialmente) alla formazione del reddito imponibile dei dipendenti e dunque non siano oggetto di tassazione in capo ad essi. Ed è proprio intorno a tali deroghe che possono essere individuate le aree di bisogno a cui le imprese cercano di fornire risposte con l’implementazione di benefit e politiche legate al welfare aziendale. Tuttavia, le deroghe previste dal Legislatore risultano quantomeno obsolete in quanto i valori a cui fanno riferimento e le aree di bisogno a cui vene ricondotto il regime di favore fiscale non risultano più allineate con l’odierno contesto socio-economico. Risulta impossibile non notare l’inadeguatezza di valori che negli ultimi trent’anni non hanno mai subito né aggiornamenti né indicizzazioni, cosicché oggi la normativa esclude dalla retribuzione imponibile solo i ticket restaurant nei limiti dell’importo giornaliero di 5,29 euro e un valore di “beni ceduti e servizi prestati al dipendente” (area queste che avrebbe il potenziale per fornire ampio spazio all’innovatività e alla sperimentazione da www.bollettinoadapt.it 2
  • 3. parte delle aziende) che non superi complessivamente i 258,23 Euro (500 mila Lire) nel periodo di imposta. Parimenti, appare evidente come le aree di bisogno identificate dal Legislatore risultino solo parzialmente in grado di rispondere ai bisogni che caratterizzano la società. Non viene fatta menzione di situazioni quali cura degli anziani, handicap e long term care (giusto per citarne alcune). Inoltre, per quel che riguarda le “finalità sociali”, di cui all’art. 51, c. 2, lett. f) del TUIR, il riferimento operato dal Legislatore appare oltre che datato anche riduttivo, non essendo infatti pensato per cogliere pienamente la portata del welfare aziendale secondo una più moderna concezione. Si dovrebbe bensì fare riferimento a una nozione di benessere inteso come capacità degli individui di sviluppare, nonché mobilitare, al meglio le proprie risorse, in modo tale da poter soddisfare prerogative sia personali (ovvero fisiche e mentali), sia esterne (ovvero sociali e materiali). Oltre agli aspetti legati all’ammontare dei valori a cui il TUIR fa riferimento e alle aree di bisogno delineate dal Legislatore, un’ulteriore questione è legata alla scarsa chiarezza circa le condizioni a cui la normativa fiscale subordina i benefici fiscali. Esistono, difatti, certi margini di ambiguità e contraddizioni circa il requisito della “volontarietà” (di cui all’art. 51, c. 2, lett f del TUIR), che rende imponibili i servizi di welfare aziendale inclusi nella contrattazione collettiva, ponendosi in tal modo in contraddizione con le previsioni in materia di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa, per le quali, invece, la contrattazione collettiva risulta essere requisito per ottenere i benefici fiscali. Appaiono dunque chiare le linee guida da seguire per far compiere al welfare aziendale alcuni primi passi in avanti: in primo luogo sarebbe necessario rivedere la normativa fiscale da un punto di vista quantitativo aggiustando (perlomeno indicizzando) i valori in essa contenuti. In secondo luogo, appare necessario aggiornare i contenuti del TUIR in modo tale da renderli più allineati con quelli che sono i nuovi bisogni e i nuovi rischi sociali che caratterizzano l’odierna società, nonché in un ottica che abbia come obiettivo quello di fornire all’individuo strumenti facilitanti l’interazione con i contesti con cui si trova ad interfacciarsi. Sarebbe opportuno che tali operazioni fossero inserite in un intervento del Legislatore di più ampio respiro, ovvero volto a fornire maggiore chiarezza e maggiore unitarietà alla normativa a sostegno del welfare aziendale. Va infatti diffondendosi la convinzione circa la necessità di rendere più unitaria la variegata fenomenologia che va sotto il nome di welfare aziendale, andando a definire una “nozionecappello” di welfare aziendale e contrattuale, capace di conciliare questi con il tradizionale welfare redistributivo. In tal modo sarebbe infatti possibile declinare più armonicamente il tradizionale welfare redistributivo con le politiche aziendali di welfare e, più in generale, di total reward. Punto cardine di questa nuova concezione dovrebbe essere (come già teorizzato da diversi addetti ai lavori) la valorizzazione della sussidiarietà orizzontale nelle politiche di welfare, puntando sulla bilateralità. A sostegno di questo disegno, in un suo scritto (A. Tursi, Il «welfare aziendale»: profili istituzionali, in La Rivista delle Politiche Sociali, 2012, n. 3, 213-235) il Prof. Armando Tursi arriva a delineare i principi secondo cui la fiscalità di vantaggio dovrebbe essere ridisegnata, ovvero: la rilevanza costituzionale dell’assistenza e della previdenza integrativa; la meritevolezza sociale dell’assistenza sociale privata, anche se non integrativa di quella pubblica, in quanto sorretta dalla “bilateralità”; infine, l’unificazione dei regimi di assoggettamento contributivo degli importi versati a schemi di previdenza e assistenza privati alla bilateralità. Dunque, se sul piano operativo sembra riscontrarsi una sempre più marcata diffusione di best practices aziendali relativamente al welfare aziendale, bisognerà vedere come (e se) il Legislatore, all’interno del panorama politico e economico che caratterizza il Paese deciderà di muoversi nei confronti di tale fenomeno, che oltre al grande consenso che sta riscuotendo fra imprese e sindacati, ha la possibilità di fornire risposte mirate, capillari e concrete ai bisogni degli individui anche in un periodo di forte incertezza come quello che stiamo oggi vivendo. Daniele Grandi ADAPT Junior Fellow @DanGrandi www.bollettinoadapt.it 3