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Collana «MONDIALITÀ»
Questo volume fa parte della Collana «Mondialità», edita dalla EMI, della cooperativa
Servizio Missionario (SERMIS), in collaborazione con il CEM (Centro di Educazione al-
la Mondialità) della cooperativa Centro Saveriano d’Animazione Missionaria (CSAM).
La Collana è affidata a un Comitato coordinato da ANTONIO NANNI, e composto da ARNALDO DE
VIDI, MARIANTONIETTA DI CAPITA, RAFFAELE MANTEGAZZA, BRUNETTO SALVARANI E RITA VITTORI.
– Camminando sul filo. La scuola per la pace (Nevè Shalom - Waahat as Salaam)
– Educare alla convivialità. Un progetto formativo per l’uomo planetario (A. Nanni)
– La via obbligata dell’interculturalità (A. Perotti)
– La terra di Punt. Miti, leggende e racconti dell’Eritrea (H. Weldemariam)
– Per una pedagogia narrativa (R. Mantegazza a cura)
– Bambini in ricerca-azione (AA. VV.)
– Le storie di Dio (B. Salvarani)
– Migrazioni in Europa e formazione interculturale (A. Negrini a cura)
– Educare a una cittadinanza responsabile (M. Orsi)
– Il sistema scolastico in prospettiva interculturale (A. Negrini a cura)
– Un tempo per narrare (R. Mantegazza)
– Musicalgiocanotando (G. Biassoni - P. Zocchio)
– Le religioni e la mondialità (F. Ballabio)
– Ecopedagogia e cittadinanza planetaria (F. Gutierrez - R. Cruz Prado)
– L’altro Milione (A. Fucecchi - A. Nanni)
– Una nuova Paideia (A. Nanni)
– Educare alla differenza (G. Dal Fiume)
– Religioni in Italia (F. Ballabio - B. Salvarani a cura)
– A scuola con la Bibbia (B. Salvarani)
– I media e l’islam. L’informazione e la sfida del pluralismo religioso
(I. Siggillino a cura)
– Educare alla responsabilità nella globalizzazione (M. Orsi)
– La pedagogia della speranza (C. Economi)
– Ciascun paese è mondo (F. Dovigo)
– Donne e religioni. Il valore delle differenze (AA. VV.)
– È l’ora delle religioni (AA.VV.)
– La scuola che ho sempre sognato (R. Alves)
– Identità plurali (A. Fucecchi - A. Nanni a cura)
– I bambini vedono Dio (D. Castellari)
– Comunità rom (S. Caset - A. Surian)
– Profeti di mondalità (A. Nanni)
– Pedagogia interculturale e solidarietà globale (G. Barbera a cura)
– La pedagogia della lumaca (G. Zavalloni)
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GIANFRANCO ZAVALLONI
LA PEDAGOGIA
DELLA LUMACA
Per una scuola
lenta e nonviolenta
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA
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Creativa è quella persona
che sa guardare
in maniera sempre nuova e originale
il mondo in cui vive.
È un invito alla lentezza. Andiamo troppo in fretta.
Bisogna avere la possibilità di fermarsi, guardare le cose belle,
meditare, pensare a noi, guardare i tramonti.
Ma chiedete a qualcuno che cammina per strada:
“Quando ti sei fermato per un tramonto l’ultima volta?”.
È una domanda molto importante!
(Tonino Guerra)
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PREFAZIONE
di Christoph Baker*
Quando si parla di lentezza, bisogna parlare anche di leggerezza e di fragilità.
Questi concetti sovversivi per la nostra società trionfante nel suo materialismo
pesante e devastatore, sono la misura di un reale cambiamento antropologico di cui
l’umanità ha urgente bisogno.
Rallentare, oggi come oggi, è diventato un imperativo di sopravvivenza. In
effetti l’accelerazione esponenziale di questa versione della modernità, basata sulla
tecnologia e sul consumo insostenibile di risorse finite, ci sta portando dritto a un
punto catastrofico di non ritorno (almeno per gli esseri umani: per tante altre specie
viventi, la campana ha già suonato diverso tempo fa). Ci vuole un certo coraggio,
certo, a staccare la spina della propria partecipazione alla corsa folle della società
capitalista. Ci vuole coraggio a smettere di essere homo economicus, cercando di
recuperare o di scoprire altre dimensioni di questa nostra povera vita umana.
Svariate metafore vengono in mente, quando ci si ferma solo un istante a osser-
vare l’andazzo di un mondo completamente alla deriva (non mi parlate di “miraco-
lo cinese o indiano”!). Una è quella del treno ad alta velocità che ha però due difet-
ti: non ha conducente e non ha freni. Quella dell’orchestra che continua a suonare e
la gente a ballare, mentre il Titanic affonda definitivamente. E una terza è la fiaba
del “Re nudo”. Comunque la si metta, urge un risveglio dal torpore in cui la civiltà
occidentale ha indotto l’uomo fino al punto di raggiungere il traguardo euforico
della globalizzazione, del mito della crescita economica illimitata.
Ma se nessuno si ribella, se nessuno urla il proprio dissenso, come possono i
nostri figli e nipoti rendersi conto del regalo avvelenato che gli abbiamo donato,
facendoli nascere in un mondo violento, arrogante, egoista e rapace? Perché mai una
bambina o un bambino dovrebbe scegliere di sua spontanea volontà una vita più
rispettosa, più giusta, più dolce, se tutto intorno non è che competizione, legge del
* Autore di Ozio, lentezza e nostalgia, EMI, Bologna 2006 (ultima edizione).
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più forte e del più volgare? Certo, c’è chi si affida ai miracoli, ma l’evidenza va in
un’altra direzione. L’evidenza presenta un’umanità prigioniera di un unico scopo
nella vita: guadagnare e consumare. Tutto il resto è stato sacrificato sull’altare del
vitello d’oro.
Quindi, dare l’esempio. O almeno provare a indicare un’altra strada. Una strada
lenta, tranquilla, misteriosa a tratti, confortante ad altri. Parlare di tempi necessaria-
mente liberi dal mito del progresso lineare, della barzelletta che oggi si deve stare
meglio di ieri e che il domani dovrà essere ancora più radioso. Sperimentare dal vivo
il tornare indietro che è un naturale e salutare riflesso quando ci si accorge di avere
imboccato una strada che più sbagliata non si può. Invertire rotta è sempre stata una
pietra fondamentale della secolare saggezza marinara (ma chi si ricorda più dei capi-
tani di lungo corso?). Dare le dimissioni da una visione violenta e riduttiva della
vita. Dichiarare la propria obiezione di coscienza al massacro permanente che si
chiama sviluppo economico.
Non ci sono ricette preconfezionate, per fortuna! Il cammino si farà camminan-
do, come dice Antonio Machado. E come indicato sopra, i compagni di viaggio
saranno la lentezza, la leggerezza e la fragilità. L’uomo è più patetico che mai quan-
do pretende di programmare tutto, di controllare tutto, di dominare tutto. Per gode-
re a pieno della vita, serve un grande bagno di umiltà. Noi esseri umani non siamo
più importanti di una farfalla, di una spiga di grano, di un sasso levigato dal torren-
te o di un tramonto sontuoso al largo dell’Isola del Giglio.
Liberarci dall’arroganza di specie sarà una festa! Imparare a porre il piede con
la massima attenzione per non sconvolgere più del dovuto la vita invisibile che ci
ronza intorno. Curare ogni gesto con il massimo della dolcezza, per non recare inu-
tili ferite a chi ci sta vicino. Portare la nostra vulnerabilità a fior di pelle, a fior di
cuore, nel palmo della mano. Quella mano che si porge allo sconosciuto. Quelle
mani che vogliono accarezzare e non più picchiare, che vogliono abbracciare e non
più cacciare via.
Non è più tempo di teorie universali e schiavizzanti. È giunta l’ora del grande
disarmo culturale e filosofico. Lasciamoci alle spalle la rincorsa affannosa e infeli-
ce a un benessere materiale, e abbracciamo il richiamo della vita che ci circonda e
che ci offre gratuitamente la sua infinita ricchezza. Impariamo ad ascoltarla, a rispet-
tarla, ad accompagnarla, ad esserne travolti.
Ogni tentativo di indicare tale strada è nobile. Come è nobile la lumaca che ci
insegna, grazie alle belle pagine di questo libro, che lento è bello!
I nostri figli, ma anche noi genitori ti ringraziamo, Gianfranco Zavalloni!
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PRESENTAZIONE
A PROPOSITO DI LENTEZZA E…
Ogni volta che incontro Gianfranco, sono preso da una sorta di piacere partico-
lare, positivamente condizionato da un’amicizia vera, incoraggiante. Da anni ci stia-
mo confrontando insieme anche a Edoardo, allievo della scuola di Barbiana di don
Lorenzo Milani, su quello che significa rallentare i frenetici ritmi che influenzano
anche gli stili di vita. E, a proposito della scuola e della sobrietà, ci siamo avventu-
rati in due lettere aperte che hanno stimolato un fecondo confronto.
In queste belle, colorate, fresche pagine del libro, si percepisce una palpitante te-
stimonianza di umanità, di spessore pedagogico e culturale, che evidenziano una vi-
talità contagiosa e mi aiutano ad aggiungere qualche riflessione sull’importanza del-
la lumaca e della sua proverbiale lentezza, accompagnata da tenerezza e simpatia.
E per tutto ciò sono grato al priore e maestro don Lorenzo, quando a Barbiana
insieme a Giovanni Catti conobbi Gianfranco, giovane scattante scout, burattinaio,
estroso e creativo docente di scuola dell’infanzia. Da quell’estate del 1983 non ci
siamo più persi di vista. Anzi! Da allora, abbiamo vissuto tante, intense, gradevoli e
dense esperienze che ci permettono d’insistere tenacemente nello smontare pregiu-
dizi, di mettere in discussione abitudini consolidate che pongono sul trono il fare
precipitoso e veloce.
Spesso i giorni sono scanditi in maniera tale da essere capaci di rovinarci l’esi-
stenza, anche nelle semplici e naturali azioni, perché la velocità e la frenesia c’im-
pediscono di assaporare la bellezza della nostra unica e irripetibile vita.
Meglio darsi una regolata, e non solo con buoni proposti, per diffondere idee e
pratiche in grado di elogiare e valorizzare la lentezza, l’ozio, la poesia, la musica,
l’arte, sempre in buona compagnia della creatività, del sorriso e del buon umore. In-
sieme anche a una manciata salutare di consapevolezza nel seminare germi di pro-
fessionalità e percorsi formativi misti a manualità sapiente, cervello e tanto cuore.
Per queste fondate motivazioni, l’Autore desidera non farci perdere nel labirinto
dello sbrigare le faccende in fretta, contando i minuti e le ore, ossessionati a casa, a
scuola, a tavola, per strada, in famiglia, tra amici.
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A cosa ci serve questa folle corsa?
Ci si batte strenuamente per rincorrere ritmi disumani, giustificando tutto. Per lo
stanco ritornello che “non si può mai perdere tempo”, diventiamo vittime sacrificali
della tirannia mentale che ci porta a considerare ogni minuto perso quasi un reato,
che sfocia in sensi di colpa e rimpianti a catena.
Per fortuna, grazie anche a quest’originale libro, alla scuola italiana e non solo,
si offrono una serie di piatti gustosi e di utili e praticabili suggerimenti per vivere
meglio, riconciliarci con noi stessi e con gli altri, valorizzare le soste, vivere l’ozio
creativo, realizzare le necessarie pause. Fa bene guardarsi dalle insidie provenienti
dall’efficientismo attivistico e dispersivo. Certo da qualche anno si è sviluppata una
vasta letteratura e correnti di pensiero a favore della lentezza e di tutto quello che lo
slow (il lento) comporta. Ma è giunta l’ora di liberarsi dalle prigioni mentali di chi
predica bene e razzola male.
Ognuno di noi ha il sacrosanto diritto di ribellarsi, lì dove si vive e con chi si vi-
ve. Una sorta di placida e mite rivoluzione di comportamenti, che dopo avere letto
queste pagine, possono diventare pane quotidiano.
Per sperimentare il gusto dell’incontro, la bellezza dell’alba e del tramonto, ri-
scoprire il tepore della luna, osservare con stupore i gesti, gli occhi, i disegni, i gio-
chi dei bambini e delle bambine, godere delle sfumature del cielo, ammirare il volo
degli aquiloni, degli uccelli, delle onde marine e le carezze del vento.
Senza mettere da parte i sapori del cibo e i saperi derivanti dal fare ed essere
scuola. A misura delle esigenze dei ragazzi, che aspettano di essere accolti, compre-
si, ascoltati, allora il “perdere tempo” per conoscerli e accoglierli compiutamente è
sempre tempo guadagnato, in grado di trasformare, grazie a metodologie didattiche
attraenti, l’apprendimento in un’utile e duratura esperienza di vita. Il sorriso, il re-
spiro, la meditazione, l’abbraccio, le relazioni, una passeggiata a piedi o in biciclet-
ta, il piacere di prendersi il “potere” di fermare le lancette dell’orologio, è tutto a no-
stro vantaggio. Ci fa del bene. Provare per credere!
E perché non dedicarsi il giusto tempo per sé e per gli altri?
Senza farsi perseguitare dalla ferocia di un tempo deciso dagli altri e dalle circo-
stanze che c’ingoiano e non ci fanno gustare il senso vero della libertà.
Rendiamoci conto del male che ci facciamo, quando si forzano i ritmi e i cicli
naturali del creato. Accorgiamoci in tempo che i nostri sogni, a occhi chiusi e aperti,
possono essere accolti e anche realizzati, quando non siamo schiavi dei ritmi dettati
dall’esterno.
Le relazioni autentiche, profonde, che ci segnano positivamente e danno senso e
significato alla nostra esistenza sia a scuola che nella vita, sono capaci di sprigiona-
re umanità, professionalità, impegno, benessere, se non ossessionati dall’impazien-
za e dalla nevrotica fretta.
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Non è vero che le esperienze più belle e felici sono vissute all’insegna delle pia-
cevoli sensazioni che non sono influenzate dall’ansia del tempo che passa? L’arco-
baleno non ci regala attimi meravigliosi senza guardare l’orologio?
Un appassionato suggerimento: ognuno faccia un elenco di quello che gli è ca-
pitato di positivo quando ha applaudito al percorso lento, costante, tenace della tar-
taruga e della lumaca che, diciamolo pure, lascia una scia discreta, flebile ma sensa-
ta. E poi?
Iscriviamoci al PIL! Non pensate alla formula economica, ma al Partito degli In-
contri Lenti.
EUGENIO SCARDACCIONE
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INTRODUZIONE
di Gianfranco Zavalloni
A scuola di lentezza
In questi tempi è di gran moda, nelle case di campagna riabitate dai cittadini,
avere un ulivo secolare in giardino. Peccato che dove oggi si costruiscono ville, un
tempo non c’erano uliveti. Se si piantassero piccole pianticelle di ulivo ci vorrebbe-
ro anni per avere una bella pianta. Allora esistono ditte specializzate che espiantano
ulivi secolari e li ripiantono anche a pochi metri dalla porta di casa. Nessuno ha più
il tempo di attendere? Oggi si vuole tutto velocemente. Grazie alla televisone prima,
e alle reti telematiche ora, è di gran voga la somministrazione di notizie “in tempo
reale”, “in diretta”. Si è cioè convinti di potere di più se si è “in rete” con tutto il
mondo attraverso un computer, un telefono o un monitor. A cosa serve tutto questo?
Spesso non si sa. Si sa solo di essere collegati con tutto il mondo. Forse si ottiene un
grande senso di sicurezza, di protezione, rispetto alla sensazione di “esser soli”. Si
vive con il mito incalzante del tempo reale e si sta perdendo la capacità di saper at-
tendere. Chi ha più il tempo di aspettare l’arrivo di una lettera? Oggi è possibile al-
zare la cornetta e sentire la persona con cui si vuol comunicare in pochi secondi. Che
vantaggio c’è nello scrivere delle lettere? Se tutto va per il giusto verso c’è da atten-
dere una settimana. Molto meglio il telefono, la posta elettronica, la chat. Alcuni an-
ni fa, quando ancora non esisteva Internet, Jeremy Rifkin ci ricordava che “… la raz-
za umana si è basata, nel corso della storia, su quattro dispositivi fondamentali di as-
segnazione del tempo: i rituali vitali, i calendari astronomici, le campane e gli orari,
e ora i programmi dei calcolatori. Con l’introduzione di ogni nuovo dispositivo, la
razza umana si è staccata sempre più dai ritmi biologici e fisici del pianeta. Siamo
passati da una stretta partecipazione ai ritmi della natura all’isolamento pressoché
totale dai ritmi della terra…”.
Siamo nell’epoca del tempo senza attesa. Questo ha delle ripercussioni incredi-
bili nel nostro modo di vivere. Non abbiamo più il tempo di attendere, non sappiamo
partecipare a un incontro senza essere disturbati dal cellulare, vogliamo “tutto e su-
bito” in tempo reale. Le teorie psicologiche sono concordi nel pensare che una delle
differenze fra i bambini e gli adulti risieda nel fatto che i bambini vivono secondo il
principio di piacere (“tutto e subito”), mentre gli adulti vivono secondo il principio
di realtà (saper fare sacrifici oggi per godere poi domani). Mi sembra che oggi gli
adulti, grazie anche alla società del consumismo esasperato, vivano esattamente co-
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me i bambini secondo le modalità del “voglio tutto e subito”. Sapremo ritrovare tem-
pi naturali? Sapremo attendere una lettera? Sapremo piantare una ghianda o una ca-
stagna sapendo che saranno i nostri pronipoti a vederne la maestosità secolare? Sa-
premo aspettare? Si tratta di intraprendere un nuovo itinerario educativo. Genitori,
insegnanti e tutti coloro che ruotano attorno al mondo della scuola, sono stimolati
dalle suggestioni offerte dalla pedagogia della lumaca e possono ricominciare a ri-
flettere sul senso del tempo educativo e sulla necessità di adottare strategie didatti-
che di rallentamento, per una scuola lenta e nonviolenta.
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1. IMPARARE E FARE TESORO DELLE ESPERIENZE
Vitruvio, il famoso architetto dell’antica Roma, aveva diviso gli architetti in tre
categorie: quelli che sanno ben costruire ma non scrivere, di essi resteranno le opere,
non i nomi; quelli che scrivono ma non costruiscono, di essi non resterà nulla. Infine
i pochi che uniscono le due doti.
A trentacinque anni, Leonardo da Vinci, vedendo che la dignità della pittura non
è pienamente riconosciuta, perché i pittori non servono, decide di scrivere per dimo-
strare che l’arte dei pittori, avendo una base teorica, è scienza.
Noi potremmo dire lo stesso per quanto riguarda la scuola e l’educazione in
generale. Nella scuola ci sono i bravi maestri. Di essi resta traccia nella vita delle
persone a cui, nella loro fanciullezza, hanno comunicato il piacere di studiare, il
gusto di apprendere, il metodo dell’imparare a imparare. Poi ci sono coloro che scri-
vono senza aver mai fatto esperienza diretta coi ragazzi. Questi, che molto spesso
per aver conseguito la laurea si autodefiniscono pedagogisti, li troviamo di fre-
quente nelle università. Di essi, e delle loro teorie pedagogiche, per qualche breve
periodo si fa menzione nei testi universitari e nei libri consigliati per la preparazio-
ne ai concorsi. Le case editrici che pubblicano questi testi sono estremamente grate
a tali autori, soprattutto in quei periodi che precedono i concorsi, quando decine di
migliaia di aspiranti maestri sono costretti ad abbeverarsi alle fonti del sapere peda-
gogico. Di essi, forse, resterà un vago ricordo.
Infine ci sono i veri maestri, quelli che sanno insegnare, che sanno aiutare a far
fiorire le intelligenze e le personalità dei ragazzi con i quali operano e sanno poi
riflettere sul loro lavoro educativo, scrivendo e documentando. L’esperienza didat-
tica è di per sé sempre unica. Ognuno di noi ha ricordi, esperienze vissute, momen-
ti di vita scolastica da poter narrare. Gli insegnanti dovrebbero prendere l’abitudine
di appuntarsi il lavoro fatto su un quaderno o un diario, facendo così fruttare l’e-
sperienza vissuta sia per sé stessi che per gli altri. Questo “far memoria dell’espe-
rienza didattica” è un aspetto importante dell’insegnare. In Italia abbiamo pochissi-
mi esempi di didattica narrata e documentata. Il più eclatante è stato quello del mae-
stro Marcello D’Orta, col suo Io speriamo che me la cavo (Mondadori, Milano
1990), dove insieme alla spontaneità poetica delle sgrammaticature infantili è anche
emerso, a livello di opinione pubblica, una ridicolizzazione della scuola. Per fortu-
na che, prima dei ragazzi di Arzano, abbiamo avuto i ragazzi di Barbiana. È infatti
con don Milani che possiamo vantare un esempio storico di didattica vissuta e divul-
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gata. Il secondo esempio storico di pedagogia vissuta e narrata è certamente l’espe-
rienza di Mario Lodi. Nei suoi libri c’è il vissuto di un maestro che ha scelto di “met-
tere radici” in un luogo e lì operare per un’educazione in senso globale, con una
metodologia attiva, vissuta e sperimentata nel quotidiano. Un terzo esempio storico
è quello di Alberto Manzi, mitico maestro della trasmissione televisiva Non è mai
troppo tardi. E poi Maria Maltoni con i Quaderni di San Gersolè, senza dimentica-
re le grandi esperienze di Maria Montessori e Rudolf Steiner e delle scuole che da
loro prendono il nome: le scuole montessoriane e steineriane. Negli anni recenti ha
dato un importante contributo alla conoscenza delle esperienze di “scuole democra-
tiche” Francesco Codello, dirigente scolastico di Treviso. La grande passione edu-
cativa la troviamo sintetizzata nel suo libro Vaso, creta o fiore? Né riempire, né pla-
smare ma educare (La Baronata, Lugano 2005): un esempio di pedagogia e di edu-
cazione libertaria, sperimentata quotidianamente nelle scuole. Per finire la carrella-
ta ricordiamo Arte per nulla, di Federico Moroni, maestro della scuola di
Bornaccino (Santarcangelo di Romagna). Oggi, per fortuna, stanno emergendo
nuove figure di maestri che riescono non solo a “far scuola” ma anche a “fare peda-
gogia” a partire dalla loro esperienza concreta. Nell’Istituto Comprensivo Statale di
Sogliano al Rubicone (www.scuolesogliano.it) da anni si lavora sulla documenta-
zione attraverso un vero e proprio Centro di Documentazione: La Traccia. Qui è
possibile consultare, fra i vari libri, materiali e sussidi didattici, un’interessante rac-
colta di “materiale vivo”, frutto delle esperienze dirette dei colleghi docenti.
Possiamo poi trovare diversi libri prodotti in occasione dei cosiddetti Progetti 0-6
anni della Regione Emilia Romagna, come ad esempio Il Dizionario di Merlino, un
testo che racconta l’esperienza delle colleghe Maddalena Zanfanti e Fiorella Toni,
della Scuola dell’Infanzia della frazione di Ponte Uso.
Si capisce bene che questa riflessione, definita La pedagogia della lumaca. Per
una scuola lenta e nonviolenta, non nasce nelle stanze dei filosofi o negli studi uni-
versitari dei professori di pedagogia. Non nasce neppure da una sperimentazione.
Emerge semplicemente dall’incontro quotidiano e dal cammino condiviso per anni
con bambini e bambine, ragazzi e ragazze, insegnanti, genitori, bidelli, personale
delle segreterie e colleghi dirigenti.
Il piacere della lentezza
Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigior-
no di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei
vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle?
Sono scomparsi insieme ai sentieri fra i campi, insieme ai prati e alle radure,
insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una
metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre
del buon Dio non si annoia; è felice.
(Milan Kundera, La lentezza, Adelphi, Milano 1995)
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2. IL CORAGGIO DI DIRE BASTA
Verso una pedagogia della lumaca
È il tempo di dire: “Basta correre!”. La nostra scuola, riflettendo le tendenze di
buona parte della società umana, è centrata sul mito della velocità, del “fare pre-
sto”, dell’accelerazione. Ho preso coscienza di quest’amara realtà in due occasioni.
La prima è stata quando la mia compagna Stefania mi regalò il libro di Christoph
Baker, Ozio, lentezza e nostalgia. Decalogo mediterraneo per una vita più convi-
viale (EMI, Bologna edizione 2006). Trovai in terza pagina una dedica scritta da
lei: “Ozia insieme a me… e scoprirai un mondo nuovo, fatto di piccole ma intense
emozioni.”. Il libro di Baker mi ha letteralmente fulminato. È un vero e proprio ma-
nuale di pedagogia con spunti didattici, per chiunque voglia avventurarsi nell’affa-
scinante mondo della scuola, fatta d’idee e teorie (la pedagogia) e di pratica quoti-
diana (la didattica). La seconda occasione me l’ha offerta poco tempo dopo la ma-
dre di una ragazzina che venne a trovarmi in presidenza. Parlando dell’esperienza
scolastica che stava vivendo la figlia, da pochi mesi in prima media, disse: “Sa pre-
side, l’altro giorno mia figlia mi ha detto: ‘Mamma, gli insegnanti ci dicono sempre
che dobbiamo sbrigarci, che non possiamo perdere tempo perché dobbiamo andare
avanti. Ma mamma, dove dobbiamo andare? Ma avanti dove?’”.
Da quel preciso istante ho iniziato a pormi delle domande. Mi sono chiesto:
“Dobbiamo davvero correre a scuola? Siamo sicuri che questa sia la strategia mi-
gliore? Dobbiamo per forza assecondare una società che c’impone la fretta a tutti i
costi?”.
Ho ripensato alla mia esperienza, alle mie origini. Io sono nato, cresciuto e vis-
suto sempre in una famiglia contadina. La vita di campagna è legata alla natura, a un
tempo ciclico, fatto di semine, attese e raccolti. Un tempo scandito dalle quattro sta-
gioni. Ho riflettuto ripensando alle mie letture giovanili (don Milani, Carlo Doglio,
Ivan Illich, Erich Fromm, Marcello Bernardi, Ernst Friedrich Schumacher, Giannoz-
zo Pucci, Giuseppe Lanza del Vasto, Massimo Fini) e leggendo testi dedicati intera-
mente al rapporto che l’uomo ha con il tempo. Mi hanno aiutato in questa riflessio-
ne Jeremy Rifkin e il suo Le guerre del tempo (Bompiani, Milano 1989) in cui si
parla del cambiamento dell’idea di tempo nel corso della storia e David Le Breton
con Il mondo a piedi. Elogio della marcia (Feltrinelli, Milano 2001), una riflessione
sull’importanza del camminare. E poi naturalmente il citato Christoph Baker che
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analizza la società occidentale e la definisce: “Un sistema basato sul profitto e sul
consumo (…) che finiscono per essere gli unici scopi della vita degli uomini”.
Lentezza e ozio
La letteratura sul tema della lentezza e del decelerare si sta notevolmente am-
pliando in questi anni. Fra le riflessioni più interessanti cito quelle di Tom Hodgkin-
son (www.idler.co.uk) di cui desidero ricordare due saggi: L’ozio come stile di vita e
La libertà come stile di vita; sono due veri capolavori a supporto della “filosofia del-
la lentezza”. La tesi di fondo di Tom Hodgkinson è quella di affermare che in una so-
cietà basata sul fare, sull’efficientismo, sul mercato globale e sulla velocità, la ma-
niera per essere veri rivoluzionari è oziare e rallentare, far da sé e produrre local-
mente, perder tempo. Perdere tempo è un vero peccato capitale in un sistema socia-
le incentrato sul profitto ad ogni costo, è legato invece a una società basata sui ritmi
ciclici, a uno stile unito alla natura, al lavoro che l’uomo svolge per produrre il suo
sostentamento. L’idea del “perdere tempo”, dell’attendere pazientemente che un ci-
clo si compia, è caratteristica del lavoro contadino, della terra e della campagna. A
ben pensare nel lavoro dei campi non esistono pause che non siano feconde, il tem-
po perso in realtà è un tempo biologicamente necessario, che si riempie spesso di at-
tività di preparazione a eventi ciclici come sono i raccolti o le semine. Mentre la ve-
locità è legata a tempi lineari, a una produzione industriale centrata sull’usa e getta,
a un modello di società che consuma e che non si preoccupa di far rientrare entro ci-
cli naturali beni, energie, materie prime e persone. È un “tempo-freccia”, privo d’at-
tese.
Tutto questo incide indelebilmente sull’educazione, sulla formazione delle per-
sone e sull’organizzazione della scuola. Un approfondimento significativo su questo
tema è stato presentato nel 2002 dal Gruppo Educhiamoci alla Pace (GEP) di Bari,
durante un corso di formazione residenziale sul tema “In compagnia di ozio, lentez-
za e poesia”. Nel volantino di presentazione alla voce “cosa faremo” si leggeva:
“Disegneremo, scriveremo con l’inchiostro e il pennino poesie, frasi, riflessioni.
Cercheremo di ‘poetare’ in lingua locale. Porteremo in tasca un coltellino per co-
struirci fischietti, per fare piccoli giochi. E poi cammineremo... ci divertiremo e... ci
riposeremo”. Per alcuni giorni abbiamo lavorato, abbiamo riflettuto e ci siamo con-
frontati sul bisogno e sulla necessità didattica di “rallentare” e di “fare scuola più
lentamente”. Così abbiamo rilevato la necessità di proporre, in questi tempi, un nuo-
vo modello pedagogico che in maniera metaforica abbiamo chiamato la pedagogia
della lumaca. Questo modello pedagogico o, ancor meglio, questi suggerimenti di
carattere educativo, nascono da una riflessione su come viviamo il tempo scolastico
in relazione ai ritmi della società.
“È qualcosa di molto simile – come mi ha suggerito Edoardo Martinelli
(www.barbiana.it) nel suo recente libro Don Lorenzo Milani. Dal motivo occasiona-
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le al motivo profondo (SEF, Firenze 2007) – allo scholé di Platone nel Timeo: scholè
è il tempo che trascorre senza assillo, non soggetto alle angosce della necessità, por-
ta in sé l’idea dell’indugio, dell’ozio, della lentezza. La parola è sinonimo di appli-
cazione, studio e, quindi, di scuola, anche se il termine scholasticos aveva in greco
un’accezione negativa, come a indicare chi perde tempo”.
Strategie didattiche di rallentamento
Si tratta quindi di “perdere il tempo” all’interno della scuola, ovvero di scovare
le diverse strategie didattiche utili a rallentare. L’opera concreta è quella di ribaltare
alcune pratiche educative e didattiche che ormai per inerzia sono entrate nelle con-
suetudini delle scuole. Di conseguenza diviene indispensabile proporne di nuove,
che forse per alcuni sembreranno vecchie o già poste negli archivi del passato.
1. Perdere tempo a parlare. C’è una fase, di solito l’inizio del primo anno di un
nuovo ciclo scolastico, in cui tutto il tempo perso a parlare e ad ascoltare i ragazzi
nelle loro storie personali è preziosissimo. È il tempo della scoperta, della cono-
scenza dei vissuti personali, dell’elaborazione di buone regole comuni del vivere in-
sieme. Perdere tempo senza “fare il programma” (uno dei principali motivi d’ansia
dei nostri insegnanti) non è di certo perdere tempo. Ci sarebbe molto da riflettere, a
tal proposito, su tutte quelle attività di cosiddetta continuità fra i diversi gradi di
scuola… se poi non perdiamo tempo a conoscere i nostri ragazzi!
2. Ritornare alla cannetta e al pennino. Qui si parla di penna stilografica, di can-
netta, pennino e inchiostro. È l’arte della calligrafia, dello scrivere bene, della bella
scrittura. Nell’era del computer si tratta anche di sperimentare la tecnica dell’inchio-
stro e del pennino. Ecco alcune riflessioni che sono emerse sull’uso del pennino du-
rante un corso organizzato per adulti:
– il pennino ci ha riportati indietro nel tempo;
– da anni scrivo in stampatello, con il pennino ho rimparato a usare il corsivo;
– la mano era sciolta, la mente leggera…;
– ho “contattato” un ricordo antico: “La macchia sul quaderno, cerchiata di ros-
so, la macchia bollata con un 2”;
– ho rivisto i miei quaderni di bambina e mi ha colpito;
– scrivere con il pennino per me era faticoso. Non riuscivo a scrivere con una
bella scrittura. Ho scritto oggi, ancora una volta, facendo tante macchie, come da
piccolo: ho notato oggi il rumore del pennino e la sua lentezza, l’atto dell’intingerlo
che costringe a fermarti…;
– ho cominciato a scrivere ed ero sicura che avrei fatto delle macchie, anzi, de-
sideravo fare delle macchie, ma non ci sono riuscita;
– il pennino non mi tradisce, scorre via e non fa buchi nel foglio…;
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– ho incominciato a scrivere benissimo, poi mi sono detta: “No!”, e volontaria-
mente ho incominciato a macchiare lo scritto;
– non capisco dove sia la difficoltà nell’usare il pennino: ma perché allora è
scomparso?
3. Passeggiare, camminare, muoversi a piedi. È la prima e indispensabile ma-
niera per vivere in un territorio, per conoscerlo bene e a fondo nelle sue vicende sto-
riche e geografiche. Farlo insieme, con tutti i compagni della classe, permette di vi-
vere emozioni, volgere lo sguardo su particolari mai visti dall’abitacolo delle nostre
veloci automobili, sentire gli odori, provare sensazioni che creano legami. Per que-
sto sarebbe davvero importante incominciare (o ricominciare) a fare gite a piedi.
4. Disegnare anziché fotocopiare. La fotocopia è la grande maledizione delle
nostre scuole. Oggi si fotocopia tutto. Abbiamo la mania di riprodurre tutto con una
fotocopia e “darlo da colorare ai nostri ragazzi” oggi diventati espertissimi nel riem-
pire di colore gli spazi di una fotocopia. Bisogna recuperare l’originalità del fare
personalmente, con il disegno proprio. Disegnare e creare da soli tavole, schemi e
organigrammi. Solo così gli apprendimenti saranno nostri.
5. Guardare le nuvole nel cielo e guardare fuori dalla finestra. Conosco una
maestra che porta spesso i ragazzi della propria classe nel prato davanti a scuola.
Nelle giornate nuvolose e di vento, li fa sdraiare per terra e guardare le nuvole nel
cielo, immaginandone forme e movimenti. È scuola questa? Si è scuola, una ecce-
zionale scuola di poesia.
6. Scrivere lettere e cartoline vere, usandole come mezzo artistico. Nell’era del-
la posta elettronica provo un senso di disagio quando ricevo gli auguri di Natale con
una lettera di posta elettronica indirizzata ad altre 150 persone (l’indirizzario perso-
nale di chi scrive). Si fa prima e non si perde tempo: questa è la motivazione. Non
c’è nulla di più spersonalizzante. Che bello, invece, ricevere e scrivere una cartolina,
una lettera singola, un biglietto personalizzato. In occasione delle feste e delle ricor-
renze, anziché i classici regalini (gadget o piccoli giocattoli spesso inutili) proponia-
mo ai nostri studenti di scrivere, ad esempio, cartoline ispirandoci al movimento ar-
tistico della cosiddetta “arte postale”. L’arte postale (in inglese mail art) è l’arte che
usa il servizio postale come mezzo. L’esempio più familiare è dato dalle buste illu-
strate affrancate con francobolli del primo giorno d’emissione che i filatelici chia-
mano first-day covers. Ma l’arte postale vera e propria è costituita da buste e carto-
line variamente decorate con un ampio ventaglio di altre tecniche, come il collage, i
timbri decorativi e la creazione di falsi francobolli (artistamps). E così, in giro per il
mondo, ci saranno migliaia di cartoline, disegnate dai bambini e dalle bambine, dai
ragazzi e dalle ragazze.
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7. Imparare a fischiare a scuola. Un tempo era vietato fischiare a scuola. Era un
vero e proprio tabù. Poi lo imparai di nascosto nel corridoio del liceo. Un effetto eco
fantastico. Avete mai provato a insegnare ai ragazzini a fischiare?
8. Fare un orto a scuola. Un orto ha bisogno del rispetto dei tempi: quest’attività
sviluppa nei bambini l’attenzione verso i ritmi naturali. È un’esperienza vera di len-
tezza, riguarda il “prendersi cura”, coltivare la terra assecondando i suoi ritmi, può
aiutare a trovare un equilibrio. Non a caso si pratica anche l’ortoterapia. È un’espe-
rienza senza vincoli, che possiamo fare alla scuola d’infanzia, alla primaria e nelle
secondarie.
Ho buttato un sasso nello stagno della fretta. Nei capitoli seguenti approfondirò
una a una le varie pratiche qui sopra indicate.
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3. COSTRETTI ALLA LENTEZZA
Tempo e spazio: due dimensioni vitali
La visione speciale di Tonino Urgesi (t.u.arcobaleno@alice.it) invita a riflettere:
è la visione di chi vive da una vita la condizione esistenziale di “disabile”.
Viviamo ancora oggi, nel XXI secolo, nella dimensione tempo-spazio, una dimen-
sione trovata dagli antichi filosofi greci: tutto il nostro pensiero è un pensiero ari-
stotelico, un pensiero platonico, e ancora non siamo in grado di guardare oltre, di
andare oltre.
Provo a sintetizzare un pensiero del filosofo Umberto Galimberti. L’uomo è riu-
scito a trovare nuove tecniche per andar sulla luna, ma nella relazione umana sia-
mo fermi a quelle due dimensioni.
Non siamo capaci di trovare nuove “durate”, nuove “arie” per vivere nuove di-
mensioni perché ci troviamo nel vortice tecnologico, economico, dove l’umano è
messo al suo servizio, e il sistema per sostenere quest’equilibrio ha bisogno di tem-
po, di spazio.
Oggi possiamo vedere che anche la relazione ha un suo “tempo”, una sua velocità,
la velocità della relazione, dove si brucia l’esperienza dell’altro. A questo punto fa-
rei una distinzione tra il “tempo uomo” e il “tempo ore”. Nel “tempo uomo” il di-
sabile può vivere perché non ha limitazioni, non ha barriere, è il tempo del ricor-
do, del sogno, della speranza. Nel “tempo ore” non c’è posto per il disabile, per la
carrozzina: è “il tempo” della fretta, della competizione, di chi deve arrivare alla
sua meta. Con un disabile questo non funziona, perché la disabilità stessa lo ob-
bliga a una sua lentezza. Pone a chi si relaziona con una persona disabile un “tem-
po uomo”, una corporeità, e questo nella dimensione della fretta può spaventare;
perché un disabile va toccato, vestito, svestito, accudito, e questo richiede tempo e
calma. Un tempo e una calma che ti porta a una riflessione del tuo “io” a cui ti
hanno insegnato a non dare ascolto.
Se si vuole cercare a tutti i costi una differenza tra il disabile e il normodotato, es-
sa consiste nel fatto che il disabile è costretto a fare i conti con il proprio “sé”, un
“sé” corporeo, limitato.
Spesso mi sono sentito rispondere: “Non ho tempo”. Oppure chiedevo d’andare an-
ch’io con loro a comprare qualcosa, ma la risposta era di stare in casa, perché bi-
sognava fare in fretta, non perdere tempo. La carrozzina è qualcosa che fa perde-
re tempo. E mi chiedo: che cos’è il tempo? (…) Il tempo non è qualcosa che può
discriminare l’uomo, il tempo è nelle persone, è nella singola storia con cui mi re-
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laziono. La mia disabilità mi comporta anche la difficoltà nell’espressione della pa-
rola. Ricordo che durante un’interrogazione in classe l’insegnante di filosofia mi
fermò dicendomi che m’interrogava durante l’intervallo perché non aveva tempo,
doveva interrogare gli altri compagni. Qui mi rivolgo ai pedagogisti classici, invi-
tandoli a proiettarsi verso la pedagogia della parola, una parola che ha la necessità
di essere “ascoltata”, “lenta”, direi una parola “assimilata” quindi all’ascolto. Il
mio deficit organico mi limita la parola, dandomi il vantaggio di ascoltare, di pen-
sare alla frase successiva da formulare, da dire.
Mi vengono in mente i progetti didattici che tengo nelle scuole: possono essere let-
ti come una simulazione della “pedagogia della lentezza”, perché il ragazzo o la
ragazza vengono riportati senza accorgersi a una dimensione “tempo-uomo” che
non è la loro... ma quella di una persona disabile. Mi accorgo in questi laboratori,
che la classe è così attenta a seguire la scansione difficoltosa della mia voce, che
il mio deficit gli scompare, come la mia disabilità, non c’è più l’imbarazzo della
carrozzella, tra me e i ragazzi, così si viene a instaurare una sorta d’empatia.
Ho scoperto, come uomo e non come disabile, l’importanza della scansione tem-
porale, come ritmo armonico dell’esistenza umana. Una corrente di pensiero, con
cui io non posso essere d’accordo, sostiene che: “La disabilità è un osservatorio
speciale e interessante per fare emergere quei gesti, quelle parole che la velocità
non permette di cogliere”. Lo trovo molto soggettivo e pericoloso come pensiero,
perché crea ancora un altro distacco all’interno di un contesto socioculturale che
non fa bene a una nuova ontologia dell’uomo.
Qualsiasi persona può ascoltare le meravigliose note di Beethoven, di Satie, o im-
maginarsi il ritmo e il tempo delle pennellate di Van Gogh o di Monet o le mar-
tellate di Michelangelo e trovarci la “lentezza” euritmica, creativa, in quei loro ca-
polavori. Direi che la pedagogia odierna, e di conseguenza gli insegnanti, smorza-
no la creatività del bambino, con la loro fretta di finire il programma. In questo
contesto l’alunno con deficit viene penalizzato; invece andrebbe stimolato ulte-
riormente, dovrebbe essere aiutato a sviluppare le proprie abilità nel suo essere di-
sabile, lento. Riscoprendo la “pedagogia della lentezza”, penso che ogni persona,
nella frenesia metropolitana, potrebbe fermarsi ad ammirare le meraviglie nasco-
ste, per migliorare la propria qualità della vita.
Lenta va la tartaruga
Claudio Imprudente (claudio@accaparlante.it) di Bologna, ci interpella sul fatto
che la società moderna, e io aggiungo la scuola d’oggi, in sostanza rifiuta tutto ciò
che non è immediato, istantaneo.
La prima volta che ho sentito parlare della logica della lentezza è stato quando nel
mio mangiadischi (ormai oggetto d’antiquariato) ho messo il disco di Bruno Lau-
zi e ho ascoltato La tartaruga. Riascoltandola poi, negli anni, mi son sempre più
convinto che questa canzone è davvero un inno alla lentezza. La tartaruga che un
tempo era un animale che correva a testa in giù e filava via come un siluro, più
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veloce di un treno in corsa, dopo un incidente rallentò e… si accorse andando pian
pianino di moltissime cose che non aveva mai notato: “Un bosco di carote, un ma-
re di gelato e un biondo tartarugo che ha sposato un mese fa”. Questa canzone te-
stimonia una grande verità: dovremmo recuperare la lentezza come un valore, spe-
cialmente in un mondo che va ai mille e mille all’ora. Il ruolo della diversità ha
questa funzione: dimostrare che ci sono diversi tipi di velocità e andature: la len-
tezza può in questo senso diventare una risorsa.
Il saper rallentare, il saper guardare ti dà la possibilità di cogliere delle occasioni
che correndo troppo non vedresti neppure. Credo che questo sia uno dei ruoli del-
le persone con deficit: fare recuperare alla collettività la logica della lentezza. Già
solo sentendo il termine “lentezza” ci viene spontaneo associarlo a pensieri nega-
tivi: noia, stanchezza, perdita di tempo, voglia di anticipare, debolezza, vec-
chiaia… Ma perché questo termine ha acquisito queste accezioni negative? Perché
un termine che di per sé non ha connotazione negativa, nella nostra società viene
naturalmente associato a queste sensazioni di pesantezza? L’esempio della movio-
la risulta in questo caso decisamente calzante: le riprese alla moviola sono molto
più affascinanti di quelle normali perché si possono vedere tutti i particolari, le
espressioni, i gesti atletici, le gocce di sudore e gli sguardi dei giocatori.
E se la lentezza diventasse un’angolazione particolare da cui osservare il mondo?
Sicuramente la diversabilità diventerebbe un osservatorio speciale e interessante
per fare emergere quei gesti, quelle parole che la velocità non permette di coglie-
re. Un gesto che potrebbe essere classificato all’interno della “lentezza” è la mia
lavagnetta con le lettere tramite cui comunico col mondo. Spesso la gente mi rin-
grazia perché ascoltandomi può tranquillamente prendere appunti, e le frasi entra-
no meglio facilitando lo scambio e il confronto, dunque il dialogo. Ecco che la len-
tezza nella comunicazione diventa una marcia in più invece che un deficit.
Quali sono i vostri gesti lenti?1
1 Claudio Imprudente, La diversabilità. Lenta va la tartaruga, in “Rocca”, n. 18, 15 settem-
bre 2007.
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La lezione di una mamma
Sempre su quest’argomento, mi giunge una lettera di una mamma scritta come
se fosse una poesia. È una riflessione, ma anche un pugno nello stomaco, per tutti
noi che operiamo nella scuola.
Il mio bambino ama la neve
Il mio bambino ama la neve. E il baseball. E la corsa, e l’atletica.
Il mio bambino è appena entrato alle scuole medie.
Prima media.
Trepidante, spaventato, curioso.
Il mio bambino aveva i lacrimoni agli occhi il secondo giorno di scuola.
Un insegnante è “un po’ handicappato”.
E lui ha pianto perché i suoi compagni lo prendevano in giro.
Non ha il coraggio di fare a pugni per difendere gli handicappati.
Per fortuna. Ma piange perché il professore è deriso.
Il mio bambino ha una sorella handicappata.
Il mio bambino ha avuto alcune lezioni d’informatica.
Il mio bambino ha il computer a casa ma, per fortuna, non lo ama molto.
Il mio bambino ama la bicicletta. E il baseball.
L’insegnante d’informatica, dopo un mese di scuola, l’ha sgridato
perché col computer è troppo lento.
Gli altri, sono molto più bravi. Più veloci.
E lui non sa usare il computer.
E l’insegnante lo sgrida.
Il mio bambino ama la bicicletta.
E il prato. E gli uccelli.
Il mio bambino ama gli “handicappati”.
E piange di nascosto se il suo professore viene deriso.
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4. BELLO O BRUTTO TEMPO
Esiste il brutto tempo?
Il nostro modo di parlare o di esprimerci crea cultura e, spesso, nemmeno ce
n’accorgiamo. Porto subito un esempio concreto e rifletto sull’idea educativa. “Un
fine settimana caratterizzato da una splendida domenica di pioggia!”. Abbiamo mai
ascoltato o letto una simile affermazione? Quotidianamente, invece, sentiamo parla-
re di “bel tempo” o di “brutto tempo”. E se le previsioni atmosferiche ci riservano
pioggia, vento o neve, di sicuro tutto ciò sarà definito come “cattivo tempo” o “mal-
tempo in arrivo”. Viviamo un periodo in cui il tempo e le questioni meteorologiche
sono al centro delle attenzioni e degli interessi delle grandi agenzie di assicurazione
(con in prima fila i Lloyd di Londra) che cercano di capire con anticipo i prevedibi-
li o imprevedibili eventi atmosferici che potranno incidere sui loro profitti. Esiste,
infatti, la possibilità di prevedere eventi atmosferici per poterli poi coprire con po-
lizze assicurative, come accade ad esempio, per gli agricoltori con le grandinate pri-
maverili o estive. Ma questo è anche un tempo in cui le televisioni ci propinano tra-
smissioni che hanno come argomenti centrali proprio le previsioni atmosferiche e
quello che anni fa era la figura mitica – anche perché unica – del colonnello Bernac-
ca, è oggi ben sostituita da diversi presentatori o vallette di grido, che ci presentano
informazioni d’origine satellitare su alte e basse pressioni. E così, in mezzo a quiz,
balletti e canzonette, ogni giorno, grazie alla potenza delle immagini televisive, sta
passando un modo di vedere i cicli stagionali caratterizzato dalle esigenze di una so-
cietà che sta creando il modello standard di abitante del pianeta che si contraddistin-
gue per l’essere “cittadino”, “tifoso”, “consumatore” e “turista”. Posso e possiamo
tranquillamente affermare che questi sono ormai veri e propri modelli culturali ed
educativi.
Piogge e nevi abbondanti: calamità naturali o benedizioni del cielo?
Prendiamo ad esempio un fine settimana primaverile caratterizzato da abbon-
danti piogge. È chiaro che per chi deve recarsi allo stadio a vedere la partita di cal-
cio o per chi si sposta continuamente e solamente in automobile o – ancora – per chi
attende il fine settimana per godersi il riposo domenicale sulla spiaggia, la pioggia
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crea sicuramente disagio. Se poi, al posto della pioggia, abbiamo un’abbondante ne-
vicata e questa provoca rallentamenti e tratti d’autostrada impraticabili ai mezzi mo-
torizzati, di sicuro a qualcuno verrà in mente di richiedere, al governo di turno, lo
stato di “calamità naturale”.
Eppure tutti sappiamo, a ben riflettere, che per gli agricoltori, per coloro che
quotidianamente attendono a una delle fondamentali attività dell’umanità, cioè col-
tivare prodotti agricoli e quindi produrre beni alimentari, la pioggia è fondamentale,
anzi indispensabile. Non esisterebbero buone produzioni agricole senza piogge e ab-
bondanti nevicate. La tradizione agricola e popolare aveva ben sintetizzato ciò in in-
numerevoli proverbi. Pensiamo a quello estremamente semplice che afferma: “Sotto
la neve, il pane”, a significare che un buon raccolto di grano e di conseguenza farina
per il pane, nasce da una buona nevicata invernale. L’acqua per i contadini è quasi
sempre sinonimo di “benedizione dal cielo”. Ma che ne sarebbe dei nostri acquedot-
ti, che quotidianamente ci portano acqua sia nelle case di campagna che in quelle di
città, senza neve o pioggia? Non possiamo aspettare stagioni caratterizzate da persi-
stenti siccità per ricordarci che la pioggia e la neve sono indispensabili all’umanità.
È bene ricordarsi di questo anche nelle nostre scuole!
Cattivo tempo o buona attrezzatura?
Una lunga esperienza educativa negli scout, gli anni da maestro di scuola mater-
na in campagna e le origini contadine mi hanno insegnato che quando piove o nevi-
ca la vita prosegue. È sufficiente attrezzarsi di un buon paio di stivali, un ombrello o
meglio ancora una mantellina o un poncho impermeabili. La vita sotto la pioggia
non si ferma, ma prosegue ed è estremamente interessante vedere il mondo anche da
questo punto di vista. Non esiste quindi un buono o cattivo tempo, ma una buona o
cattiva attrezzatura. E quando ci sono abbondanti nevicate? Credo che la saggezza
popolare ci abbia sempre invitato a fermarci, a rallentare, a sospendere le attività
previste. Sono eventi che, in questo senso, ci condizionano, ma ci educano. E a
scuola, che fare? Beh, se nevica, si può anche sospendere la lezione prevista e corre-
re in cortile a giocare con le palle di neve, costruire un pupazzo o progettare un igloo
eschimese (ne guadagneremo in conoscenze e competenze in campo fisico, scienti-
fico, geografico e storico).
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5. PERDERE TEMPO È GUADAGNARE TEMPO
“Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di
contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi ma-
gicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e in-
vece correre è guardarne soltanto la copertina.
Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fat-
to, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le
membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in
momento la strada”.
(Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma 1996)
Il 3° Circolo didattico di scuola materna in lingua italiana della provincia auto-
noma di Bolzano (Maria-Luisa.Casassa@scuola.alto-adige.it) ha ben sintetizzato
l’idea che “perdere tempo è guadagnare tempo”, identificando alcune strategie edu-
cative di rallentamento.
Perdere tempo ad ascoltare.
Vogliamo insegnare imparando ad ascoltare e raccogliendo la cultura e le emo-
zioni di ogni bambino.
Perdere tempo a parlare insieme.
Vogliamo parlare con i bambini e non solo dei bambini senza preoccuparci di ta-
gliare i tempi per essere sempre più produttivi.
Perdere tempo nel rispetto di tutti.
La vita di gruppo, la conoscenza reciproca e gli affetti nascono dall’ascolto e dal
rispetto dei tempi e dei ritmi di ognuno.
Perdere tempo per darsi tempo.
Ci piace seguire sentieri inesplorati, linee circolari, indirette, per scoprire e ap-
prezzare le piccole cose.
Perdere tempo per condividere le scelte.
È importante organizzare a scuola, insieme ai bambini, zone di libertà, dove tut-
ti possono sentire la responsabilità di ciò che hanno scelto.
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Perdere tempo per giocare.
Il gioco libero permette ai bambini di esprimersi, di condividere le regole, di ca-
pire il mondo, di entrare in rapporto con gli altri.
Perdere tempo a camminare.
Passeggiare insieme ai bambini, muoversi a piedi, andare al ritmo dei nostri pas-
si, aiuta a conoscerci di più e a vivere meglio in un territorio.
Perdere tempo per crescere.
Per prepararci al nostro futuro è necessario dare tutto il tempo e lo spazio al no-
stro presente.
Perdere tempo per guadagnare tempo.
Rallentare perché la velocità s’impara nella lentezza.
In una società basata sul successo, sul guadagno e sul vincere, abbiamo mai ri-
flettuto sull’importanza e sul valore pedagogico del “perdere”? Perdere tempo, per-
dere una partita, perdere un treno, perdere un oggetto, perdere un appuntamento,
perdere qualcuno, perdere e basta… perdere!
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6. LA SCUOLA CHE VORREI
Da bambino ho vissuto quattro bellissimi anni di elementare in una pluriclasse
mista in campagna, per poi passare in una quinta “maschile” in città in cui ho sco-
perto l’uso, da parte del maestro, della “bacchetta”. Era l’anno scolastico 1967/68.
Una scuola media praticamente senza ricordi, se non la memoria di una professores-
sa d’italiano che ha posto le premesse per farmi odiare per tanti anni tutto quello che
è romanzo, poesia o letteratura in genere. Liceo scientifico ricco di stimoli “socio-
politici” con un professore di filosofia “apertissimo alle nostre domande”. Infine un
ottimo finale all’università di Bologna, con il professor Carlo Doglio, vero “tutor”
per noi laureandi in periodo di tesi. Dopo la laurea, il professore voleva che i suoi
neolaureati facessero della loro tesi argomento per una lezione universitaria ai suoi
studenti. Un rinforzo incredibile, un’iniezione di fiducia.
Ogni insegnante dovrebbe avere una propria “idea di scuola”
Nel ripensare alla mia esperienza scolastica, aggiungerei che tutti noi che lavo-
riamo quotidianamente nella scuola, dovremmo avere una ”nostra idea” di scuola.
Una scuola ideale che ogni giorno confrontiamo e mediamo con la scuola reale,
quella in cui ci troviamo a lavorare, insieme a bidelli, segreterie, docenti, studenti,
amministratori, colleghi e famiglie. Dopo ventotto anni di lavoro nella scuola (prima
come maestro poi come direttore didattico – preside – dirigente scolastico), ho “in
testa” una mia organizzazione ideale di scuola, con tempi, strutture, programmi e di-
dattiche. Una proposta di scuola, che la rivista pedagogica dell’editrice Giunti Vita
Scolastica, ha definito “la riforma Zavalloni”. Ed ecco i punti della mia proposta di
riforma, che riguarda prevalentemente la cosiddetta “scuola dell’obbligo”.
Gioco, più studio, più lavoro manuale: uguale scuola
Nelle società moderne la quasi totalità delle scuole è centrata su alcuni cardini:
l’apprendimento cognitivo, lo studio mnemonico, l’interrogazione-interrogatorio.
Nella stragrande maggioranza dei casi l’apprendimento nelle nostre scuole è quindi
faccenda di memoria e di logica. Ogni persona può esprimere innumerevoli linguag-
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36. PEDAGOGIA DELLA LUMACA:PEDAGOGIA INTERCULTURALE 30-05-2008 15:38 Pagina 36
gi e intelligenze. Ci vengono in aiuto le riflessioni pedagogiche sui cento linguaggi
di Loris Malaguzzi, quelle sulle intelligenze di Howard Gardner, le riflessioni di Ed-
gard Morin, le esperienze didattiche di Mario Lodi e del Movimento di Cooperazio-
ne Educativa. Ma il mito del nostro tempo rimane l’intelligenza logico-matematica,
il cui funzionamento è noto e soprattutto controllabile da parte degli insegnanti at-
traverso le famose prove oggettive o le interrogazioni-interrogatorio. È così che la
scuola è divenuta un obbligo da sopportare. La scuola, che non dovrebbe andare
mai oltre un tempo della durata di 24 ore settimanali, potrebbe – invece – essere una
giusta miscela di piacere, impegno e competenze.
Ritengo perciò che un qualsiasi apprendimento per essere significativo debba
passare attraverso tre esperienze:
1. Il gioco (il piacere) che è lo strumento ideale per apprendere e rispettare le re-
gole e per maturare nelle relazioni sociali;
2. Lo studio (l’impegno) che è prevalentemente lo scrivere, il leggere e il far di
conto, cioè le componenti culturali della simbolizzazione e della comunicazione;
3. Il lavoro manuale (le competenze) che è la maniera per educare il corpo al-
l’uso di tutti i sensi e per imparare a vivere nel mondo con responsabilità. Tutti i
giorni c’è da spazzare, pulire, preparare le merende o il pranzo, fare acquisti, accu-
dire il cortile, coltivare l’orto scolastico. Perché non farlo con gli studenti stessi?
Il tempo scolastico dovrebbe essere quindi suddiviso in tre parti, un terzo da de-
dicare al gioco, un terzo allo studio, un terzo ai lavori manuali.
Unitarietà del sapere e dei tempi
Va da sé che un’organizzazione di 24 ore, suddivise in 8 ore di gioco, 8 ore di
studio e 8 ore di lavori manuali, non può avere una suddivisione in orari rigidi, né
una parcellizzazione del sapere in innumerevoli discipline con relativi programmi
definiti nei minimi dettagli. Stiamo parlando di una scuola di base, per un’alfabetiz-
zazione e un’istruzione che fino a poco tempo fa si definiva dell’obbligo. Una scuo-
la che tutti i professori e i maestri d’Italia, con la loro preparazione e competenza,
dovrebbero/potrebbero svolgere in maniera indistinta. È chiaro che qui può essere di
grande aiuto quella ricerca fatta negli anni scorsi e che aveva portato a cercare di de-
finire quali sono i “saperi minimi, di base, quelli essenziali”. Bisogna poi pensare a
nuove strategie e modalità didattiche. La scuola italiana, ad esempio, ha dimostrato
di fallire per quanto riguarda le lingue straniere, la musica o la pittura. Non ci vuol
molto a capire che queste discipline “vanno sperimentate sul campo” e non apprese
cognitivamente. “Chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara”.
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Sedici il numero massimo per classe e il mutuo aiuto
Con classi di 25-28 allievi è praticamente impossibile la gestione della didattica
quotidiana. Una classe ideale va dai 12 ai 16 studenti. Un numero ragionevole per
favorire relazioni, per permettere il lavoro a piccoli gruppi, per dare spazio alle per-
sonalità di ciascun allievo. In meno, anche se con meno ore, si fa molto di più: è un
sistema efficace e provato personalmente! E poi, in queste condizioni, emergono le
opportunità per sperimentare la funzione dell’accompagnatore (il cosiddetto tutor),
o meglio del “prendersi cura”: per esempio il più grande che aiuta il più piccolo o il
più competente che aiuta il più insicuro. Non sarebbe questo il vero modo per “veri-
ficare gli apprendimenti”, per mettere alla prova le competenze e le padronanze, in
campo sociale e cognitivo?
Il tempo degli insegnanti e la giusta retribuzione
Preparare i materiali per le lezioni, correggere i compiti, aggiornarsi, documen-
tare il lavoro didattico, redigere dei progetti, mantenere i contatti. Eppure l’opinione
pubblica è convinta che maestri e professori lavorino 22 o 18 ore a settimana. L’ora-
rio settimanale (da svolgere nelle quasi totalità a scuola) dovrebbe essere di 30 ore la
settimana, da suddividere in 16 d’insegnamento e 14 di tutto il resto. Con quest’ora-
rio verrebbero eliminate due grosse problematiche della scuola: le sostituzioni per
supplenze (che a questo punto sarebbero praticamente tutte interne) e tutta la que-
stione del cosiddetto “fondo d’istituto” che serve per le cosiddette “ore aggiuntive”.
Va da sé che la retribuzione degli insegnanti dovrebbe essere aumentata. Inoltre una
gran parte della “formazione iniziale” degli insegnanti dovrebbe svolgersi con “tiro-
cinio pratico” nelle scuole stesse. Vorrei ricordare anche il fatto che diversi inse-
gnanti si trovano a esercitare un lavoro a cui non sono portati e spesso, una volta di
ruolo, non hanno il coraggio di tornare indietro. Forse sperimentare “il fare scuola”
attraverso un tirocinio lungo (o come si fa in alcune realtà un “anno di volontariato”)
potrebbe servire loro per chiarire se “fare il maestro” è davvero la giusta scelta pro-
fessionale.
Piccole scuole e pluriclassi per lavorare meglio
Questo tipo d’organizzazione presuppone una semplificazione nell’organizza-
zione scolastica. E questo è ancor più facilmente raggiungibile se le scuole saranno
“tarate” su dimensioni minime e con una loro vera “autonomia”. Non quindi grandi
numeri, grandi istituti, ma scuole di piccola e media dimensione, decentrate sul ter-
ritorio. Si eviterebbero le spese di trasporto-spostamento-deportazione degli studen-
ti che vivono nelle realtà più isolate (di montagna o di campagna). Per permettere
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questo dovremmo uscire dalla logica delle classi formate per anno scolastico. Pos-
sono cioè diventare “norma” quelle che un tempo erano le eccezioni, ovvero le co-
siddette pluriclassi, che vedono al loro interno bambini di età verticali. In queste
scuole non dovrebbe esistere il ruolo del “dirigente-manager” (come continuano tut-
ti – dai sindacati al ministero – a sostenere) ma la funzione di coordinatori-direttori
che abbiano anche metà del tempo dedicata all’insegnamento. Un modello tuttora
presente in molti paesi europei.
Una sola nota per la scuola secondaria di II grado
Quanti ragazzi soffrono (e fanno soffrire i docenti!) negli anni delle “superiori”.
Perché non pensare a un “bonus” di anni-scuola da poter far spendere, ai ragazzi che
vogliono “abbandonare” la scuola, in un periodo successivo. Ragazzi che a 17 anni
odiano la scuola poi si ritrovano a 24-25 anni con la voglia e il “desiderio di scuola”.
Perché non offrire loro la possibilità di potersi, a quel punto, rigiocare la carta della
scuola?
Il lavoro a scuola: una missione
Una scuola così concepita è una scuola che non può che avere insegnanti molto
motivati. Quelli che sia Vittorino Andreoli, sia Edgar Morin, sia don Lorenzo Mila-
ni definiscono “insegnanti per missione”. Un buon insegnante, consapevole di non
essere onnipotente, sa – in quella determinata condizione – anche da chi farsi aiuta-
re, senza per questo abdicare ad altri il proprio ruolo. Un ruolo che è sempre, anche
senza volerlo, sia istruttivo che educativo. Forse dovremmo anche noi farci aiutare
da chi la scuola l’ha fatta anche “pensandola”. Mi riferisco in questo momento a fi-
gure come Maria Montessori, Alberto Manzi, Maria Maltoni e la scuola di San Ger-
solè, al maestro Mario Lodi, alla scuola di Barbiana, a Margherita Zoebli e il suo
Centro educativo italo-svizzero. Aggiungerei, infine, l’esperienza di Baden Powell,
fondatore dello scoutismo, a cui devo buona parte della mia formazione.
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