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tempo in tempo, in varie regioni dell’impero, soprat-
tutto inAfrica eAsia. Il problema principale per l’au-
torità romana non fu, all’inizio, di sradicare la nuova
religione, quanto di impedire che essa divenisse una
«turbativa dell’ordine pubblico». Ne è esempio il fa-
moso Rescritto di Traiano, cioè il carteggio (conser-
vato nel libro X delle Lettere di Plinio il Giovane, e
citato anche da Tertulliano) tra Plinio il Giovane, go-
vernatore della Bitinia e del Ponto, e l’imperatore
Traiano. A Plinio che chiedeva lumi su come com-
portarsi con i cristiani, l’imperatore rispondeva:
«Non li si deve ricercare; se sono denunciati e rico-
nosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale
che chi neghi di essere cristiano, e lo dimostri nei fat-
ti rivolgendo suppliche ai nostri dèi, anche se sia sta-
to sospettato in passato, ottenga il perdono (Conqui-
rendi non sunt; si deferantur et arguantur, puniendi
sunt, ita tamen ut, qui negaverit se Christianum esse
idque ipsa manifestum fecerit, id est supplicando dis
on il termine Lapsi (participio passato
del verbo latino labi, cadere) si indica-
no quei cristiani che nei primi secoli, a causa delle
persecuzioni, abiurarono la loro fede e «caddero»
nel paganesimo. La parola è stata usata sporadica-
mente per indicare anche altre forme di apostasia,
tuttavia l’espressione «Lapsi» indica comunemente
soltanto questi primi apostati.
La storia dei Lapsi si sovrappone inevitabilmente a
quella delle persecuzioni, che furono tutt’altro che un
fenomeno storico unitario, quanto piuttosto un insie-
me complesso di eventi, occorsi in diverse aree geo-
grafiche dell’impero e in diversi momenti storici. Le
persecuzioni durante l’impero di Nerone (64), Domi-
ziano (81), Traiano (110), e poi di Antonino Pio
(138) e Commodo (192) furono persecuzioni, per
quanto atroci, non preordinate e spesso costituirono
tentativi dell’autorità centrale di controllare e incana-
lare le sommosse anticristiane che esplodevano, di
Con il termine Lapsi si indicano quei cristiani che nei primi secoli, a cau-
sa delle persecuzioni, abiurarono la loro fede e «caddero» nel paganesimo.
Emilio Mordini, laureato in Medicina e in Filosofia, psicoanalista, che ha
insegnato Bioetica all’Università «La Sapienza» di Roma e che a Parigi di-
rige Responsible Technology, una società di consulenza e di previsione di
andamenti e tendenze, sostiene che sussiste un’assonanza preoccupante
tra l’antica vicenda dei Lapsi e l’attuale questione dei divorziati-risposati.
Infatti, vi è chi ha proposto di assumere nei confronti di questi ultimi un
atteggiamento analogo a quello che san Cipriano suggerì di tenere verso
i Lapsi della persecuzione di Decio: riammettere provvisoriamente all’Eu-
caristia coloro che si pentivano, riserbando al Signore di ratificare o me-
no questa decisione. Come psicoanalista, Mordini si è trovato ad ascol-
tare storie personali di alcuni cattolici divorziati risposati, che si sentiva-
no messi ai margini dalla Chiesa, e ha rilevato che questi nuovi Lapsi non
chiedono che la Chiesa usi loro misericordia, ma che faccia sì che ciò che
è stato non sia mai stato. Credere che ogni gesto possa essere revocato,
che da ogni scelta si possa tornare indietro e che ogni legame possa sem-
pre essere sciolto, non sopportare che i desideri possano essere frustra-
ti, tutte queste caratteristiche del «cittadino post-moderno», non sono al-
tro, per lo studioso, che i segni di una persistente «adolescenza colletti-
va» che corre in parallelo con i processi di secolarizzazione della società.
Divorziati
risposati: «diritto»
all’Eucaristia?
Emilio
Mordini
Antichi
& nuovi «Lapsi»
508
C
L’imperatore Decio (201-251).
nostris, quamvis suspectus in prateritum veniam ex
paenitentia impeteret)». È evidente che Traiano era
molto poco interessato ai fatti religiosi, quanto piut-
tosto al buon ordine del suo impero e al rispetto for-
male delle leggi. Quasi tutti gli storici concordano
così nel ritenere che la vera prima persecuzione anti-
cristiana fu quella ordinata da Decio.
Gaio Messio Quinto Decio (201-251) fu un generale
romano, di origine illirica, che conquistò il potere nel
249, sconfiggendo l’imperatore Filippo l’Arabo. Di-
venendo imperatore, Decio assunse l’epiteto pro-
grammatico di restitutor sacrorum (lo stesso che pre-
se poi Giuliano l’Apostata). Gli storici discutono i
motivi per cui Decio si erse a difensore della religio-
ne pagana (forse per differenziarsi da Filippo l’Arabo,
di cui si sospettano simpatie cristiane), fatto sta che
uno dei suoi atti iniziali, nei primi mesi del 250, fu un
decreto che imponeva a tutti i cittadini dell’impero di
presentarsi presso commissioni create a livello locale
per ottenere quello che, in termini moderni, si potreb-
be chiamare un «certificato di buona condotta religio-
sa». In pratica, a tutti i cittadini dell’impero fu fatto
obbligo di recarsi presso una commissione ad hoc,
per dichiarare la propria ortodossia pagana, produ-
cendo testimoni nel caso che l’autocertificazione non
fosse stata ritenuta sufficiente. Nei casi estremi, o
dubbi, la commissione poteva richiedere che il citta-
dino sacrificasse pubblicamente.
Il decreto di Decio rappresentava un evento del tutto
inusuale (almeno sino a quel momento) per l’ammi-
nistrazione imperiale. Infatti, l’impero non era uso
impicciarsi nelle faccende religiose dei suoi cittadini,
a meno che esse provocassero sommosse o turbative,
e l’idea di un censimento universale della buona con-
dotta religiosa era del tutto estranea all’ethos romano.
Il decreto non menzionava esplicitamente i cristiani,
ma non c’è dubbio che questi ne fossero tra i princi-
pali obiettivi. Infatti, i cristiani non potevano autocer-
tificare di essere pagani, pena cadere nell’apostasia,
tantomeno potevano libare agli dèi e all’imperatore. Il
decreto lasciava, tuttavia, ampi margini di discrezio-
nalità alle autorità locali e ogni commissione poteva
regolarsi per proprio conto in quanto a procedure e
sanzioni. Per esempio, i cittadini si dovevano presen-
tare spontaneamente, e il non presentarsi equivaleva a
una dichiarazione di colpa, ma non era detto entro
quanto ci si dovesse presentare. Così, mentre in alcu-
ne regioni e città era fatto obbligo di recarsi alla com-
missione di controllo immediatamente dopo la pub-
blicazione del decreto, in altre si aveva un anno di
tempo o, addirittura, i termini di presentazione non
erano specificati. Questo permetteva di allontanarsi e
nascondersi, o persino di cercare di rimandare ad li-
bitum l’esame di ortodossia, nella speranza che il de-
creto fosse alla fine revocato o comunque «dimenti-
cato», come in effetti fu alla morte di Decio. Le pene
per chi si rifiutava di sottostare all’esame erano spes-
so solo sanzioni amministrative, quali la perdita delle
cariche pubbliche, l’esilio e la confisca dei beni. In al-
cuni casi, tuttavia, i cristiani furono anche condanna-
ti alla prigione o ai lavori forzati e, persino, torturati e
uccisi. In generale, la severità della persecuzione fu
relativa alle diverse aree geografiche: minore, o addi-
rittura quasi assente, nell’area linguistica latina, dove
la presenza cristiana destava meno tensioni sociali;
maggiore nell’area linguistica greca dove, al contra-
rio, esistevano forti sentimenti xenofobi anticristiani
(aizzati anche dalle influenti comunità giudaizzanti).
Il decreto di Decio fu usato di sovrapprezzo per «re-
golare» alcuni conti personali, come nel caso di papa
Fabiano, che dopo alterne vicende, fu martirizzato a
Roma. Nell’Africa cristiana la persecuzione fu, per
varie ragioni, particolarmente virulenta. Ed è proprio
nell’Africa cristiana che scoppiò e divenne dramma-
tico il problema dei Lapsi.
Nelle regioni africane dell’impero, la Chiesa aveva
avuto un grande sviluppo e possedeva una discreta in-
fluenza politico-economica. Questo fatto – oltre a es-
sere probabilmente una delle ragioni che causò l’a-
sprezza della persecuzione – aveva comportato una
forma di rilassatezza nello spirito nei cristiani, che
non si attendevano una persecuzione sistematica. Co-
sì le comunità africane furono prese di sorpresa dal-
l’editto di Decio e numerosi cristiani, spaventati, si
recarono spontaneamente a dichiarare la propria fe-
deltà al culto dell’impero, prima ancora che alcuna
vera persecuzione avesse inizio. Alcuni mentirono,
altri produssero falsi testimoni, altri ancora accettaro-
no di sacrificare agli dèi in presenza dei cinque com-
missari che componevano la commissione. Altri, infi-
ne, semplicemente comprarono, da funzionari corrot-
ti, il libello attestante l’ortodossia pagana. Al termine
della persecuzione, che durò pressappoco sino alla
morte di Decio, la maggior parte dei Lapsi chiese di
essere riammessa nella Chiesa e di partecipare di nuo-
vo all’Eucaristia. C’erano coloro che rivendicavano
di aver comprato il certificato (l. acta facientes), altri
che sostenevano di aver ingannato i funzionari impe-
riali autocertificando il falso o presentando falsi testi-
moni (l. libellatici), altri che avevano «soltanto» bru-
ciato dell’incenso (l. thurificati), altri infine che am-
mettevano di aver sacrificato pubblicamente agli dèi
(l. sacrificati), ma sostenevano di averlo fatto unica-
mente per evitare la punizione. Così ogni categoria di
Lapsi riteneva di costituire un’eccezione e di avere
buone ragioni per poter rientrare ipso facto nella co-
munione ecclesiale. La cosa però non era così facile
perché nei primi secoli era dottrina corrente che vi
fossero tre peccati – apostasia, adulterio, e omicidio –
509
La persecuzione di Decio
nell’Africa cristiana
che non potessero essere rimessi dalla Chiesa, ma so-
lo da Dio stesso, quindi spesso i vescovi si rifiutava-
no di reintegrare i Lapsi. A questo punto molti Lapsi
iniziarono a cercare il perdono non più presso i ve-
scovi ma presso i cosiddetti «confessori», cristiani
che non avevano ceduto alla persecuzione ma aveva-
no apertamente e coraggiosamente confessato la pro-
pria fede, subendone tutte le conseguenze. L’autorità
morale di questi testimoni era grande, ed era difficile
sconfessarli se le loro decisioni erano in disaccordo
con quelle del vescovo.Aciò si aggiunga che non tut-
ti i vescovi aderivano alla dottrina dei tre peccati non
rimettibili e quindi le prassi variavano. In alcune zo-
ne non si riammetteva nessun apostata ai sacramenti,
in altre si riammettevano solo gli acta facientes e i li-
bellatici, in altre ancora venivano riammessi anche i
thurificati e i sacrificati. Questo quadro così confuso,
segnato dal martirio di papa Fabiano e da un lungo
periodo di sede vacante, fu reso ancora più incande-
scente dagli scontri interni alla Chiesa, dove alcuni
vescovi, come Novaziano, sfruttarono la crisi per
brandire l’arma del rigore contro altri vescovi. In tut-
to questo bailamme, i Lapsi non trovarono sovente
meglio da fare che protestare in modo rumoroso e in-
scenare manifestazioni di piazza, talora anche violen-
te, contro i propri vescovi.
Dobbiamo principalmente a san Cipriano, vescovo di
Cartagine, la descrizione di questi avvenimenti. Ci-
priano, che giocò un importante ruolo teologico, pa-
storale, e politico durante l’intera crisi, fu un cronista
attento e preciso. Descrivendo la persecuzione, ne
evidenziò l’odiosità, senza ingigantirne la crudeltà.
Per esempio, all’inizio del suo libro sui Lapsi ricorda
coloro che resistettero e testimoniarono eroicamente
la loro fede, perché «non temettero né gli esili pre-
scritti né i tormenti a cui sarebbero stati destinati né i
danni al patrimonio famigliare né i supplizi corpora-
li» (non praescripta exilia, non destinata tormenta,
non rei familiaris damna, non corporis supplicia ter-
ruerunt), informandoci indirettamente, quindi, che
chi si rifiutava di abiurare rischiava esilio, torture,
supplizi fisici e confisca dei beni. Il fatto che non
menzioni la morte non significa certo che nessun cri-
stiano sia stato ucciso, tuttavia ci permette di distin-
guere la persecuzione di Decio da quelle successive,
ben più sanguinarie. Si tratta di un punto importante,
perché il problema dei Lapsi si ripresentò anche du-
rante le successive persecuzioni, ma con caratteristi-
che così diverse da non poter esser sovrapponibile.
In termini schematici, si può dire che la prima «gene-
razione» di Lapsi comprendeva per la maggior parte
semplici fedeli che si recarono volontariamente ad
autocertificare di essere pagani, potendo invece sot-
trarsi con la fuga, come fece lo stesso san Cipriano, o
potendo almeno non presentarsi spontaneamente. Ri-
fiutandosi di abiurare, questi cristiani rischiavano vio-
lenze fisiche e pene, il più delle volte pecuniarie e am-
ministrative, comunque quasi mai la morte. In fondo
la persecuzione di Decio mirava a fiaccare l’animo
dei cristiani, a umiliarli e portarli a tradire sé stessi,
ma non a sterminarli fisicamente.
Ben diverse le successive persecuzioni, come per
esempio quella terribile di Diocleziano, che furono
veri e propri tentativi di «pulizia etnica». I Lapsi in
questo secondo caso furono soprattutto sacerdoti
(traditores), obbligati, con torture e sotto minaccia
di morte, a consegnare (tradere) le Sacre Scritture
cristiane agli inquisitori imperiali. Si trattò, dunque,
di poveretti che non ressero al dolore fisico e alla
paura della morte, e che chiesero successivamente
di essere reintegrati nel ministero sacerdotale. An-
che gli esiti teologici delle due crisi furono diversi.
La prima crisi dei Lapsi aveva al suo centro il tema
della remissione dei peccati, la seconda il tema del-
la cattolicità e unicità della Chiesa, nonché dell’ef-
ficacia dell’azione sacramentale. San Cipriano gui-
dò la Chiesa nella prima crisi, mentre sant’Agosti-
no la guidò nella seconda.
La storia della prima generazione di Lapsi (quella di
san Cipriano) è così evocativa che ci sarebbe da stu-
pirsi se non fosse mai stata presa a paradigma di altre
situazioni. In effetti, nel giugno del 1988, la Revue
d’éthique et de théologie morale, dei padri Gesuiti
francesi, pubblicò un articolo di Menahem Macina,
studioso specializzato nella storia delle relazioni giu-
deo-cristiane, con il titolo autoesplicativo di Un mo-
dèle pour délier les divorcés remariés: l’«admission
provisoire» des Lapsi par Cyprien de Carthage. Ma-
cina, dopo aver dato conto degli eventi storici, si sof-
ferma diffusamente sugli argomenti teologici usati da
san Cipriano per orizzontarsi tra il rigorismo di No-
vaziano e il lassismo di gran parte dei «confessori».
In particolare Macina è colpito dalla soluzione sugge-
rita da Cipriano, cioè che coloro che si pentono e im-
plorano di tutto cuore il perdono debbano essere
riammessi provvisoriamente (interim suscepi) all’Eu-
caristia e sarà poi il Signore a ratificare o meno que-
sta decisione. La Chiesa, cioè, dovrebbe assolvere
con formula per così dire «dubitativa», lasciando al
Signore la decisione finale. Forte del fatto che all’e-
poca di Cipriano l’apostasia era considerata un pec-
cato simile all’adulterio, Macina propone di applica-
re ai divorziati risposati di oggi la soluzione adottata
ai Lapsi di ieri. Coloro che, con cuore contrito e ar-
dente desiderio, chiedono di essere riammessi in seno
alla Chiesa dovrebbero esserlo. Macina dice di non
preconizzare un’amnistia generalizzata, ma di do-
mandare la riammissione di chi ha avuto una vera
conversione interiore e ha attraversato un periodo di
510
Divorziati & risposati
come i «nuovi Lapsi»?
penitenza adeguato. La sua conclusione è chiara: «Ci
si augura un cambiamento radicale di prospettiva nel-
la difficile problematica del divorzio e del suo fre-
quente corollario, un successivo matrimonio. Sul pia-
no teologico, bisognerà tenere conto, se sarà confer-
mata, di una pratica positiva della Chiesa dei primi
secoli nei confronti dei divorziati risposati, pratica in-
direttamente attestata da Cipriano e sulla quale egli si
fonda, come costituendo un precedente alla riammis-
sione dei Lapsi che egli preconizza» (On souhaite un
changement radical de perspectives, dans la difficile
problématique du divorce et de son corollaire fré-
quent: le remariage. Sur le plan théologique, il fau-
dra tenir compte, si elle s’avère confirmée, d’une pra-
tique positive de l’Église des premiers siècles envers
les divorcés remariés, indirectement attestée par
Cyprien, et sur laquelle ce dernier se fonde même,
comme constituant un précédent à la réadmission des
Lapsi, qu’il préconise).
Come si vede, anche se pubblicato circa ventisette
anni fa, questo articolo è di un’attualità straordina-
ria e potrebbe essere stato scritto in questi mesi di
dibattito sul Sinodo sulla famiglia. Certo, san Ci-
priano si riferiva alla riammissione dei Lapsi al-
l’Eucaristia in punto di morte, ma che importa? Ab-
solvez-les tous, Dieu reconnaitra les Siens («Assol-
511
Duomo di Milano, fronte sud esterno: san Cipriano di Cartagine (210-258), vescovo e martire, che svol-
se un rilevante ruolo teologico, pastorale, politico e storiografico nella crisi dei «Lapsi» conseguenti al-
la persecuzione dell’imperatore romano Decio.
veteli tutti, Dio riconoscerà i suoi»), è l’ottimistico
motto che sembra affascinare Macina e tanti come
lui. In fondo, si tratta di una soluzione semplice,
dalla logica incontestabile, che fa tutti contenti.
Il mestiere che pratico da più di trent’anni, lo psicoa-
nalista, mi ha portato ad ascoltare tante storie perso-
nali ed entrare in numerose vite. Tra queste, anche le
vite di alcuni cattolici divorziati e risposati, che si
sentivano messi ai margini dalla Chiesa e se ne dole-
vano. Debbo dire che ho trovato anch’io molte asso-
nanze tra questi cristiani e gli antichi Lapsi, ma que-
ste assonanze sono così diverse, e conducono a con-
clusioni così differenti da quelle che abbiamo appena
descritto, che vale la pena di accennarne.
La prima riguarda il tema dell’ingiustizia. Così come
gli antichi Lapsi, che arrivarono a organizzare som-
mosse per rivendicare il proprio diritto a essere riac-
colti nella Chiesa (e ne fece esperienza perfino il po-
vero Cipriano), anche gli attuali divorziati-risposati
sostengono che si stia consumando un’ingiustizia tre-
menda alle loro spalle. Ricordo, per esempio, una si-
gnora matura, divorziata, risposata e con due figlie or-
mai adulte. Questa brava signora dedicava gran parte
del proprio tempo libero, che non era poco poiché era
benestante, alla vita di parrocchia, dove animava nu-
merose iniziative a favore di giovani, anziani, e di
ogni altra categoria di bisognosi. Sospetto persino che
il suo zelo fosse causa a volte di qualche imbarazzo
per il parroco. La poveretta non si capacitava perché
una buona cristiana, quale reputava di essere, non po-
tesse «fare la Comunione», mentre l’Eucaristia era
concessa a chi si presentava in chiesa solo per la Mes-
sa domenicale e neppure si confessava. La Chiesa non
la puniva forse in modo sproporzionato, per un errore
lontano nel passato, di cui si era più che pentita? Non
erano stati sufficienti tutti quegli anni di penitenza?
Una giovane madre, anch’essa divorziata e risposata,
finì invece per allontanarsi dalla Chiesa dopo che le fu
gentilmente suggerito dal sacerdote di non accostarsi
all’Eucaristia in occasione della prima Comunione del
figlioletto. Non aveva sopportato, mi disse, l’umilia-
zione che le era stata inflitta davanti alle altre madri.
Umiliazione – aggiungeva – del tutto immeritata, per-
ché lei, che non aveva mai amato il primo marito,
amava invece teneramente l’attuale compagno da cui
aveva avuto anche il figlio. Perché dunque non la-
sciarle prendere la Comunione? Non era l’amore il
fondamento della religione cristiana? C’è poi il caso,
quasi divertente, di un manager industriale, che dopo
un primo matrimonio annullato dal Tribunale Rotale,
si risposò. Ebbe una figlia, e dopo poco divorziò per
risposarsi di nuovo. Pretendeva di avere il diritto a
«fare la Comunione» in base al fatto che il primo ma-
trimonio era stato annullato e che il secondo era
ugualmente invalido, perché contratto sotto la costri-
zione morale dovuta all’arrivo, inaspettato, della fi-
glia. Quasi fosse lui stesso un giudice rotale, argo-
mentava che l’unico «vero» matrimonio era stato il
terzo e attuale. Forte di questa sua convinzione, quan-
do poteva si comunicava con ignari sacerdoti, non pe-
rò nella propria chiesa parrocchiale, dove, essendo co-
nosciuto, non voleva «dare scandalo» (e forse temeva
che l’Eucaristia gli sarebbe stata negata). Si sentiva –
mi diceva – «assolutamente nel giusto» e criticava la
Chiesa per la sua «ottusità farisaica».
Di tutte queste tre persone colpiva la totale assenza
di ragioni, che non fossero il puro esercizio di un di-
ritto. Perché volevano comunicarsi? Ma perché ne
avevano il diritto, era in definitiva la risposta. Se io
cercavo di approfondire domandando, per esempio:
«Sì, d’accordo, ma lei perché vuole così tanto fare la
Comunione?», sembrava non capissero la mia do-
manda. Sono convinto che tutti e tre in cuor loro pen-
sassero che io non potessi comprendere il loro cruc-
cio di buoni cattolici. C’era in costoro un che di pre-
potenza e arroganza: al contrario di Osea, erano per-
sone che non cercavano amore, ma giustizia. Natu-
ralmente non pretendo che sia lo stesso per tutti i di-
vorziati-risposati che vogliono ricevere l’Eucaristia
senza cambiare la propria vita, dico soltanto che
quelli che ho avuto la ventura di conoscere avevano
questa peculiare caratteristica.
La seconda somiglianza dei nuovi Lapsi con i vecchi
Lapsi mi pare essere una confusione tra motivi umani
e motivi soprannaturali. Se ripenso a queste tre perso-
ne, così come ad altre con storie simili che ho incon-
trato, mi sembra che alla fine la questione si riducesse
all’appartenenza a una comunità umana e all’esercizio
di una pratica rituale vuota. Nessuno dei tre pensava
per davvero all’Eucaristia come reale presenza del
Corpo e Sangue del Cristo; se lo avessero fatto, avreb-
bero dovuto tremare davanti alla sfida che si erano da-
ti. Nei loro ragionamenti Dio e la dimensione sopran-
naturale o non c’entravano per nulla oppure erano so-
lo una presenza vaga e indistinta. Perché ciascuno di
quei tre voleva avere la possibilità di comunicarsi? La
signora di una certa età per non sentirsi esclusa dalla
comunità parrocchiale e come riconoscimento della
propria attività benefica; la giovane madre per stizza e
per sentirsi rassicurata sull’amore – assai traballante,
in verità – che nutriva per l’attuale compagno; il ma-
nager perché non accettava che qualcuno potesse dir-
gli di no e contestare una sua decisione. In fondo an-
che gli antichi Lapsi, secondo san Cipriano, erano col-
pevoli non tanto per aver avuto paura della persecu-
zione (abbastanza blanda, tutto sommato), quanto per
aver confuso beni materiali e spirituali e per non esse-
re stati coerenti con la propria fede. Anche la ricerca,
ieri come oggi, di un’autorità purchessia – «confesso-
512
L’Eucaristia
come «diritto»
re» o teologo riformatore – che dia ragione e «conce-
da l’assoluzione» dimostra un’incomprensione radica-
le dei termini della questione. Il valore dell’Eucaristia,
la presenza reale di Dio nella particola, dovrebbe es-
sere tale per il cristiano da rendere ogni altra conside-
razione inessenziale. Se non è così, è ovvio che rice-
vere l’Eucaristia diventa un diritto come altri, da ri-
vendicare in un talk show televisivo o su Internet, da
negoziare con l’autorità ecclesiastica.
La terza caratteristica dei nuovi Lapsi è, infine, una
sorta di diffuso infantilismo emotivo e intellettuale.
Colpisce, in tutte queste storie di divorziati-risposati
che vogliono essere riammessi all’Eucaristia pur per-
sistendo nel loro stato di risposati, la fantasia che non
vi siano punti di non ritorno, e che tutto sia perenne-
mente reversibile, anche i sacramenti della Chiesa. È
proprio la convinzione che ogni gesto possa essere re-
so mai avvenuto a costituire il centro della sensazio-
ne che costoro hanno di essere vittime di ingiustizia.
Questi nuovi Lapsi non chiedono che la Chiesa usi lo-
ro misericordia, ma chiedono che la Chiesa faccia sì
che ciò che è stato non sia mai stato. Essi rifiutano che
«Deus suscitare virginem non potest post ruinam». A
differenza, però, di Pier Damiani, non pensano che
Dio «tutto può sia in ciò che è avvenuto sia in ciò che
non è accaduto» (omnia potest sive in his quae facta
sunt sive in his quae facta non sunt), ma semplice-
mente pretendono – da eterni adolescenti quali sono –
che le loro scelte non producano conseguenze.
L’adolescenza dovrebbe essere una breve età tra fan-
ciullezza e vita adulta. Periodo di veloci cambiamen-
ti, fisici e psicologici, in cui da un lato tutte le possi-
bilità si aprono al giovane essere umano, ma dall’al-
tro si compiono quelle scelte che segneranno per sem-
pre la sua vita. Si diventa adulti: il corpo ancora flui-
do del bambino fiorisce (a volte si irrigidisce) in un
corpo maschile o femminile; alcuni, tra i tanti pensie-
ri e fantasie sul futuro, prendono sostanza e si trasfor-
mano in progetto di vita; alcune vocazioni si sciolgo-
no come rugiada ai primi raggi del sole, altre nascono
inaspettate, altre infine – ed è il caso più frequente –
cominciano ad agire sotto traccia, conducendo cia-
scuno, inconsapevolmente, verso il proprio destino; ci
si confida ancora per un po’ con gli amici dell’adole-
scenza, quelli tanto amati che si stanno già per perde-
re mentre ci si promette eterna amicizia; poi l’uomo
lascia il padre e la madre per unirsi alla propria mo-
glie. Questa è stata per secoli l’adolescenza. Ora,
quello che era una volta un breve tempo sospeso, è di-
ventato un buco nero che sta risucchiando tutte le al-
tre età della vita. La fanciullezza, l’età adulta e la vec-
chiaia, così come erano intese nel passato, stanno spa-
rendo. Al loro posto una mostruosa, perenne, adole-
scenza che inizia subito dopo l’infanzia (forse addi-
rittura prima) e accompagna l’individuo sino alle so-
glie della decrepitezza. Vorrei citare un fatto minore
che illustra però in modo esemplare ciò che intendo.
Per secoli le diverse età dell’uomo e della donna so-
no state segnate anche da diversi modi di abbigliarsi.
I bambini non si vestivano come gli adulti e gli adul-
ti si vestivano diversamente dai vecchi. Ovviamente i
vestiti non sono soltanto un modo per proteggerci dal-
l’ambiente e nascondere, o sottolineare, i caratteri
sessuali. Sono invece un complesso sistema simboli-
co, un raffinato linguaggio, che rende evidente chi
siamo e chi vorremmo essere. Colpisce notare che gli
stessi vestiti da adolescente – le stesse felpe, le stesse
magliette, gli stessi blue-jeans – si ritrovano oggi in-
differentemente nell’armadio di un bambino di tre an-
ni e di un signore ultraottantenne, di uomini e di don-
ne. Questo processo di «adolescentizzazione» coatta,
che sta travolgendo le nostre società, riguarda prati-
camente tutti gli aspetti della vita e nessuno di noi se
ne può dire del tutto immune. Fantasticare di poter
decidere a comando, o comunque controllare, la pro-
pria età, le forme del proprio corpo, le proprie presta-
zioni, persino la propria identità sessuale; credere che
ogni gesto possa essere revocato, che da ogni scelta si
possa tornare indietro e che ogni legame possa sem-
pre essere sciolto; non sopportare che i desideri pos-
sano essere frustrati o anche solo rimandati; mangia-
re appena si ha fame e non a ore prestabilite, compra-
re gli oggetti che si desiderano, nel momento in cui si
desiderano e non quando è tempo di farlo; ricercare la
fruizione immediata, quasi allucinatoria, di ogni biso-
gno; ricercare sempre la velocità, annullare la distan-
za, negare il tempo e lo spazio dell’attesa e del viag-
gio: tutte queste caratteristiche del cosiddetto cittadi-
no post-moderno, fluido e cosmopolita, non sono al-
tro che i segni di una grottesca, persistente adolescen-
za e di un profondo disagio mentale collettivo.
Gli esseri umani hanno bisogno di un tempo per na-
scere e uno per morire, di un tempo per piantare e uno
per sradicare. La progressiva scomparsa dell’organiz-
zazione sociale e psicologica dello spazio e del tem-
po – organizzazione in cui gioca un ruolo fondamen-
tale il sacro, che è primariamente una partizione di
spazio e tempo in sacro e profano – non produce li-
bertà (così come si pretende), ma follia. Non è per ca-
so, quindi, che l’«adolescentizzazione» collettiva cor-
ra in parallelo con i processi di secolarizzazione e
scristianizzazione delle nostre società. C’è, insomma,
un’assonanza ancora più profonda, e preoccupante,
tra l’antica vicenda dei Lapsi, che fu parte del primo
sistematico tentativo di sradicare il cristianesimo dal-
la società dell’epoca, e l’attuale questione dei divor-
ziati-risposati.
Emilio Mordini
513
«Adolescentizzazione»
post-moderna

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Divorziati risposati - diritto all’Eucaristia _ SC Luglio 2015

  • 1. tempo in tempo, in varie regioni dell’impero, soprat- tutto inAfrica eAsia. Il problema principale per l’au- torità romana non fu, all’inizio, di sradicare la nuova religione, quanto di impedire che essa divenisse una «turbativa dell’ordine pubblico». Ne è esempio il fa- moso Rescritto di Traiano, cioè il carteggio (conser- vato nel libro X delle Lettere di Plinio il Giovane, e citato anche da Tertulliano) tra Plinio il Giovane, go- vernatore della Bitinia e del Ponto, e l’imperatore Traiano. A Plinio che chiedeva lumi su come com- portarsi con i cristiani, l’imperatore rispondeva: «Non li si deve ricercare; se sono denunciati e rico- nosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che chi neghi di essere cristiano, e lo dimostri nei fat- ti rivolgendo suppliche ai nostri dèi, anche se sia sta- to sospettato in passato, ottenga il perdono (Conqui- rendi non sunt; si deferantur et arguantur, puniendi sunt, ita tamen ut, qui negaverit se Christianum esse idque ipsa manifestum fecerit, id est supplicando dis on il termine Lapsi (participio passato del verbo latino labi, cadere) si indica- no quei cristiani che nei primi secoli, a causa delle persecuzioni, abiurarono la loro fede e «caddero» nel paganesimo. La parola è stata usata sporadica- mente per indicare anche altre forme di apostasia, tuttavia l’espressione «Lapsi» indica comunemente soltanto questi primi apostati. La storia dei Lapsi si sovrappone inevitabilmente a quella delle persecuzioni, che furono tutt’altro che un fenomeno storico unitario, quanto piuttosto un insie- me complesso di eventi, occorsi in diverse aree geo- grafiche dell’impero e in diversi momenti storici. Le persecuzioni durante l’impero di Nerone (64), Domi- ziano (81), Traiano (110), e poi di Antonino Pio (138) e Commodo (192) furono persecuzioni, per quanto atroci, non preordinate e spesso costituirono tentativi dell’autorità centrale di controllare e incana- lare le sommosse anticristiane che esplodevano, di Con il termine Lapsi si indicano quei cristiani che nei primi secoli, a cau- sa delle persecuzioni, abiurarono la loro fede e «caddero» nel paganesimo. Emilio Mordini, laureato in Medicina e in Filosofia, psicoanalista, che ha insegnato Bioetica all’Università «La Sapienza» di Roma e che a Parigi di- rige Responsible Technology, una società di consulenza e di previsione di andamenti e tendenze, sostiene che sussiste un’assonanza preoccupante tra l’antica vicenda dei Lapsi e l’attuale questione dei divorziati-risposati. Infatti, vi è chi ha proposto di assumere nei confronti di questi ultimi un atteggiamento analogo a quello che san Cipriano suggerì di tenere verso i Lapsi della persecuzione di Decio: riammettere provvisoriamente all’Eu- caristia coloro che si pentivano, riserbando al Signore di ratificare o me- no questa decisione. Come psicoanalista, Mordini si è trovato ad ascol- tare storie personali di alcuni cattolici divorziati risposati, che si sentiva- no messi ai margini dalla Chiesa, e ha rilevato che questi nuovi Lapsi non chiedono che la Chiesa usi loro misericordia, ma che faccia sì che ciò che è stato non sia mai stato. Credere che ogni gesto possa essere revocato, che da ogni scelta si possa tornare indietro e che ogni legame possa sem- pre essere sciolto, non sopportare che i desideri possano essere frustra- ti, tutte queste caratteristiche del «cittadino post-moderno», non sono al- tro, per lo studioso, che i segni di una persistente «adolescenza colletti- va» che corre in parallelo con i processi di secolarizzazione della società. Divorziati risposati: «diritto» all’Eucaristia? Emilio Mordini Antichi & nuovi «Lapsi» 508 C L’imperatore Decio (201-251).
  • 2. nostris, quamvis suspectus in prateritum veniam ex paenitentia impeteret)». È evidente che Traiano era molto poco interessato ai fatti religiosi, quanto piut- tosto al buon ordine del suo impero e al rispetto for- male delle leggi. Quasi tutti gli storici concordano così nel ritenere che la vera prima persecuzione anti- cristiana fu quella ordinata da Decio. Gaio Messio Quinto Decio (201-251) fu un generale romano, di origine illirica, che conquistò il potere nel 249, sconfiggendo l’imperatore Filippo l’Arabo. Di- venendo imperatore, Decio assunse l’epiteto pro- grammatico di restitutor sacrorum (lo stesso che pre- se poi Giuliano l’Apostata). Gli storici discutono i motivi per cui Decio si erse a difensore della religio- ne pagana (forse per differenziarsi da Filippo l’Arabo, di cui si sospettano simpatie cristiane), fatto sta che uno dei suoi atti iniziali, nei primi mesi del 250, fu un decreto che imponeva a tutti i cittadini dell’impero di presentarsi presso commissioni create a livello locale per ottenere quello che, in termini moderni, si potreb- be chiamare un «certificato di buona condotta religio- sa». In pratica, a tutti i cittadini dell’impero fu fatto obbligo di recarsi presso una commissione ad hoc, per dichiarare la propria ortodossia pagana, produ- cendo testimoni nel caso che l’autocertificazione non fosse stata ritenuta sufficiente. Nei casi estremi, o dubbi, la commissione poteva richiedere che il citta- dino sacrificasse pubblicamente. Il decreto di Decio rappresentava un evento del tutto inusuale (almeno sino a quel momento) per l’ammi- nistrazione imperiale. Infatti, l’impero non era uso impicciarsi nelle faccende religiose dei suoi cittadini, a meno che esse provocassero sommosse o turbative, e l’idea di un censimento universale della buona con- dotta religiosa era del tutto estranea all’ethos romano. Il decreto non menzionava esplicitamente i cristiani, ma non c’è dubbio che questi ne fossero tra i princi- pali obiettivi. Infatti, i cristiani non potevano autocer- tificare di essere pagani, pena cadere nell’apostasia, tantomeno potevano libare agli dèi e all’imperatore. Il decreto lasciava, tuttavia, ampi margini di discrezio- nalità alle autorità locali e ogni commissione poteva regolarsi per proprio conto in quanto a procedure e sanzioni. Per esempio, i cittadini si dovevano presen- tare spontaneamente, e il non presentarsi equivaleva a una dichiarazione di colpa, ma non era detto entro quanto ci si dovesse presentare. Così, mentre in alcu- ne regioni e città era fatto obbligo di recarsi alla com- missione di controllo immediatamente dopo la pub- blicazione del decreto, in altre si aveva un anno di tempo o, addirittura, i termini di presentazione non erano specificati. Questo permetteva di allontanarsi e nascondersi, o persino di cercare di rimandare ad li- bitum l’esame di ortodossia, nella speranza che il de- creto fosse alla fine revocato o comunque «dimenti- cato», come in effetti fu alla morte di Decio. Le pene per chi si rifiutava di sottostare all’esame erano spes- so solo sanzioni amministrative, quali la perdita delle cariche pubbliche, l’esilio e la confisca dei beni. In al- cuni casi, tuttavia, i cristiani furono anche condanna- ti alla prigione o ai lavori forzati e, persino, torturati e uccisi. In generale, la severità della persecuzione fu relativa alle diverse aree geografiche: minore, o addi- rittura quasi assente, nell’area linguistica latina, dove la presenza cristiana destava meno tensioni sociali; maggiore nell’area linguistica greca dove, al contra- rio, esistevano forti sentimenti xenofobi anticristiani (aizzati anche dalle influenti comunità giudaizzanti). Il decreto di Decio fu usato di sovrapprezzo per «re- golare» alcuni conti personali, come nel caso di papa Fabiano, che dopo alterne vicende, fu martirizzato a Roma. Nell’Africa cristiana la persecuzione fu, per varie ragioni, particolarmente virulenta. Ed è proprio nell’Africa cristiana che scoppiò e divenne dramma- tico il problema dei Lapsi. Nelle regioni africane dell’impero, la Chiesa aveva avuto un grande sviluppo e possedeva una discreta in- fluenza politico-economica. Questo fatto – oltre a es- sere probabilmente una delle ragioni che causò l’a- sprezza della persecuzione – aveva comportato una forma di rilassatezza nello spirito nei cristiani, che non si attendevano una persecuzione sistematica. Co- sì le comunità africane furono prese di sorpresa dal- l’editto di Decio e numerosi cristiani, spaventati, si recarono spontaneamente a dichiarare la propria fe- deltà al culto dell’impero, prima ancora che alcuna vera persecuzione avesse inizio. Alcuni mentirono, altri produssero falsi testimoni, altri ancora accettaro- no di sacrificare agli dèi in presenza dei cinque com- missari che componevano la commissione. Altri, infi- ne, semplicemente comprarono, da funzionari corrot- ti, il libello attestante l’ortodossia pagana. Al termine della persecuzione, che durò pressappoco sino alla morte di Decio, la maggior parte dei Lapsi chiese di essere riammessa nella Chiesa e di partecipare di nuo- vo all’Eucaristia. C’erano coloro che rivendicavano di aver comprato il certificato (l. acta facientes), altri che sostenevano di aver ingannato i funzionari impe- riali autocertificando il falso o presentando falsi testi- moni (l. libellatici), altri che avevano «soltanto» bru- ciato dell’incenso (l. thurificati), altri infine che am- mettevano di aver sacrificato pubblicamente agli dèi (l. sacrificati), ma sostenevano di averlo fatto unica- mente per evitare la punizione. Così ogni categoria di Lapsi riteneva di costituire un’eccezione e di avere buone ragioni per poter rientrare ipso facto nella co- munione ecclesiale. La cosa però non era così facile perché nei primi secoli era dottrina corrente che vi fossero tre peccati – apostasia, adulterio, e omicidio – 509 La persecuzione di Decio nell’Africa cristiana
  • 3. che non potessero essere rimessi dalla Chiesa, ma so- lo da Dio stesso, quindi spesso i vescovi si rifiutava- no di reintegrare i Lapsi. A questo punto molti Lapsi iniziarono a cercare il perdono non più presso i ve- scovi ma presso i cosiddetti «confessori», cristiani che non avevano ceduto alla persecuzione ma aveva- no apertamente e coraggiosamente confessato la pro- pria fede, subendone tutte le conseguenze. L’autorità morale di questi testimoni era grande, ed era difficile sconfessarli se le loro decisioni erano in disaccordo con quelle del vescovo.Aciò si aggiunga che non tut- ti i vescovi aderivano alla dottrina dei tre peccati non rimettibili e quindi le prassi variavano. In alcune zo- ne non si riammetteva nessun apostata ai sacramenti, in altre si riammettevano solo gli acta facientes e i li- bellatici, in altre ancora venivano riammessi anche i thurificati e i sacrificati. Questo quadro così confuso, segnato dal martirio di papa Fabiano e da un lungo periodo di sede vacante, fu reso ancora più incande- scente dagli scontri interni alla Chiesa, dove alcuni vescovi, come Novaziano, sfruttarono la crisi per brandire l’arma del rigore contro altri vescovi. In tut- to questo bailamme, i Lapsi non trovarono sovente meglio da fare che protestare in modo rumoroso e in- scenare manifestazioni di piazza, talora anche violen- te, contro i propri vescovi. Dobbiamo principalmente a san Cipriano, vescovo di Cartagine, la descrizione di questi avvenimenti. Ci- priano, che giocò un importante ruolo teologico, pa- storale, e politico durante l’intera crisi, fu un cronista attento e preciso. Descrivendo la persecuzione, ne evidenziò l’odiosità, senza ingigantirne la crudeltà. Per esempio, all’inizio del suo libro sui Lapsi ricorda coloro che resistettero e testimoniarono eroicamente la loro fede, perché «non temettero né gli esili pre- scritti né i tormenti a cui sarebbero stati destinati né i danni al patrimonio famigliare né i supplizi corpora- li» (non praescripta exilia, non destinata tormenta, non rei familiaris damna, non corporis supplicia ter- ruerunt), informandoci indirettamente, quindi, che chi si rifiutava di abiurare rischiava esilio, torture, supplizi fisici e confisca dei beni. Il fatto che non menzioni la morte non significa certo che nessun cri- stiano sia stato ucciso, tuttavia ci permette di distin- guere la persecuzione di Decio da quelle successive, ben più sanguinarie. Si tratta di un punto importante, perché il problema dei Lapsi si ripresentò anche du- rante le successive persecuzioni, ma con caratteristi- che così diverse da non poter esser sovrapponibile. In termini schematici, si può dire che la prima «gene- razione» di Lapsi comprendeva per la maggior parte semplici fedeli che si recarono volontariamente ad autocertificare di essere pagani, potendo invece sot- trarsi con la fuga, come fece lo stesso san Cipriano, o potendo almeno non presentarsi spontaneamente. Ri- fiutandosi di abiurare, questi cristiani rischiavano vio- lenze fisiche e pene, il più delle volte pecuniarie e am- ministrative, comunque quasi mai la morte. In fondo la persecuzione di Decio mirava a fiaccare l’animo dei cristiani, a umiliarli e portarli a tradire sé stessi, ma non a sterminarli fisicamente. Ben diverse le successive persecuzioni, come per esempio quella terribile di Diocleziano, che furono veri e propri tentativi di «pulizia etnica». I Lapsi in questo secondo caso furono soprattutto sacerdoti (traditores), obbligati, con torture e sotto minaccia di morte, a consegnare (tradere) le Sacre Scritture cristiane agli inquisitori imperiali. Si trattò, dunque, di poveretti che non ressero al dolore fisico e alla paura della morte, e che chiesero successivamente di essere reintegrati nel ministero sacerdotale. An- che gli esiti teologici delle due crisi furono diversi. La prima crisi dei Lapsi aveva al suo centro il tema della remissione dei peccati, la seconda il tema del- la cattolicità e unicità della Chiesa, nonché dell’ef- ficacia dell’azione sacramentale. San Cipriano gui- dò la Chiesa nella prima crisi, mentre sant’Agosti- no la guidò nella seconda. La storia della prima generazione di Lapsi (quella di san Cipriano) è così evocativa che ci sarebbe da stu- pirsi se non fosse mai stata presa a paradigma di altre situazioni. In effetti, nel giugno del 1988, la Revue d’éthique et de théologie morale, dei padri Gesuiti francesi, pubblicò un articolo di Menahem Macina, studioso specializzato nella storia delle relazioni giu- deo-cristiane, con il titolo autoesplicativo di Un mo- dèle pour délier les divorcés remariés: l’«admission provisoire» des Lapsi par Cyprien de Carthage. Ma- cina, dopo aver dato conto degli eventi storici, si sof- ferma diffusamente sugli argomenti teologici usati da san Cipriano per orizzontarsi tra il rigorismo di No- vaziano e il lassismo di gran parte dei «confessori». In particolare Macina è colpito dalla soluzione sugge- rita da Cipriano, cioè che coloro che si pentono e im- plorano di tutto cuore il perdono debbano essere riammessi provvisoriamente (interim suscepi) all’Eu- caristia e sarà poi il Signore a ratificare o meno que- sta decisione. La Chiesa, cioè, dovrebbe assolvere con formula per così dire «dubitativa», lasciando al Signore la decisione finale. Forte del fatto che all’e- poca di Cipriano l’apostasia era considerata un pec- cato simile all’adulterio, Macina propone di applica- re ai divorziati risposati di oggi la soluzione adottata ai Lapsi di ieri. Coloro che, con cuore contrito e ar- dente desiderio, chiedono di essere riammessi in seno alla Chiesa dovrebbero esserlo. Macina dice di non preconizzare un’amnistia generalizzata, ma di do- mandare la riammissione di chi ha avuto una vera conversione interiore e ha attraversato un periodo di 510 Divorziati & risposati come i «nuovi Lapsi»?
  • 4. penitenza adeguato. La sua conclusione è chiara: «Ci si augura un cambiamento radicale di prospettiva nel- la difficile problematica del divorzio e del suo fre- quente corollario, un successivo matrimonio. Sul pia- no teologico, bisognerà tenere conto, se sarà confer- mata, di una pratica positiva della Chiesa dei primi secoli nei confronti dei divorziati risposati, pratica in- direttamente attestata da Cipriano e sulla quale egli si fonda, come costituendo un precedente alla riammis- sione dei Lapsi che egli preconizza» (On souhaite un changement radical de perspectives, dans la difficile problématique du divorce et de son corollaire fré- quent: le remariage. Sur le plan théologique, il fau- dra tenir compte, si elle s’avère confirmée, d’une pra- tique positive de l’Église des premiers siècles envers les divorcés remariés, indirectement attestée par Cyprien, et sur laquelle ce dernier se fonde même, comme constituant un précédent à la réadmission des Lapsi, qu’il préconise). Come si vede, anche se pubblicato circa ventisette anni fa, questo articolo è di un’attualità straordina- ria e potrebbe essere stato scritto in questi mesi di dibattito sul Sinodo sulla famiglia. Certo, san Ci- priano si riferiva alla riammissione dei Lapsi al- l’Eucaristia in punto di morte, ma che importa? Ab- solvez-les tous, Dieu reconnaitra les Siens («Assol- 511 Duomo di Milano, fronte sud esterno: san Cipriano di Cartagine (210-258), vescovo e martire, che svol- se un rilevante ruolo teologico, pastorale, politico e storiografico nella crisi dei «Lapsi» conseguenti al- la persecuzione dell’imperatore romano Decio.
  • 5. veteli tutti, Dio riconoscerà i suoi»), è l’ottimistico motto che sembra affascinare Macina e tanti come lui. In fondo, si tratta di una soluzione semplice, dalla logica incontestabile, che fa tutti contenti. Il mestiere che pratico da più di trent’anni, lo psicoa- nalista, mi ha portato ad ascoltare tante storie perso- nali ed entrare in numerose vite. Tra queste, anche le vite di alcuni cattolici divorziati e risposati, che si sentivano messi ai margini dalla Chiesa e se ne dole- vano. Debbo dire che ho trovato anch’io molte asso- nanze tra questi cristiani e gli antichi Lapsi, ma que- ste assonanze sono così diverse, e conducono a con- clusioni così differenti da quelle che abbiamo appena descritto, che vale la pena di accennarne. La prima riguarda il tema dell’ingiustizia. Così come gli antichi Lapsi, che arrivarono a organizzare som- mosse per rivendicare il proprio diritto a essere riac- colti nella Chiesa (e ne fece esperienza perfino il po- vero Cipriano), anche gli attuali divorziati-risposati sostengono che si stia consumando un’ingiustizia tre- menda alle loro spalle. Ricordo, per esempio, una si- gnora matura, divorziata, risposata e con due figlie or- mai adulte. Questa brava signora dedicava gran parte del proprio tempo libero, che non era poco poiché era benestante, alla vita di parrocchia, dove animava nu- merose iniziative a favore di giovani, anziani, e di ogni altra categoria di bisognosi. Sospetto persino che il suo zelo fosse causa a volte di qualche imbarazzo per il parroco. La poveretta non si capacitava perché una buona cristiana, quale reputava di essere, non po- tesse «fare la Comunione», mentre l’Eucaristia era concessa a chi si presentava in chiesa solo per la Mes- sa domenicale e neppure si confessava. La Chiesa non la puniva forse in modo sproporzionato, per un errore lontano nel passato, di cui si era più che pentita? Non erano stati sufficienti tutti quegli anni di penitenza? Una giovane madre, anch’essa divorziata e risposata, finì invece per allontanarsi dalla Chiesa dopo che le fu gentilmente suggerito dal sacerdote di non accostarsi all’Eucaristia in occasione della prima Comunione del figlioletto. Non aveva sopportato, mi disse, l’umilia- zione che le era stata inflitta davanti alle altre madri. Umiliazione – aggiungeva – del tutto immeritata, per- ché lei, che non aveva mai amato il primo marito, amava invece teneramente l’attuale compagno da cui aveva avuto anche il figlio. Perché dunque non la- sciarle prendere la Comunione? Non era l’amore il fondamento della religione cristiana? C’è poi il caso, quasi divertente, di un manager industriale, che dopo un primo matrimonio annullato dal Tribunale Rotale, si risposò. Ebbe una figlia, e dopo poco divorziò per risposarsi di nuovo. Pretendeva di avere il diritto a «fare la Comunione» in base al fatto che il primo ma- trimonio era stato annullato e che il secondo era ugualmente invalido, perché contratto sotto la costri- zione morale dovuta all’arrivo, inaspettato, della fi- glia. Quasi fosse lui stesso un giudice rotale, argo- mentava che l’unico «vero» matrimonio era stato il terzo e attuale. Forte di questa sua convinzione, quan- do poteva si comunicava con ignari sacerdoti, non pe- rò nella propria chiesa parrocchiale, dove, essendo co- nosciuto, non voleva «dare scandalo» (e forse temeva che l’Eucaristia gli sarebbe stata negata). Si sentiva – mi diceva – «assolutamente nel giusto» e criticava la Chiesa per la sua «ottusità farisaica». Di tutte queste tre persone colpiva la totale assenza di ragioni, che non fossero il puro esercizio di un di- ritto. Perché volevano comunicarsi? Ma perché ne avevano il diritto, era in definitiva la risposta. Se io cercavo di approfondire domandando, per esempio: «Sì, d’accordo, ma lei perché vuole così tanto fare la Comunione?», sembrava non capissero la mia do- manda. Sono convinto che tutti e tre in cuor loro pen- sassero che io non potessi comprendere il loro cruc- cio di buoni cattolici. C’era in costoro un che di pre- potenza e arroganza: al contrario di Osea, erano per- sone che non cercavano amore, ma giustizia. Natu- ralmente non pretendo che sia lo stesso per tutti i di- vorziati-risposati che vogliono ricevere l’Eucaristia senza cambiare la propria vita, dico soltanto che quelli che ho avuto la ventura di conoscere avevano questa peculiare caratteristica. La seconda somiglianza dei nuovi Lapsi con i vecchi Lapsi mi pare essere una confusione tra motivi umani e motivi soprannaturali. Se ripenso a queste tre perso- ne, così come ad altre con storie simili che ho incon- trato, mi sembra che alla fine la questione si riducesse all’appartenenza a una comunità umana e all’esercizio di una pratica rituale vuota. Nessuno dei tre pensava per davvero all’Eucaristia come reale presenza del Corpo e Sangue del Cristo; se lo avessero fatto, avreb- bero dovuto tremare davanti alla sfida che si erano da- ti. Nei loro ragionamenti Dio e la dimensione sopran- naturale o non c’entravano per nulla oppure erano so- lo una presenza vaga e indistinta. Perché ciascuno di quei tre voleva avere la possibilità di comunicarsi? La signora di una certa età per non sentirsi esclusa dalla comunità parrocchiale e come riconoscimento della propria attività benefica; la giovane madre per stizza e per sentirsi rassicurata sull’amore – assai traballante, in verità – che nutriva per l’attuale compagno; il ma- nager perché non accettava che qualcuno potesse dir- gli di no e contestare una sua decisione. In fondo an- che gli antichi Lapsi, secondo san Cipriano, erano col- pevoli non tanto per aver avuto paura della persecu- zione (abbastanza blanda, tutto sommato), quanto per aver confuso beni materiali e spirituali e per non esse- re stati coerenti con la propria fede. Anche la ricerca, ieri come oggi, di un’autorità purchessia – «confesso- 512 L’Eucaristia come «diritto»
  • 6. re» o teologo riformatore – che dia ragione e «conce- da l’assoluzione» dimostra un’incomprensione radica- le dei termini della questione. Il valore dell’Eucaristia, la presenza reale di Dio nella particola, dovrebbe es- sere tale per il cristiano da rendere ogni altra conside- razione inessenziale. Se non è così, è ovvio che rice- vere l’Eucaristia diventa un diritto come altri, da ri- vendicare in un talk show televisivo o su Internet, da negoziare con l’autorità ecclesiastica. La terza caratteristica dei nuovi Lapsi è, infine, una sorta di diffuso infantilismo emotivo e intellettuale. Colpisce, in tutte queste storie di divorziati-risposati che vogliono essere riammessi all’Eucaristia pur per- sistendo nel loro stato di risposati, la fantasia che non vi siano punti di non ritorno, e che tutto sia perenne- mente reversibile, anche i sacramenti della Chiesa. È proprio la convinzione che ogni gesto possa essere re- so mai avvenuto a costituire il centro della sensazio- ne che costoro hanno di essere vittime di ingiustizia. Questi nuovi Lapsi non chiedono che la Chiesa usi lo- ro misericordia, ma chiedono che la Chiesa faccia sì che ciò che è stato non sia mai stato. Essi rifiutano che «Deus suscitare virginem non potest post ruinam». A differenza, però, di Pier Damiani, non pensano che Dio «tutto può sia in ciò che è avvenuto sia in ciò che non è accaduto» (omnia potest sive in his quae facta sunt sive in his quae facta non sunt), ma semplice- mente pretendono – da eterni adolescenti quali sono – che le loro scelte non producano conseguenze. L’adolescenza dovrebbe essere una breve età tra fan- ciullezza e vita adulta. Periodo di veloci cambiamen- ti, fisici e psicologici, in cui da un lato tutte le possi- bilità si aprono al giovane essere umano, ma dall’al- tro si compiono quelle scelte che segneranno per sem- pre la sua vita. Si diventa adulti: il corpo ancora flui- do del bambino fiorisce (a volte si irrigidisce) in un corpo maschile o femminile; alcuni, tra i tanti pensie- ri e fantasie sul futuro, prendono sostanza e si trasfor- mano in progetto di vita; alcune vocazioni si sciolgo- no come rugiada ai primi raggi del sole, altre nascono inaspettate, altre infine – ed è il caso più frequente – cominciano ad agire sotto traccia, conducendo cia- scuno, inconsapevolmente, verso il proprio destino; ci si confida ancora per un po’ con gli amici dell’adole- scenza, quelli tanto amati che si stanno già per perde- re mentre ci si promette eterna amicizia; poi l’uomo lascia il padre e la madre per unirsi alla propria mo- glie. Questa è stata per secoli l’adolescenza. Ora, quello che era una volta un breve tempo sospeso, è di- ventato un buco nero che sta risucchiando tutte le al- tre età della vita. La fanciullezza, l’età adulta e la vec- chiaia, così come erano intese nel passato, stanno spa- rendo. Al loro posto una mostruosa, perenne, adole- scenza che inizia subito dopo l’infanzia (forse addi- rittura prima) e accompagna l’individuo sino alle so- glie della decrepitezza. Vorrei citare un fatto minore che illustra però in modo esemplare ciò che intendo. Per secoli le diverse età dell’uomo e della donna so- no state segnate anche da diversi modi di abbigliarsi. I bambini non si vestivano come gli adulti e gli adul- ti si vestivano diversamente dai vecchi. Ovviamente i vestiti non sono soltanto un modo per proteggerci dal- l’ambiente e nascondere, o sottolineare, i caratteri sessuali. Sono invece un complesso sistema simboli- co, un raffinato linguaggio, che rende evidente chi siamo e chi vorremmo essere. Colpisce notare che gli stessi vestiti da adolescente – le stesse felpe, le stesse magliette, gli stessi blue-jeans – si ritrovano oggi in- differentemente nell’armadio di un bambino di tre an- ni e di un signore ultraottantenne, di uomini e di don- ne. Questo processo di «adolescentizzazione» coatta, che sta travolgendo le nostre società, riguarda prati- camente tutti gli aspetti della vita e nessuno di noi se ne può dire del tutto immune. Fantasticare di poter decidere a comando, o comunque controllare, la pro- pria età, le forme del proprio corpo, le proprie presta- zioni, persino la propria identità sessuale; credere che ogni gesto possa essere revocato, che da ogni scelta si possa tornare indietro e che ogni legame possa sem- pre essere sciolto; non sopportare che i desideri pos- sano essere frustrati o anche solo rimandati; mangia- re appena si ha fame e non a ore prestabilite, compra- re gli oggetti che si desiderano, nel momento in cui si desiderano e non quando è tempo di farlo; ricercare la fruizione immediata, quasi allucinatoria, di ogni biso- gno; ricercare sempre la velocità, annullare la distan- za, negare il tempo e lo spazio dell’attesa e del viag- gio: tutte queste caratteristiche del cosiddetto cittadi- no post-moderno, fluido e cosmopolita, non sono al- tro che i segni di una grottesca, persistente adolescen- za e di un profondo disagio mentale collettivo. Gli esseri umani hanno bisogno di un tempo per na- scere e uno per morire, di un tempo per piantare e uno per sradicare. La progressiva scomparsa dell’organiz- zazione sociale e psicologica dello spazio e del tem- po – organizzazione in cui gioca un ruolo fondamen- tale il sacro, che è primariamente una partizione di spazio e tempo in sacro e profano – non produce li- bertà (così come si pretende), ma follia. Non è per ca- so, quindi, che l’«adolescentizzazione» collettiva cor- ra in parallelo con i processi di secolarizzazione e scristianizzazione delle nostre società. C’è, insomma, un’assonanza ancora più profonda, e preoccupante, tra l’antica vicenda dei Lapsi, che fu parte del primo sistematico tentativo di sradicare il cristianesimo dal- la società dell’epoca, e l’attuale questione dei divor- ziati-risposati. Emilio Mordini 513 «Adolescentizzazione» post-moderna