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Università degli Studi di Genova
               Facoltà di Lettere e Filosofia
                Corso di Laurea in Filosofia




                 Teorie
           dell’intelligenza




Candidato: Antonio Codazzi
Relatore: Prof. Giuseppe Spinelli
Correlatore: Prof. Carlo Penco
– Introduzione –


                                    INTRODUZIONE

“Homo sum, nihil humani a me alienum puto.1”
                                  (Heautontimoroumenos I, 1, 25)




Oltre a superare il blocco della pagina bianca, ostacolo ben conosciuto da chi
scrive, questa citazione di Terenzio mi permette di rendere sintetica la
posizione che assumerò nell’affrontare questa tesi.
Posizione che sarà tradita dalla palese simpatia per autori dalla
preparazione multiforme come Piaget o come David Deutsch, un fisico
quantistico che, partendo dalla propria area del sapere e spaziando molto
bene in altre materie, sa trarre conclusioni filosofiche interessanti e dalle
ampie incursioni nella biologia, nella genetica e in molti altri ambiti della
conoscenza umana.
Cos’è l’intelligenza?
Prendendo spunto dalla diatriba tra coloro che riconoscono in essa una
matrice innata e coloro che ritengono che sia un’acquisizione dovuta
all’interazione con l’ambiente (da cui nascono altri filoni intermedi),
concentro l’attenzione sulle strutture organiche (fondamentali) a cui può
essere ricondotta tale facoltà.
L’ereditarietà dei caratteri mentali è uno degli argomenti più seducenti
nella ricerca genetica, anche se non è possibile uno studio rigoroso su tali
determinanze (fino a quando non saremo in grado di manipolare i singoli
nucleotidi a nostro piacimento).
Gli studi sulle adozioni, per quanto fallimentari nel determinare come il
corredo genetico ereditato dai genitori influisse sui nuovi nati, poiché non è
mai possibile estromettere le influenze ambientali, mostrarono un dato
sorprendente e piuttosto rilevante: l’adozione fa aumentare in modo
significativo il QI dei figli.
Da ciò emerge che l’intelligenza, almeno così come la misuriamo (cioè senza
averla definita realmente), è fenotipica. Il fenotipo – come lo definisce
Lewontin – consiste in tutti gli aspetti, compresi morfologia, fisiologia e
comportamento, in un particolare momento dell’esistenza, non è ereditabile
e si sviluppa nel corso dell’esistenza in parte (ma solo in parte) come
conseguenza del genotipo.
Due gemelli geneticamente identici (monozigoti) non sarebbero
fenotipicamente (metabolicamente) tali se fossero cresciuti uno in quota
compiendo lavori pesanti, l’altro al livello del mare senza aver compiuto
attività fisiche rilevanti

1
    Sono un uomo, non ritengo estraneo a me ciò che è umano.
Università degli Studi di Genova                                       Pag. I
– Introduzione –


Tra l’altro l’autore ci mette in guardia su tre errori tipici:
   1. I geni determinano il fenotipo (vedi sopra).
   2. I geni determinano le capacità (si limitano ad avvantaggiare lo
       sviluppo rispetto ad un tipo d’ambiente).
   3. I geni determinano le tendenze.

Riguardo alla fenotipicità, l’effetto Baldwin (Richards, 1987; Schull, 1990)
fornisce un interessante spunto su riflessione d’ordine evolutivo.
L’Effetto Baldwin consiste nella pressione selettiva causata da un “Buon
Trucco”, che avvantaggia sensibilmente chi lo scopre o chi può apprenderlo
perché si trova in prossimità dello spazio progettuale.
Un’importante conseguenza dell’Effetto Baldwin è che le specie dotate di
plasticità tenderanno ad evolvere più velocemente.
L’esplorazione fenotipica che porta alla scoperta e all’acquisizione del buon
trucco non è ereditabile (appunto: è fenotipica), ma la spinta selettiva che
comporta produrrà, chiamiamoli così, specie plastiche (plasticità come
caratteristica ereditaria), potenzialmente capaci non solo di scoprire,
riconoscere ed “aggrapparsi” al buon trucco, ma anche di poterlo apprendere
e di poterne apprendere ulteriori, magari cercandoli in altre aree
progettuali.
L’evoluzione, quindi, può aver favorito le strutture in grado di essere, oltre
che adatte, particolarmente plastiche2.
Scoprire, aggrapparsi, riconoscere ed imparare nuovi “trucchi” sono (sembra
incredibile!) buona parte delle caratteristiche con cui noi denotiamo
l’intelligenza.
In Piaget, per quanto si possano trovare accenni alla dimensione chimica,
biologica o fisica, prevale il dinamismo psicologico. Vorrei, comunque, far
notare come molti dei suoi concetti siano ben più che mutuati dalla biologia
(Piaget “nasce” biologo), direi che sono modelli funzionali tanto psicologici
quanto organici.
La ricerca dell’equilibrio tra assimilazione ed accomodamento è il processo
dinamico del metabolismo!
L’intelligenza, allora, è una funzione metabolica?
L’organismo in realtà è composto di due parti originariamente distinte, il
genoma ed il metabolismo.
Biologia, biochimica, fisica, geologia, meteorologia, cosmologia e
paleoclimatologia hanno permesso di raccogliere sufficienti dati per
affermare con un buon margine di certezza tale bipartizione. Si è giunti ben
oltre: il portatore d’informazione (in questo caso l’RNA, non il più noto DNA,
che invece è una forma più evoluta) probabilmente interagì con i metaboliti
come un parassita.
Innestando l’argomentazione su una teoria da me elaborata [definita BAO
(vedi appendice) ], che per ora risulta ancora incompleta, e riconoscendo solo
al metabolismo la natura di processo (il portatore di informazione “nudo”

2
 I batteri sono in effetti molto più adatti dell’uomo a sopravvivere e riprodursi, ma sono decisamente
meno plastici.
Università degli Studi di Genova                                                                 Pag. II
– Introduzione –


[del metabolismo] è quasi immortale ma completamente inerte) si ipotizza la
natura di processo anche per l’intelligenza (ipotesi che avrà ulteriori
implicazioni). Il portatore d’informazione per sopperire alle carenze
informazionali della struttura organica ha permesso al metabolismo una
maggiore autonomia (si può parlare di “metabolismo emancipato”). Il
metabolismo mentale ha creato, imitando la peculiarità del proprio
parassita-simbionte, un mezzo per la propria replicazione (i memi di
Dawkins o, grossomodo, i classici simboli). Questi memi sono assimilati
dalla struttura auto-organizzante tipica del metabolismo, cioè diventano
parte integrante ed integrata del metabolismo performato. Come abbiamo
detto in precedenza, definiamo intelligente un comportamento solutore, ma
nel nostro universo anche capace di “progettare il futuro”, sebbene con
riconosciute limitazioni. L’intelligenza dovrebbe avere una sua valenza nelle
nostre risorse che ci permettono di vivere in un ambiente (o il mondo fisico).
Abitualmente riconosciamo all’intelligenza la virtù della preveggenza (a
torto?) ed anche in ambito psicologico si afferma, in senso lato, qualcosa di
simile.
Importanti sono gli studi sulle abilità nel calcolo probabilistico in persone
non addestrate. I risultati non sono incoraggianti, infatti la percentuale di
errore spesso è notevole e sistematica.
Ma il tipo di “probabilità” usata nella vita di tutti i giorni non è quella
formale della logica o della statistica (gli uomini in natura non avevano aule
universitarie!). In effetti è la plausibilità, e non i “calcoli” istituzionalizzati,
ad essere utilizzata dall’uomo per costruire modelli atti ad orientare l’azione
e comprendere il mondo che lo circonda, poiché, al contrario dei risultati
formali, essa fornisce spiegazione degli errori sistematici osservati nei test.
Bachelard sostenne che l’immaginario costituisce sia una forma di
conoscenza più profonda che quella tecnico-scientifica, sia il fondamento
intuitivo delle concezioni che, mediate e razionalizzate, entreranno a far
parte del patrimonio scientifico.
Quello che è scientifico o “formale” è stato scorporato dal tutto per essere
capito e sviluppato al meglio, cioè diventa una parte performata e
performante del tutto.
In realtà l’uomo possiede capacità connaturate (fornite da quelle strutture
innate nelle strutture fondamentali, definite Driver…neurali-genetici) di
misurazione della realtà in forma di calcolo.
Ad esempio, il padre di Galileo fu il primo a capire che il semitono
(rappresentato dalla proporzione 9:8) può essere diviso in parti uguali con
un orecchio molto addestrato e che in realtà corde uguali suonano una
quinta giusta a tensioni che stanno tra loro in un rapporto di 4:9, non di 3:2
come effettivamente avviene nel caso di corde sottoposte alla stessa
tensione. Vincenzio Galilei giunse a questi risultati tramite “l’orecchio”, non
applicando sterili canoni, anche non lavorando sugli irrazionali, che sono
pur sempre le entità “formali” che reggono questa nuova acquisizione
teorica. Intendo indicare come a prescindere dal tipo di matematica
utilizzata o conosciuta la musica è percepita come relazioni matematiche.
Tra le aree formali e quelle “naturali” le contraddizioni nascono in funzione

Università degli Studi di Genova                                           Pag. III
– Introduzione –


dello “stile” calcolatorio utilizzato, ma mentre il primo non può comprendere
il secondo, quest’ultimo è in grado di generare molte aree formali (in pratica
è più plastico e più dispersivo).
Ciò che accomuna molte nostre capacità è la facoltà di “rapportare”.
Rapportiamo tra gli elementi che compongono una figura, un brano
musicale, un giudizio. Siamo quasi arrivati all’astrazione, non trovate?
David Deutsch [1997] in proposito ha un’ipotesi interessante, in parte
derivata dalla simulabilità pressoché perfetta d’ogni possibile mondo fisico
da parte di un calcolatore, ovviamente non ancora costruito ma possibile in
linea di principio. “Le computazioni, comprese quelle che si qualificano come
dimostrazioni, sono processi fisici. La teoria della dimostrazione riguarda il
modo in cui si può garantire che tali processi imitino le entità astratte in
maniera corretta…”.
Una “situazione” può essere ricreata “in scala” (in un’altra situazione)
attraverso processi non dissimili dalla situazione originaria, riproduzione
che entra, essa stessa, in una situazione più ampia o a completamento della
situazione originale.
Newton ha potuto matematizzare il mondo fisico proprio perché l’uomo stesso
traduce in calcolo il mondo reale, sondato attraverso gli strumenti di cui è
fornito dalla nascita.
La fisica di Newton, pur non essendo più corretta (scalzata da quella di
Einstein), è non solo una buon’approssimazione dei comportamenti del
mondo fisico, ma è anche basata sui “calcoli” che sorreggono la nostra
percezione, come rileva “l’effetto tunnel”.
Anche con la tecnica più raffinata incorriamo sempre nei sensi come
strumenti d’esplorazione del mondo. Anche nella P.E.T. i processi “invisibili”
all’occhio diventano forme e colori! Idem per il semplice metro, che esterna il
nostro rapportare interiore!
Questi modelli oltre ad essere una rappresentazione interna (chimico-
spaziale) sono anche la griglia che proiettiamo sul mondo per scomporlo ed
estrarre le informazioni utili. L’intelligenza non è frutto della struttura
auto-organizzativa che fornisce la base costitutiva della nostra capacità di
elaborare, ma è un processo teso a fornire ad esso una serie di correttivi (sia
nella rappresentazione interna sia nella “griglia” di scansione). E’ la
capacità del metabolismo emancipato di modificare se stesso (come un
atleta). Ovviamente la struttura organizzata fornisce la “forma”
dell’intelligenza, così come essa fornisce la forma di “vita”. L’intelligenza,
così come la struttura auto-organizzante (passiva e tendente all’omeostasi),
essendo di origine metabolica, possono essere performate. L’intelligenza si
esprime in termini mentali al massimo grado con la plasticità del “forse”,
cioè nella struttura auto-organizzata (che tendere a lungo andare alla
rigidità) con legami concettuali non rigidamente esclusivi (possibilismo).
Inizialmente la struttura plastica della mente aiuta l’intelligenza ad
esprimersi (Dewey sostenne che esistono età in cui non possiamo fare a
meno di essere intelligenti), poi l’intelligenza (performata) aiuta la struttura
a rimanere plastica. Essendo un processo e dipendendo da una matrice
performata di origine metabolica su cui solamente agisce, la misurazione

Università degli Studi di Genova                                        Pag. IV
– Introduzione –


dell’intelligenza deve adeguarsi all’oggetto, sia eliminando le distorsioni al
giudizio provocate dalla struttura auto-organizzata (performata) sia
adeguando la scala di valutazione, passando da un valore scalare ad uno
vettoriale o ad una descrizione, sulla falsa riga delle descrizioni delle onde
elettromagnetiche, sottoforma di funzione.




Università degli Studi di Genova                                       Pag. V
L’intelligenza
   biologica
–L’intelligenza biologica–




Quando raccolsi le idee ed i testi sui quali si sarebbe successivamente
sviluppata questa tesi, mi ritrovai tra le mani un libro [Linguaggio e
Apprendimento, a cura di M. Piattelli Palmarini, 1991 (1979)], precisamente
il resoconto del dibattito svolto nel 1975 presso l’Abbazia di Royaumont tra i
sostenitori dell’epistemologia genetica di Piaget e della linguistica
generativa di Chomsky.
Nonostante gli argomenti fossero il linguaggio e l’apprendimento, i concetti
utilizzati si fondavano (e scontravano) su una retrostante facoltà cognitiva,
che in alcuni casi è definita esplicitamente come intelligenza.
Uno dei piani di maggior scontro fu il problema dell’innatismo. Entrambi gli
esponenti condividevano l’assunto dell’esistenza di uno stato iniziale S0, ma
non concordavano sull’estensione e sulla carica deterministica dello stesso.
Capii che dovevo iniziare dalla “base”, da ciò che ci costituisce e
dall’intelligenza biologica.


L’innatismo.
Come afferma Annette Karmiloff-Smith [1992], gli innatisti sostengono che
lo sviluppo percorre un cammino invariato, per il semplice fatto che tutti i
bambini normali iniziano la loro vita dotati delle stesse strutture innate,
mentre il ruolo dell’ambiente si riduce a quello dell’innesco.
Una simile affermazione non lascerebbe molto soddisfatti tutti gli innatisti,
ma grossomodo ne riassume l’effettiva posizione.
In effetti, si parte da posizioni un po’ troppo confuse nel parlare di ciò che è
innato: la biologia insegna molto sull’argomento.
Il primo passo è determinare su cosa e quanto influisca, nell’organismo, il
portatore d’informazione1, a cui è affidata la formazione e l’ereditabilità
delle strutture.
Se affermassi che Roberto ha una tendenza genetica ad essere grasso, molti
si stupirebbero nel vedere una persona fisicamente proporzionata.
In realtà Roberto potrebbe aver seguito una dieta, o comunque un regime
alimentare controllato, data la sua tendenza al sovrappeso, oppure, per
trovar rimedio ad una obesità perniciosa, essersi sottoposto alla riduzione
dello stomaco, come potrebbe essere reduce da una grave malattia.
E’ chiaro che di fronte a tali forze esterne la determinazione genetica può
poco.In effetti, i geni determinano le tendenze solamente a parità di

1
 Il portatore di informazione è tutto ciò che può contenere, trasportare ed essere informazione. Nel caso
dell’organismo “moderno” il portatore d’informazione per eccellenza è il DNA. Dawkins ha estremizzato
questa posizione, affermando che l’informazione è una forma di vita, sia esso DNA sia esso “concetto”
(memi). In linea di principio tutto può essere un P. di I., anche lo spin [G. Spinelli] di un elettrone.


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–L’intelligenza biologica–


condizioni, cioè se gli ambienti influiscono sugli organismi di differenti
genotipi allo stesso modo.
Si potrebbe obbiettare che il gene dell’obesità abbia agito su Roberto
comunque, in quanto sia la dieta drastica sia la malattia avrebbero avuto
effetti più marcati su chi non avesse il medesimo genotipo (forse letali).
In altre parole, il fenotipo del normopeso è pesantemente condizionato dal
portatore d’informazione, perché ha reso Roberto in grado di vivere con
poche calorie (norma di reazione).
Insomma, è proprio vero che l’abito non fa il monaco!
Esiste qualcosa che subisca la minima influenza dal genoma e che sia, al
pari di quest’ultimo, sostanziale e determinante per la vita dell’organismo?
Si provi a rispondere alla seguente domanda:
il punto in cui ogni capello nasce è geneticamente determinato?
Il nostro corredo genetico non sarebbe abbastanza amplio per contenere
tutte le informazioni, considerando che parte di esso è ridondante.
Siamo entrati nel mondo del congenito e ci siamo appena scontrati con il
“rumore” dello sviluppo, che, dopo genotipo e ambiente, è la terza causa che
contribuisce alla variazione tra gli individui della stessa specie.
Quest’ultima è la più interessante ai fini del nostro argomento, poiché ”le
interconnessioni che si stabiliscono nel cervello tra i miliardi di neuroni nel
corso dello sviluppo non possono probabilmente essere specificati nei
dettagli dal genotipo anche in un ambiente prefissato; il rumore dello
sviluppo deve svolgere una funzione, forse considerevole nella formazione
del cervello” [Lewontin, 1982].
Il rumore della crescita è un fenomeno che si può facilmente osservare nei
moscerini della frutta del genere Drosophila coltivati in vitro: il numero di
setole sternopleurali è dieci da una parte ma sei dall’altra, pur essendo i due
lati geneticamente identici; inoltre il moscerino ha sviluppato le setole allo
stadio di pupa, cioè quando aderiva perfettamente con il ventre al recipiente
di vetro (quindi stesso ambiente).
Il moscerino è asimmetrico per eventi casuali; citando un genetista
competente come Richard Lewontin [1982], “la formazione di una setola
dipende dalla presenza di una cellula specifica in un determinato momento
nello strato epidermico, dal ritmo e dal numero delle divisioni cellulari delle
cellule primordiali produttrici di setole e dalla migrazione delle cellule figlie
nel giusto strato dell’epidermide; piccole variazioni nella concentrazione e
nella localizzazione delle molecole all’interno delle cellule creeranno
variazioni casuali nel numero delle cellule produttrici di setole che si
trovano al posto giusto nel momento giusto”.
E’ chiaro che la formazione di strutture anatomiche così semplici consiste,
all’opposto, in operazioni complesse, troppo complesse per una rigida
codificazione da parte del genoma, che dovrebbe sprecare lunghissime
stringhe d’informazioni per stabilire particolari non sempre vitali. Ecco
spiegata la precedente affermazione riguardante le connessioni neurali. In
effetti, l’espediente dettato dall’evoluzione sembrerebbe consistere in una
sovrapproduzione di neuroni, dapprima guidati nei loci appropriati da
attrattori chimici, poi l’eccesso di neuroni e di connessioni verrebbe


Università degli Studi di Genova                                         Pag. 4
–L’intelligenza biologica–


eliminato, principalmente negli ultimi mesi di vita intrauteina e nelle prime
settimane di vita, ma prosegue fino all’adolescenza, a vantaggio di una
progressiva riorganizzazione [Kostovic, 1990] delle strutture celebrali, cioè
quando l’ambiente comincia a lasciare la propria impronta.
Di converso si sta valutando la possibilità che l’ambiente stimoli la
produzione di neuroni, anche in età adulta.
Non è tutto!
L’ambiente può modificare un organismo prima della sua nascita, quindi
tutti non nascono dotati delle stesse strutture, anche se avessero il
medesimo genoma, come nei cloni (escludo i gemelli omozigoti poiché
condividono grossomodo lo stesso ambiente). Per esempio, nel moscerino
della frutta la dimensione degli occhi, dipendente dal numero degli
ommatidi, varia in funzione della temperatura alla quale si svolge lo
sviluppo. Due varietà mutanti hanno un comportamento opposto nella
formazione degli ommatidi, il mutante infrabar con l’aumentare della
temperatura aumenta il numero degli ommatidi, il mutante ultrabar invece
riduce il numero degli stessi, ma ad una certa temperatura il fenotipo dei
due tipi di moscerini è identico.
La conoscenza dell’interazioni biologiche non è utile esclusivamente per
formulare modelli plausibili, ma anche per evitare false piste.
Lewontin [1982] nota, nel suo libro “La Diversità Umana”, come
abitualmente si tenda a categorizzare in modo errato e come ciò si
ripercuote sulla stessa divulgazione della biologia (e soprattutto della
genetica). Quando parliamo di donne esprimiamo concetti del tipo “le donne
sono meno forti degli uomini” o “sono meno alte” (e altri tipi d’asserti che è
meglio evitare, per quanto siano a tutti gli effetti compresi nella conclusione
che seguirà). A questo punto invito il lettore a rispondere alla domanda
posta sotto le seguenti fotografie:




Weifang Tang,Cina, 83Kg,                        Lea Foreman , U.S.A. Team, 69Kg.
miglior prestazione mondiale 1997.



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–L’intelligenza biologica–




Khadja Hunter, U.S.A. Team, 69Kg                    Tara Nott, U.S.A. Team, 48Kg



Quanti, tra i lettori di questa tesi, sono più forti di queste donne?


Dubito che molti possano aver risposto affermativamente; dunque le donne
sono più forti degli uomini?
Dovremmo dire correttamente che la maggior parte delle donne è meno forte
degli uomini, così come nel campo della fisiologia è più sensato dire che la
massa muscolare nel corpo femminile è nella maggior parte dei casi intorno
al 20% del peso corporeo (negli uomini 40%).
Insomma se dovessero proprio esserci delle determinazioni genetiche a
riguardo, occorrerebbe tener conto della norma di reazione, e badare di non
esprimere giudizi “assoluti”. Lewontin è propenso ad affermare che simili
disparità siano frutto di determinanti sociali, che costringono la donna a
lavori meno pesanti o a giochi più calmi; personalmente trovo che i minatori
siano (in media) comunque più forti delle minatrici.
Ma Lewontin [1982] non si ferma qui, nella sua crociata contro le
discriminazioni e le cattive lezioni. L’intelligenza è uno dei suoi argomenti
preferiti.
L’ereditarietà dei caratteri mentali è uno degli argomenti più seducenti
nella ricerca genetica, per quanto non sia (ancora) possibile uno studio
rigoroso su tali determinanze.



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–L’intelligenza biologica–


Gli studi sulle adozioni, per quanto fallimentari, mostrarono un dato
sorprendente (e sorprendentemente poco commentato da coloro che sono
interessati a mostrare gli effetti genetici): l’adozione fa aumentare in modo
significativo il QI dei figli.
Un appunto su ciò che sono i test per determinare il QI: i test d’intelligenza
originali (nell’ambiente anglo-americano) furono messi a punto su giudizi “a
priori” di insegnanti e psicologi su chi era o non era intelligente, nonché
risentivano di stereotipi sociali [comparivano domande come “chi è più
carina” su figure che ritraevano una bimba con caratteri negroidi e una con
caratteri tipicamente europei e l’aspetto d’una bambola (provate ad
immaginare qual era la risposta giusta) ].
Insomma l’intelligenza, così come la misuriamo, è fenotipica. Il fenotipo -
come lo definisce il Lewontin - consiste in tutti gli aspetti, compresi
morfologia, fisiologia e comportamento, in un particolare momento
dell’esistenza, non è ereditabile e si sviluppa nel corso dell’esistenza in parte
(ma solo in parte) come conseguenza del genotipo.
Due gemelli geneticamente identici (monozigoti) non sarebbero
fenotipicamente (metabolicamente) tali se fossero cresciuti uno in quota
compiendo lavori pesanti, l’altro al livello del mare senza aver compiuto
attività fisiche rilevanti
L’autore ci mette in guardia a proposito su tre errori tipici:
    1. I geni determinano il fenotipo (vedi sopra).
    2. I geni determinano le capacità (si limitano ad avvantaggiare lo
       sviluppo rispetto ad un tipo d’ambiente).
    3. I geni determinano le tendenze (vedi quanto detto sulla supposta
       pinguetudine di Roberto).


L’ereditarietà fenotipica.
In “Linguaggio e Apprendimento” [1979] Piaget, più che di fenotipo, parla di
fenocopia, in virtù di trasferimenti di strutture tra organismo e ambiente.
Per Piaget [1975] esiste la possibilità che un fenotipo possa trasformarsi in
un genotipo con un meccanismo d’imitazione (all’inizio) -sostituzione (effetto
a lungo termine).
Ovviamente una simile affermazione non fu accettata dai biologi presenti al
dibattito. Fu accusata d’essere lamarckiana, in realtà era un tentativo di
mediazione tra la teoria di Darwin e di Lamarck.
Purtroppo la critica fu marcatamente darwiniana, non darwinista.
Con darwiniano intendo quel taglio interpretativo della teoria in cui:
l’evoluzione è un processo che tende progressivamente e senza inversioni di
rotta alla miglior soluzione possibile; l’uomo occupa il posto più alto della
gerarchia evolutiva; il supporto dato dalla moderna genetica è fonte e
giustificazione della stessa.
Con darwinista intendo l’interpretazione della teoria così com’è, compreso il
debole lamarckismo, il caso (anticipando in certi casi la teoria
dell’esattamento di Stephen Jay Gould [1991]), la filiazione, la competizione



Università degli Studi di Genova                                         Pag. 7
–L’intelligenza biologica–


e il compromesso della miglior soluzione attuabile2, in cui non esiste una
vera e propria gerarchia e l’uomo non è l’animale più evoluto (rispetto alla
filogenesi sono le oche!).
Darwin stesso generò tale fraintendimento, soprattutto nei confronti della
superiorità “elettiva” dell’uomo (confrontate la conclusione di “L’origine delle
specie” con il resto del testo), al fine di rendere meno indigesta la propria
teoria; il clima culturale di quei tempi fece il resto.
Riguardo al debole lamarckismo, Darwin ammette che alcune modificazioni
morfologico-funzionali possano derivare dall’uso-non uso, per cui le orecchie
pendule degli ovini inglesi (fenotipiche) sono il risultato della tranquillità
dovuta alla mancanza di predatori, condizione tipica dell’allevamento.
Sono modificazioni non ereditabili, ma rese comuni alle varie generazioni
dall’invariabilità delle sopradescritte condizioni ambientali. Ovviamente
l’autore non nega che a lungo andare la futilità di un apparato, soprattutto
se crea svantaggio, favorisca la soppressione o la riduzione ai minimi
termini dello stesso (come le zampe dell’orbetta, che sono geneticamente
determinate).
Per ciò che riguarda l’intelligenza, lo svantaggio potrebbe consistere nella
difficoltà ad imparare un buon trucco.
L’Effetto Baldwin [Richards, 1987; Schull, 1990; Dennet, 1991] consiste
nella pressione selettiva causata da un “Buon Trucco”, che avvantaggia
sensibilmente chi lo scopre o chi può apprenderlo perché si trova in
prossimità dello spazio progettuale.
Un’importante conseguenza dell’Effetto Baldwin è che le specie dotate di
plasticità tenderanno ad evolvere più velocemente.
L’esplorazione fenotipica che porta alla scoperta e all’acquisizione del buon
trucco non è ereditabile (appunto: è fenotipica), ma la spinta selettiva che
comporta produrrà, chiamiamoli così, specie plastiche (plasticità come
caratteristica ereditaria), potenzialmente capaci non solo di scoprire,
riconoscere ed “aggrapparsi” al buon trucco, ma anche di poterlo apprendere
e di poterne apprendere ulteriori, magari cercandoli in altre aree
progettuali.
Ad esempio, se il linguaggio è una capacità avvantaggiante, la capacità ad
apprenderlo bene (o meglio degli altri) porterà, in ambiente favorevole al suo
sviluppo, a maggiori possibilità di sopravvivenza-riproduzione (sia la gente
comune sia un testo antico come il Kamasutra di Vatsyayana riconoscono a
chi sa conversare bene ed è abile nel narrare storie maggiori possibilità di
successo con le donne).
E’ una visione abbastanza prossima sia al debole lamarckismo citato prima
sia alla teoria di Piaget.



2
 La β-talassemia, ad esempio, non consiste certamente in un miglioramento: i soggetti malati hanno
deficit organici o, nei casi più gravi, rischiano la morte, ma i portatori sani, cioè le persone in cui la
malattia si manifesta con intensità piuttosto modesta, traggono vantaggio da un sangue “debole”, poiché il
plasmodio della malaria non trova l’ambiente ideale per vivere e riprodursi, pur mostrando comunque
svantaggi nelle prestazioni fisiche rispetto alle persone sane.


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–L’intelligenza biologica–


Scoprire, aggrapparsi, riconoscere ed imparare nuovi “trucchi” sono (sembra
incredibile!) buona parte delle caratteristiche con cui noi denotiamo
l’intelligenza.
Questa plasticità è, però, in contrasto con la rigida codificazione del genoma,
infatti, è stata definita fenotipica. Allora a cosa è dovuto il potere plastico?
Tra genoma ed ambiente si frappone come filtro dinamico il metabolismo.
Sino a questo punto ho espresso un punto di vista legato maggiormente alle
opinioni dei genetisti, che, per quanto possano essere contro corrente
rispetto al paradigma dominante (o dovrei dire “di moda”), sistematicamente
ignorano il potenziale autonomo del metabolismo.
In Piaget, per quanto si possano trovare accenni alla dimensione chimica,
biologica o fisica, prevale il dinamismo psicologico. Vorrei, comunque, far
notare come molti dei suoi concetti siano ben più che mutuati dalla biologia
(Piaget “nasce” biologo), direi che sono modelli funzionali tanto psicologici
quanto organici.
La ricerca dell’equilibrio tra assimilazione ed accomodamento è il processo
dinamico del metabolismo!
L’intelligenza allora è UNA FUNZIONE METABOLICA?
Potrebbe essere un’ipotesi valida, ma per controllarla occorrerà un lungo
viaggio nel tempo, sino all’origine della vita come la conosciamo noi.


Le origini dell’organismo.
L’organismo in realtà è composto di due parti distinte, il genoma ed il
metabolismo.
Biologia, biochimica, fisica, geologia, meteorologia, cosmologia e
paleoclimatologia hanno permesso di raccogliere sufficienti dati per
affermare con un buon margine di certezza tale bipartizione. Si è giunti ben
oltre: il portatore d’informazione (in questo caso l’RNA, non il più gettonato
[sic!] DNA, che invece è una forma già più evoluta) interagì con i metaboliti
come un parassita.
“La separazione fra organismo e genoma si può seguire fino alle più lontane
radici, e che sia insorta nel senso esposto da Lynn Margulis oppure che la
vita debba il suo manifestarsi – come sostengono Freeman Dyson e altri –
alla combinazione di «metaboliti» e «portatori d’informazioni»
originariamente distinti, è ormai questione di rilevanza secondaria per
l’interpretazione del processo dell’evoluzione. Importante è appunto che la
bipartizione di metabolismo e genoma si possa effettivamente far risalire
alle più lontane scaturigini della vita, perché questo ne fa un principio di
rilevanza assoluta”[ Reichholf, 1992].
Una delle teorie più discusse è la serie di argomentazioni denominata “ le
sette chiavi” di Graham Cairns-Smith [1985].
La prima chiave proviene dalla biologia: l’informazione genetica è l’unico
elemento capace d’evoluzione (biologica) perché è trasmesso di generazione
in generazione. Benché contenuta nel DNA, l’informazione genetica non è
una sostanza, ma un’istruzione per formare delle strutture. La seconda
chiave viene dalla biochimica: il portatore dell’informazione genetica, il


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–L’intelligenza biologica–


DNA, non fa parte delle componenti essenziali dell’evento metabolico nelle
cellule. Cairns-Smith ha derivato la terza chiave dai primordi
dell’architettura. Un arco di pietre massicce non si costituisce da sé, né lo si
può erigere accostando pietra a pietra. Fino a quando manca l’elemento
centrale – la chiave di volta – continua a crollare. Per costruirlo si colma
inizialmente lo spazio – che risulterà in seguito vuoto – sotto l’arco, così che
le pietre possano poggiare su un sostrato fino al momento in cui è inserita
l’ultima e l’arco può reggersi da sé. È possibile che strutture complesse
siano insorte così anche in ambito biochimico. Gli enzimi, in linea di
principio, operano in questo modo: si prestano da supporti senza modificare
se stessi, o semmai solo per breve tempo, per tornare poi di nuovo nello
stato di partenza.
La quarta chiave assume come modello le funi. L’informazione genetica è
ordinata nel DNA non solo a mo’ di scala di corda, ma è anche avvolta su se
stessa simile a una spirale (doppia elica). Come in una fune non occorre che
le singole fibre percorrano tutta la corda per garantirne la saldezza, così nel
DNA la funzionalità permane anche quando si aggiungono nuovi pezzi o fili,
oppure quando mancano o spariscono delle parti. Nessun filamento di DNA
deve essere rimasto integro dall’inizio fino a oggi. La torsione provvede
affinché insorgano continuamente nuovi raccordi e conduzioni.
La quinta chiave corrisponde al cambio di funzione. Citando l’autore: “Come
nella storia della tecnica ogni nuova macchina è basata su una più semplice,
spesso nemmeno più riconoscibile o quasi nella nuova in cui è stata
ottimizzata, è possibile che anche nelle forme di vita gli elementi iniziali
scompaiano abbastanza presto, quasi senza lasciare traccia, mentre
s’impone il loro principio funzionale che si manifesta ulteriormente nonché
variamente sviluppato. Forse non abbiamo quindi più modo alcuno per
risalire agli antesignani primitivi degli organismi”. Questo concorda con
quanto afferma il Reichholf [1992]: “Le grandi e nuove svolte si verificano
evidentemente, di norma, con rapidità [perciò i missing link sono
irrimediabilmente persi]. Quel che richiede tempo (e appare documentato
dai reperti fossili) sono i perfezionamenti del lungo periodo” (ma si veda
l’opinione di Charles Darwin sulla imperfezione delle memorie geologiche
[“L’origine delle specie”; Cap. IX]).
La sesta chiave s’ispira alla formazione dei cristalli. I cristalli si
costruiscono da sé. A volte insorgono degli errori a causa dell’inserimento di
un atomo sbagliato nella struttura cristallina.
I computer si avvalgono di cristalli “drogati” per manipolare il flusso degli
elettroni; nel berillio, per esempio, tracce di cromo colorano di verde il
silicato, oppure minime quantità di ferro conferiscono alla stessa pietra
preziosa un colore azzurro. I silicati sono sotto questo profilo addirittura
ideali, perché la struttura dell’ossido di silicato d’alluminio contiene molti
posti liberi che possono essere occupati altrimenti, a patto che l’atomo si
adatti alla carica senza che la struttura di base ne sia danneggiata o
addirittura distrutta. Da qui deriva l’attitudine all’auto-organizzazione.
Da ciò deriva la settima e ultima chiave: i minerali argillosi. Sono presenti
ovunque sulla terra. I loro microcristalli crescono e si dissolvono ai minimi


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cambiamenti delle condizioni esterne. Le catene e i filamenti di silicati di
alluminio nell’argilla, che possono combinarsi anche in strutture piane
senza che ne risultino legami troppo forti, costituiscono una matrice ideale.
Combinandosi con loro è possibile che si siano formate e consolidate le
strutture che hanno portato ai primi, semplici veicoli d’informazioni.

Il modello appena descritto non è privo di difetti soprattutto sui meccanismi
che avrebbero permesso di unire portatori d’informazione e metaboliti.
E’ straordinario costatare come la durata della vita sia determinata dal
portatore d’informazione (che di per se è immortale): esso può uccidere la
cellula, costringendo il “metabolismo” (anch’esso immortale nella sua forma
primigenia) a produrre prodotti insufficienti o tossici per la cellula stessa,
ma può anche allungarne la vita, producendo enzimi appositi come la
telomerasi. Se questo gene preposto alla morte programmata della cellula
non intervenisse, la parte metabolica sarebbe in grado di allungarci la vita
[va costatato, però, che i prodotti genetici come la telomerasi allungano la
vita delle singole cellule, ma tal enzima è particolarmente attivo nelle
cellule cancerose, quindi la morte programmata ha la funzione di
preservare il complesso multicellulare, cioè di conservare, in questo, intatto
il patrimonio dell’“informazione” genica].
Freeman Dyson [1988] e Lynn Margulis [1970, 1981] hanno formulato due
teorie che permettono di sopperire alle mancanze riscontrate nelle
precedenti constatazioni. Freeman Dyson [1988] parte dal presupposto
fondamentale che metabolismo e portatori d’informazione siano insorti
indipendentemente l’uno dagli altri. Poi si sarebbe verificato un take-over,
quindi si sono associati in una specie di simbiosi. Le microsfere non sono
portatrici d’informazione; si possono formare autonomamente senza aver
bisogno delle istruzioni di un “data base” come quello insito nel genoma; la
loro crescita e la moltiplicazione-riproduzione per esplosione dipendono solo
da come e quanto sia possibile usufruire degli elementi costitutivi
fondamentali presenti nel brodo primordiale; la loro crescita è simile a
quella dei cristalli d’argilla nel fango umido. Esse rispondono esattamente
alle condizioni postulate per un take-over: hanno un metabolismo semplice e
possono procedere – attraverso l’involucro solo parzialmente permeabile – a
una separazione fra sostanze utili (e cioè impiegabili nel metabolismo) e
inutili; però non dispongono di portatori di in formazioni che possano
controllare l’evento al di là delle reazioni chimiche.
Sulle origini del portatore d’informazione si formulano due ipotesi:
    • L’origine extraterrestre; il portatore d’informazione si sarebbe
       formato nello spazio, poi cadde sulla Terra, portato da meteoriti o
       dalla scia delle comete [il DNA resiste molto bene alle bassissime
       temperature, ma è passibile di disgregazione termica].
    • L’origine terrestre.
Lynn Margulis [1970, 1981], a differenza di Dyson, parte dalla
constatazione che gli elementi costitutivi dell’informazione genetica sono
chimicamente molto simili ad una molecola che svolge nel processo del
metabolismo della cellula una singolare funzione. Si tratta


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dell’adenosintrifosfato (la sigla chimica è ATP), un composto molto ricco di
adenosina e di fosfati. L’ATP è stato molto esattamente definito la «valuta
energetica della cellula». Partecipa alla maggior parte delle più importanti
trasformazioni d’energia nella cellula. La produzione o l’acquisizione di ATP
fanno dunque parte delle esigenze fondamentali della cellula vivente.
Lynn Margulis ritiene che “le eccedenze nel metabolismo di ATP si
sarebbero legate in tratti inizialmente brevi di catene di DNA, i quali
avrebbero influito sul metabolismo come degli agenti patogeni. Similmente
a ciò che avviene oggi nel momento dell’insorgere di malattie prodotte da
virus, vi sarebbe stata una massiccia reazione di difesa da parte del
metabolismo, che avrebbe saldato i piccoli e mobili tratti di DNA in unità
maggiori, le quali si sarebbero a questo punto moltiplicate meno
aggressivamente, tanto da assomigliare ora più a una specie di parassiti.
Questi sarebbero infine diventati simbionti: un processo che si può
osservare in una moltitudine di forme del regno degli organismi.
L’informazione genetica sarebbe dunque insorta negli esseri viventi come una
malattia alla quale l’organismo si sarebbe opposto con crescente successo
(corsivo mio). Il comportamento dei virus e di altri simili portatori di «geni
nudi» fornisce argomenti a favore di questa teoria, la quale spiega tuttavia
in modo meno persuasivo il costituirsi dell’informazione ereditaria in sé. I
relativi, necessari mattoni costitutivi presuppongono l’esistenza dei prodotti
di scarto di una cellula che, per essere capace di fornirli, doveva essere già
alquanto progredita e avanzata in fatto di metabolismo. Se le cose sono
andate così, allora andrebbe sicuramente attribuito alla componente
rappresentata dall’organismo il merito o il privilegio di aver avviato la vita.
L’apparato genetico sarebbe allora solo un prodotto tardo e proprio
dell’evoluzione della cellula”.
E’ possibile che il portatore di informazione sia stato un parassita, tanto più
che nelle cellule più antiche era libero all’interno della cellula, cioè non era
confinato nel nucleo, sebbene di un tipo molto particolare. Egual sorte
ipoteticamente sarebbe toccata ai mitocondri, che sono a tutti gli effetti le
nostre centrali energetiche.
Il DNA nudo può esistere, ma è inerme, solo potenzialmente vivo,
effettivamente tale esclusivamente grazie al metabolita.
Le modificazioni che il DNA apporta al metabolita che lo ospita sono
notevoli. Oggi non è possibile distinguere nella vita di una cellula un’attività
metabolica da quella genetica (anzi sull’onda dell’euforia generata dalle
nuove scoperte sui geni si tende a genetizzare ogni aspetto della vita).
Il metabolismo non solo è l’élan vital del portatore d’informazione, ma
sopperisce a tutte quelle parti a cui manca un’istruzione specifica
E’ un piccolo mondo, come una serra in cui hanno trovato un utile riparo
altre forme vitali (infatti si suppone che mitocondri e cloroplasti siano state
cellule non digerite, poi divenute simbiotiche; tale collaborazione ha portato
un tale vantaggio che ha surclassato tutte le altre alternative).
All’interno di esso il portatore d’informazione ha potuto evolversi, da poche
catene di nucleotidi a RNA, da RNA a DNA, dalla forma A a quella B e a
molte altre.


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Nel frattempo venne privilegiata la capacità di interagire con il metabolismo
in modo da rendere l’ospitante più adatto delle altre alternative
contemporanee, e, sfruttando la tendenza parassita a riprodursi, rese tali
acquisizioni trasmissibili.
Abbracciando l’ipotesi del parassitismo dobbiamo notare che i vantaggi
portati al metabolita servirono al portatore di informazione per aumentare
le proprie possibilità di sopravvivere e riprodursi.
Con gli organismi pluricellulari l’apporto del DNA permise la formazione di
apparati diversificati, tra loro interagenti.
Ovviamente esiste un limite a ciò che può essere codificato, perciò le cellule
che non erano in grado di sfruttare la plasticità tipicamente metabolica a
scapito d’una rigida codificazione, furono soppresse dalle rapide variazioni
dell’ambiente.
Immaginate cosa accadrebbe se il nostro organismo fosse un sistema rigido:
le nostre prestazioni non sarebbero né incrementabili né diversificabili (ad
esempio chi ha il gene del “ciclista” non sarebbe mai un buon tennista;
fortunatamente conosco degli ottimi “passisti veloci”-tennisti).
La febbre,ad esempio, non è altro che un incremento della temperatura
sfruttato per velocizzare le reazioni chimiche (ma quando la temperatura
diviene eccessiva le reazioni sono abnormi e perciò dannose) di natura
prevalentemente metabolica.
Lasciando le ulteriori implicazioni a dopo, possiamo dire d’essere arrivati al
punto.
Sfruttando la definizione classica d’intelligenza [abilità di orientarsi,
modellare e controllare l’ambiente], dobbiamo concludere che il potenziale
richiesto per simili attività non può essere altro che metabolico, tanto più
che il vaglio delle strategie (vedi “modellare”) e le strategie stesse non sono
ereditabili.
L’intelligenza permette all’essere vivente di adattare nel miglior modo
possibile o sé all’ambiente o l’ambiente a sé (modificando lo stesso).
Se un uomo sente freddo ha di fronte due strategie: coprirsi o accendere il
riscaldamento (o la stufa o improvvisare un falò).
E’ un’attività multiforme, incompatibile con la rigida strutturazione dei
geni, rigidità che è, invece, tipica dell’istinto.
Per tornare alle teorie di Piaget, l’intelligenza è un equilibrio tra
assimilazione (che vedremo in seguito) ed accomodamento, tra ciò che è fuori
e ciò che è dentro il soggetto. Tutto questo ricorda l’attività del metabolismo?
Occorre, e non sarà mai sufficiente, ricordare che l’organismo attuale non
possiede una netta separazione tra gli effetti dei geni e quelli del
metabolismo, ma si possono isolare soltanto aspetti in cui v’è una
prevalenza dell’uno sull’altro. E’ innegabile la prevalente attività dei geni
nello stimolare e impostare le strutture, ed è facilmente concepibile quante
ripercussioni possa avere un ordine sbagliato derivato da un “codice”
alterato. L’Otx2 è il gene che progetta il cervello; la Calponina H3, dopo aver
ricevuto dall’Otx2 l’ordine di costruire il cervello tiene ferme le cellule
(primitive) della testa perché si trovano già nel posto giusto, decidendo così
quali diverranno cervello e quali il resto del sistema nervoso.[Edoardo


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Boncinelli,1999]. Lo stesso gruppo ha isolato il gene che dà l’impulso alla
formazione (o meglio alla separazione) della testa e degli arti. Pochi mesi fa
è stato scoperta la sequenza DNA che regola la separazione dell’interno
della vena cava del petto in quattro parti, che diverranno poi i due atri e i
due ventricoli del cuore. Un cromosoma 21 in eccesso provoca ritardi
mentali. Ciò non inficia quanto detto all’inizio circa l’influsso dei geni sugli
individui, ma sottolinea con franchezza come la spinta di partenza abbia la
sua importanza per tutte le acquisizioni successive. Dopo aver lanciato una
pietra, nessuno ha più il potere di controllarla; il bersaglio verrà raggiunto
solamente se la spinta iniziale è stata buona, pur avendo subito, nel suo
percorso, tutti gli effetti che prevede la fisica!
Ma l’organismo non è una pietra e la spinta iniziale non è tutto.
Robert Plomin [1998, 1999]ha individuato, confrontando il corredo genetico
di 300 bambini selezionati dai test di ammissione di alcune scuole dello
Iowa, un tratto di DNA (Igf2r) che si trova più spesso nei bambini ritenuti
dotati di un Q.I. nettamente superiore alla media3.
E’ riconosciuto che chi mostra buone attitudini intellettive di base, se non si
mantiene mentalmente attivo peggiora sensibilmente, non è sufficiente
l’Igf2r.
Non si può pretendere d'esser pronti quando il senso della nostra vita è
esclusivamente il Sabato sera o la Soap opera preferita.
L’intelligenza è un “muscolo” che bisogna tener allenato. Se qualcuno avesse
il gene Schwarzenegger, ma fosse stato ingessato dall’infanzia all’età
matura, sembrerebbe Johnny Winter (che non è muscoloso, ma è uno dei
migliori chitarristi sulla scena mondiale).
Probabilmente anni di riabilitazione non sortirebbero alcun effetto visibile,
cioè una volta che il fisico si è formato in modo così svantaggiato a nulla
serve l’ipotetico gene Schwarzenegger.
Il metabolismo ha raggiunto un equilibrio (dinamico) funzionale e non
risente più delle spinte programmate dei geni. Ovviamente si può barare
somministrando alcune sostanze tristemente note nello sport (i cui effetti
realmente dopanti talvolta sono dubbi).
Per spiegare l’interazione tra geni e metabolismo nella genesi
dell’intelligenza biologica, mi riferirò alla teoria (forse è più adatta la
definizione di “rilettura”) della parassitosi desossiribonucleica e dei suoi
effetti sulla vita (e sul comportamento), teoria che da ora in poi chiamerò
BAO4.

Origini dell’intelligenza metabolica.

3
  Identificare un gene dell’intelligenza non significa affermare che l’intelligenza sia di origine genetica. I
geni non sempre “impongono” nella spinta iniziale, ma possono anche “lasciare delle porte aperte”, cioè
possono esistere dei GENI DI NON INTERVENTO.
4
  BAO è sia l’accostamento di B, riferito alla forma di DNA più diffusa, di A, forma del RNA e del DNA
primitivo, e di O, inteso come assenza di materiale genico, riferito al metabolismo, sia l’acronimo di
Became And Order, cioè diventa e comanda, riferito al particolare tipo di parassitosi-simbiosi, sia un
riferimento a Behaviour Organic Analysis .
Inoltre parlandone con un amico appassionato di fumetti mi è stata fatta notare una vaga somiglianza con
un Manga, che appunto si chiamava Baoh!


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–L’intelligenza biologica–


Innatisti, piagettiani, freudiani, ercksoniani, e altri concordano
sull’esistenza di uno sviluppo programmato stadiale, con caratteristiche
diffuse e specifiche.
La teoria di Freud è “istintualistica”, nel senso che le pulsioni o “spinte
originarie” sono elementi irrazionali o disposizioni psicologiche innate,
propulsive e relativamente indeterminate.
Si differenziano dagli istinti propriamente detti perché non sono performati
nel loro svolgimento e adatti all'oggetto, ma tendono a ridurre uno stato di
tensione interiore, con modalità non rigidamente predeterminate.
Le pulsioni sono comuni a tutti gli uomini e nelle età dello sviluppo
assumono connotati stadiali.
La spinta endogena legata alla riproduzione-sostentamento, nell’accezione
del primo Freud, può essere un programma genetico?
 Non è un’affermazione sorprendente dichiarare che alcuni nostri
atteggiamenti siano programmati ed ereditati, genetici.
Appena nati abbiamo un corredo d’istinti, detti riflessi (di complessità
diversa), a cui affidiamo la nostra sopravvivenza (o perlomeno la affidavamo
in tempi remoti): il grasping della mano e del piede, lo stepping, il placing, il
rooting, la suzione, la reazione di difesa, il riflesso di Moro, il riflesso di
Galant, il riflesso d’orientamento.
Alcuni sono vitali come la suzione (raramente i bambini nascono senza
questo riflesso, altrimenti sarebbero destinati a morire), altri fanno parte
del complesso di monitoraggio teso alla richiesta d’aiuto (al genitore o a chi
si prende cura di lui). Dalle mie esperienze con i neonati e i bambini in età
prescolare, ho costatato che l’infante identifica più di una figura a cui
affidarsi, ma in linea gerarchica. Questa fiducia è un atteggiamento istintivo
ed è tanto più sviluppata quanto più la presenza delle figure parentali non è
esaustiva.
Non è fattore legato al tempo che i genitori passano o no con il figlio, ma alle
caratteristiche. Una cosa singolare mi capitò a proposito di un bambino di
circa un anno, figlio di amici: un paio di volte gli accomodai il giocattolo
rotto, improvvisamente acquistò l’abitudine di attirare la mia attenzione
ogni volta che gli si rompeva un giocattolo o se, nonostante gli sforzi della
madre, non riusciva a recuperarlo (specie le palline).
Ero diventato il suo “tecnico di fiducia”. Lo stesso bambino, che solitamente
mi salutava festosamente, al ritorno da lunghe ferie con i genitori manifestò
nei miei confronti la classica reazione verso l’estraneo. Pensai che si fosse
dimenticato di me, perciò gli chiesi chi fossi. Sorpresa: sapeva perfettamente
chi ero! Il bambino, avendo cambiato ambiente, non riconobbe più la mia
funzione all’interno della sua personale società. Reintegrato nel suo mondo
abituale, tornai ad essere per lui quello di sempre, esattamente allo stesso
posto nella sua gerarchia.
Questa fiducia-dipendenza nella competenza dell’adulto può essere tenuta
ben nascosta.
Un esempio apparentemente di segno opposto è il seguente: un giorno
incontrai una persona di mia conoscenza che portava a spasso il nipotino.



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–L’intelligenza biologica–


Cominciò a piovigginare e il nonno del piccolo mi chiese di tenerglielo un
attimo, mentre andava a sistemare il passeggino nella macchina. Sistemati
a poca distanza sotto un porticato, il bambino, di circa un anno, non voleva
separarsi dal nonno e tentò più volte di scapparmi. Cercai di
tranquillizzarlo, ma fu inutile, il piccolo non mi ascoltava. Quando si lanciò
di corsa verso il nonno lo fermai e, indicandogli una grata un po’ sconnessa,
gli dissi “lì no! Perché cadi e ti fai male”. Il bambino mi fissò e restò a
guardare il nonno senza oltrepassare la grata: mi aveva dato retta!
Un altro episodio singolare mi capitò mentre attendevo d’essere servito al
reparto salumi del super mercato: una bambina sul passeggino lanciò a
terra il cappello vicino ai miei piedi; lo raccolsi e lo diedi alla bimba, che si
rivelò essere piuttosto robusta. Poco dopo ripeté quel gesto e mi centrò
nuovamente. Raccolsi il cappello e lo consegnai alla madre. A quel punto la
bimba, guardandomi, additò la vetrina del bancone, in cui erano esposte le
specialità gastronomiche. Ottenuto il permesso della madre, cominciai a
descrivere alla piccola tutto ciò che si vedeva nella direzione che stava
indicando. La bimba mi guardò perplessa e insistette ad indicare. Subito
dopo la commessa diede alla madre una porzione di focaccia salata… e la
bambina cominciò a strillare, tendendo entrambe le mani verso l’ambita
leccornia. Ottenuta, aggredì la tutta focaccina con quattro dentini e una foga
mai vista. La madre imbarazzata mi assicurò che “da mangiare gliene do,
ma quando vede la focaccia sembra che non abbia mangiato da settimane”.
La focaccia era proprio nella direzione che disperatamente indicava la
bambina, ma dietro all’esposizione del bancone, e la perplessità del suo
sguardo era dovuta alla mia scarsa comprensione di ciò che ella mi voleva
dire (dammi la focaccia). Aveva trovato in me un possibile alleato per
raggiungere l’oggetto voluto.
Mi tornò alla mente ciò che scrisse J. Dewey [1922]: “Presto parrà cosa
incredibile che gli psicologi abbiano discusso se scegliere tra idee innate e un
intelletto vuoto, passivo plasmabile come cera. Infatti, sembra che
un’occhiata ad un fanciullo avrebbe dovuto rilevare che la verità non sta in
nessuna delle due dottrine, tanto ovvio è l’ondeggiare delle specifiche
attività native…Gli impulsi non ancora sviluppati e dispersi di un fanciullo
non si coordinano in poteri utili, eccetto che attraverso dipendenze e amicizie
sociali”.
Gli esempi citati mostrano che il bambino può conferire all’adulto un ruolo
specifico (si potrebbe definire tecnico), il ruolo di esperto o quello di
strumento per raggiungere qualcosa; tutti questi aspetti nascono non solo
dalla consapevolezza di essere “inadatti”, ma soprattutto da un istinto alla
“dipendenza” verso l’adulto in genere, spesso esemplificato dal pianto
(evidentemente non appreso) del neonato.
Il bambino, quando sviluppa maggiori performance comunicative, non indica
solamente per manifestare un desiderio [richiesta], ma anche per chiedere
conferma di una percezione, ad esempio il bambino indica verso la finestra
(dalla quale proviene un suono insolito) e guarda negli occhi l’adulto
ripetendo il gesto e alternando lo sguardo tra la fonte del rumore e



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l’interlocutore, finché questi non guarda nella stessa direzione e/o commenta
[Camaioni, Volterra e Bates, 1976].
Non credo, ad esempio, che il ritagliare la voce della madre dal rumore di
fondo sia innato (nel senso di genetico, a giudicare dall’affermazione
dell’autrice “quando componente innata è determinata fin nei dettagli, è
possibile che l’ambiente funga semplicemente da innesco…viceversa quando
la predisposizione innata è specificata come inclinazione o una traccia
minimale, è probabile che l’ambiente agisca come qualcosa di più che un
innesco… anche una traccia minimale implica l’esistenza di predisposizioni
dell’attenzione verso particolari input nonché un certo numero di
predisposizioni sistematiche che vincolano la computazione degli stessi
input) come sostiene Annette Karmiloff-Smith [1992], ma che l’acquisizione
di suoni familiari (rassicuranti) lo sia, o per meglio dire sia la conseguenza
di una predisposizione più generale alla “dipendenza”, perciò il neonato
riconosce il suono della voce della madre in quanto gli è diventato familiare
nel periodo di gestazione (in questo senso è innato, cioè frutto di un deposito
di un input sensoriale molto forte sulla struttura auto-organizzante
confinante con il Driver sensorio, quest’ultimo geneticamente, ma non
irrimediabilmente, programmato), infatti i quattro giorni canonici in cui il
soggetto non mostra di reagire alla voce della madre corrispondono, in
realtà, al periodo di riadattamento dell’apparato uditivo (infatti sino alla
nascita i suoni sono trasmessi attraverso il liquido, che essendo un mezzo
più denso altera i suoni).
Traendo esempio dai miei numerosi piccoli acciacchi, ho costatato che dopo
aver sopportato per due mesi un “tappo” all’orecchio destro, quando riuscii
ad eliminarlo i suoni attorno a me erano diversi (riverberati), e
quest’impressione durò per qualche ora. Pensate come dovrà sentire un
neonato!
La predisposizione alla dipendenza spinge il neonato ad “affidarsi” a ciò che
gli è familiarmente non ostile o a reagire positivamente di fronte a
“situazioni” familiarmente collegate a sensazioni, diciamo così, piacevoli.
Probabilmente l’infante ha una capacità di “memorizzare” impensabile per
un adulto, per cui un solo contatto fornisce ulteriori dati da collegare a quelli
già noti, anche se solo in tratti essenziali (nel senso di “evidenti”).
Molti sostengono che il suono del cuore della madre abbia un potere
rassicurante e induca il sonno, ma lo stesso effetto si ottiene con il ritmo di
una macchina per scrivere, che nulla ha del suono del muscolo cardiaco!



B.A.O. e metabolismo (mentale).
Atteggiamenti particolarmente semplici nella loro identificazione stadiale e
precostituita sono quelli legati alla sessualità. Nella maggior parte dei casi
tutto si svolge secondo un copione comune. E’ singolare costatare come una
volta superata l’adolescenza, gli atteggiamenti di chi sta entrando in quel
periodo di cambiamenti sembrino da un lato stupidi e poco “efficaci” e
dall’altro molto più intelleggibili di ciò che dobbiamo affrontare noi stessi


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–L’intelligenza biologica–


(sempre che si sia raggiunta una certa franchezza interiore o almeno
cognitiva).
Altri atteggiamenti sono più complessi da riconoscere, ma basta scorrere
alcuni testi di biochimica o neurologia per accorgersi che con la
somministrazione di alcune sostanze (in particolar modo ormoni) si possano
pilotare alcuni atteggiamenti negli animali “inferiori”, ma anche nell’uomo
si ottengono sensibili forzature dello stesso.
Negli animali inferiori è abbastanza semplice manipolare il DNA e con ciò
creare delle alterazioni atte a studiare le interazione tra comportamento e
codice genetico.
Premettendo che K. Lorenz e N. Tinbergen, i fondatori dell’etologia, hanno
considerato il comportamento aggressivo un’entità biologica, recentemente
sono stati prodotti diversi mutanti di topo alterati nel loro comportamento
aggressivo. I geni scelti per indagini di questo tipo codificano enzimi e
recettori che, sulla base di studi biochimici e fisiologici, si pensa siano
modulatori del comportamento. In alcuni casi si è visto che tali geni
interessano anche altri aspetti del comportamento oltre all’aggressività.
In una lunga serie di studi è stata esaminata nei vertebrati la correlazione
tra i livelli del neurotrasmettitore serotonina e l’aggressività impulsiva
[Coccaro, 1989]. Dagli studi di Brunner e dei suoi collaboratori [1993] risulta
che in una famiglia olandese la mutazione nel gene umano per l’enzima che
metabolizza la serotonina, la monoammina ossidasi A (MAO-A), è correlata
al comportamento aggressivo. Anche se gli studi sui topi mutanti nel gene
MAO-A sono successivi, è interessante, ai fini della chiarezza, che il
fenomeno sia riproducibile e comune. Infatti i topi mutanti per la
monoammina ossidasi mostrano una maggiore aggressività [Hen, 1996] e
che topi mutanti per il recettore della serotonina 5-HTlb mostrano
un’alterazione simile nel comportamento. Il tipo particolare d’aggressione
osservata in questi casi è di tipo difensivo e si manifesta con un attacco
verso un topo nuovo introdotto.
L’interpretazione di questi studi non è semplice. Il fatto più riproducibile è
che alterazioni del sistema serotoninergico influenzano il comportamento di
tipo impulsivo. Oltre a questo, lo studio sulla MAO-A suggerisce una
correlazione tra alti livelli di serotonina e aggressione impulsiva: questi topi
presentano un aumento significativo del livello di serotonina. Il
comportamento del mutante 5-HTlb è più difficile da spiegare con questa
ipotesi relativamente semplicistica: infatti i topi che presentano questa
mutazione sono nettamente carenti anziché eccedenti di questo recettore.
Per conciliare questi dati contraddittori è necessaria, senza dubbio, una
comprensione più sofisticata dei siti d'azione delle mutazioni e dei loro
effetti a livello cellulare. Per esempio, il recettore 5-HTlb alterato, in questi
topi mutanti, è di tipo presinaptico, e modera l’attività della terminazione
nervosa che lo contiene, perciò, una diminuzione nella risposta a questi
recettori potrebbe determinare un aumento nell’attività del sistema.
Anche i mutanti per altri enzimi hanno mostrato un comportamento
aggressivo differente dai tipi normali [Hen, 1996]. In tutti i casi, i geni sono
stati scelti per il loro probabile coinvolgimento nell’apprendimento e nella


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plasticità.
Il mutante per la chinasi CaM mostra un comportamento più aggressivo.
Allo stesso modo, una mutazione della forma neuronale dell’enzima che
sintetizza l’ossido di azoto (nNOS) conferisce un’insolita aggressività: tale
enzima è implicato nel processo di potenziamento a lungo termine e in altre
forme di plasticità neuronale. Mutanti fyn per la tirosinchinasi mostrano un
aumento nella risposta agli stimoli che inducono paura (tra gli altri effetti
c’è una riduzione nell’apprendimento).
Per ciò che riguarda la variazione in ambiente naturale una soluzione
alternativa è quella di cercarle in un organismo che sia già a un livello
sofisticato per quanto riguarda l’analisi di genetica molecolare, per esempio
il moscerino della frutta. Le larve del moscerino della frutta presentano un
polimorfismo nel comportamento locomotorio associato alla ricerca e
all’assunzione di cibo (foraging). Questo polimorfismo comportamentale che
si osserva in natura, si ritrova sia nei ceppi di Drosophila cresciuti in
laboratorio che in quelli selvatici. Il comportamento viene valutato
misurando la lunghezza della traccia del percorso fatto dalle larve durante
l'esplorazione per il cibo su una piastra di agar coperta di lievito Gli studi di
Sokolowski [1992] hanno isolato due categorie di larve: erranti e sedentarie
(rover e sitter).
Le erranti, in un determinato intervallo di tempo, lasciano una traccia più
lunga rispetto alle sedentarie
Quando si analizzano caratteri quantitativi non è rara una distribuzione
bimodale di questo tipo, anche se non c’è stata alcuna selezione per quanto
riguarda i fenotipi. Come per la maggior parte delle varianti
comportamentali isolate da popolazioni naturali, i due tipi presentano
distribuzioni quantitative sovrapposte. Tuttavia, quando sono stati prodotti
ceppi omozigoti per il fenotipo errante o sedentario, essi presentarono una
sovrapposizione minima e dimostrarono che la differenza erranti-sedentarie
è causata dall’azione di un singolo gene che è stato chiamato foraging e che
il fenotipo errante è geneticamente dominante su quello sedentario.
Sembra che i geni, e questa è una delle parti più importanti per la
formulazione della BAO, abbiano un notevole influsso sui meccanismi di
riproduzione e di sostentamento, ma è giusto che i geni influenzino la
riproduzione essendo proprio loro stessi a riprodursi (ricordate la prima
chiave della vita?).
Il corteggiamento in un maschio di moscerino della frutta è influenzato
anche da altri componenti del sistema di apprendimento. La chinasi CaM
(discussa precedentemente in relazione al mutante per l’aggressività nel
topo) svolge un ruolo importante nei cambiamenti indotti dall’esperienza nel
sistema nervoso. I maschi che sono geneticamente difettivi per questa
chinasi non riescono ad apprendere dall’esperienza di essere in presenza di
femmine che si sono già accoppiate. In questi esperimenti, l’attività della
chinasi è manipolata in vitro facendo esprimere nei neuroni un gene
sintetico per uno specifico inibitore dell’enzima. Quando l'inibitore è
presente a livelli bassi, i maschi sono in grado di essere addestrati
correttamente, cosicché essi interrompono il corteggiamento di una femmina


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già accoppiata, ma poi dimenticano immediatamente quando vengono posti
in presenza di una femmina vergine e cominciano a corteggiarla con
insistenza, come se non avessero mai subito alcun condizionamento. Quando
i livelli dell’inibitore sono più alti, i maschi difettivi non vengono affatto
condizionati dalla femmina già accoppiata e continuano a inseguirla per ore
senza sosta.
Anche le femmine apprendono dalle loro esperienze di corteggiamento, ma
in modo differente: esse rispondono al canto d’amore del maschio. I
moscerini femmina rispondono al canto del maschio diventando più recettive
alle proposte di corteggiamento. Se una registrazione del canto viene
ascoltata da una femmina solitaria che successivamente viene posta in
presenza di un maschio, essa si accoppierà più rapidamente rispetto a una
femmina che non ha ascoltato il canto nei minuti immediatamente
precedenti. Inoltre, essa ricorda il canto per diversi minuti.
Tuttavia la capacità di ricordare il canto è assente nelle femmine che hanno
il gene per la sintesi dell'inibitore della chinasi CaM. Esse sentono il canto
normalmente e rispondono a questo se poste immediatamente in presenza di
un maschio, ma dimenticano molto più rapidamente rispetto alle femmine
normali [Griffith, 1993]. Altri geni mutanti per l'apprendimento, dunce e
amnesiac, influenzano anch'essi l'abilità, da parte di una femmina, di
ricordare il canto di corteggiamento [Kyriacou e Hall., 1984]. I moscerini in
cui la chinasi CaM è inibita come i mutanti dunce, presentano piccoli difetti
nella plasticità della trasmissione sinaptica.
Un evento precoce dell’apprendimento durante il corteggiamento è regolato
nella Drosophila da un altro gene che codifica la proteinchinasi C, coinvolta
nella trasduzione dei segnali dei secondi messaggeri. Quando nei maschi
viene introdotta una mutazione che porta alla produzione alterata di questo
enzima, i moscerini mostrano un difetto contrario a quello che si ottiene con
l’inibizione da chinasi CaM: essi manifestano una normale perdita di
interesse per le femmine dopo un sufficiente contatto con una femmina già
accoppiata, cioè ricordano gli effetti del condizionamento, ma durante il
periodo di apprendimento vero e proprio non mostrano di esserne influenzati
[Kane e Greenspan, l996]. In altre parole, essi immagazzinano l’esperienza
dell'apprendimento per il futuro, ma non mostrano, al momento, nessun
segno di reale addestramento. La selettività del difetto indica di nuovo, che
aspetti discreti del corteggiamento sono separabili geneticamente.
Nell’esempio precedente, regioni anatomiche distinte sono responsabili del
riconoscimento sessuale rispetto allo stesso corteggiamento e si possono
identificare vie biochimiche distinte: alcune implicate nelle risposte
immediate del condizionamento durante il corteggiamento, altre necessarie
per le risposte a lungo termine (fonte: R. J. Greenspan,1999).
Sulla importanza dei recettori e delle sostanze nel comportamento si pensi
alla teoria di Zuckerman [1984] sul sensation seeking: secondo l’autore esiste
un livello tonico di attività del Sistema Catacolaminico, che influisce
sull’umore, l’attività generale, l’interazione sociale e che motiva il ricorso a
determinate stimolazioni o attività (o l’evitamento di esse). I ricercatori di
sensazioni avrebbero un basso livello di attivita del Sistema Catacolaminico,


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cioè basse quantità di dopamina, norepinefrina e MAO, e le loro attività
sarebbero preposte ad aumentare il livello delle suddette sostanze nel
sangue; gli evitatori di sensazioni avendo alti livelli, anelano alla
tranquillità poiché la misura è già colma. La scoperta di ciò che la stampa
ha definito il ”gene del giocatore d’azzardo”, sembra confermare le
osservazioni dell’autore. Questo gene predisporrebbe le persone a gradire
attività cariche di rischio, come il gioco d’azzardo o gli sport estremi, proprio
perché tara il livello d’attività del S C molto basso. Occorre, per una miglior
comprensione, rilevare che un’educazione improntata al rispetto del denaro
o della propria integrità fisica farà assumere al gene manifestazioni diverse
o potrebbero ridurne gli effetti. Riprendendo l’esperimento di Maragñon del
1924, Schachter e Singer [1962] somministrarono adrenalina a tre gruppi,
uno informato sulle reazioni che avrebbero dovuto avere, uno non informato
e uno disinformato, e, diversamente dal loro predecessore, li esposero a
situazioni emotivamente stimolanti. Le reazioni degli informati furono meno
alterate dalla situazione “adirante” (un complice simulava di non gradire le
domande dello sperimentatore, protestando con veemenza, arrivando fino ad
abbandonare la stanza sbattendo la porta). I disinformati furono, invece, i
più coinvolti. Con un semplice avvertimento è stato possibile alterare gli
effetti di una sostanza. Come si è notato precedentemente, le modifiche o
sintonizzazioni fini nell’organismo avvengono tramite il metabolismo, perciò
è ipotizzabile che sia stata una reazione metabolica la causa del minor
effetto eccitatorio della dose di adrenalina. Occorre notare che se ciò fosse
vero, significherebbe che la “parola” ha potuto modificare, o più
precisamente, preparare le risposte metaboliche. Nell’uomo le strutture
programmate sono difficilmente alterabili, sia in virtù d’una maggior
complessità, sia per la spiccata attività o indipendenza della parte
metabolica (d’origine metabolita). E’ comunque vero che una
somministrazione di ormoni può modificare, ad esempio, le reazioni. Ciò è
particolarmente riscontrabile nelle nicchie comportamentali di tipo
riproduzione-sostentamento (aggressività, sessualità, paura, ecc…); esse
hanno una forte componente di programmazione, che si spiegherebbe,
ipotizzando un atteggiamento parassitario del portatore di informazione,
con la difesa da parte del genoma (inteso non come gene egoista, ma come
forma di vita, una colonia di geni) delle proprie aspettative vitali e
riproduttive (ricordate la prima “chiave della vita”?). Nell’uomo, però, a
causa delle spinte evolutive, il genoma ha tratto vantaggio dalla
caratteristica plastica del metabolismo, di cui sfrutta le acquisizioni
temporanee (grossomodo il fenotipo) e a lungo termine (la “cultura” e il
potere modificatorio della parola citato poco sopra). Nell’uomo gli istinti sono
ridotti e sono sostituiti per lo più dalle pulsioni.
Le pulsioni si comportano come il leggendario personaggio, situato al lato
del palcoscenico, che spinge sulla scena gli artisti colti dal panico o titubanti
(compito che tocca spesso al Direttore di Scena).
Tutto ciò che l’artista farà sulla scena dipenderà dal buttadentro solo per il
fatto che l’ha messo lì, e qualora il buttadentro fosse il Direttore di Scena
stesso, dalla stessa “persona” dipenderà anche la durata dell’esibizione,


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poiché, se l’attore si blocca, il nostro metaforico personaggio può sempre far
entrare le ballerine, per calmare la platea e garantire all’artista la ritirata .
Gli istinti, invece, sono paragonabili al marionettista che, tirando i fili,
controlla ogni movimento dell’attore (di pezza e legno).
Non è necessario postulare una miriade di fattori genetici del
comportamento, come il riconoscimento della voce materna, l’attaccamento
ai genitori (i neonati spesso piangono anche se non hanno fame o sono
bagnati, semplicemente perché “si sentono soli”), o altri atteggiamenti
simili, ma un'unica pulsione (vedi sopra) verso l’adulto, derivante dal più
basilare (e vitale) “istinto di dipendenza”.
Il rapporto di Spitz sulla sindrome dei bambini ricoverati in brefotrofio
(detta ospitalismo) rivela che, nei bambini abbandonati alla nascita o
comunque prima del terzo mese di vita, i sintomi compaiono solamente dopo
il quarto mese di vita, cioè in conseguenza della cessazione del contatto
parziale che il bambino ha con la nutrice. Abbandonato a se stesso, il
bambino comincia un processo d’autodistruzione che avrà ripercussioni sulla
sua vita futura, soprattutto sulla salute e lo sviluppo fisico, sia motorio che
cognitivo.
Escludo arbitrariamente dalla discussione le implicazioni per la vita sociale,
poiché esse sono state spesso analizzate con scarsa lucidità, molto
bigottismo, soprattutto in ambito statunitense, e perché interagiscono in
esse troppi fattori estranei al tema trattato.
Se il bambino viene abbandonato dopo il quinto mese di vita, passate
quattro settimane, inizia ad isolarsi, per poi culminare in un processo
autodistruttivo che può manifestarsi alternativamente con una “rinuncia a
vivere” o con atteggiamenti autolesionistici. Il quadro suddetto viene
definito “depressione anaclitica” ed è superabile con un riavvicinamento alla
madre. Superato, nel giro di pochi giorni, il periodo più acuto della sindrome
depressiva, il bambino manifesta un comportamento gradevole e
accomodante con tutti, capacità d’adattamento che è, però, solo apparente ed
è destinata a lasciare il posto a reazioni impulsive di fronte a nuove varianti
nell’ambiente (un cambio d’infermiera o di reparto).
Non vedo, ripeto, la necessità di postulare rigide codificazioni in virtù di una
migliore performance evolutiva, prospettiva che risente troppo della
moderna predilezione per i meccanismi, soprattutto quelli pensanti.
La sicurezza che fornisce la familiarità di una situazione o di certe persone
sono da ritenersi conseguenze in maggior parte legate alla memoria e
all’apprendimento, o, se vogliamo, dalla traccia lasciata dall’essere nel
mondo sul metabolismo. In origine, ad esempio, non esiste una netta
differenza tra la madre ed il suo sostituto, tale differenza si costituisce
solamente dopo che il tempo ha consolidato una certa situazione. Se
qualcuno conosce il “gioco dello psicanalista” ha già un’idea di cosa cerco di
affermare. Per chi non lo conoscesse, ecco un breve riepilogo: si chiede ad
una persona di uscire dalla stanza, in modo da permettere ad uno dei
rimasti di raccontare un sogno recente a tutti gli altri presenti; uscita la
“vittima”, chi regge il gioco spiega che nessuno deve raccontare veramente
un sogno, ma occorre rispondere alle domande del “pollo” seguendo due


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regole, cioè alle domande la cui ultima parola inizia con una lettera
compresa       nella    prima     metà    dell’alfabeto    bisogna     rispondere
affermativamente, alla seconda metà negativamente. Ovviamente vige la
regola di non contraddizione. Al termine delle domande, tese a ricostruire il
sogno, formulate ai presenti dal giocatore-investigatore, si sarà creato un
racconto veramente fantastico e degno d’essere ritenuto “roba da
psicanalisti”. La sorpresa più grande, però, sarà quella del “pollo”, perché,
quando dovrà identificare l’autore del sogno, scoprirà che non esiste né
sogno né sognatore.
Applicando il modello fornito dall’esempio, non sono necessarie numerose
facoltà o intelligenze, geneticamente o neurologicamente predisposte (come,
invece, ha teorizzato da Gardner per l’intelligenza), ma si possono generare
numerosi “aspetti” da un numero modesto di essi, una volta che siano stati
performati da “tracce” di realtà metabolizzata. Formulando il concetto in
base all’argomento della tesi, ne deriva che, nonostante esistano facoltà
verticali in cui l’intelligenza, e non solo essa, si specifica, specificando aree
adatte allo scopo di migliorare il file system (performazione dell’I.),
l’intelligenza resta una comunque (e comune). L’intelligenza, in questo caso,
è espressione del metabolismo non vincolato da “ordini” genetici
(metabolismo emancipato), rinuncia del portatore d’informazione finalizzata
a sopperire alle possibili carenze informazionali (inadeguatezza rispetto alle
possibili variazione di nicchie vitali). Quindi l’ordine “semplice” è
“metabolismo fa’ tu!” (cioè un “non”– ordine).
La PET ha confermato l’esistenza di aree di maggior attività, ma sempre su
un attività più generale del cervello.
Gardner stesso, nella “critica della teoria delle intelligenze multiple”,
ammette che alcune qualità del comportamento cognitivo sfuggono
all’interpretazione dell’intelligenza come diverse facoltà di tipo verticale,
soprattutto su aspetti plastici dello sviluppo e totalizzanti come la saggezza
(che non è meta raggiungibile da tutti).
L’architettura neurale è un escamotage evolutivo-genetico, un regalo del
portatore di informazione per rendere più efficace il metabolismo nella
gestione dell’ambiente esterno per permettere di sopravvivere e riprodursi
con maggior successo, esplorando altre nicchie vitali. Occorre ricordare che è
comunque il DNA a riprodursi, DNA che sfrutta il metabolismo come veicolo
e casa, ricambiando con il suo potere mutageno, fonte di “capacità”
sorprendenti per la semplice cellula–“spugna” metabolita.
A ciò si riferisce la teoria BAO. Conseguentemente occorre notare come nelle
forme di vita animali concorrano aspetti pulsionali, istintuali e plastici.
Anche l’ameba che non ha sistema nervoso dimostra capacità
d’apprendimento, inspiegabili se ci si ostina a identificare l’intelligenza con
l’architettura neurale.
Noi uomini dobbiamo molto al cervello, un meccanismo altamente
performante, ma troppo simile ad un pallottoliere se privato del sostegno
orizzontale del metabolismo.
Vorrei far notare che nelle prestazioni intellettive influisce tutto l’insieme
chiamato corpo. Un deficit fisico dapprima influisce sulla performance, poi,


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se persiste, sulla struttura cognitiva stessa (e viceversa). Esempi alla
portata di tutti sono l’ipoglicemia, la pressione bassa, ipotiroidismo e
l’ipertiroidismo.
Oggi si parla di cervello “bagnato”, cioè in contatto con il corpo tramite gli
“umori”, i liquidi come il sangue, e non più esclusivamente tramite cablaggi.
Esistono neurotrasmettitori per i messaggi a cortissimo raggio, sostanze
come le endorfine per quelli a medio-corto raggio, o gli ormoni quelli a lungo
raggio.
La categoria di sostanze a medio corto raggio sono le acquisizioni più recenti
e le più studiate, ma la capacità di interferire con esse è stata sfruttata
precedentemente, anche se in modo ingenuo, con le droghe. Una prova
scientifica fu fatta da Benassi e Canestrari [1954], che iniettando un
farmaco anfetaminico, la Metadrina, ottennero dai soggetti risposte al TAT
(Thematic Apperception Test) più ricche di particolari, meno stereotipiche e
più dirette (cioè si ridusse il tempo di latenza, il tempo impiegato dal
soggetto per iniziare a raccontare la storia immaginata) rispetto agli
standard precedenti. Esulando dagli stati d’alterazione, ho trovato singolari
spunti sugli effetti del corpo sulla “mente” parlando con un amico, Davide,
che mi ha riferito due singolari avvenimenti: il cambio d’inclinazione della
propria scrittura come spia (→ elemento soggettivo correlato) di
un’imminente malattia e la narcosi da lente a contatto.
Sull’ultimo dei due occorre dare una spiegazione. quando le lenti,
soprattutto le monouso, esauriscono la loro funzione e si caricano di scorie
(batteriche e chimiche), gli occhi inviano un messaggio di pericolo; il cervello
di alcune persone reagisce stimolando una sensazione che predispone al
sonno; ogni tentativo di tenersi svegli e lucidi è destinato al fallimento
(lavare il viso con l’acqua gelida, bere caffè o prendersi a schiaffi), mentre
togliere le lenti e lasciare l’occhio libero ha un effetto immediato e tonico.


Modularità vs orizzontalità.
Per quanto non apprezzi la metafora mente-computer, bisogna riconoscere
che una simile analogia ha permesso di orientarsi meglio nell’affrontare le
facoltà (di numero limitato) verticali di matrice genetica, anche se
l’hardware biologico è talmente diverso da rendere questa analogia poco più
valida dell’idea di un quadrato ottenuta con quattro stuzzicadenti posati su
di un tavolo, poiché le parti celebrali suddette sono fortemente permeate tra
loro a differenza di quelle del computer.
Esistono parti modulari nella mente e basta uno sguardo ai protocolli delle
osservazioni sperimentali sui neonati per rendersene conto. I riflessi citati
in precedenza sono comuni a tutti e hanno un’importanza vitale. Anche il
riflesso di Moro, all’apparenza inutile, aveva una funzione quando eravamo
scimmieschi e stavamo appesi alla peluria del dorso delle nostre madri, ed il
grasping era correlato ad esso. La sua inutilità attuale permette la
scomparsa dello stesso nel giro di pochi giorni, dimostrando che questi
“Driver” modulari non sono così rigidamente non modificabili come
suggerisce Fodor. Gli esperimenti sui mici allevati in ambienti monotoni o


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–L’intelligenza biologica–


privati dell’uso di un occhio tramite bendaggio adducono ulteriori prove
della resettabilità (più o meno parziale) delle informazioni innate
Esistono istinti comuni agli adulti e ai bambini di pochi mesi come quello di
proteggersi il viso in presenza di un oggetto “in rotta di collisione”, o di
coprire con movimenti caratteristici le parti vulnerabili al solletico se
sollecitate.
Sono comuni, tra piccoli e grandi, le pulsioni erotiche, sono diverse (in certi
casi non troppo) le manifestazioni e l’appagamento.
Biologicamente (e fino a non molti anni or sono, o ancora oggi in alcune
comunità, anche socialmente) siamo programmati per essere efficienti
“adulti” già a sedici anni, perché la nostra cultura è più giovane della storia
biologica che ci accompagna. Non occorre sorprendersi, soprattutto se si
guarda ai secoli passati (è sufficiente il 1800), periodi in cui i due ritmi di
vita erano abbastanza sovrapposti; la nostra cultura ha dilatato
artificialmente l’adolescenza (ultimamente anche l’infanzia).
Wyath Hearp a vent’anni aveva vissuto più esperienze, personali e sociali, di
un quarantenne d’oggi, ma aveva valutato meno informazioni di quante ne
stanno giornalmente in un quotidiano come Il Corriere della Sera.
Fino a qualche anno fa la statura definitiva veniva raggiunta a diciassette
anni, oggi si tende a crescere in altezza fino a ventuno (compreso il
sottoscritto). Le nuove abitudini di vita hanno influito anche sui parametri
temporali dello sviluppo, proprio perché uno sviluppo rapido determina un
minor “sfogo” delle potenzialità metaboliche, poiché viene raggiunto
l’equilibrio. Come si diceva a proposito del gene Schwarzenegger e del
fenotipo Winter, quando viene raggiunto lo stadio della formazione è difficile
cambiare, anche se le potenzialità restano invariate (basta somministrare
alcune sostanze che creino un nuovo equilibrio artificiale).
Contrariamente a come pensano la maggior parte delle persone e degli
ecologisti, l’equilibrio assoluto si ottiene con la morte, mentre la vita è un
“processo” che tende all’equilibrio (in biologia l’equilibrio si ottiene quando
non è più necessario alcun processo, cioè con la morte, infatti negli
organismi viventi si parla di omeostasi), cioè un equilibrio dinamico.
Se ci mettiamo su un piede solo siamo in equilibrio, ma restando così
moriremmo di fame; se ci mettiamo in cammino per andare al fast food, non
moriremo di fame (ma di altro!) e non saremo più in “equilibrio”, ma
passeremo da un attimo di sbilanciamento ad uno successivo di
compensazione (se non fosse così finiremmo direttamente a terra al primo
passo).
L’intelligenza, fin ora, è stata accomunata (e talvolta identificata) con il
metabolismo, in altre parole con un processo dinamico, che va distinto dalle
abilità, che si denotano come strutture operative un po’ più “statiche”.
Un’altra considerazione da fare è che le teorie sul funzionamento del
cervello siano troppo ancorate alla materia grigia e al neurone come cellula
del metabolismo del pensiero. Basti considerare che, limitandosi alla
struttura “asciutta”, solo recentemente si è presa in considerazione la
materia bianca, ritenuta da sempre un semplice tessuto connettivo, con
un’attenzione particolare agli astrociti.


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–L’intelligenza biologica–


E che dire della teoria dei memi di Richard Dawkins [1976], brillante e atta
a far parlare di se, a cui è stato sufficiente spostare il comportamento del
gene egoista alla teoria dell’informazione. La teoria secondo cui l’evoluzione
va riferita ai geni che potenzierebbero l’ospite donandogli, se vincente, la
possibilità di sopravvivere e scroccandogli la riproduzione nel corso delle
generazioni, è giustificata dai meccanismi di modifica del DNA nella sua
replicazione nelle cellule germinali, che non sono conseguenti alle pressioni
esterne (normalmente). L’evoluzione è la via più diretta per ottenere un
certo “prodotto” e la continuità di un simile processo è casuale. Come ha
giustamente notato Stephen Jay Gould [1999], se la Pikaia Gracilens si
fosse estinta, oggi non esisterebbero i vertebrati, ma in linea di principio la
“roulette” genetica potrebbe riprodurre, in un secondo tempo, i vertebrati,
anche così come li conosciamo noi. La convergenza adattiva n’è un esempio,
così come la formazione di strutture pressoché identiche da linee evolutive
differenti. I meccanismi, con cui i cromosomi si scambiano e modificano i
geni, fanno sì che il nuovo prodotto (il feto) sia più di una semplice somma
del 50% paterno e del 50% materno. Ognuno di noi è portatore di tre
mutazioni genetiche, per lo più della sintesi proteica. Questa considerazione
è una parte fondamentale nella BAO, ma mentre Dawkins parla di una lotta
evolutiva dei singoli geni e come molti si dimentica del metabolismo, la
teoria della DNA-parassitosi esalta le qualità del metabolita ospite e
chiarisce (o cerca di chiarire) i rapporti tra le due componenti
dell’organismo, inoltre considera il portatore d’informazione come un’entità
“vivente” all’interno di un piccolo mondo (il metabolismo) che può modificare
e serve da filtro con il ben più esteso mondo esterno, strutturata come una
colonia. Dawkins trasporta l’intuizione genica sui memi, intuendo e
descrivendo una parte molto importante della vita, ma mancando, sotto certi
aspetti, parzialmente il bersaglio.
 “I memi – citando il commento di Dennet [1991] – hanno già giocato un
ruolo fondamentale nel determinare chi o che cosa siamo. La mente
«indipendente» che lotta per proteggersi dai memi esterni e pericolosi è un
mito; c’è, nel sottofondo, una persistente tensione tra l’imperativo biologico
dei geni e gli imperativi dei memi, ma sarebbe sciocco «schierarsi» con i
nostri geni – significherebbe commettere l’errore più grossolano della
sociobiologia del senso comune. Su quali fondamenta possiamo, allora,
basarci mentre lottiamo per mantenerci in equilibrio nella tempesta di
memi in cui siamo irretiti? Se non è la replicazione, qual è l’ideale eterno
rispetto al quale «noi» giudicheremo il valore dei memi? Dovremmo notare
che i memi per i concetti normativi – per dovere e bene e verità e bellezza –
sono tra i più resistenti cittadini della nostra mente e che tra i memi che ci
costituiscono giocano un ruolo centrale. La nostra esistenza come noi stessi,
ciò che siamo come pensatori – e non come organismi – non è indipendente
da questi memi.
Riassumendo: l’evoluzione dei memi ha il potere di contribuire
considerevolmente al potenziamento del progetto del sottostante
meccanismo del cervello – a gran velocità, se paragonato al passo lento con
cui Madre Natura affronta i compiti di ricerca e sviluppo genetici”.


Università degli Studi di Genova                                      Pag. 26
–L’intelligenza biologica–


Ma cosa sono in effetti i memi, informazione pura? E perché sono così
invasivi e altrettanto utili per noi (ma non solo per noi)?
L’informazione è stupida se nessuno la sa riconoscere o sfruttare ed è persa
se non trova un supporto durevole su cui fissarsi5.
Secondo Dawkins i memi sono entità a se stanti, ma non sono propenso ad
accettare una simile versione a cuor leggero, per quanto ritenga che la sua
teoria descriva un aspetto della realtà innegabile.
Se ammettiamo la BAO, i memi diverrebbero il codice di replicazione della
parte metabolica di un organismo, ed è per questo motivo che i memi
riescono a far breccia nei nostri cervelli, in particolar modo nella loro
porzione d’origine metabolica, non l’opposto come afferma Dawkins, che
vede nei memi un genere di vita replicante come il portatore di
informazione. Da notare come questo far breccia sia relativo al grado di
comunanza evolutiva. Scusate la notazione piccante, ma devo ammettere
che fui sorpreso quando potei fare un raffronto tra i gemiti
nell’accoppiamento di mammiferi come i gatti e i gemiti di certi individui
umani, molto simili e assolutamente diversi da quelli delle vipere (che si
accoppiano come i mammiferi essendo ovovivipari). Così com’è palese il
significato del guaire del noto “cane bastonato”. Esistono codici elementari
su cui possono viaggiare i memi, ma è improponibile insegnare ad un cane la
giustizia, mentre riesce a comprendere l’autorità nella gerarchia domestica,
la tristezza, il dolore e la paura nell’uomo pur essendo famiglie generi e
specie diverse (ma stessa classe). Ciò è da ricercare nella plasticità della
struttura cognitiva ad apprendere nuovi Buoni Trucchi e alla comunanza di
alcune strutture (il cervello protomammiferale, ad esempio), complete dei
loro Driver neurali-genetici. Occorre puntualizzare che le strutture sono il
più delle volte simili, ma non uguali, certamente compatibili grazie alla
sintonizzazione fine del metabolismo
La tradizione è portatrice della maggior parte dei memi ed è la strategia
riproduttiva del metabolita nell’organismo, di cui conserva la plasticità.
Vi siete mai chiesti perché un padre pur insegnando ad un figlio tutto ciò
che sa questi lo apprende in modo distorto e personale, pur conservando una
forte impronta, mentre la parte del genoma che c’è stato tramandato dai
genitori potrebbe essere replicato senza modifiche (in laboratorio però!)?
La tradizione è ciò che ci dovrebbe permette di partire da un livello più
elevato rispetto ai nostri predecessori, ma essendo a sua volta una
codificazione e largamente diffusa in certi situazioni perde un po’ in
elasticità, diventando a sua volta “geniforme”.
Se il gene egoista comporta una trascurabile partecipazione nella sua
attività mutagena (ripeto in condizioni normali, senza radiazioni e agenti
chimici di sintesi!) dell’ambiente e del singolo, limitandosi alla pressione
selettiva delle migliori “colonie” di nucleotidi esistenti, il metabolismo

5
  Un’esperienza può essere tramandata ad altri raccontandola (cioè imprimendola nel cervello di un’altra
persona), oppure depositandola su carta (scrivere le proprie memorie), e, al giorno d’oggi, anche su nastro
magnetico o su un supporto digitale, sempre ammettendo di essere capiti o creduti e che il formato in cui
è codificato il messaggio sia usufruibile o sia stato aggiornato. Ma se uno raccontasse tutto al vento o
scrivesse un libro che nessuno mai leggerà?


Università degli Studi di Genova                                                               Pag. 27
–L’intelligenza biologica–


culturale deve tanto al singolo come a tutto l’insieme della specie a cui è
affidato il compito di moltiplicare una data acquisizione, che però deve
essere abbastanza usufruibile dalla moltitudine (il singolo sul gruppo ed il
gruppo sul singolo: il cerchio della conoscenza).
Se ammettiamo che l’intelligenza sia una manifestazione del “metabolismo”,
si spiega la gran quantità d’apparenti contraddizioni rivelate dai tentativi di
misurarla, ma anche perché Terman abbia intuito che il test per la
valutazione del livello scolastico creato da Binet potesse essere usato per
misurare la sfuggente intelligenza.
In effetti, la capacità di poter usufruire della “tradizione” (recettività) è una
delle condizioni necessarie affinché l’intelligenza possa evolversi, sfruttando
quell’insieme d’acquisizioni simboliche che rendono performante il
metabolismo celebrale, ma anche che possa rendere disponibile a tutti il
prodotto del singolo. Come afferma Dennet [1991], che però non riconosce i
memi come parte e prodotto della plasticità fenotipica dell’uomo e di alcune
altre specie: “I miglioramenti del progetto che si ricevono dalla propria
cultura – raramente si deve «reinventare la ruota» – schiacciano
probabilmente la maggior parte delle differenze genetiche nel progetto del
cervello, eliminando i vantaggi di quelli che partono leggermente
avvantaggiati alla nascita”.
Ecco spiegato il peso che il mondo sociale ha nel definire ciò che è o non è
intelligente (il che non è detto che sia proprio così, ma n’è la conseguenza).
Allora la mente non è modulare come sostengono Gardner e Fodor (che
ammette però una parte orizzontale)?
Come ho scritto precedentemente esistono parti modulari e per rendersene
conto basta osservare un bambino. Il cervello si modularizza per migliorare
il file system, ma anche perché le informazioni dipartono da quelle parti
modulari (i Driver delle periferiche sensoriali e vitali) che abbiamo dalla
nascita, più ridotte di quanto ritengano gli autori citati sopra e in parte più
flessibili di quanto sia disposto a credere Fodor. E’ innegabile che la visione
o l’udito abbiano dalla nascita una serie di istruzioni basilari, dei Driver che
permettono di utilizzare questi potenti mezzi di misura (nella parte dedicata
ai rapporti tra l’intelligenza ed il mondo fisico chiarirò in che modo i sensi
sono strumenti di misurazione).
Da queste parti modulari parte il messaggio che, strada facendo, si deposita.
Come per il gioco dello psicanalista, si formano zone con concentrazioni di
informazioni (abilità) che fanno supporre a una struttura decisa a tavolino
dai geni ma che in realtà sono in parte casuali e in parte retti da poche e
semplici regole….

…Come ho già detto, è l’interpretazione a dare alle scoperte oggettive (o
meglio oggettuali) la chiarezza6. Più che una zona preposta al

6
 Guardando una trasmissione sui “misteri” dell’antico Egitto, venne presentata una prova ben
documentata (fonte: Erodoto) sull’esistenza di iscrizioni misteriose sulla superficie delle piramidi di Giza.
Tutti gli ospiti non trovarono nulla da obiettare, finché non giunse un ulteriore esperto che definì la cosa
ovvia in quanto le persone a cui Erodoto chiese il significato delle iscrizioni erano analfabete. Un simile
errore fu indotto dal numero delle maestranze che utilizzavano la scrittura, interpretato dai Greci come


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Teorie dell' intelligenza

  • 1. Università degli Studi di Genova Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Filosofia Teorie dell’intelligenza Candidato: Antonio Codazzi Relatore: Prof. Giuseppe Spinelli Correlatore: Prof. Carlo Penco
  • 2. – Introduzione – INTRODUZIONE “Homo sum, nihil humani a me alienum puto.1” (Heautontimoroumenos I, 1, 25) Oltre a superare il blocco della pagina bianca, ostacolo ben conosciuto da chi scrive, questa citazione di Terenzio mi permette di rendere sintetica la posizione che assumerò nell’affrontare questa tesi. Posizione che sarà tradita dalla palese simpatia per autori dalla preparazione multiforme come Piaget o come David Deutsch, un fisico quantistico che, partendo dalla propria area del sapere e spaziando molto bene in altre materie, sa trarre conclusioni filosofiche interessanti e dalle ampie incursioni nella biologia, nella genetica e in molti altri ambiti della conoscenza umana. Cos’è l’intelligenza? Prendendo spunto dalla diatriba tra coloro che riconoscono in essa una matrice innata e coloro che ritengono che sia un’acquisizione dovuta all’interazione con l’ambiente (da cui nascono altri filoni intermedi), concentro l’attenzione sulle strutture organiche (fondamentali) a cui può essere ricondotta tale facoltà. L’ereditarietà dei caratteri mentali è uno degli argomenti più seducenti nella ricerca genetica, anche se non è possibile uno studio rigoroso su tali determinanze (fino a quando non saremo in grado di manipolare i singoli nucleotidi a nostro piacimento). Gli studi sulle adozioni, per quanto fallimentari nel determinare come il corredo genetico ereditato dai genitori influisse sui nuovi nati, poiché non è mai possibile estromettere le influenze ambientali, mostrarono un dato sorprendente e piuttosto rilevante: l’adozione fa aumentare in modo significativo il QI dei figli. Da ciò emerge che l’intelligenza, almeno così come la misuriamo (cioè senza averla definita realmente), è fenotipica. Il fenotipo – come lo definisce Lewontin – consiste in tutti gli aspetti, compresi morfologia, fisiologia e comportamento, in un particolare momento dell’esistenza, non è ereditabile e si sviluppa nel corso dell’esistenza in parte (ma solo in parte) come conseguenza del genotipo. Due gemelli geneticamente identici (monozigoti) non sarebbero fenotipicamente (metabolicamente) tali se fossero cresciuti uno in quota compiendo lavori pesanti, l’altro al livello del mare senza aver compiuto attività fisiche rilevanti 1 Sono un uomo, non ritengo estraneo a me ciò che è umano. Università degli Studi di Genova Pag. I
  • 3. – Introduzione – Tra l’altro l’autore ci mette in guardia su tre errori tipici: 1. I geni determinano il fenotipo (vedi sopra). 2. I geni determinano le capacità (si limitano ad avvantaggiare lo sviluppo rispetto ad un tipo d’ambiente). 3. I geni determinano le tendenze. Riguardo alla fenotipicità, l’effetto Baldwin (Richards, 1987; Schull, 1990) fornisce un interessante spunto su riflessione d’ordine evolutivo. L’Effetto Baldwin consiste nella pressione selettiva causata da un “Buon Trucco”, che avvantaggia sensibilmente chi lo scopre o chi può apprenderlo perché si trova in prossimità dello spazio progettuale. Un’importante conseguenza dell’Effetto Baldwin è che le specie dotate di plasticità tenderanno ad evolvere più velocemente. L’esplorazione fenotipica che porta alla scoperta e all’acquisizione del buon trucco non è ereditabile (appunto: è fenotipica), ma la spinta selettiva che comporta produrrà, chiamiamoli così, specie plastiche (plasticità come caratteristica ereditaria), potenzialmente capaci non solo di scoprire, riconoscere ed “aggrapparsi” al buon trucco, ma anche di poterlo apprendere e di poterne apprendere ulteriori, magari cercandoli in altre aree progettuali. L’evoluzione, quindi, può aver favorito le strutture in grado di essere, oltre che adatte, particolarmente plastiche2. Scoprire, aggrapparsi, riconoscere ed imparare nuovi “trucchi” sono (sembra incredibile!) buona parte delle caratteristiche con cui noi denotiamo l’intelligenza. In Piaget, per quanto si possano trovare accenni alla dimensione chimica, biologica o fisica, prevale il dinamismo psicologico. Vorrei, comunque, far notare come molti dei suoi concetti siano ben più che mutuati dalla biologia (Piaget “nasce” biologo), direi che sono modelli funzionali tanto psicologici quanto organici. La ricerca dell’equilibrio tra assimilazione ed accomodamento è il processo dinamico del metabolismo! L’intelligenza, allora, è una funzione metabolica? L’organismo in realtà è composto di due parti originariamente distinte, il genoma ed il metabolismo. Biologia, biochimica, fisica, geologia, meteorologia, cosmologia e paleoclimatologia hanno permesso di raccogliere sufficienti dati per affermare con un buon margine di certezza tale bipartizione. Si è giunti ben oltre: il portatore d’informazione (in questo caso l’RNA, non il più noto DNA, che invece è una forma più evoluta) probabilmente interagì con i metaboliti come un parassita. Innestando l’argomentazione su una teoria da me elaborata [definita BAO (vedi appendice) ], che per ora risulta ancora incompleta, e riconoscendo solo al metabolismo la natura di processo (il portatore di informazione “nudo” 2 I batteri sono in effetti molto più adatti dell’uomo a sopravvivere e riprodursi, ma sono decisamente meno plastici. Università degli Studi di Genova Pag. II
  • 4. – Introduzione – [del metabolismo] è quasi immortale ma completamente inerte) si ipotizza la natura di processo anche per l’intelligenza (ipotesi che avrà ulteriori implicazioni). Il portatore d’informazione per sopperire alle carenze informazionali della struttura organica ha permesso al metabolismo una maggiore autonomia (si può parlare di “metabolismo emancipato”). Il metabolismo mentale ha creato, imitando la peculiarità del proprio parassita-simbionte, un mezzo per la propria replicazione (i memi di Dawkins o, grossomodo, i classici simboli). Questi memi sono assimilati dalla struttura auto-organizzante tipica del metabolismo, cioè diventano parte integrante ed integrata del metabolismo performato. Come abbiamo detto in precedenza, definiamo intelligente un comportamento solutore, ma nel nostro universo anche capace di “progettare il futuro”, sebbene con riconosciute limitazioni. L’intelligenza dovrebbe avere una sua valenza nelle nostre risorse che ci permettono di vivere in un ambiente (o il mondo fisico). Abitualmente riconosciamo all’intelligenza la virtù della preveggenza (a torto?) ed anche in ambito psicologico si afferma, in senso lato, qualcosa di simile. Importanti sono gli studi sulle abilità nel calcolo probabilistico in persone non addestrate. I risultati non sono incoraggianti, infatti la percentuale di errore spesso è notevole e sistematica. Ma il tipo di “probabilità” usata nella vita di tutti i giorni non è quella formale della logica o della statistica (gli uomini in natura non avevano aule universitarie!). In effetti è la plausibilità, e non i “calcoli” istituzionalizzati, ad essere utilizzata dall’uomo per costruire modelli atti ad orientare l’azione e comprendere il mondo che lo circonda, poiché, al contrario dei risultati formali, essa fornisce spiegazione degli errori sistematici osservati nei test. Bachelard sostenne che l’immaginario costituisce sia una forma di conoscenza più profonda che quella tecnico-scientifica, sia il fondamento intuitivo delle concezioni che, mediate e razionalizzate, entreranno a far parte del patrimonio scientifico. Quello che è scientifico o “formale” è stato scorporato dal tutto per essere capito e sviluppato al meglio, cioè diventa una parte performata e performante del tutto. In realtà l’uomo possiede capacità connaturate (fornite da quelle strutture innate nelle strutture fondamentali, definite Driver…neurali-genetici) di misurazione della realtà in forma di calcolo. Ad esempio, il padre di Galileo fu il primo a capire che il semitono (rappresentato dalla proporzione 9:8) può essere diviso in parti uguali con un orecchio molto addestrato e che in realtà corde uguali suonano una quinta giusta a tensioni che stanno tra loro in un rapporto di 4:9, non di 3:2 come effettivamente avviene nel caso di corde sottoposte alla stessa tensione. Vincenzio Galilei giunse a questi risultati tramite “l’orecchio”, non applicando sterili canoni, anche non lavorando sugli irrazionali, che sono pur sempre le entità “formali” che reggono questa nuova acquisizione teorica. Intendo indicare come a prescindere dal tipo di matematica utilizzata o conosciuta la musica è percepita come relazioni matematiche. Tra le aree formali e quelle “naturali” le contraddizioni nascono in funzione Università degli Studi di Genova Pag. III
  • 5. – Introduzione – dello “stile” calcolatorio utilizzato, ma mentre il primo non può comprendere il secondo, quest’ultimo è in grado di generare molte aree formali (in pratica è più plastico e più dispersivo). Ciò che accomuna molte nostre capacità è la facoltà di “rapportare”. Rapportiamo tra gli elementi che compongono una figura, un brano musicale, un giudizio. Siamo quasi arrivati all’astrazione, non trovate? David Deutsch [1997] in proposito ha un’ipotesi interessante, in parte derivata dalla simulabilità pressoché perfetta d’ogni possibile mondo fisico da parte di un calcolatore, ovviamente non ancora costruito ma possibile in linea di principio. “Le computazioni, comprese quelle che si qualificano come dimostrazioni, sono processi fisici. La teoria della dimostrazione riguarda il modo in cui si può garantire che tali processi imitino le entità astratte in maniera corretta…”. Una “situazione” può essere ricreata “in scala” (in un’altra situazione) attraverso processi non dissimili dalla situazione originaria, riproduzione che entra, essa stessa, in una situazione più ampia o a completamento della situazione originale. Newton ha potuto matematizzare il mondo fisico proprio perché l’uomo stesso traduce in calcolo il mondo reale, sondato attraverso gli strumenti di cui è fornito dalla nascita. La fisica di Newton, pur non essendo più corretta (scalzata da quella di Einstein), è non solo una buon’approssimazione dei comportamenti del mondo fisico, ma è anche basata sui “calcoli” che sorreggono la nostra percezione, come rileva “l’effetto tunnel”. Anche con la tecnica più raffinata incorriamo sempre nei sensi come strumenti d’esplorazione del mondo. Anche nella P.E.T. i processi “invisibili” all’occhio diventano forme e colori! Idem per il semplice metro, che esterna il nostro rapportare interiore! Questi modelli oltre ad essere una rappresentazione interna (chimico- spaziale) sono anche la griglia che proiettiamo sul mondo per scomporlo ed estrarre le informazioni utili. L’intelligenza non è frutto della struttura auto-organizzativa che fornisce la base costitutiva della nostra capacità di elaborare, ma è un processo teso a fornire ad esso una serie di correttivi (sia nella rappresentazione interna sia nella “griglia” di scansione). E’ la capacità del metabolismo emancipato di modificare se stesso (come un atleta). Ovviamente la struttura organizzata fornisce la “forma” dell’intelligenza, così come essa fornisce la forma di “vita”. L’intelligenza, così come la struttura auto-organizzante (passiva e tendente all’omeostasi), essendo di origine metabolica, possono essere performate. L’intelligenza si esprime in termini mentali al massimo grado con la plasticità del “forse”, cioè nella struttura auto-organizzata (che tendere a lungo andare alla rigidità) con legami concettuali non rigidamente esclusivi (possibilismo). Inizialmente la struttura plastica della mente aiuta l’intelligenza ad esprimersi (Dewey sostenne che esistono età in cui non possiamo fare a meno di essere intelligenti), poi l’intelligenza (performata) aiuta la struttura a rimanere plastica. Essendo un processo e dipendendo da una matrice performata di origine metabolica su cui solamente agisce, la misurazione Università degli Studi di Genova Pag. IV
  • 6. – Introduzione – dell’intelligenza deve adeguarsi all’oggetto, sia eliminando le distorsioni al giudizio provocate dalla struttura auto-organizzata (performata) sia adeguando la scala di valutazione, passando da un valore scalare ad uno vettoriale o ad una descrizione, sulla falsa riga delle descrizioni delle onde elettromagnetiche, sottoforma di funzione. Università degli Studi di Genova Pag. V
  • 7. L’intelligenza biologica
  • 8. –L’intelligenza biologica– Quando raccolsi le idee ed i testi sui quali si sarebbe successivamente sviluppata questa tesi, mi ritrovai tra le mani un libro [Linguaggio e Apprendimento, a cura di M. Piattelli Palmarini, 1991 (1979)], precisamente il resoconto del dibattito svolto nel 1975 presso l’Abbazia di Royaumont tra i sostenitori dell’epistemologia genetica di Piaget e della linguistica generativa di Chomsky. Nonostante gli argomenti fossero il linguaggio e l’apprendimento, i concetti utilizzati si fondavano (e scontravano) su una retrostante facoltà cognitiva, che in alcuni casi è definita esplicitamente come intelligenza. Uno dei piani di maggior scontro fu il problema dell’innatismo. Entrambi gli esponenti condividevano l’assunto dell’esistenza di uno stato iniziale S0, ma non concordavano sull’estensione e sulla carica deterministica dello stesso. Capii che dovevo iniziare dalla “base”, da ciò che ci costituisce e dall’intelligenza biologica. L’innatismo. Come afferma Annette Karmiloff-Smith [1992], gli innatisti sostengono che lo sviluppo percorre un cammino invariato, per il semplice fatto che tutti i bambini normali iniziano la loro vita dotati delle stesse strutture innate, mentre il ruolo dell’ambiente si riduce a quello dell’innesco. Una simile affermazione non lascerebbe molto soddisfatti tutti gli innatisti, ma grossomodo ne riassume l’effettiva posizione. In effetti, si parte da posizioni un po’ troppo confuse nel parlare di ciò che è innato: la biologia insegna molto sull’argomento. Il primo passo è determinare su cosa e quanto influisca, nell’organismo, il portatore d’informazione1, a cui è affidata la formazione e l’ereditabilità delle strutture. Se affermassi che Roberto ha una tendenza genetica ad essere grasso, molti si stupirebbero nel vedere una persona fisicamente proporzionata. In realtà Roberto potrebbe aver seguito una dieta, o comunque un regime alimentare controllato, data la sua tendenza al sovrappeso, oppure, per trovar rimedio ad una obesità perniciosa, essersi sottoposto alla riduzione dello stomaco, come potrebbe essere reduce da una grave malattia. E’ chiaro che di fronte a tali forze esterne la determinazione genetica può poco.In effetti, i geni determinano le tendenze solamente a parità di 1 Il portatore di informazione è tutto ciò che può contenere, trasportare ed essere informazione. Nel caso dell’organismo “moderno” il portatore d’informazione per eccellenza è il DNA. Dawkins ha estremizzato questa posizione, affermando che l’informazione è una forma di vita, sia esso DNA sia esso “concetto” (memi). In linea di principio tutto può essere un P. di I., anche lo spin [G. Spinelli] di un elettrone. Università degli Studi di Genova Pag. 3
  • 9. –L’intelligenza biologica– condizioni, cioè se gli ambienti influiscono sugli organismi di differenti genotipi allo stesso modo. Si potrebbe obbiettare che il gene dell’obesità abbia agito su Roberto comunque, in quanto sia la dieta drastica sia la malattia avrebbero avuto effetti più marcati su chi non avesse il medesimo genotipo (forse letali). In altre parole, il fenotipo del normopeso è pesantemente condizionato dal portatore d’informazione, perché ha reso Roberto in grado di vivere con poche calorie (norma di reazione). Insomma, è proprio vero che l’abito non fa il monaco! Esiste qualcosa che subisca la minima influenza dal genoma e che sia, al pari di quest’ultimo, sostanziale e determinante per la vita dell’organismo? Si provi a rispondere alla seguente domanda: il punto in cui ogni capello nasce è geneticamente determinato? Il nostro corredo genetico non sarebbe abbastanza amplio per contenere tutte le informazioni, considerando che parte di esso è ridondante. Siamo entrati nel mondo del congenito e ci siamo appena scontrati con il “rumore” dello sviluppo, che, dopo genotipo e ambiente, è la terza causa che contribuisce alla variazione tra gli individui della stessa specie. Quest’ultima è la più interessante ai fini del nostro argomento, poiché ”le interconnessioni che si stabiliscono nel cervello tra i miliardi di neuroni nel corso dello sviluppo non possono probabilmente essere specificati nei dettagli dal genotipo anche in un ambiente prefissato; il rumore dello sviluppo deve svolgere una funzione, forse considerevole nella formazione del cervello” [Lewontin, 1982]. Il rumore della crescita è un fenomeno che si può facilmente osservare nei moscerini della frutta del genere Drosophila coltivati in vitro: il numero di setole sternopleurali è dieci da una parte ma sei dall’altra, pur essendo i due lati geneticamente identici; inoltre il moscerino ha sviluppato le setole allo stadio di pupa, cioè quando aderiva perfettamente con il ventre al recipiente di vetro (quindi stesso ambiente). Il moscerino è asimmetrico per eventi casuali; citando un genetista competente come Richard Lewontin [1982], “la formazione di una setola dipende dalla presenza di una cellula specifica in un determinato momento nello strato epidermico, dal ritmo e dal numero delle divisioni cellulari delle cellule primordiali produttrici di setole e dalla migrazione delle cellule figlie nel giusto strato dell’epidermide; piccole variazioni nella concentrazione e nella localizzazione delle molecole all’interno delle cellule creeranno variazioni casuali nel numero delle cellule produttrici di setole che si trovano al posto giusto nel momento giusto”. E’ chiaro che la formazione di strutture anatomiche così semplici consiste, all’opposto, in operazioni complesse, troppo complesse per una rigida codificazione da parte del genoma, che dovrebbe sprecare lunghissime stringhe d’informazioni per stabilire particolari non sempre vitali. Ecco spiegata la precedente affermazione riguardante le connessioni neurali. In effetti, l’espediente dettato dall’evoluzione sembrerebbe consistere in una sovrapproduzione di neuroni, dapprima guidati nei loci appropriati da attrattori chimici, poi l’eccesso di neuroni e di connessioni verrebbe Università degli Studi di Genova Pag. 4
  • 10. –L’intelligenza biologica– eliminato, principalmente negli ultimi mesi di vita intrauteina e nelle prime settimane di vita, ma prosegue fino all’adolescenza, a vantaggio di una progressiva riorganizzazione [Kostovic, 1990] delle strutture celebrali, cioè quando l’ambiente comincia a lasciare la propria impronta. Di converso si sta valutando la possibilità che l’ambiente stimoli la produzione di neuroni, anche in età adulta. Non è tutto! L’ambiente può modificare un organismo prima della sua nascita, quindi tutti non nascono dotati delle stesse strutture, anche se avessero il medesimo genoma, come nei cloni (escludo i gemelli omozigoti poiché condividono grossomodo lo stesso ambiente). Per esempio, nel moscerino della frutta la dimensione degli occhi, dipendente dal numero degli ommatidi, varia in funzione della temperatura alla quale si svolge lo sviluppo. Due varietà mutanti hanno un comportamento opposto nella formazione degli ommatidi, il mutante infrabar con l’aumentare della temperatura aumenta il numero degli ommatidi, il mutante ultrabar invece riduce il numero degli stessi, ma ad una certa temperatura il fenotipo dei due tipi di moscerini è identico. La conoscenza dell’interazioni biologiche non è utile esclusivamente per formulare modelli plausibili, ma anche per evitare false piste. Lewontin [1982] nota, nel suo libro “La Diversità Umana”, come abitualmente si tenda a categorizzare in modo errato e come ciò si ripercuote sulla stessa divulgazione della biologia (e soprattutto della genetica). Quando parliamo di donne esprimiamo concetti del tipo “le donne sono meno forti degli uomini” o “sono meno alte” (e altri tipi d’asserti che è meglio evitare, per quanto siano a tutti gli effetti compresi nella conclusione che seguirà). A questo punto invito il lettore a rispondere alla domanda posta sotto le seguenti fotografie: Weifang Tang,Cina, 83Kg, Lea Foreman , U.S.A. Team, 69Kg. miglior prestazione mondiale 1997. Università degli Studi di Genova Pag. 5
  • 11. –L’intelligenza biologica– Khadja Hunter, U.S.A. Team, 69Kg Tara Nott, U.S.A. Team, 48Kg Quanti, tra i lettori di questa tesi, sono più forti di queste donne? Dubito che molti possano aver risposto affermativamente; dunque le donne sono più forti degli uomini? Dovremmo dire correttamente che la maggior parte delle donne è meno forte degli uomini, così come nel campo della fisiologia è più sensato dire che la massa muscolare nel corpo femminile è nella maggior parte dei casi intorno al 20% del peso corporeo (negli uomini 40%). Insomma se dovessero proprio esserci delle determinazioni genetiche a riguardo, occorrerebbe tener conto della norma di reazione, e badare di non esprimere giudizi “assoluti”. Lewontin è propenso ad affermare che simili disparità siano frutto di determinanti sociali, che costringono la donna a lavori meno pesanti o a giochi più calmi; personalmente trovo che i minatori siano (in media) comunque più forti delle minatrici. Ma Lewontin [1982] non si ferma qui, nella sua crociata contro le discriminazioni e le cattive lezioni. L’intelligenza è uno dei suoi argomenti preferiti. L’ereditarietà dei caratteri mentali è uno degli argomenti più seducenti nella ricerca genetica, per quanto non sia (ancora) possibile uno studio rigoroso su tali determinanze. Università degli Studi di Genova Pag. 6
  • 12. –L’intelligenza biologica– Gli studi sulle adozioni, per quanto fallimentari, mostrarono un dato sorprendente (e sorprendentemente poco commentato da coloro che sono interessati a mostrare gli effetti genetici): l’adozione fa aumentare in modo significativo il QI dei figli. Un appunto su ciò che sono i test per determinare il QI: i test d’intelligenza originali (nell’ambiente anglo-americano) furono messi a punto su giudizi “a priori” di insegnanti e psicologi su chi era o non era intelligente, nonché risentivano di stereotipi sociali [comparivano domande come “chi è più carina” su figure che ritraevano una bimba con caratteri negroidi e una con caratteri tipicamente europei e l’aspetto d’una bambola (provate ad immaginare qual era la risposta giusta) ]. Insomma l’intelligenza, così come la misuriamo, è fenotipica. Il fenotipo - come lo definisce il Lewontin - consiste in tutti gli aspetti, compresi morfologia, fisiologia e comportamento, in un particolare momento dell’esistenza, non è ereditabile e si sviluppa nel corso dell’esistenza in parte (ma solo in parte) come conseguenza del genotipo. Due gemelli geneticamente identici (monozigoti) non sarebbero fenotipicamente (metabolicamente) tali se fossero cresciuti uno in quota compiendo lavori pesanti, l’altro al livello del mare senza aver compiuto attività fisiche rilevanti L’autore ci mette in guardia a proposito su tre errori tipici: 1. I geni determinano il fenotipo (vedi sopra). 2. I geni determinano le capacità (si limitano ad avvantaggiare lo sviluppo rispetto ad un tipo d’ambiente). 3. I geni determinano le tendenze (vedi quanto detto sulla supposta pinguetudine di Roberto). L’ereditarietà fenotipica. In “Linguaggio e Apprendimento” [1979] Piaget, più che di fenotipo, parla di fenocopia, in virtù di trasferimenti di strutture tra organismo e ambiente. Per Piaget [1975] esiste la possibilità che un fenotipo possa trasformarsi in un genotipo con un meccanismo d’imitazione (all’inizio) -sostituzione (effetto a lungo termine). Ovviamente una simile affermazione non fu accettata dai biologi presenti al dibattito. Fu accusata d’essere lamarckiana, in realtà era un tentativo di mediazione tra la teoria di Darwin e di Lamarck. Purtroppo la critica fu marcatamente darwiniana, non darwinista. Con darwiniano intendo quel taglio interpretativo della teoria in cui: l’evoluzione è un processo che tende progressivamente e senza inversioni di rotta alla miglior soluzione possibile; l’uomo occupa il posto più alto della gerarchia evolutiva; il supporto dato dalla moderna genetica è fonte e giustificazione della stessa. Con darwinista intendo l’interpretazione della teoria così com’è, compreso il debole lamarckismo, il caso (anticipando in certi casi la teoria dell’esattamento di Stephen Jay Gould [1991]), la filiazione, la competizione Università degli Studi di Genova Pag. 7
  • 13. –L’intelligenza biologica– e il compromesso della miglior soluzione attuabile2, in cui non esiste una vera e propria gerarchia e l’uomo non è l’animale più evoluto (rispetto alla filogenesi sono le oche!). Darwin stesso generò tale fraintendimento, soprattutto nei confronti della superiorità “elettiva” dell’uomo (confrontate la conclusione di “L’origine delle specie” con il resto del testo), al fine di rendere meno indigesta la propria teoria; il clima culturale di quei tempi fece il resto. Riguardo al debole lamarckismo, Darwin ammette che alcune modificazioni morfologico-funzionali possano derivare dall’uso-non uso, per cui le orecchie pendule degli ovini inglesi (fenotipiche) sono il risultato della tranquillità dovuta alla mancanza di predatori, condizione tipica dell’allevamento. Sono modificazioni non ereditabili, ma rese comuni alle varie generazioni dall’invariabilità delle sopradescritte condizioni ambientali. Ovviamente l’autore non nega che a lungo andare la futilità di un apparato, soprattutto se crea svantaggio, favorisca la soppressione o la riduzione ai minimi termini dello stesso (come le zampe dell’orbetta, che sono geneticamente determinate). Per ciò che riguarda l’intelligenza, lo svantaggio potrebbe consistere nella difficoltà ad imparare un buon trucco. L’Effetto Baldwin [Richards, 1987; Schull, 1990; Dennet, 1991] consiste nella pressione selettiva causata da un “Buon Trucco”, che avvantaggia sensibilmente chi lo scopre o chi può apprenderlo perché si trova in prossimità dello spazio progettuale. Un’importante conseguenza dell’Effetto Baldwin è che le specie dotate di plasticità tenderanno ad evolvere più velocemente. L’esplorazione fenotipica che porta alla scoperta e all’acquisizione del buon trucco non è ereditabile (appunto: è fenotipica), ma la spinta selettiva che comporta produrrà, chiamiamoli così, specie plastiche (plasticità come caratteristica ereditaria), potenzialmente capaci non solo di scoprire, riconoscere ed “aggrapparsi” al buon trucco, ma anche di poterlo apprendere e di poterne apprendere ulteriori, magari cercandoli in altre aree progettuali. Ad esempio, se il linguaggio è una capacità avvantaggiante, la capacità ad apprenderlo bene (o meglio degli altri) porterà, in ambiente favorevole al suo sviluppo, a maggiori possibilità di sopravvivenza-riproduzione (sia la gente comune sia un testo antico come il Kamasutra di Vatsyayana riconoscono a chi sa conversare bene ed è abile nel narrare storie maggiori possibilità di successo con le donne). E’ una visione abbastanza prossima sia al debole lamarckismo citato prima sia alla teoria di Piaget. 2 La β-talassemia, ad esempio, non consiste certamente in un miglioramento: i soggetti malati hanno deficit organici o, nei casi più gravi, rischiano la morte, ma i portatori sani, cioè le persone in cui la malattia si manifesta con intensità piuttosto modesta, traggono vantaggio da un sangue “debole”, poiché il plasmodio della malaria non trova l’ambiente ideale per vivere e riprodursi, pur mostrando comunque svantaggi nelle prestazioni fisiche rispetto alle persone sane. Università degli Studi di Genova Pag. 8
  • 14. –L’intelligenza biologica– Scoprire, aggrapparsi, riconoscere ed imparare nuovi “trucchi” sono (sembra incredibile!) buona parte delle caratteristiche con cui noi denotiamo l’intelligenza. Questa plasticità è, però, in contrasto con la rigida codificazione del genoma, infatti, è stata definita fenotipica. Allora a cosa è dovuto il potere plastico? Tra genoma ed ambiente si frappone come filtro dinamico il metabolismo. Sino a questo punto ho espresso un punto di vista legato maggiormente alle opinioni dei genetisti, che, per quanto possano essere contro corrente rispetto al paradigma dominante (o dovrei dire “di moda”), sistematicamente ignorano il potenziale autonomo del metabolismo. In Piaget, per quanto si possano trovare accenni alla dimensione chimica, biologica o fisica, prevale il dinamismo psicologico. Vorrei, comunque, far notare come molti dei suoi concetti siano ben più che mutuati dalla biologia (Piaget “nasce” biologo), direi che sono modelli funzionali tanto psicologici quanto organici. La ricerca dell’equilibrio tra assimilazione ed accomodamento è il processo dinamico del metabolismo! L’intelligenza allora è UNA FUNZIONE METABOLICA? Potrebbe essere un’ipotesi valida, ma per controllarla occorrerà un lungo viaggio nel tempo, sino all’origine della vita come la conosciamo noi. Le origini dell’organismo. L’organismo in realtà è composto di due parti distinte, il genoma ed il metabolismo. Biologia, biochimica, fisica, geologia, meteorologia, cosmologia e paleoclimatologia hanno permesso di raccogliere sufficienti dati per affermare con un buon margine di certezza tale bipartizione. Si è giunti ben oltre: il portatore d’informazione (in questo caso l’RNA, non il più gettonato [sic!] DNA, che invece è una forma già più evoluta) interagì con i metaboliti come un parassita. “La separazione fra organismo e genoma si può seguire fino alle più lontane radici, e che sia insorta nel senso esposto da Lynn Margulis oppure che la vita debba il suo manifestarsi – come sostengono Freeman Dyson e altri – alla combinazione di «metaboliti» e «portatori d’informazioni» originariamente distinti, è ormai questione di rilevanza secondaria per l’interpretazione del processo dell’evoluzione. Importante è appunto che la bipartizione di metabolismo e genoma si possa effettivamente far risalire alle più lontane scaturigini della vita, perché questo ne fa un principio di rilevanza assoluta”[ Reichholf, 1992]. Una delle teorie più discusse è la serie di argomentazioni denominata “ le sette chiavi” di Graham Cairns-Smith [1985]. La prima chiave proviene dalla biologia: l’informazione genetica è l’unico elemento capace d’evoluzione (biologica) perché è trasmesso di generazione in generazione. Benché contenuta nel DNA, l’informazione genetica non è una sostanza, ma un’istruzione per formare delle strutture. La seconda chiave viene dalla biochimica: il portatore dell’informazione genetica, il Università degli Studi di Genova Pag. 9
  • 15. –L’intelligenza biologica– DNA, non fa parte delle componenti essenziali dell’evento metabolico nelle cellule. Cairns-Smith ha derivato la terza chiave dai primordi dell’architettura. Un arco di pietre massicce non si costituisce da sé, né lo si può erigere accostando pietra a pietra. Fino a quando manca l’elemento centrale – la chiave di volta – continua a crollare. Per costruirlo si colma inizialmente lo spazio – che risulterà in seguito vuoto – sotto l’arco, così che le pietre possano poggiare su un sostrato fino al momento in cui è inserita l’ultima e l’arco può reggersi da sé. È possibile che strutture complesse siano insorte così anche in ambito biochimico. Gli enzimi, in linea di principio, operano in questo modo: si prestano da supporti senza modificare se stessi, o semmai solo per breve tempo, per tornare poi di nuovo nello stato di partenza. La quarta chiave assume come modello le funi. L’informazione genetica è ordinata nel DNA non solo a mo’ di scala di corda, ma è anche avvolta su se stessa simile a una spirale (doppia elica). Come in una fune non occorre che le singole fibre percorrano tutta la corda per garantirne la saldezza, così nel DNA la funzionalità permane anche quando si aggiungono nuovi pezzi o fili, oppure quando mancano o spariscono delle parti. Nessun filamento di DNA deve essere rimasto integro dall’inizio fino a oggi. La torsione provvede affinché insorgano continuamente nuovi raccordi e conduzioni. La quinta chiave corrisponde al cambio di funzione. Citando l’autore: “Come nella storia della tecnica ogni nuova macchina è basata su una più semplice, spesso nemmeno più riconoscibile o quasi nella nuova in cui è stata ottimizzata, è possibile che anche nelle forme di vita gli elementi iniziali scompaiano abbastanza presto, quasi senza lasciare traccia, mentre s’impone il loro principio funzionale che si manifesta ulteriormente nonché variamente sviluppato. Forse non abbiamo quindi più modo alcuno per risalire agli antesignani primitivi degli organismi”. Questo concorda con quanto afferma il Reichholf [1992]: “Le grandi e nuove svolte si verificano evidentemente, di norma, con rapidità [perciò i missing link sono irrimediabilmente persi]. Quel che richiede tempo (e appare documentato dai reperti fossili) sono i perfezionamenti del lungo periodo” (ma si veda l’opinione di Charles Darwin sulla imperfezione delle memorie geologiche [“L’origine delle specie”; Cap. IX]). La sesta chiave s’ispira alla formazione dei cristalli. I cristalli si costruiscono da sé. A volte insorgono degli errori a causa dell’inserimento di un atomo sbagliato nella struttura cristallina. I computer si avvalgono di cristalli “drogati” per manipolare il flusso degli elettroni; nel berillio, per esempio, tracce di cromo colorano di verde il silicato, oppure minime quantità di ferro conferiscono alla stessa pietra preziosa un colore azzurro. I silicati sono sotto questo profilo addirittura ideali, perché la struttura dell’ossido di silicato d’alluminio contiene molti posti liberi che possono essere occupati altrimenti, a patto che l’atomo si adatti alla carica senza che la struttura di base ne sia danneggiata o addirittura distrutta. Da qui deriva l’attitudine all’auto-organizzazione. Da ciò deriva la settima e ultima chiave: i minerali argillosi. Sono presenti ovunque sulla terra. I loro microcristalli crescono e si dissolvono ai minimi Università degli Studi di Genova Pag. 10
  • 16. –L’intelligenza biologica– cambiamenti delle condizioni esterne. Le catene e i filamenti di silicati di alluminio nell’argilla, che possono combinarsi anche in strutture piane senza che ne risultino legami troppo forti, costituiscono una matrice ideale. Combinandosi con loro è possibile che si siano formate e consolidate le strutture che hanno portato ai primi, semplici veicoli d’informazioni. Il modello appena descritto non è privo di difetti soprattutto sui meccanismi che avrebbero permesso di unire portatori d’informazione e metaboliti. E’ straordinario costatare come la durata della vita sia determinata dal portatore d’informazione (che di per se è immortale): esso può uccidere la cellula, costringendo il “metabolismo” (anch’esso immortale nella sua forma primigenia) a produrre prodotti insufficienti o tossici per la cellula stessa, ma può anche allungarne la vita, producendo enzimi appositi come la telomerasi. Se questo gene preposto alla morte programmata della cellula non intervenisse, la parte metabolica sarebbe in grado di allungarci la vita [va costatato, però, che i prodotti genetici come la telomerasi allungano la vita delle singole cellule, ma tal enzima è particolarmente attivo nelle cellule cancerose, quindi la morte programmata ha la funzione di preservare il complesso multicellulare, cioè di conservare, in questo, intatto il patrimonio dell’“informazione” genica]. Freeman Dyson [1988] e Lynn Margulis [1970, 1981] hanno formulato due teorie che permettono di sopperire alle mancanze riscontrate nelle precedenti constatazioni. Freeman Dyson [1988] parte dal presupposto fondamentale che metabolismo e portatori d’informazione siano insorti indipendentemente l’uno dagli altri. Poi si sarebbe verificato un take-over, quindi si sono associati in una specie di simbiosi. Le microsfere non sono portatrici d’informazione; si possono formare autonomamente senza aver bisogno delle istruzioni di un “data base” come quello insito nel genoma; la loro crescita e la moltiplicazione-riproduzione per esplosione dipendono solo da come e quanto sia possibile usufruire degli elementi costitutivi fondamentali presenti nel brodo primordiale; la loro crescita è simile a quella dei cristalli d’argilla nel fango umido. Esse rispondono esattamente alle condizioni postulate per un take-over: hanno un metabolismo semplice e possono procedere – attraverso l’involucro solo parzialmente permeabile – a una separazione fra sostanze utili (e cioè impiegabili nel metabolismo) e inutili; però non dispongono di portatori di in formazioni che possano controllare l’evento al di là delle reazioni chimiche. Sulle origini del portatore d’informazione si formulano due ipotesi: • L’origine extraterrestre; il portatore d’informazione si sarebbe formato nello spazio, poi cadde sulla Terra, portato da meteoriti o dalla scia delle comete [il DNA resiste molto bene alle bassissime temperature, ma è passibile di disgregazione termica]. • L’origine terrestre. Lynn Margulis [1970, 1981], a differenza di Dyson, parte dalla constatazione che gli elementi costitutivi dell’informazione genetica sono chimicamente molto simili ad una molecola che svolge nel processo del metabolismo della cellula una singolare funzione. Si tratta Università degli Studi di Genova Pag. 11
  • 17. –L’intelligenza biologica– dell’adenosintrifosfato (la sigla chimica è ATP), un composto molto ricco di adenosina e di fosfati. L’ATP è stato molto esattamente definito la «valuta energetica della cellula». Partecipa alla maggior parte delle più importanti trasformazioni d’energia nella cellula. La produzione o l’acquisizione di ATP fanno dunque parte delle esigenze fondamentali della cellula vivente. Lynn Margulis ritiene che “le eccedenze nel metabolismo di ATP si sarebbero legate in tratti inizialmente brevi di catene di DNA, i quali avrebbero influito sul metabolismo come degli agenti patogeni. Similmente a ciò che avviene oggi nel momento dell’insorgere di malattie prodotte da virus, vi sarebbe stata una massiccia reazione di difesa da parte del metabolismo, che avrebbe saldato i piccoli e mobili tratti di DNA in unità maggiori, le quali si sarebbero a questo punto moltiplicate meno aggressivamente, tanto da assomigliare ora più a una specie di parassiti. Questi sarebbero infine diventati simbionti: un processo che si può osservare in una moltitudine di forme del regno degli organismi. L’informazione genetica sarebbe dunque insorta negli esseri viventi come una malattia alla quale l’organismo si sarebbe opposto con crescente successo (corsivo mio). Il comportamento dei virus e di altri simili portatori di «geni nudi» fornisce argomenti a favore di questa teoria, la quale spiega tuttavia in modo meno persuasivo il costituirsi dell’informazione ereditaria in sé. I relativi, necessari mattoni costitutivi presuppongono l’esistenza dei prodotti di scarto di una cellula che, per essere capace di fornirli, doveva essere già alquanto progredita e avanzata in fatto di metabolismo. Se le cose sono andate così, allora andrebbe sicuramente attribuito alla componente rappresentata dall’organismo il merito o il privilegio di aver avviato la vita. L’apparato genetico sarebbe allora solo un prodotto tardo e proprio dell’evoluzione della cellula”. E’ possibile che il portatore di informazione sia stato un parassita, tanto più che nelle cellule più antiche era libero all’interno della cellula, cioè non era confinato nel nucleo, sebbene di un tipo molto particolare. Egual sorte ipoteticamente sarebbe toccata ai mitocondri, che sono a tutti gli effetti le nostre centrali energetiche. Il DNA nudo può esistere, ma è inerme, solo potenzialmente vivo, effettivamente tale esclusivamente grazie al metabolita. Le modificazioni che il DNA apporta al metabolita che lo ospita sono notevoli. Oggi non è possibile distinguere nella vita di una cellula un’attività metabolica da quella genetica (anzi sull’onda dell’euforia generata dalle nuove scoperte sui geni si tende a genetizzare ogni aspetto della vita). Il metabolismo non solo è l’élan vital del portatore d’informazione, ma sopperisce a tutte quelle parti a cui manca un’istruzione specifica E’ un piccolo mondo, come una serra in cui hanno trovato un utile riparo altre forme vitali (infatti si suppone che mitocondri e cloroplasti siano state cellule non digerite, poi divenute simbiotiche; tale collaborazione ha portato un tale vantaggio che ha surclassato tutte le altre alternative). All’interno di esso il portatore d’informazione ha potuto evolversi, da poche catene di nucleotidi a RNA, da RNA a DNA, dalla forma A a quella B e a molte altre. Università degli Studi di Genova Pag. 12
  • 18. –L’intelligenza biologica– Nel frattempo venne privilegiata la capacità di interagire con il metabolismo in modo da rendere l’ospitante più adatto delle altre alternative contemporanee, e, sfruttando la tendenza parassita a riprodursi, rese tali acquisizioni trasmissibili. Abbracciando l’ipotesi del parassitismo dobbiamo notare che i vantaggi portati al metabolita servirono al portatore di informazione per aumentare le proprie possibilità di sopravvivere e riprodursi. Con gli organismi pluricellulari l’apporto del DNA permise la formazione di apparati diversificati, tra loro interagenti. Ovviamente esiste un limite a ciò che può essere codificato, perciò le cellule che non erano in grado di sfruttare la plasticità tipicamente metabolica a scapito d’una rigida codificazione, furono soppresse dalle rapide variazioni dell’ambiente. Immaginate cosa accadrebbe se il nostro organismo fosse un sistema rigido: le nostre prestazioni non sarebbero né incrementabili né diversificabili (ad esempio chi ha il gene del “ciclista” non sarebbe mai un buon tennista; fortunatamente conosco degli ottimi “passisti veloci”-tennisti). La febbre,ad esempio, non è altro che un incremento della temperatura sfruttato per velocizzare le reazioni chimiche (ma quando la temperatura diviene eccessiva le reazioni sono abnormi e perciò dannose) di natura prevalentemente metabolica. Lasciando le ulteriori implicazioni a dopo, possiamo dire d’essere arrivati al punto. Sfruttando la definizione classica d’intelligenza [abilità di orientarsi, modellare e controllare l’ambiente], dobbiamo concludere che il potenziale richiesto per simili attività non può essere altro che metabolico, tanto più che il vaglio delle strategie (vedi “modellare”) e le strategie stesse non sono ereditabili. L’intelligenza permette all’essere vivente di adattare nel miglior modo possibile o sé all’ambiente o l’ambiente a sé (modificando lo stesso). Se un uomo sente freddo ha di fronte due strategie: coprirsi o accendere il riscaldamento (o la stufa o improvvisare un falò). E’ un’attività multiforme, incompatibile con la rigida strutturazione dei geni, rigidità che è, invece, tipica dell’istinto. Per tornare alle teorie di Piaget, l’intelligenza è un equilibrio tra assimilazione (che vedremo in seguito) ed accomodamento, tra ciò che è fuori e ciò che è dentro il soggetto. Tutto questo ricorda l’attività del metabolismo? Occorre, e non sarà mai sufficiente, ricordare che l’organismo attuale non possiede una netta separazione tra gli effetti dei geni e quelli del metabolismo, ma si possono isolare soltanto aspetti in cui v’è una prevalenza dell’uno sull’altro. E’ innegabile la prevalente attività dei geni nello stimolare e impostare le strutture, ed è facilmente concepibile quante ripercussioni possa avere un ordine sbagliato derivato da un “codice” alterato. L’Otx2 è il gene che progetta il cervello; la Calponina H3, dopo aver ricevuto dall’Otx2 l’ordine di costruire il cervello tiene ferme le cellule (primitive) della testa perché si trovano già nel posto giusto, decidendo così quali diverranno cervello e quali il resto del sistema nervoso.[Edoardo Università degli Studi di Genova Pag. 13
  • 19. –L’intelligenza biologica– Boncinelli,1999]. Lo stesso gruppo ha isolato il gene che dà l’impulso alla formazione (o meglio alla separazione) della testa e degli arti. Pochi mesi fa è stato scoperta la sequenza DNA che regola la separazione dell’interno della vena cava del petto in quattro parti, che diverranno poi i due atri e i due ventricoli del cuore. Un cromosoma 21 in eccesso provoca ritardi mentali. Ciò non inficia quanto detto all’inizio circa l’influsso dei geni sugli individui, ma sottolinea con franchezza come la spinta di partenza abbia la sua importanza per tutte le acquisizioni successive. Dopo aver lanciato una pietra, nessuno ha più il potere di controllarla; il bersaglio verrà raggiunto solamente se la spinta iniziale è stata buona, pur avendo subito, nel suo percorso, tutti gli effetti che prevede la fisica! Ma l’organismo non è una pietra e la spinta iniziale non è tutto. Robert Plomin [1998, 1999]ha individuato, confrontando il corredo genetico di 300 bambini selezionati dai test di ammissione di alcune scuole dello Iowa, un tratto di DNA (Igf2r) che si trova più spesso nei bambini ritenuti dotati di un Q.I. nettamente superiore alla media3. E’ riconosciuto che chi mostra buone attitudini intellettive di base, se non si mantiene mentalmente attivo peggiora sensibilmente, non è sufficiente l’Igf2r. Non si può pretendere d'esser pronti quando il senso della nostra vita è esclusivamente il Sabato sera o la Soap opera preferita. L’intelligenza è un “muscolo” che bisogna tener allenato. Se qualcuno avesse il gene Schwarzenegger, ma fosse stato ingessato dall’infanzia all’età matura, sembrerebbe Johnny Winter (che non è muscoloso, ma è uno dei migliori chitarristi sulla scena mondiale). Probabilmente anni di riabilitazione non sortirebbero alcun effetto visibile, cioè una volta che il fisico si è formato in modo così svantaggiato a nulla serve l’ipotetico gene Schwarzenegger. Il metabolismo ha raggiunto un equilibrio (dinamico) funzionale e non risente più delle spinte programmate dei geni. Ovviamente si può barare somministrando alcune sostanze tristemente note nello sport (i cui effetti realmente dopanti talvolta sono dubbi). Per spiegare l’interazione tra geni e metabolismo nella genesi dell’intelligenza biologica, mi riferirò alla teoria (forse è più adatta la definizione di “rilettura”) della parassitosi desossiribonucleica e dei suoi effetti sulla vita (e sul comportamento), teoria che da ora in poi chiamerò BAO4. Origini dell’intelligenza metabolica. 3 Identificare un gene dell’intelligenza non significa affermare che l’intelligenza sia di origine genetica. I geni non sempre “impongono” nella spinta iniziale, ma possono anche “lasciare delle porte aperte”, cioè possono esistere dei GENI DI NON INTERVENTO. 4 BAO è sia l’accostamento di B, riferito alla forma di DNA più diffusa, di A, forma del RNA e del DNA primitivo, e di O, inteso come assenza di materiale genico, riferito al metabolismo, sia l’acronimo di Became And Order, cioè diventa e comanda, riferito al particolare tipo di parassitosi-simbiosi, sia un riferimento a Behaviour Organic Analysis . Inoltre parlandone con un amico appassionato di fumetti mi è stata fatta notare una vaga somiglianza con un Manga, che appunto si chiamava Baoh! Università degli Studi di Genova Pag. 14
  • 20. –L’intelligenza biologica– Innatisti, piagettiani, freudiani, ercksoniani, e altri concordano sull’esistenza di uno sviluppo programmato stadiale, con caratteristiche diffuse e specifiche. La teoria di Freud è “istintualistica”, nel senso che le pulsioni o “spinte originarie” sono elementi irrazionali o disposizioni psicologiche innate, propulsive e relativamente indeterminate. Si differenziano dagli istinti propriamente detti perché non sono performati nel loro svolgimento e adatti all'oggetto, ma tendono a ridurre uno stato di tensione interiore, con modalità non rigidamente predeterminate. Le pulsioni sono comuni a tutti gli uomini e nelle età dello sviluppo assumono connotati stadiali. La spinta endogena legata alla riproduzione-sostentamento, nell’accezione del primo Freud, può essere un programma genetico? Non è un’affermazione sorprendente dichiarare che alcuni nostri atteggiamenti siano programmati ed ereditati, genetici. Appena nati abbiamo un corredo d’istinti, detti riflessi (di complessità diversa), a cui affidiamo la nostra sopravvivenza (o perlomeno la affidavamo in tempi remoti): il grasping della mano e del piede, lo stepping, il placing, il rooting, la suzione, la reazione di difesa, il riflesso di Moro, il riflesso di Galant, il riflesso d’orientamento. Alcuni sono vitali come la suzione (raramente i bambini nascono senza questo riflesso, altrimenti sarebbero destinati a morire), altri fanno parte del complesso di monitoraggio teso alla richiesta d’aiuto (al genitore o a chi si prende cura di lui). Dalle mie esperienze con i neonati e i bambini in età prescolare, ho costatato che l’infante identifica più di una figura a cui affidarsi, ma in linea gerarchica. Questa fiducia è un atteggiamento istintivo ed è tanto più sviluppata quanto più la presenza delle figure parentali non è esaustiva. Non è fattore legato al tempo che i genitori passano o no con il figlio, ma alle caratteristiche. Una cosa singolare mi capitò a proposito di un bambino di circa un anno, figlio di amici: un paio di volte gli accomodai il giocattolo rotto, improvvisamente acquistò l’abitudine di attirare la mia attenzione ogni volta che gli si rompeva un giocattolo o se, nonostante gli sforzi della madre, non riusciva a recuperarlo (specie le palline). Ero diventato il suo “tecnico di fiducia”. Lo stesso bambino, che solitamente mi salutava festosamente, al ritorno da lunghe ferie con i genitori manifestò nei miei confronti la classica reazione verso l’estraneo. Pensai che si fosse dimenticato di me, perciò gli chiesi chi fossi. Sorpresa: sapeva perfettamente chi ero! Il bambino, avendo cambiato ambiente, non riconobbe più la mia funzione all’interno della sua personale società. Reintegrato nel suo mondo abituale, tornai ad essere per lui quello di sempre, esattamente allo stesso posto nella sua gerarchia. Questa fiducia-dipendenza nella competenza dell’adulto può essere tenuta ben nascosta. Un esempio apparentemente di segno opposto è il seguente: un giorno incontrai una persona di mia conoscenza che portava a spasso il nipotino. Università degli Studi di Genova Pag. 15
  • 21. –L’intelligenza biologica– Cominciò a piovigginare e il nonno del piccolo mi chiese di tenerglielo un attimo, mentre andava a sistemare il passeggino nella macchina. Sistemati a poca distanza sotto un porticato, il bambino, di circa un anno, non voleva separarsi dal nonno e tentò più volte di scapparmi. Cercai di tranquillizzarlo, ma fu inutile, il piccolo non mi ascoltava. Quando si lanciò di corsa verso il nonno lo fermai e, indicandogli una grata un po’ sconnessa, gli dissi “lì no! Perché cadi e ti fai male”. Il bambino mi fissò e restò a guardare il nonno senza oltrepassare la grata: mi aveva dato retta! Un altro episodio singolare mi capitò mentre attendevo d’essere servito al reparto salumi del super mercato: una bambina sul passeggino lanciò a terra il cappello vicino ai miei piedi; lo raccolsi e lo diedi alla bimba, che si rivelò essere piuttosto robusta. Poco dopo ripeté quel gesto e mi centrò nuovamente. Raccolsi il cappello e lo consegnai alla madre. A quel punto la bimba, guardandomi, additò la vetrina del bancone, in cui erano esposte le specialità gastronomiche. Ottenuto il permesso della madre, cominciai a descrivere alla piccola tutto ciò che si vedeva nella direzione che stava indicando. La bimba mi guardò perplessa e insistette ad indicare. Subito dopo la commessa diede alla madre una porzione di focaccia salata… e la bambina cominciò a strillare, tendendo entrambe le mani verso l’ambita leccornia. Ottenuta, aggredì la tutta focaccina con quattro dentini e una foga mai vista. La madre imbarazzata mi assicurò che “da mangiare gliene do, ma quando vede la focaccia sembra che non abbia mangiato da settimane”. La focaccia era proprio nella direzione che disperatamente indicava la bambina, ma dietro all’esposizione del bancone, e la perplessità del suo sguardo era dovuta alla mia scarsa comprensione di ciò che ella mi voleva dire (dammi la focaccia). Aveva trovato in me un possibile alleato per raggiungere l’oggetto voluto. Mi tornò alla mente ciò che scrisse J. Dewey [1922]: “Presto parrà cosa incredibile che gli psicologi abbiano discusso se scegliere tra idee innate e un intelletto vuoto, passivo plasmabile come cera. Infatti, sembra che un’occhiata ad un fanciullo avrebbe dovuto rilevare che la verità non sta in nessuna delle due dottrine, tanto ovvio è l’ondeggiare delle specifiche attività native…Gli impulsi non ancora sviluppati e dispersi di un fanciullo non si coordinano in poteri utili, eccetto che attraverso dipendenze e amicizie sociali”. Gli esempi citati mostrano che il bambino può conferire all’adulto un ruolo specifico (si potrebbe definire tecnico), il ruolo di esperto o quello di strumento per raggiungere qualcosa; tutti questi aspetti nascono non solo dalla consapevolezza di essere “inadatti”, ma soprattutto da un istinto alla “dipendenza” verso l’adulto in genere, spesso esemplificato dal pianto (evidentemente non appreso) del neonato. Il bambino, quando sviluppa maggiori performance comunicative, non indica solamente per manifestare un desiderio [richiesta], ma anche per chiedere conferma di una percezione, ad esempio il bambino indica verso la finestra (dalla quale proviene un suono insolito) e guarda negli occhi l’adulto ripetendo il gesto e alternando lo sguardo tra la fonte del rumore e Università degli Studi di Genova Pag. 16
  • 22. –L’intelligenza biologica– l’interlocutore, finché questi non guarda nella stessa direzione e/o commenta [Camaioni, Volterra e Bates, 1976]. Non credo, ad esempio, che il ritagliare la voce della madre dal rumore di fondo sia innato (nel senso di genetico, a giudicare dall’affermazione dell’autrice “quando componente innata è determinata fin nei dettagli, è possibile che l’ambiente funga semplicemente da innesco…viceversa quando la predisposizione innata è specificata come inclinazione o una traccia minimale, è probabile che l’ambiente agisca come qualcosa di più che un innesco… anche una traccia minimale implica l’esistenza di predisposizioni dell’attenzione verso particolari input nonché un certo numero di predisposizioni sistematiche che vincolano la computazione degli stessi input) come sostiene Annette Karmiloff-Smith [1992], ma che l’acquisizione di suoni familiari (rassicuranti) lo sia, o per meglio dire sia la conseguenza di una predisposizione più generale alla “dipendenza”, perciò il neonato riconosce il suono della voce della madre in quanto gli è diventato familiare nel periodo di gestazione (in questo senso è innato, cioè frutto di un deposito di un input sensoriale molto forte sulla struttura auto-organizzante confinante con il Driver sensorio, quest’ultimo geneticamente, ma non irrimediabilmente, programmato), infatti i quattro giorni canonici in cui il soggetto non mostra di reagire alla voce della madre corrispondono, in realtà, al periodo di riadattamento dell’apparato uditivo (infatti sino alla nascita i suoni sono trasmessi attraverso il liquido, che essendo un mezzo più denso altera i suoni). Traendo esempio dai miei numerosi piccoli acciacchi, ho costatato che dopo aver sopportato per due mesi un “tappo” all’orecchio destro, quando riuscii ad eliminarlo i suoni attorno a me erano diversi (riverberati), e quest’impressione durò per qualche ora. Pensate come dovrà sentire un neonato! La predisposizione alla dipendenza spinge il neonato ad “affidarsi” a ciò che gli è familiarmente non ostile o a reagire positivamente di fronte a “situazioni” familiarmente collegate a sensazioni, diciamo così, piacevoli. Probabilmente l’infante ha una capacità di “memorizzare” impensabile per un adulto, per cui un solo contatto fornisce ulteriori dati da collegare a quelli già noti, anche se solo in tratti essenziali (nel senso di “evidenti”). Molti sostengono che il suono del cuore della madre abbia un potere rassicurante e induca il sonno, ma lo stesso effetto si ottiene con il ritmo di una macchina per scrivere, che nulla ha del suono del muscolo cardiaco! B.A.O. e metabolismo (mentale). Atteggiamenti particolarmente semplici nella loro identificazione stadiale e precostituita sono quelli legati alla sessualità. Nella maggior parte dei casi tutto si svolge secondo un copione comune. E’ singolare costatare come una volta superata l’adolescenza, gli atteggiamenti di chi sta entrando in quel periodo di cambiamenti sembrino da un lato stupidi e poco “efficaci” e dall’altro molto più intelleggibili di ciò che dobbiamo affrontare noi stessi Università degli Studi di Genova Pag. 17
  • 23. –L’intelligenza biologica– (sempre che si sia raggiunta una certa franchezza interiore o almeno cognitiva). Altri atteggiamenti sono più complessi da riconoscere, ma basta scorrere alcuni testi di biochimica o neurologia per accorgersi che con la somministrazione di alcune sostanze (in particolar modo ormoni) si possano pilotare alcuni atteggiamenti negli animali “inferiori”, ma anche nell’uomo si ottengono sensibili forzature dello stesso. Negli animali inferiori è abbastanza semplice manipolare il DNA e con ciò creare delle alterazioni atte a studiare le interazione tra comportamento e codice genetico. Premettendo che K. Lorenz e N. Tinbergen, i fondatori dell’etologia, hanno considerato il comportamento aggressivo un’entità biologica, recentemente sono stati prodotti diversi mutanti di topo alterati nel loro comportamento aggressivo. I geni scelti per indagini di questo tipo codificano enzimi e recettori che, sulla base di studi biochimici e fisiologici, si pensa siano modulatori del comportamento. In alcuni casi si è visto che tali geni interessano anche altri aspetti del comportamento oltre all’aggressività. In una lunga serie di studi è stata esaminata nei vertebrati la correlazione tra i livelli del neurotrasmettitore serotonina e l’aggressività impulsiva [Coccaro, 1989]. Dagli studi di Brunner e dei suoi collaboratori [1993] risulta che in una famiglia olandese la mutazione nel gene umano per l’enzima che metabolizza la serotonina, la monoammina ossidasi A (MAO-A), è correlata al comportamento aggressivo. Anche se gli studi sui topi mutanti nel gene MAO-A sono successivi, è interessante, ai fini della chiarezza, che il fenomeno sia riproducibile e comune. Infatti i topi mutanti per la monoammina ossidasi mostrano una maggiore aggressività [Hen, 1996] e che topi mutanti per il recettore della serotonina 5-HTlb mostrano un’alterazione simile nel comportamento. Il tipo particolare d’aggressione osservata in questi casi è di tipo difensivo e si manifesta con un attacco verso un topo nuovo introdotto. L’interpretazione di questi studi non è semplice. Il fatto più riproducibile è che alterazioni del sistema serotoninergico influenzano il comportamento di tipo impulsivo. Oltre a questo, lo studio sulla MAO-A suggerisce una correlazione tra alti livelli di serotonina e aggressione impulsiva: questi topi presentano un aumento significativo del livello di serotonina. Il comportamento del mutante 5-HTlb è più difficile da spiegare con questa ipotesi relativamente semplicistica: infatti i topi che presentano questa mutazione sono nettamente carenti anziché eccedenti di questo recettore. Per conciliare questi dati contraddittori è necessaria, senza dubbio, una comprensione più sofisticata dei siti d'azione delle mutazioni e dei loro effetti a livello cellulare. Per esempio, il recettore 5-HTlb alterato, in questi topi mutanti, è di tipo presinaptico, e modera l’attività della terminazione nervosa che lo contiene, perciò, una diminuzione nella risposta a questi recettori potrebbe determinare un aumento nell’attività del sistema. Anche i mutanti per altri enzimi hanno mostrato un comportamento aggressivo differente dai tipi normali [Hen, 1996]. In tutti i casi, i geni sono stati scelti per il loro probabile coinvolgimento nell’apprendimento e nella Università degli Studi di Genova Pag. 18
  • 24. –L’intelligenza biologica– plasticità. Il mutante per la chinasi CaM mostra un comportamento più aggressivo. Allo stesso modo, una mutazione della forma neuronale dell’enzima che sintetizza l’ossido di azoto (nNOS) conferisce un’insolita aggressività: tale enzima è implicato nel processo di potenziamento a lungo termine e in altre forme di plasticità neuronale. Mutanti fyn per la tirosinchinasi mostrano un aumento nella risposta agli stimoli che inducono paura (tra gli altri effetti c’è una riduzione nell’apprendimento). Per ciò che riguarda la variazione in ambiente naturale una soluzione alternativa è quella di cercarle in un organismo che sia già a un livello sofisticato per quanto riguarda l’analisi di genetica molecolare, per esempio il moscerino della frutta. Le larve del moscerino della frutta presentano un polimorfismo nel comportamento locomotorio associato alla ricerca e all’assunzione di cibo (foraging). Questo polimorfismo comportamentale che si osserva in natura, si ritrova sia nei ceppi di Drosophila cresciuti in laboratorio che in quelli selvatici. Il comportamento viene valutato misurando la lunghezza della traccia del percorso fatto dalle larve durante l'esplorazione per il cibo su una piastra di agar coperta di lievito Gli studi di Sokolowski [1992] hanno isolato due categorie di larve: erranti e sedentarie (rover e sitter). Le erranti, in un determinato intervallo di tempo, lasciano una traccia più lunga rispetto alle sedentarie Quando si analizzano caratteri quantitativi non è rara una distribuzione bimodale di questo tipo, anche se non c’è stata alcuna selezione per quanto riguarda i fenotipi. Come per la maggior parte delle varianti comportamentali isolate da popolazioni naturali, i due tipi presentano distribuzioni quantitative sovrapposte. Tuttavia, quando sono stati prodotti ceppi omozigoti per il fenotipo errante o sedentario, essi presentarono una sovrapposizione minima e dimostrarono che la differenza erranti-sedentarie è causata dall’azione di un singolo gene che è stato chiamato foraging e che il fenotipo errante è geneticamente dominante su quello sedentario. Sembra che i geni, e questa è una delle parti più importanti per la formulazione della BAO, abbiano un notevole influsso sui meccanismi di riproduzione e di sostentamento, ma è giusto che i geni influenzino la riproduzione essendo proprio loro stessi a riprodursi (ricordate la prima chiave della vita?). Il corteggiamento in un maschio di moscerino della frutta è influenzato anche da altri componenti del sistema di apprendimento. La chinasi CaM (discussa precedentemente in relazione al mutante per l’aggressività nel topo) svolge un ruolo importante nei cambiamenti indotti dall’esperienza nel sistema nervoso. I maschi che sono geneticamente difettivi per questa chinasi non riescono ad apprendere dall’esperienza di essere in presenza di femmine che si sono già accoppiate. In questi esperimenti, l’attività della chinasi è manipolata in vitro facendo esprimere nei neuroni un gene sintetico per uno specifico inibitore dell’enzima. Quando l'inibitore è presente a livelli bassi, i maschi sono in grado di essere addestrati correttamente, cosicché essi interrompono il corteggiamento di una femmina Università degli Studi di Genova Pag. 19
  • 25. –L’intelligenza biologica– già accoppiata, ma poi dimenticano immediatamente quando vengono posti in presenza di una femmina vergine e cominciano a corteggiarla con insistenza, come se non avessero mai subito alcun condizionamento. Quando i livelli dell’inibitore sono più alti, i maschi difettivi non vengono affatto condizionati dalla femmina già accoppiata e continuano a inseguirla per ore senza sosta. Anche le femmine apprendono dalle loro esperienze di corteggiamento, ma in modo differente: esse rispondono al canto d’amore del maschio. I moscerini femmina rispondono al canto del maschio diventando più recettive alle proposte di corteggiamento. Se una registrazione del canto viene ascoltata da una femmina solitaria che successivamente viene posta in presenza di un maschio, essa si accoppierà più rapidamente rispetto a una femmina che non ha ascoltato il canto nei minuti immediatamente precedenti. Inoltre, essa ricorda il canto per diversi minuti. Tuttavia la capacità di ricordare il canto è assente nelle femmine che hanno il gene per la sintesi dell'inibitore della chinasi CaM. Esse sentono il canto normalmente e rispondono a questo se poste immediatamente in presenza di un maschio, ma dimenticano molto più rapidamente rispetto alle femmine normali [Griffith, 1993]. Altri geni mutanti per l'apprendimento, dunce e amnesiac, influenzano anch'essi l'abilità, da parte di una femmina, di ricordare il canto di corteggiamento [Kyriacou e Hall., 1984]. I moscerini in cui la chinasi CaM è inibita come i mutanti dunce, presentano piccoli difetti nella plasticità della trasmissione sinaptica. Un evento precoce dell’apprendimento durante il corteggiamento è regolato nella Drosophila da un altro gene che codifica la proteinchinasi C, coinvolta nella trasduzione dei segnali dei secondi messaggeri. Quando nei maschi viene introdotta una mutazione che porta alla produzione alterata di questo enzima, i moscerini mostrano un difetto contrario a quello che si ottiene con l’inibizione da chinasi CaM: essi manifestano una normale perdita di interesse per le femmine dopo un sufficiente contatto con una femmina già accoppiata, cioè ricordano gli effetti del condizionamento, ma durante il periodo di apprendimento vero e proprio non mostrano di esserne influenzati [Kane e Greenspan, l996]. In altre parole, essi immagazzinano l’esperienza dell'apprendimento per il futuro, ma non mostrano, al momento, nessun segno di reale addestramento. La selettività del difetto indica di nuovo, che aspetti discreti del corteggiamento sono separabili geneticamente. Nell’esempio precedente, regioni anatomiche distinte sono responsabili del riconoscimento sessuale rispetto allo stesso corteggiamento e si possono identificare vie biochimiche distinte: alcune implicate nelle risposte immediate del condizionamento durante il corteggiamento, altre necessarie per le risposte a lungo termine (fonte: R. J. Greenspan,1999). Sulla importanza dei recettori e delle sostanze nel comportamento si pensi alla teoria di Zuckerman [1984] sul sensation seeking: secondo l’autore esiste un livello tonico di attività del Sistema Catacolaminico, che influisce sull’umore, l’attività generale, l’interazione sociale e che motiva il ricorso a determinate stimolazioni o attività (o l’evitamento di esse). I ricercatori di sensazioni avrebbero un basso livello di attivita del Sistema Catacolaminico, Università degli Studi di Genova Pag. 20
  • 26. –L’intelligenza biologica– cioè basse quantità di dopamina, norepinefrina e MAO, e le loro attività sarebbero preposte ad aumentare il livello delle suddette sostanze nel sangue; gli evitatori di sensazioni avendo alti livelli, anelano alla tranquillità poiché la misura è già colma. La scoperta di ciò che la stampa ha definito il ”gene del giocatore d’azzardo”, sembra confermare le osservazioni dell’autore. Questo gene predisporrebbe le persone a gradire attività cariche di rischio, come il gioco d’azzardo o gli sport estremi, proprio perché tara il livello d’attività del S C molto basso. Occorre, per una miglior comprensione, rilevare che un’educazione improntata al rispetto del denaro o della propria integrità fisica farà assumere al gene manifestazioni diverse o potrebbero ridurne gli effetti. Riprendendo l’esperimento di Maragñon del 1924, Schachter e Singer [1962] somministrarono adrenalina a tre gruppi, uno informato sulle reazioni che avrebbero dovuto avere, uno non informato e uno disinformato, e, diversamente dal loro predecessore, li esposero a situazioni emotivamente stimolanti. Le reazioni degli informati furono meno alterate dalla situazione “adirante” (un complice simulava di non gradire le domande dello sperimentatore, protestando con veemenza, arrivando fino ad abbandonare la stanza sbattendo la porta). I disinformati furono, invece, i più coinvolti. Con un semplice avvertimento è stato possibile alterare gli effetti di una sostanza. Come si è notato precedentemente, le modifiche o sintonizzazioni fini nell’organismo avvengono tramite il metabolismo, perciò è ipotizzabile che sia stata una reazione metabolica la causa del minor effetto eccitatorio della dose di adrenalina. Occorre notare che se ciò fosse vero, significherebbe che la “parola” ha potuto modificare, o più precisamente, preparare le risposte metaboliche. Nell’uomo le strutture programmate sono difficilmente alterabili, sia in virtù d’una maggior complessità, sia per la spiccata attività o indipendenza della parte metabolica (d’origine metabolita). E’ comunque vero che una somministrazione di ormoni può modificare, ad esempio, le reazioni. Ciò è particolarmente riscontrabile nelle nicchie comportamentali di tipo riproduzione-sostentamento (aggressività, sessualità, paura, ecc…); esse hanno una forte componente di programmazione, che si spiegherebbe, ipotizzando un atteggiamento parassitario del portatore di informazione, con la difesa da parte del genoma (inteso non come gene egoista, ma come forma di vita, una colonia di geni) delle proprie aspettative vitali e riproduttive (ricordate la prima “chiave della vita”?). Nell’uomo, però, a causa delle spinte evolutive, il genoma ha tratto vantaggio dalla caratteristica plastica del metabolismo, di cui sfrutta le acquisizioni temporanee (grossomodo il fenotipo) e a lungo termine (la “cultura” e il potere modificatorio della parola citato poco sopra). Nell’uomo gli istinti sono ridotti e sono sostituiti per lo più dalle pulsioni. Le pulsioni si comportano come il leggendario personaggio, situato al lato del palcoscenico, che spinge sulla scena gli artisti colti dal panico o titubanti (compito che tocca spesso al Direttore di Scena). Tutto ciò che l’artista farà sulla scena dipenderà dal buttadentro solo per il fatto che l’ha messo lì, e qualora il buttadentro fosse il Direttore di Scena stesso, dalla stessa “persona” dipenderà anche la durata dell’esibizione, Università degli Studi di Genova Pag. 21
  • 27. –L’intelligenza biologica– poiché, se l’attore si blocca, il nostro metaforico personaggio può sempre far entrare le ballerine, per calmare la platea e garantire all’artista la ritirata . Gli istinti, invece, sono paragonabili al marionettista che, tirando i fili, controlla ogni movimento dell’attore (di pezza e legno). Non è necessario postulare una miriade di fattori genetici del comportamento, come il riconoscimento della voce materna, l’attaccamento ai genitori (i neonati spesso piangono anche se non hanno fame o sono bagnati, semplicemente perché “si sentono soli”), o altri atteggiamenti simili, ma un'unica pulsione (vedi sopra) verso l’adulto, derivante dal più basilare (e vitale) “istinto di dipendenza”. Il rapporto di Spitz sulla sindrome dei bambini ricoverati in brefotrofio (detta ospitalismo) rivela che, nei bambini abbandonati alla nascita o comunque prima del terzo mese di vita, i sintomi compaiono solamente dopo il quarto mese di vita, cioè in conseguenza della cessazione del contatto parziale che il bambino ha con la nutrice. Abbandonato a se stesso, il bambino comincia un processo d’autodistruzione che avrà ripercussioni sulla sua vita futura, soprattutto sulla salute e lo sviluppo fisico, sia motorio che cognitivo. Escludo arbitrariamente dalla discussione le implicazioni per la vita sociale, poiché esse sono state spesso analizzate con scarsa lucidità, molto bigottismo, soprattutto in ambito statunitense, e perché interagiscono in esse troppi fattori estranei al tema trattato. Se il bambino viene abbandonato dopo il quinto mese di vita, passate quattro settimane, inizia ad isolarsi, per poi culminare in un processo autodistruttivo che può manifestarsi alternativamente con una “rinuncia a vivere” o con atteggiamenti autolesionistici. Il quadro suddetto viene definito “depressione anaclitica” ed è superabile con un riavvicinamento alla madre. Superato, nel giro di pochi giorni, il periodo più acuto della sindrome depressiva, il bambino manifesta un comportamento gradevole e accomodante con tutti, capacità d’adattamento che è, però, solo apparente ed è destinata a lasciare il posto a reazioni impulsive di fronte a nuove varianti nell’ambiente (un cambio d’infermiera o di reparto). Non vedo, ripeto, la necessità di postulare rigide codificazioni in virtù di una migliore performance evolutiva, prospettiva che risente troppo della moderna predilezione per i meccanismi, soprattutto quelli pensanti. La sicurezza che fornisce la familiarità di una situazione o di certe persone sono da ritenersi conseguenze in maggior parte legate alla memoria e all’apprendimento, o, se vogliamo, dalla traccia lasciata dall’essere nel mondo sul metabolismo. In origine, ad esempio, non esiste una netta differenza tra la madre ed il suo sostituto, tale differenza si costituisce solamente dopo che il tempo ha consolidato una certa situazione. Se qualcuno conosce il “gioco dello psicanalista” ha già un’idea di cosa cerco di affermare. Per chi non lo conoscesse, ecco un breve riepilogo: si chiede ad una persona di uscire dalla stanza, in modo da permettere ad uno dei rimasti di raccontare un sogno recente a tutti gli altri presenti; uscita la “vittima”, chi regge il gioco spiega che nessuno deve raccontare veramente un sogno, ma occorre rispondere alle domande del “pollo” seguendo due Università degli Studi di Genova Pag. 22
  • 28. –L’intelligenza biologica– regole, cioè alle domande la cui ultima parola inizia con una lettera compresa nella prima metà dell’alfabeto bisogna rispondere affermativamente, alla seconda metà negativamente. Ovviamente vige la regola di non contraddizione. Al termine delle domande, tese a ricostruire il sogno, formulate ai presenti dal giocatore-investigatore, si sarà creato un racconto veramente fantastico e degno d’essere ritenuto “roba da psicanalisti”. La sorpresa più grande, però, sarà quella del “pollo”, perché, quando dovrà identificare l’autore del sogno, scoprirà che non esiste né sogno né sognatore. Applicando il modello fornito dall’esempio, non sono necessarie numerose facoltà o intelligenze, geneticamente o neurologicamente predisposte (come, invece, ha teorizzato da Gardner per l’intelligenza), ma si possono generare numerosi “aspetti” da un numero modesto di essi, una volta che siano stati performati da “tracce” di realtà metabolizzata. Formulando il concetto in base all’argomento della tesi, ne deriva che, nonostante esistano facoltà verticali in cui l’intelligenza, e non solo essa, si specifica, specificando aree adatte allo scopo di migliorare il file system (performazione dell’I.), l’intelligenza resta una comunque (e comune). L’intelligenza, in questo caso, è espressione del metabolismo non vincolato da “ordini” genetici (metabolismo emancipato), rinuncia del portatore d’informazione finalizzata a sopperire alle possibili carenze informazionali (inadeguatezza rispetto alle possibili variazione di nicchie vitali). Quindi l’ordine “semplice” è “metabolismo fa’ tu!” (cioè un “non”– ordine). La PET ha confermato l’esistenza di aree di maggior attività, ma sempre su un attività più generale del cervello. Gardner stesso, nella “critica della teoria delle intelligenze multiple”, ammette che alcune qualità del comportamento cognitivo sfuggono all’interpretazione dell’intelligenza come diverse facoltà di tipo verticale, soprattutto su aspetti plastici dello sviluppo e totalizzanti come la saggezza (che non è meta raggiungibile da tutti). L’architettura neurale è un escamotage evolutivo-genetico, un regalo del portatore di informazione per rendere più efficace il metabolismo nella gestione dell’ambiente esterno per permettere di sopravvivere e riprodursi con maggior successo, esplorando altre nicchie vitali. Occorre ricordare che è comunque il DNA a riprodursi, DNA che sfrutta il metabolismo come veicolo e casa, ricambiando con il suo potere mutageno, fonte di “capacità” sorprendenti per la semplice cellula–“spugna” metabolita. A ciò si riferisce la teoria BAO. Conseguentemente occorre notare come nelle forme di vita animali concorrano aspetti pulsionali, istintuali e plastici. Anche l’ameba che non ha sistema nervoso dimostra capacità d’apprendimento, inspiegabili se ci si ostina a identificare l’intelligenza con l’architettura neurale. Noi uomini dobbiamo molto al cervello, un meccanismo altamente performante, ma troppo simile ad un pallottoliere se privato del sostegno orizzontale del metabolismo. Vorrei far notare che nelle prestazioni intellettive influisce tutto l’insieme chiamato corpo. Un deficit fisico dapprima influisce sulla performance, poi, Università degli Studi di Genova Pag. 23
  • 29. –L’intelligenza biologica– se persiste, sulla struttura cognitiva stessa (e viceversa). Esempi alla portata di tutti sono l’ipoglicemia, la pressione bassa, ipotiroidismo e l’ipertiroidismo. Oggi si parla di cervello “bagnato”, cioè in contatto con il corpo tramite gli “umori”, i liquidi come il sangue, e non più esclusivamente tramite cablaggi. Esistono neurotrasmettitori per i messaggi a cortissimo raggio, sostanze come le endorfine per quelli a medio-corto raggio, o gli ormoni quelli a lungo raggio. La categoria di sostanze a medio corto raggio sono le acquisizioni più recenti e le più studiate, ma la capacità di interferire con esse è stata sfruttata precedentemente, anche se in modo ingenuo, con le droghe. Una prova scientifica fu fatta da Benassi e Canestrari [1954], che iniettando un farmaco anfetaminico, la Metadrina, ottennero dai soggetti risposte al TAT (Thematic Apperception Test) più ricche di particolari, meno stereotipiche e più dirette (cioè si ridusse il tempo di latenza, il tempo impiegato dal soggetto per iniziare a raccontare la storia immaginata) rispetto agli standard precedenti. Esulando dagli stati d’alterazione, ho trovato singolari spunti sugli effetti del corpo sulla “mente” parlando con un amico, Davide, che mi ha riferito due singolari avvenimenti: il cambio d’inclinazione della propria scrittura come spia (→ elemento soggettivo correlato) di un’imminente malattia e la narcosi da lente a contatto. Sull’ultimo dei due occorre dare una spiegazione. quando le lenti, soprattutto le monouso, esauriscono la loro funzione e si caricano di scorie (batteriche e chimiche), gli occhi inviano un messaggio di pericolo; il cervello di alcune persone reagisce stimolando una sensazione che predispone al sonno; ogni tentativo di tenersi svegli e lucidi è destinato al fallimento (lavare il viso con l’acqua gelida, bere caffè o prendersi a schiaffi), mentre togliere le lenti e lasciare l’occhio libero ha un effetto immediato e tonico. Modularità vs orizzontalità. Per quanto non apprezzi la metafora mente-computer, bisogna riconoscere che una simile analogia ha permesso di orientarsi meglio nell’affrontare le facoltà (di numero limitato) verticali di matrice genetica, anche se l’hardware biologico è talmente diverso da rendere questa analogia poco più valida dell’idea di un quadrato ottenuta con quattro stuzzicadenti posati su di un tavolo, poiché le parti celebrali suddette sono fortemente permeate tra loro a differenza di quelle del computer. Esistono parti modulari nella mente e basta uno sguardo ai protocolli delle osservazioni sperimentali sui neonati per rendersene conto. I riflessi citati in precedenza sono comuni a tutti e hanno un’importanza vitale. Anche il riflesso di Moro, all’apparenza inutile, aveva una funzione quando eravamo scimmieschi e stavamo appesi alla peluria del dorso delle nostre madri, ed il grasping era correlato ad esso. La sua inutilità attuale permette la scomparsa dello stesso nel giro di pochi giorni, dimostrando che questi “Driver” modulari non sono così rigidamente non modificabili come suggerisce Fodor. Gli esperimenti sui mici allevati in ambienti monotoni o Università degli Studi di Genova Pag. 24
  • 30. –L’intelligenza biologica– privati dell’uso di un occhio tramite bendaggio adducono ulteriori prove della resettabilità (più o meno parziale) delle informazioni innate Esistono istinti comuni agli adulti e ai bambini di pochi mesi come quello di proteggersi il viso in presenza di un oggetto “in rotta di collisione”, o di coprire con movimenti caratteristici le parti vulnerabili al solletico se sollecitate. Sono comuni, tra piccoli e grandi, le pulsioni erotiche, sono diverse (in certi casi non troppo) le manifestazioni e l’appagamento. Biologicamente (e fino a non molti anni or sono, o ancora oggi in alcune comunità, anche socialmente) siamo programmati per essere efficienti “adulti” già a sedici anni, perché la nostra cultura è più giovane della storia biologica che ci accompagna. Non occorre sorprendersi, soprattutto se si guarda ai secoli passati (è sufficiente il 1800), periodi in cui i due ritmi di vita erano abbastanza sovrapposti; la nostra cultura ha dilatato artificialmente l’adolescenza (ultimamente anche l’infanzia). Wyath Hearp a vent’anni aveva vissuto più esperienze, personali e sociali, di un quarantenne d’oggi, ma aveva valutato meno informazioni di quante ne stanno giornalmente in un quotidiano come Il Corriere della Sera. Fino a qualche anno fa la statura definitiva veniva raggiunta a diciassette anni, oggi si tende a crescere in altezza fino a ventuno (compreso il sottoscritto). Le nuove abitudini di vita hanno influito anche sui parametri temporali dello sviluppo, proprio perché uno sviluppo rapido determina un minor “sfogo” delle potenzialità metaboliche, poiché viene raggiunto l’equilibrio. Come si diceva a proposito del gene Schwarzenegger e del fenotipo Winter, quando viene raggiunto lo stadio della formazione è difficile cambiare, anche se le potenzialità restano invariate (basta somministrare alcune sostanze che creino un nuovo equilibrio artificiale). Contrariamente a come pensano la maggior parte delle persone e degli ecologisti, l’equilibrio assoluto si ottiene con la morte, mentre la vita è un “processo” che tende all’equilibrio (in biologia l’equilibrio si ottiene quando non è più necessario alcun processo, cioè con la morte, infatti negli organismi viventi si parla di omeostasi), cioè un equilibrio dinamico. Se ci mettiamo su un piede solo siamo in equilibrio, ma restando così moriremmo di fame; se ci mettiamo in cammino per andare al fast food, non moriremo di fame (ma di altro!) e non saremo più in “equilibrio”, ma passeremo da un attimo di sbilanciamento ad uno successivo di compensazione (se non fosse così finiremmo direttamente a terra al primo passo). L’intelligenza, fin ora, è stata accomunata (e talvolta identificata) con il metabolismo, in altre parole con un processo dinamico, che va distinto dalle abilità, che si denotano come strutture operative un po’ più “statiche”. Un’altra considerazione da fare è che le teorie sul funzionamento del cervello siano troppo ancorate alla materia grigia e al neurone come cellula del metabolismo del pensiero. Basti considerare che, limitandosi alla struttura “asciutta”, solo recentemente si è presa in considerazione la materia bianca, ritenuta da sempre un semplice tessuto connettivo, con un’attenzione particolare agli astrociti. Università degli Studi di Genova Pag. 25
  • 31. –L’intelligenza biologica– E che dire della teoria dei memi di Richard Dawkins [1976], brillante e atta a far parlare di se, a cui è stato sufficiente spostare il comportamento del gene egoista alla teoria dell’informazione. La teoria secondo cui l’evoluzione va riferita ai geni che potenzierebbero l’ospite donandogli, se vincente, la possibilità di sopravvivere e scroccandogli la riproduzione nel corso delle generazioni, è giustificata dai meccanismi di modifica del DNA nella sua replicazione nelle cellule germinali, che non sono conseguenti alle pressioni esterne (normalmente). L’evoluzione è la via più diretta per ottenere un certo “prodotto” e la continuità di un simile processo è casuale. Come ha giustamente notato Stephen Jay Gould [1999], se la Pikaia Gracilens si fosse estinta, oggi non esisterebbero i vertebrati, ma in linea di principio la “roulette” genetica potrebbe riprodurre, in un secondo tempo, i vertebrati, anche così come li conosciamo noi. La convergenza adattiva n’è un esempio, così come la formazione di strutture pressoché identiche da linee evolutive differenti. I meccanismi, con cui i cromosomi si scambiano e modificano i geni, fanno sì che il nuovo prodotto (il feto) sia più di una semplice somma del 50% paterno e del 50% materno. Ognuno di noi è portatore di tre mutazioni genetiche, per lo più della sintesi proteica. Questa considerazione è una parte fondamentale nella BAO, ma mentre Dawkins parla di una lotta evolutiva dei singoli geni e come molti si dimentica del metabolismo, la teoria della DNA-parassitosi esalta le qualità del metabolita ospite e chiarisce (o cerca di chiarire) i rapporti tra le due componenti dell’organismo, inoltre considera il portatore d’informazione come un’entità “vivente” all’interno di un piccolo mondo (il metabolismo) che può modificare e serve da filtro con il ben più esteso mondo esterno, strutturata come una colonia. Dawkins trasporta l’intuizione genica sui memi, intuendo e descrivendo una parte molto importante della vita, ma mancando, sotto certi aspetti, parzialmente il bersaglio. “I memi – citando il commento di Dennet [1991] – hanno già giocato un ruolo fondamentale nel determinare chi o che cosa siamo. La mente «indipendente» che lotta per proteggersi dai memi esterni e pericolosi è un mito; c’è, nel sottofondo, una persistente tensione tra l’imperativo biologico dei geni e gli imperativi dei memi, ma sarebbe sciocco «schierarsi» con i nostri geni – significherebbe commettere l’errore più grossolano della sociobiologia del senso comune. Su quali fondamenta possiamo, allora, basarci mentre lottiamo per mantenerci in equilibrio nella tempesta di memi in cui siamo irretiti? Se non è la replicazione, qual è l’ideale eterno rispetto al quale «noi» giudicheremo il valore dei memi? Dovremmo notare che i memi per i concetti normativi – per dovere e bene e verità e bellezza – sono tra i più resistenti cittadini della nostra mente e che tra i memi che ci costituiscono giocano un ruolo centrale. La nostra esistenza come noi stessi, ciò che siamo come pensatori – e non come organismi – non è indipendente da questi memi. Riassumendo: l’evoluzione dei memi ha il potere di contribuire considerevolmente al potenziamento del progetto del sottostante meccanismo del cervello – a gran velocità, se paragonato al passo lento con cui Madre Natura affronta i compiti di ricerca e sviluppo genetici”. Università degli Studi di Genova Pag. 26
  • 32. –L’intelligenza biologica– Ma cosa sono in effetti i memi, informazione pura? E perché sono così invasivi e altrettanto utili per noi (ma non solo per noi)? L’informazione è stupida se nessuno la sa riconoscere o sfruttare ed è persa se non trova un supporto durevole su cui fissarsi5. Secondo Dawkins i memi sono entità a se stanti, ma non sono propenso ad accettare una simile versione a cuor leggero, per quanto ritenga che la sua teoria descriva un aspetto della realtà innegabile. Se ammettiamo la BAO, i memi diverrebbero il codice di replicazione della parte metabolica di un organismo, ed è per questo motivo che i memi riescono a far breccia nei nostri cervelli, in particolar modo nella loro porzione d’origine metabolica, non l’opposto come afferma Dawkins, che vede nei memi un genere di vita replicante come il portatore di informazione. Da notare come questo far breccia sia relativo al grado di comunanza evolutiva. Scusate la notazione piccante, ma devo ammettere che fui sorpreso quando potei fare un raffronto tra i gemiti nell’accoppiamento di mammiferi come i gatti e i gemiti di certi individui umani, molto simili e assolutamente diversi da quelli delle vipere (che si accoppiano come i mammiferi essendo ovovivipari). Così com’è palese il significato del guaire del noto “cane bastonato”. Esistono codici elementari su cui possono viaggiare i memi, ma è improponibile insegnare ad un cane la giustizia, mentre riesce a comprendere l’autorità nella gerarchia domestica, la tristezza, il dolore e la paura nell’uomo pur essendo famiglie generi e specie diverse (ma stessa classe). Ciò è da ricercare nella plasticità della struttura cognitiva ad apprendere nuovi Buoni Trucchi e alla comunanza di alcune strutture (il cervello protomammiferale, ad esempio), complete dei loro Driver neurali-genetici. Occorre puntualizzare che le strutture sono il più delle volte simili, ma non uguali, certamente compatibili grazie alla sintonizzazione fine del metabolismo La tradizione è portatrice della maggior parte dei memi ed è la strategia riproduttiva del metabolita nell’organismo, di cui conserva la plasticità. Vi siete mai chiesti perché un padre pur insegnando ad un figlio tutto ciò che sa questi lo apprende in modo distorto e personale, pur conservando una forte impronta, mentre la parte del genoma che c’è stato tramandato dai genitori potrebbe essere replicato senza modifiche (in laboratorio però!)? La tradizione è ciò che ci dovrebbe permette di partire da un livello più elevato rispetto ai nostri predecessori, ma essendo a sua volta una codificazione e largamente diffusa in certi situazioni perde un po’ in elasticità, diventando a sua volta “geniforme”. Se il gene egoista comporta una trascurabile partecipazione nella sua attività mutagena (ripeto in condizioni normali, senza radiazioni e agenti chimici di sintesi!) dell’ambiente e del singolo, limitandosi alla pressione selettiva delle migliori “colonie” di nucleotidi esistenti, il metabolismo 5 Un’esperienza può essere tramandata ad altri raccontandola (cioè imprimendola nel cervello di un’altra persona), oppure depositandola su carta (scrivere le proprie memorie), e, al giorno d’oggi, anche su nastro magnetico o su un supporto digitale, sempre ammettendo di essere capiti o creduti e che il formato in cui è codificato il messaggio sia usufruibile o sia stato aggiornato. Ma se uno raccontasse tutto al vento o scrivesse un libro che nessuno mai leggerà? Università degli Studi di Genova Pag. 27
  • 33. –L’intelligenza biologica– culturale deve tanto al singolo come a tutto l’insieme della specie a cui è affidato il compito di moltiplicare una data acquisizione, che però deve essere abbastanza usufruibile dalla moltitudine (il singolo sul gruppo ed il gruppo sul singolo: il cerchio della conoscenza). Se ammettiamo che l’intelligenza sia una manifestazione del “metabolismo”, si spiega la gran quantità d’apparenti contraddizioni rivelate dai tentativi di misurarla, ma anche perché Terman abbia intuito che il test per la valutazione del livello scolastico creato da Binet potesse essere usato per misurare la sfuggente intelligenza. In effetti, la capacità di poter usufruire della “tradizione” (recettività) è una delle condizioni necessarie affinché l’intelligenza possa evolversi, sfruttando quell’insieme d’acquisizioni simboliche che rendono performante il metabolismo celebrale, ma anche che possa rendere disponibile a tutti il prodotto del singolo. Come afferma Dennet [1991], che però non riconosce i memi come parte e prodotto della plasticità fenotipica dell’uomo e di alcune altre specie: “I miglioramenti del progetto che si ricevono dalla propria cultura – raramente si deve «reinventare la ruota» – schiacciano probabilmente la maggior parte delle differenze genetiche nel progetto del cervello, eliminando i vantaggi di quelli che partono leggermente avvantaggiati alla nascita”. Ecco spiegato il peso che il mondo sociale ha nel definire ciò che è o non è intelligente (il che non è detto che sia proprio così, ma n’è la conseguenza). Allora la mente non è modulare come sostengono Gardner e Fodor (che ammette però una parte orizzontale)? Come ho scritto precedentemente esistono parti modulari e per rendersene conto basta osservare un bambino. Il cervello si modularizza per migliorare il file system, ma anche perché le informazioni dipartono da quelle parti modulari (i Driver delle periferiche sensoriali e vitali) che abbiamo dalla nascita, più ridotte di quanto ritengano gli autori citati sopra e in parte più flessibili di quanto sia disposto a credere Fodor. E’ innegabile che la visione o l’udito abbiano dalla nascita una serie di istruzioni basilari, dei Driver che permettono di utilizzare questi potenti mezzi di misura (nella parte dedicata ai rapporti tra l’intelligenza ed il mondo fisico chiarirò in che modo i sensi sono strumenti di misurazione). Da queste parti modulari parte il messaggio che, strada facendo, si deposita. Come per il gioco dello psicanalista, si formano zone con concentrazioni di informazioni (abilità) che fanno supporre a una struttura decisa a tavolino dai geni ma che in realtà sono in parte casuali e in parte retti da poche e semplici regole…. …Come ho già detto, è l’interpretazione a dare alle scoperte oggettive (o meglio oggettuali) la chiarezza6. Più che una zona preposta al 6 Guardando una trasmissione sui “misteri” dell’antico Egitto, venne presentata una prova ben documentata (fonte: Erodoto) sull’esistenza di iscrizioni misteriose sulla superficie delle piramidi di Giza. Tutti gli ospiti non trovarono nulla da obiettare, finché non giunse un ulteriore esperto che definì la cosa ovvia in quanto le persone a cui Erodoto chiese il significato delle iscrizioni erano analfabete. Un simile errore fu indotto dal numero delle maestranze che utilizzavano la scrittura, interpretato dai Greci come Università degli Studi di Genova Pag. 28