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DAL BRAIN DRAIN ALLA CIRCOLAZIONE DEI TALENTI:
                     REALTÀ ITALIANA ED ESPERIENZE INTERNAZIONALI

                                             Associazione ITalents
                                               www.italents.org




                                               Rapporto steso da:


                                               Paolo Balduzzi
                                Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
                                                IEF e CIFREL
                                      Largo Gemelli, 1 – 20123 Milano
                                           Telefono: 02.7234.3214
                                              Fax: 02.7234.2781
                                      e-mail: paolo.balduzzi@unicatt.it



                                                    Abstract

Il fenomeno del brain drain, inizialmente considerato solo come negativo, è stato più recentemente studiato
anche considerandone i possibili effetti positivi. Da un alto, i Paesi avanzati concorrono sempre di più per
coltivare e attrarre i talenti migliori, il cui valore è considerato uno degli elementi chiave dello sviluppo delle
economie avanzate. Dall’altro, i Paesi in via di sviluppo, verificato il fallimento delle tradizionali politiche di
trattenimento dei talenti, puntano su nuove politiche che favoriscono la circolazione del proprio capitale
umano. Tuttavia, indipendentemente da come si guardi al fenomeno, il nostro Paese appare in forte difficoltà.
In questo contributo viene descritta la realtà italiana del brain drain, partendo dalla letteratura scientifica e
prendendo in esame alcuni dati nazionali e internazionali. Inoltre, vengono prese in esame alcune esperienze
internazionali e nazionali di politiche per la gestione della fuga dei talenti. Il rapporto si conclude con una
serie di osservazioni critiche su come dovrebbe articolarsi l’azione dei policy maker per favorire una mobilità
internazionale virtuosa da parte dei migliori talenti italiani.


Parole chiave: Brain drain - Degiovanimento – Squilibri generazionali




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Paolo BALDUZZI
Ricercatore in Scienza delle finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si occupa di
political economy, federalismo fiscale e finanza locale, pensioni, disuguaglianza intergenerazionale.
Coordina il sito di informazione www.degiovanimento.com e il blog http://degiovanimento.blogspot.com.
INTRODUZIONE

L’attenzione pubblica nei confronti del brain drain è aumentata considerevolmente negli ultimi anni. Il
fenomeno, inizialmente considerato come sicuramente negativo, è ora più attentamente valutato come
potenzialmente positivo sia, come ovvio, per i Paesi di destinazione, sia per gli stessi Paesi di origine dei
flussi migratori.

In linea di principio, le migrazioni di lavoratori non sono necessariamente un male. Il nostro Paese, nel corso
degli anni, è stato interessato da ondate di migrazioni verso l’estero che, con intensità e forme diverse nel
tempo, hanno portato molti lavoratori italiani a costituire piccole e grandi comunità in sud America, negli
Stati Uniti, in quasi tutti i Paesi europei e mondiali.

La volontà di realizzare appieno le proprie capacità, acquisite con l’esperienza o con lo studio, e, anche più
semplicemente, la necessità di trovare un lavoro sono forze positive dal punto di vista individuale. È la spinta
al miglioramento, alla crescita, delle volte al riscatto, che permette e ha permesso di migliorare le condizioni
di vita di molti lavoratori. Tuttavia, questa risposta individuale al bisogno di miglioramento si può scontrare
con un indebolimento collettivo quando i fenomeni migratori privano un Paese di risorse utili al resto della
popolazione. È questo il caso della cosiddetta “fuga dei cervelli”. Si consideri per esempio un Paese
tradizionalmente caratterizzato da scarsa istruzione terziaria: il fatto che molti tra i pochi laureati
preferiscano portare altrove le proprie capacità costituirebbe un ulteriore indebolimento del capitale umano
del Paese stesso. In un mondo in cui la capacità di innovare e di tenersi aggiornati risultano fondamentali per
competere, vincere e crescere, perdere una quota dei lavoratori che più contribuirebbero a vincere questa
competizione risulta un indubbio impoverimento per quel Paese.

Il Paese a cui si fa riferimento non è certamente un Paese ipotetico ma, come probabilmente già si intuisce, è
l’Italia. I numeri raccontano di un Paese ancora poco istruito, ulteriormente impoverito dalla migrazione di
forza lavoro qualificata e incapace di attrarne di nuova da altri Paesi. Un quadro certamente cupo, dipinto a
tinte ancora più fosche dalle cronache periodiche e da divulgazioni, che, seppur aneddotiche e non
scientifiche, raccontano le storie di chi ha deciso di abbandonare l’Italia.

È indubbio che la politica debba impegnarsi a cercare soluzioni e a dare risposte. È però doveroso che queste
risposte non siano basate sulla pubblica percezione del problema ma su analisi quantitative e precise del
fenomeno.

Questo rapporto ha l’obiettivo di fornire qualche spunto ai policy maker che vogliano ragionare in maniera
non ideologica sul tema della fuga dei cervelli. Si tratta solo di un primo tassello, perché i dati a disposizione
sono ancora pochi. Tuttavia, questo lavoro mette insieme in forma ragionata e critica i più importanti dati
finora raccolti sul fenomeno e presenta un quadro delle più importanti esperienze straniere e italiane in
materia.

Più precisamente, il presente lavora si articola come segue. Nella prima sezione, si definiscono il concetto di
brain drain e dei suoi effetti positivi e negativi, presentando come la letteratura scientifica ha affrontato la
questione nel tempo. Nella seconda sezione, si illustra invece la situazione italiana, attraverso l’esposizione
dei dati e delle informazioni più rilevanti sulla mobilità di lavoratori qualificati e studenti. Si chiariscono
inoltre quali siano i maggiori problemi per i ricercatori per quanto riguarda le fonti di questi dati. Nelle
sezioni terza e quarta si presentano e commentano rispettivamente alcune delle maggiori esperienze
internazionali e italiane per la gestione del brain drain; in particolare, per il caso italiano si commentano
esperienze a livello nazionale, regionale e universitario. Infine, la sezione quinta conclude, proponendo
alcuni elementi critici di riflessione che si spera possano essere utili ai policy maker nazionali e
internazionali.

1. LA VALUTAZIONE DEL BRAIN DRAIN NELLA LETTERATURA SCIENTIFICA

L’attenzione pubblica nei confronti del brain drain, fenomeno noto in Italia come “fuga di cervelli” o come
“fuga dei talenti”, è cresciuta molto negli ultimi anni, anche se con un ritardo dovuto alla scarsità dei dati a
disposizione. Inizialmente il fenomeno era visto come sicuramente negativo (il termine drain e fuga sono

                                                        1
molto espliciti da questo punto di vista): questa visione tradizionale, che pure sopravvive tra molti
commentatori, valutava infatti i movimenti migratori dei laureati verso l’estero come una sicura perdita del
Paese di origine e non considerava la possibilità che questi individui tornassero in futuro. Più recentemente,
questo approccio è stato messo in discussione e si è cominciato a valutare gli effetti benefici delle migrazioni
di cervelli. Dapprima si sono studiati gli eventuali benefici che queste possono creare anche nel Paese di
origine (per esempio, attraverso il reddito trasferito sotto forma di rimessa). Di seguito, la ricerca ha anche
considerato la possibilità di flussi migratori di ritorno. In altre parole, si è passati da un approccio al
fenomeno in termini di “fuga” a un approccio basato sulla “circolazione”.

Parlare di brain drain e dei suoi effetti, negativi o positivi che siano, ha senso però quando possono essere
stabilite (con una robusta teoria) e verificate (in via empirica e non solo aneddotica) una serie di relazioni
causali.

Innanzitutto, che esista e sia misurabile un beneficio economico diretto che un talento sottrae al proprio
Paese quando emigra e che apporta invece al nuovo Paese di residenza; per esempio, un lavoratore che
emigra porta con sé della base imponibile, vale a dire il reddito prodotto, che viene persa dal Paese di
partenza. Inoltre, è necessario stabilire che esista e sia misurabile anche un eventuale beneficio indiretto
creato dal fenomeno migratorio; è il caso per esempio delle esternalità positive collegate all’afflusso di
maggiore e migliore capitale umano (stranieri laureati). È necessario inoltre verificare che esistano e che si
possano misurare i costi diretti di questa emigrazione; ci si riferisce in questo caso non tanto alla perdita di
beneficio economico quanto, per esempio, al cosiddetto “costo fiscale” dell’emigrazione, nella forma di
spesa pubblica che uno Stato sostiene per formare i propri laureati e i cui ritorni invece sono incamerati da un
altro Stato. Infine, non si possono escludere i benefici per uno Stato derivanti proprio dall’emigrazione dei
talenti: è il caso, non certo secondario nemmeno per un paese come l’Italia, delle rimesse.

Oltre all’esigenza di questi dati, esistono altri tipi di problemi, legati a eventuali confronti internazionali.
Quando si volesse infatti confrontare tra loro Paesi diversi, si dovrebbero utilizzare misure standard per le
variabili di riferimento indicate sopra, identiche o perlomeno molto simili. Come lamentato però da più
studiosi (si veda, per esempio, Dumont e Lamaître, 2004), perfino la definizione stessa di “emigrazione” può
variare da Paese a Paese, rendendo i confronti poco informativi. Al contrario, se si limitasse l’analisi a un
solo Paese, esisterebbe ovviamente più libertà nella scelta degli indicatori e nella definizione delle variabili.
Tuttavia, le misure ottenute non direbbero nulla riguardo alla posizione di quel Paese nel panorama
internazionale.

È necessario dunque, a questo punto, riassumere sia la letteratura in materia, per approfondire tutti gli aspetti
critici collegati alla misurazione del fenomeno, sia presentare le fonti dei dati utilizzati nelle ricerche, per
evidenziarne soprattutto le mancanze e i limiti.

Come anticipato, la letteratura scientifica in materia (che peraltro interessa diverse discipline) trova ancora
parecchia difficoltà a definire una misura univoca del fenomeno. In generale, però, è possibile trovare un
certo consenso sull’esistenza delle seguenti relazioni di costo e beneficio conseguenti all’emigrazione dei
talenti.

I benefici diretti per i Paesi di destinazione. Docquier e Rapoport (2009) suggeriscono che il brain drain
può influenzare il tasso di crescita della produzione, tanto nel Paese di destinazione quanto in quello di
origine, attraverso cinque canali: produttività totale dei fattori, accumulazione di capitale umano, abilità e
produttività media della forza lavoro più istruita, qualità delle istituzioni, e rimesse. L’evidenza empirica
mostra che produzione, accumulazione di capitale e perfino occupazione sono generalmente positivamente
correlate con il livello di immigrazione totale di un Paese, e che questi benefici aumentano all’aumentare
della migrazione qualificata, mentre gli effetti dell’immigrazione, anche qualificata, sulla produttività totale
dei fattori sono incerti (Bertoli et al., 2009). Inoltre, poiché l’aumento della produzione va di pari passo con
l’aumento del reddito, il Paese di destinazione potrà contare anche su benefici fiscali collegati
all’ampliamento della base imponibile. Tuttavia, isolare il contributo dell’immigrazione e quantificarlo non è
sempre possibile e agevole. Una misura alternativa dei benefici, seppure necessariamente limitata a specifici
ambiti di applicazione, è quella proposta da I-com (2011), che ha provato quantificare il valore dei brevetti
registrati dai migliori venti scienziati italiani residenti all’estero. Per quanto innovativa e interessante, questa

                                                         2
misura non considera il fatto che la registrazione dei brevetti è spesso opera di ricercatori che lavorano in
team e con attrezzature adeguate. Se questi ricercatori fossero rimasti in Italia, non è dimostrabile che
avrebbero creato lo stesso valore.

I costi. Un laureato è uno studente che ha frequentato per almeno tre anni una università. Anche se il laureato
ha partecipato in qualche modo ai costi per la propria istruzione, la percentuale di copertura dei costi,
specialmente nelle università statali, è estremamente limitata. Una misura “minima” del costo fiscale del
brain drain è quindi ottenibile in termini di spesa pubblica dedicata all’istruzione dei laureati che poi hanno
lasciato il Paese. Una misura “massima” invece potrebbe considerare l’intero costo per l’istruzione (dalla
primaria alla terziaria) del laureato che lascia il Paese.

I benefici per il Paese di origine. I lavoratori emigrati all’estero tendono a trasferire al Paese di origine (o
meglio, alle loro famiglie nel Paese d’origine) parte dei propri guadagni. È stata questa considerazione che
ha fatto concludere alla letteratura tradizionale che la circolazione dei cervelli, soprattutto nei Paesi più
poveri, potrebbe avere benefici per gli stessi Paesi di origine. Uno studente laureato in un Paese povero e che
decida di lavorare in patria potrebbe e non essere in grado di guadagnare quanto guadagnerebbe all’estero. In
effetti, è proprio per questo motivo che i laureati migliori se ne vanno. Il ritorno in patria di parte del reddito
prodotto all’estero ripaga o addirittura più che compensa il Paese di origine per il costo fiscale sostenuto per
l’istruzione del laureato espatriato. La letteratura più recente (Stark, Helmenstein e Prskawetz, 1997; Beine,
Docquier e Rapoport, 2001; Bertoli e Brücker, 2008) ha inoltre evidenziato come proprio le prospettive di
emigrazione siano positivamente correlate con l’aumento di capitale umano nel Paese di origine, con tutti i
benefici che ciò può portare. L’idea è che, anticipando possibili guadagni più elevati all’estero in caso di
emigrazione, un numero maggiore di cittadini nel Paese di origine sarà intenzionato a investire in istruzione
rispetto al caso in cui invece questa prospettiva non esiste (cosiddetto brain effect). Certamente, in caso di
effettiva emigrazione il beneficio tenderà a scomparire (drain effect); ciononostante, spesso il
comportamento migratorio “effettivo” risulta inferiore a quello “desiderato”; inoltre, una quota di emigranti
potrebbe ritornare nel Paese di origine dopo un certo periodo di anni, portando con sé esperienze e tecnologie
(fenomeno dell’adozione; Docquier e Rapoport, 2009). Ragionando su tutti questi elementi si arriva a una
considerazione fondamentale: come per ogni fattore di produzione, è bene che il capitale umano venga
allocato dove più elevati sono i suoi rendimenti o dove maggiori sono le possibilità che questi rendimenti si
realizzino. È quindi opportuno creare le condizioni perché questo capitale umano trovi conveniente tornare
nel Paese di origine, o perlomeno creare dei network per far circolare le doti di conoscenza acquisite. Ancora
Docquier e Rapoport (2009) ritengono che proprio la circolazione dei talenti abbia contributo all’apertura e
alla modernizzazione di Paesi come Cina e India.

Le esternalità positive e negative. Tra le esternalità positive per i Paesi di destinazione si considerano,
solitamente, quelle legate alla presenza di una società mediamente più istruita nei Paesi di destinazione; per i
Paesi di origine, invece, le esternalità positive fanno riferimento alla capacità dei migranti e dei residenti di
creare reti per la circolazione di idee, good practices e, come appena ricordato, tecnologie. Questa
circolazione vale naturalmente sia per i principi dell’economia (importanza della competizione, del
commercio internazionale, etc.) sia per quelli della politica (importanza della partecipazione, del voto,
dell’informazione libera, etc.), portando miglioramenti al funzionamento di istituzioni quali il mercato e la
democrazia. Tra le esternalità negative, e ciò riguarda invece i soli Paesi di origine, si inseriscono invece
quelle legate all’impoverimento dell’offerta di lavoro, in particolare quando è basso il grado di sostituibilità
tra lavoratori di abilità e livelli di istruzione diversi (Bhagwati e Hamada, 1974; Piketty, 1997). Più
recentemente, è stato anche proposto di considerare esternalità negative quelle legate al cosiddetto
“degiovanimento”1 della società: questo fenomeno ha infatti, tra le sue conseguenze, un rallentamento della
crescita economica e un aumento della corruzione2. Tutti questi benefici (o danni) collegati a esternalità non
si possono dunque escludere; ovviamente, sono però ben difficilmente quantificabili. Un metodo per tenere
in dovuta considerazione questi aspetti potrebbe essere quello di individuare opportune proxy per ogni
esternalità individuata. Al momento, però, la letteratura non ha ancora trovato una proposta convincente.


1
 www.degiovanimento.com.
2
 Sul punto si vedano, per esempio, Balduzzi e Rosina (2010, 2011a, 2011b) o altri contributi su
www.degiovanimento.com.

                                                          3
Oppure, si possono ignorare questi aspetti, sapendo però che in questo modo si perderebbe parte della
comprensione del fenomeno.

A proposito della difficoltà dei confronti internazionali e di trovare degli standard di misurazione del
fenomeno largamente accettati, Dumont e Lamaître (2004), come anticipato, rilevano che in alcuni Paesi
vengono classificati come immigrati tutti coloro che sono nati all’estero, mentre altri Paesi si concentrano
solo su coloro che hanno mantenuto la nazionalità straniera. Inoltre, gli stessi autori lamentano come le
banche dati nazionali tendano a raccogliere maggiori informazioni su chi immigra nel Paese ma a perdere
velocemente traccia dei propri espatriati all’estero. Per quanto concerne il caso italiano, questo significa che
a meno di informazioni precise che solo l’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) potrebbe
fornire, è necessario raccogliere i dati degli emigrati italiani direttamente dalle statistiche straniere, facendo
bene attenzione a concentrarsi sui soli residenti italiani all’estero nati in Italia. Inoltre, vale la pena di
ricordarlo, l’AIRE fornisce informazione solo sugli immigrati che sono registrati presso l’Agenzia stessa.

Docquier e Rapoport (2009), invece, riassumono l’evoluzione delle misure di brain drain utilizzate e dei
successivi miglioramenti. Un primo set di misure (Carrington e Detragiache, 1998; Docquier, Lowell e
Marfouk, 2009) è basato sui dati dei censimenti 1990 e 2000 riguardanti le emigrazioni internazionali verso
Paesi OCSE per livelli di istruzione. I maggiori problemi di queste misure riguardano il fatto che sono basati
sulla popolazione con più di 25 anni, che utilizzano una definizione molto ampia di istruzione terziaria e che
non comprendono informazioni sull’occupazione degli emigrati. Ciò significa che questi indicatori non
permettono di tenere conto del fatto che alcuni emigrati si siano formati già nel Paese di destinazione
(annullando ciò che abbiamo chiamato costo fiscale del brain drain), che non si possa adeguatamente
distinguere tra laureati e detentori di titoli più elevati di studio e che, infine, non si sappia esattamente quanto
questi talenti abbiano reso, in termini di reddito prodotto, nei Paesi di destinazione. In linea di principio, è
infatti possibile che un laureato, pur emigrando, non sia poi in grado nemmeno all’estero di ottenere
rendimenti elevati dal proprio investimento in capitale umano3. La misura proposta in questi contributi è
l’”highly skilled expatriation rate” (HSER), il tasso di emigrazione degli individui altamente qualificati, cioè
la quota di individui, all’interno della popolazione con elevata istruzione, che è emigrata.

Per ovviare al problema del controllo del country of training, Beine, Docquier e Rapoport (2007) hanno
usato dataset in cui approssimano questa variabile con l’età di emigrazione, distinguendone tre: 12, 18 e 22.
Questa correzione, seppur coi limiti che può avere tale approssimazione, permette di valutare dove è
avvenuta la formazione degli emigrati. Se la differenza tra tasso di emigrazione alle diverse età è elevato, ciò
significa che molti individui si saranno formati nei Paesi di destinazione e che, dunque, non c’è costo fiscale
diretto del brain drain.

Ancora Docquier e Rapoport (2009) introducono infine una correzione che migliora l’informazione
contenuta nell’indicatore precedente, vale a dire l’età precisa di ingresso nel Paese di destinazione. Anche in
questo caso, l’età è considerata una proxy del luogo di conseguimento di diversi livelli di istruzione.

Le banche dati utilizzati generalmente nelle ricerche, e potenzialmente molto utili, sono riassunte nella
tabella 1. I dati utilizzati per i confronti internazionali sono solitamente riconducibili ai censimenti nazionali
effettuati ogni dieci anni. Nel corso del tempo alcuni standard di rilevamento sono stati uniformati.
Ciononostante, la bassa frequenza dei censimenti rende l’analisi, seppur indiretta, dei flussi praticamente
impossibile. Ci si può comunque attendere un aggiornamento dei data set esistenti proprio a seguito delle
rilevazioni di questo decennio. È questo il caso dei database di derivazione OCSE, variamente integrati,
corretti e utilizzati, come mostrato poco sopra, nella quasi totalità della letteratura scientifica.

Si tornerà invece più sotto sulle criticità delle fonti nazionali




3
    Quest’ultimo fenomeno è noto come brain waste.


                                                          4
Tabella 1: Fonti informative
Fonte                             Contenuto e limiti
OCSE                              Dati internazionali di stock, relativi ai censimenti decennali, su immigrazioni
                                  per età e titolo di studio. Il migliore per i confronti internazionali ma con
                                  pochi anni a disposizione
EUROSTAT                          Dati internazionali, relativi a spesa per istruzione e caratteristiche degli
                                  emigrati. Il migliore per quanto riguarda la ricchezza delle informazioni
                                  contenute
ISTAT                             Dati sulle emigrazioni annuali relativi all’Italia, per titolo di studio. Dati di
                                  non immediata accessibilità dal sito
AIRE                              Dati relativi ai residenti italiani all’estero. Dati solo parzialmente accessibili
                                  pubblicamente
MIUR                              Dati su studenti e laureati in Italia
ALMALAUREA                        Dati sulla situazione occupazionale dei laureati italiani a uno, tre e cinque anni
                                  dal termine degli studi. Contiene informazioni sul luogo di occupazione
CARITAS/MIGRANTES                 Dati derivati da AIRE, rielaborati con questionari in aree geografiche
                                  specifiche




2. LA SITUAZIONE IN ITALIA

In questa sezione, si presentano alcuni dati, frutto di contributi precedenti o di elaborazioni su fonti
statistiche ufficiali, che entrano nel dettaglio della realtà italiana. Innanzitutto si discute criticamente queste
stesse fonti, evidenziando in particolare le loro lacune e le possibilità di miglioramento. Dopodiché, si
introducono alcune misure di brain drain per quantificare il fenomeno in Italia e per operare alcuni confronti
internazionali. Come evidenziato sopra, però, questo non basta. Il brain drain in sé non è né positivo né
negativo: è dunque importante anche quantificare costi e benefici che queste emigrazioni comportano. Infine,
si presentano alcuni dati sulla mobilità degli studenti italiani e sui flussi di studenti stranieri nelle università
italiane.

2.1 Le fonti: cosa c’è e cosa manca

Come già evidenziato in precedenza, la letteratura lamenta ancora oggi della mancanza di fonti informative
complete e confrontabili. Ciononostante, nell’ultimo decennio si sono succeduti diversi tentativi di
migliorare e integrare i database a disposizione. Si cercherà quindi di caratterizzare il fenomeno del brain
drain per il nostro Paese utilizzando tutte le fonti a disposizione e presentando in maniera critica i risultati
della letteratura. Ovviamente, non si tratterà di numeri totalmente nuovi a chi conosce la materia. Il presente
contributo consiste comunque nel fare ordine tra le misure disponibili e, soprattutto, nell’approccio critico al
loro utilizzo e nell’utilizzo di questi limiti per formulare richieste di integrazione dei database.

Le fonti più importanti, almeno dal punto di vista teorico, sono sicuramente l’AIRE e l’ISTAT. L’AIRE
fornisce la fotografia dei residenti italiani all’estero. Tuttavia, i dati dell’AIRE riguardano esclusivamente gli
Italiani residenti all’estero che volontariamente si sono iscritti e hanno fornito informazioni. Questo aspetto
non è per nulla secondario: diverse ricerche4 hanno infatti evidenziato come esistano discrepanze
quantitativamente molto rilevanti tra la banca dati dell’AIRE e altri database. L’incompletezza e
l’incongruenza dei dati rischiano di fornire una fotografia quantomeno incompleta, se non addirittura errata,

4
  Ghio (2010), per esempio, insiste sulle discrepanze tra dati Eurostat e AIRE per quanto concerne gli Italiani residenti
in Belgio. La scrittrice Claudia Cucchiarato (“Vivo altrove”, Bruno Mondadori, 2010), inoltre, ha condotto un
esperimento sui residenti all’estero per “La Repubblica”. Dei 25.000 volontari che hanno risposto, meno del 46%
risulta iscritto all’AIRE (http://www.repubblica.it/economia/2010/10/22/news/cucchiarato-8316581/).



                                                           5
del fenomeno in esame. Inoltre, i dati accessibili pubblicamente sono molto limitati e non riportano alcune
informazioni circa il grado di istruzione dei residenti italiani all’estero o del motivo della loro emigrazione
né tantomeno del lavoro svolto o del reddito percepito. È chiaro, alla luce di quanto evidenziato sopra, che
questi dati sono necessari per valutare eventuali costi e benefici del brain drain del nostro Paese.

Qualche informazione in più è fornita invece dalle ricerche Caritas/Migrantes, che integrano i dati AIRE con
questionari ad hoc limitati ad alcune specifiche aree geografiche (nel 2010, Canada, Francia, Regno Unito,
Romania e Spagna). Per quanto più completi, questi dati risentono dunque ancora di una certa limitatezza
geografica. Ulteriori informazioni sui titoli di studio all’estero sono ricavabili anche dal database “DaVinci”
che, in modo molto macchinoso, fornisce la “geografia” dei 3000 ricercatori che sono iscritti al database.

I dati sui trasferimenti di residenza dell’ISTAT, invece, danno conto delle variazioni annuali delle
emigrazioni dall’Italia. Anche in questo caso, però, i dati non sono regolarmente e coerentemente raccolti.
Per esempio, i dati relativi all’emigrazione per titolo di studio sono disponibili solo per il 2008 e non per gli
anni precedenti. Inoltre, questi numeri sono stranamente disponibili nei documenti ufficiali ma non nelle
tabelle messe a disposizione sul sito della stessa ISTAT.

Benché poco chiaro, il sito del MIUR fornisce interessanti informazioni sul numero e sulla provenienza degli
studenti stranieri in Italia, nonché sul numero dei laureati. Le informazioni sembrano in questo caso
sufficienti ad analisi quantitative del fenomeno (anche se il sito non sempre appare facilmente accessibile e i
dati sono stati affinati solo negli ultimi anni). Informazioni qualitative importanti, e non disponibili,
dovrebbero riguardare il futuro lavorativo di questi laureati stranieri. Se, per esempio, studiassero in Italia e
tornassero a lavorare in patria, si profilerebbe per il nostro Paese un “costo economico” identico a quello di
uno studente italiano laureato che andasse a lavorare all’estero.

La meritoria iniziativa di Almalaurea ha portato alla costruzione di un database che, per quanto ancora
incompleto, riguarda ormai la maggioranza delle università pubbliche italiane. L’indagine riporta dati sulla
situazione occupazionale dei laureati italiani a uno, tre e cinque anni dal termine degli studi, con
informazioni sul luogo di occupazione. Purtroppo, la disponibilità della documentazione raccolta per tipo di
corso e anni dalla laurea può variare da un anno di indagine all'altro e dunque i confronti non sono sempre
possibili. Inoltre, e cosa più grave dal punto di vista della ricerca, il database on line non fornisce
informazioni sulla situazione occupazionale all’estero dei laureati italiani, benché i rapporti annuali di
Almalaurea riportino dati dettagliati.

Riassumendo, sarebbe necessario poter avere a disposizione dati grezzi, tanto di flusso quanto di stock, che
riportino numeri relativi al titolo di studio di chi lascia, di chi viene e di chi torna in Italia, il Paese in cui
questo titolo è stato acquisito, il tipo di lavoro e il livello di reddito percepito dagli Italiani laureati che
risiedono all’estero. Questi dati, insieme a quelli invece già disponibili e accessibili sul livello della spesa di
istruzione in Italia, potranno infine permettere una ragionevole misura della circolazione dei talenti italiani.
Infine, ulteriori informazioni qualitative interessanti potrebbero essere raccolte da ricerche campionarie che
facciano emergere i motivi specifici dell’espatrio. Da questo punto di vista, i pochi tentativi realizzati (si
vedano, per esempio, Monteleone e Torrisi, 2010, per i soli docenti universitari), evidenziano come cause
principali la volontà di aderire a sistemi economici più produttivi, più meritocratici, con meno burocrazia e
più stimolanti. Ovviamente, non va nemmeno ignorata la principale causa economica, vale a dire la ricerca di
un wage premium soddisfacente e adeguato per il proprio titolo di studio (OECD, 2011). Tuttavia, è evidente
che anche in questi contributi soffrono del limite di inadeguatezza della scelta del campione rappresentativo,
fintantoché non si avranno informazioni sufficienti e complete sulla “popolazione” di riferimento. Nelle
more di queste informazioni, si passa ora a presentare altri indicatori di brain drain proposti finora dalla
letteratura5.




5
  Il recente progetto “Global Science Project” del Politecnico di Milano mostre tuttavia le migliori premesse per la
formazione di un database che comprenda informazione sui talenti italiani e di altri 16 Paesi residenti all’estero nelle
arre scientifiche di chimica, biologia, scienza dei materiali e ambiente.

                                                           6
2.2 Il brain drain in Italia

Una prima valutazione del fenomeno, sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo, è
fornita da Becker, Ichino e Peri (2003). Nel loro lavoro, viene utilizzato un campione dei dati messi a
                                                                       6
disposizione dall’AIRE, per “concessione” del Ministero dell’Interno . Come evidenziato sopra, si tratta di
informazioni che riguardano gli italiani residenti all’estero e registrati presso l’agenzia. Le informazioni
potrebbero dunque essere incomplete. Le misure di brain drain proposte dagli autori si basano sulla quantità
di capitale umano del Paese, con l’idea che questo sia una determinante del reddito nazionale (e della sua
crescita nel tempo): se il brain drain influisce negativamente sul capitale umano del nostro Paese, allora
dobbiamo attenderci conseguenze negative anche sul reddito, misurato dal PIL, del Paese stesso. Più
precisamente, il capitale umano è misurato o in termini di anni di scolarizzazione o in termini di titolo di
studio. Per entrambi gli indici, il paper conferma una perdita di capitale umano da parte dell’Italia a partire
dagli anni ’90.

Per avere qualche informazione più precisa, però, è bene definire quanti sono gli Italiani residenti all’estero.
Da questo punto di vista, sono i numeri forniti dall’AIRE e dalla Fondazione Migrantes (che integra la banca
dati AIRE con indagini specifiche per alcuni Paesi7) a fornire i dati più completi. Nel 2008 il numero totali
degli Italiani residenti all’estero era di 3.734.428, mentre nel 2009 era di 3.915.767. Si tratta però dei soli
residenti iscritti all’AIRE: il dato dunque è probabilmente da rivedere in eccesso. Ai fini delle valutazioni
sulla fuga dei cervelli, è bene inoltre sottolineare che poco meno del 60% di questi residenti è effettivamente
emigrata, mentre i restanti sono cittadini italiani già nati all’estero. Questo dato è molto importante nella
definizione del “costo” eventuale della fuga. Inoltre, questi dati non dicono nulla sul dove gli eventuali
laureati hanno acquisito il titolo di studio. Infine, ogni anno sono circa 17.500 gli studenti universitari che si
recano all’estero all’interno del programma i scambio Erasmus. Questi numeri sono abbastanza coerenti con
i dati dei censimenti 2001 raccolti dall’OCSE e che quantificano in 2.430.339 lo stock di Italiani residenti
all’estero e maggiori di 15 anni. La Tabella 2 raccoglie questi dati e li confronta con le caratteristiche degli
immigrati in alcuni Paesi OCSE.


                         Tabella 2: Immigrati ed Emigrati, per titolo di studio (2001)
                                            Istruzione             Istruzione               Istruzione
                                             terziaria             secondaria                primaria
     Paese                                   Livello    %           Livello     %           Livello       %
                          Immigrati         246.554    12,2        677.013 33,5          1.097.367      54,3
     Italia
                          Emigrati          300.631    13,0        619.946 26,8          1.395.714      60,3
                          Immigrati       1.013.636    18,1      1.523.254 27.2          3.068.909      54,8
     Francia
                          Emigrati          348.432    36,4        313.538 32,8            294.700      30,8
                          Immigrati       1.970.870    15,3      5.294.297 41,1          4.534.288      35,2
     Germania
                          Emigrati          865.255    30,4      1.201.040 42,1            783.364      27,5
                          Immigrati       1.373.513    30,5        968.214 21,5          1.603.182      35,6
     Gran Bretagna
                          Emigrati        1.265.863    41,2      1.006.180 32,8            798.421      26,0
     Spagna               Immigrati         404.836    21,8        423.407 22,8          1.028.804      55,4
                          Emigrati          137.708    18,7        204.284 27,8            392.793      53,5
                          Immigrati       8.216.282    25,9    10.881.022 34,3         12.625.793       39,8
     Stati Uniti
                          Emigrati          390.244    49,9        220.869 28,3            170.665      21,8
                Fonte: elaborazioni su Dumont e Lamaître (2004), dati OECD (2001; 2009a), Beltrame (2007).
          Nota: alcune percentuali non sommano a 100 per incompletezza dei dati (titolo di studio sconosciuto).


Come si può facilmente notare, l’Italia è l’unica Paese tra quelli riportati in cui il saldo tra laureati residenti
all’estero e immigrati laureati residenti in Italia è negativo. Tuttavia, quanto confronto che pure è istruttivo,
non permette una valutazione completa del fenomeno, per il quale servirebbero dati aggiornati e soprattutto

6
    La banca dati completa dell’AIRE non è infatti pubblicamente disponibile on line.
7
    Fondazione Migrantes (anni vari).

                                                        7
informazioni sui flussi annuali. In attesa dei dati dei censimenti 2011, l’AIRE potrebbe però gia oggi fornire
informazioni sul numero di Italiani all’estero per titolo di studio. Al contrario, tra le informazioni
pubblicamente accessibili (dal 2005), l’AIRE si limita a fornire la distribuzione dei residenti all’estero per
fasce decennali di età (estremi esclusi), che riportiamo nella tabella 3.



                           Tabella 3: Italiani residenti all’estero, per fasce d’età
      Fasce d’età/Anno            2005          2006         2007         2008         2009        2010
      < 17                     553.823      576.510       594.784      625.493      655.122     659.935
      18-24                    289.410      297.603       304.757      325.997      340.545     350.405
      25-34                    519.319      525.034       535.678      562.264      578.869     590.177
      35-44                    576.709      578.070       592.864      623.075      640.513     657.004
      45-54                    487.632      487.803       504.761      538.885      562.804     585.318
      55-64                    441.157      437.434       446.181      470.137      487.121     507.399
      65-74                    363.700      358.696       363.129      375.793      381.118     387.504
      >75                      288.706      286.658       307.223      331.970      349.640     377.493
      Totale                 3.520.809 3.547.808 3.649.377 3.853.614 3.995.732 4.115.235
                                                                             Fonte: elaborazione su dati AIRE



È opportuno poi chiedersi anche dove questi italiani laureati e residenti all’estero abbiano effettivamente
conseguito il proprio titolo di studio. Qualche informazione aggiuntiva è fornita dall’ISTAT, a partire dal
2008. In quell’anno, infatti, sono emigrati (o meglio, hanno trasferito la loro residenza all’estero) 39.536
italiani, tra cui 6.552 laureati, vale a dire quasi il 17% del totale. Nel 2009, invece, sono emigrati 39.024
italiani, tra cui 5.839 laureati, vale a dire il 15% del totale. Tra il 2008 e il 2009, dunque, sono diminuite sia
le emigrazioni sia, nel particolare, l’esodo dei laureati italiani verso l’estero, rispettivamente dell’1,3% e del
10,9%. Le tabelle 4 e 5 riportano le principali destinazioni rispettivamente del totale degli emigrati e dei soli
laureati italiani.



                              Tabella 4: La destinazioni degli emigrati italiani
                        Destinazione            Totale, 2008        Totale, 2009
                                              Livello        % Livello            %
                        Germania                6.185      15,6     6.281        16,1
                        Gran Bretagna           5.528      14,0     5.042        12,9
                        Svizzera                4.262      10,8     4.196        10,8
                        Francia                 3.135       7,9     3.248         8,3
                        Spagna                  2.924       7,4     2.890         7,4
                        Stati Uniti             2.591       6,6     2.345         6,0
                        Altri Paesi            14.911      37,7    15.022        38,5
                        Totale                 39.536      100     39.024        100
                                                                Fonte: ISTAT ed elaborazioni su dati ISTAT



Le tabelle riportano solo i primi sei Paesi di destinazione, che però rappresentano per entrambi gli anni il
60% circa degli emigrati e che corrispondono, salvo poche variazioni nell’ordine, ai primi sei Paesi di
destinazione per i laureati. Presentano inoltre la quota di laureati emigrata: nel 2008 circa un quinto di chi è
emigrato in Francia, Gran Bretagna o Stati Uniti era laureato, mentre l’incidenza era più vicina al 10% per
Spagna e Germania; nel 2009, invece, sempre il 20% circa di chi è emigrato negli stati Uniti era laureato,
mentre le percentuali calano al 15% circa per chi è emigrato in Francia e Gran Bretagna. Perdono quindi un
po’ di appeal le tradizionali destinazioni dei laureati italiani.

                                                        8
Tabella 5: La destinazioni dei laureati italiani
                             Laureati emigrati,      Laureati emigrati,        % emigrati laureati
                                    2008                    2009                sul totale emigrati
                              Livello          %      Livello            %          2008        2009
         Germania                685        10,5          580           9,9         11,1         9,2
         Gran                  1.094        16,7          820         14,0          19,8        16,3
         Bretagna
         Svizzera                  663         10,1            631        10,8        15,6         15,0
         Francia                   570          8,7            499         8,5        18,2         15,4
         Spagna                    396          6,0            414         7,1        13,5         14,3
         Stati Uniti               545          8,3            451         7,7        21,0         19,2
         Altri Paesi             2.599         60,3          2.444        58,0
         Totale                  6.552        100,0          5.839        100         16,6         15,0
                                                                     Fonte: ISTAT ed elaborazioni su dati ISTAT



Una misura grezza ma molto utilizzata in letteratura, come più sopra anticipato, è l’highly skilled
expatriation rate (il tasso di emigrazione degli individui altamente qualificati, cioè la quota di individui,
all’interno della popolazione con elevata istruzione, che è emigrata; HSER). Le elaborazioni più recenti per il
calcolo di questo indice sono raccolte da Beine et al (2006). In Italia, questo valore è sceso dall’11,2% del
1990 al 10,0% del 2000. Questo significa che per ogni 100 studenti italiani che ottengono una laurea, dieci di
loro lavorano all'estero. La situazione in altri Paesi è molto varia, come evidenziato in Tabella 6: nel 2000,
questo rapporto era del 3,4% in Francia e del 4,3% in Spagna, ma ben oltre il 15% in Gran Bretagna.



                  Tabella 6: Misure di brain drain (1): il tasso di emigrazione dei laureati
                                                              HSER
                                                           1990       2000
                                   Italia                   11,2      10,0
                                   Francia                   2,7       3,4
                                   Germania                  5,7       5,2
                                   Grecia                   14,2      12,0
                                   Spagna                    3,8       4,3
                                   Gran Bretagna            17,9      16,7
                                   Stati Uniti               0,5       0,5
                                                                                   Fonte: Beine at al. (2006)



Come anticipato, però, l’HSER non fornisce alcuna informazione né sui benefici apportati dai laureati
emigrati né sui loro costi. Inoltre, non tiene nemmeno conto del reale luogo dove la qualificazione è stata
conseguita (se in Italia o già all’estero). È evidente che se la differenza tra tasso di emigrazione alle diverse
età è elevato, il costo fiscale diretto del brain drain è meno elevato di quanto atteso. La tabella 7 presenta
quindi informazioni sull’HSER corretto per età di trasferimento, utilizzata come variabile proxy del luogo di
conseguimento del titolo di studio. In Italia, nel 2000, il rapporto tra HSER a 22 anni e HSER non corretto
era di circa il 60%, così come in Germania. In Francia, Gran Bretagna e Spagna il rapporto cresce invece a
oltre il 70%. Questo significa che, in realtà, il 40% circa dei laureati italiani all’estero si era formata già oltre
i confini nazionali, segno probabilmente che per il nostro Paese i ricongiungimenti famigliari sono ancora un
importante fattore di emigrazione.



                                                         9
Tabella 7: Misure di brain drain (2): il tasso di emigrazione dei laureati, per età
                                  HSER a 12              HSER a 18           HSER a 22
                                   1990      2000         1990      2000      1990        2000
              Italia                 9,1       8,2          7,8      7,1         6,7       6,1
              Francia                2,3       2,9          2,1      2,6         1,9       2,4
              Germania               4,5       4,3          3,9      3,8         3,3       3,2
              Grecia                12,2      10,4        10,8       9,3         9,4       8,3
              Spagna                 3,2       3,7          2,9      3,4         2,6       3,1
              Gran Bretagna        15,2       14,3        14,0      13,0       12,6       11,7
              Stati Uniti            0,4       0,4          0,4      0,4         0,4       0,3
                                                                                   Fonte: Beine at al. (2006)


Un altro problema dell’HSER è che considera solo i flussi in uscita. È dunque utile ricorrere all’highly
skilled exchange rate (tasso di scambio di individui con elevato grado di istruzione, HSXR), che è il rapporto
tra flussi in entrata e flussi in uscita della popolazione altamente qualificata. Come illustrato in tabella 8,
questo rapporto è del -1,2% in Italia, del 2,8% in Francia, del 2,2% in Germania, del 2,9% in Spagna, del
1,1% nel Regno Unito, e quasi del 20% in USA (Beltrame, 2007, su dati OCSE). Ciò suggerisce che
l’eccezionalità dell’Italia, rispetto agli altri Paesi, non risiede nella sua incapacità di trattenere le persone più
istruite quanto nell’incapacità di attrarne altre.


                    Tabella 8: Misure di brain drain (3): il tasso di scambio dei laureati
                                                                   HSXR,
                                                                      2005
                                   Italia                              -1,2
                                   Francia                              2,8
                                   Germania                             2,2
                                   Spagna                               2,9
                                   Gran Bretagna                        1,1
                                   Stati Uniti                         19,9
                                                                                     Fonte: Beltrame (2007)


Come mai in Italia dunque sono più i talenti che emigrano di quelli che arrivano? Si tratta, probabilmente, di
una risposta strettamente collegata alle prospettive occupazionali ed economiche. Secondo Almalaurea
(2011), infatti, a un anno dalla laurea ha un lavoro stabile il 48% dei laureati italiani occupati all’estero, 14
punti percentuali in più rispetto al complesso dei laureati specialistici italiani occupati in patria. Questo dato
sconta certamente un effetto selezione: spesso che si sposta ha già un posto di lavoro che lo aspetta. Inoltre lo
stesso dato andrebbe depurato anche dal numero di studenti stranieri che si sono laureati in Italia e che
tornano in patria. Da notare però che anche le retribuzioni medie mensili sono superiori a quelle degli
occupati in Italia: dopo un anno, circa 1.600 euro contro poco più di 1.000 euro, mentre dopo cinque anni la
differenza è quasi di oltre il 50%: poco più di 2.000 euro contro soli 1.300 euro (livelli non molto diversi a
quelli di cinque anni prima; Almalaurea, 2008). In questo caso, tuttavia, andrebbero valutati anche altri
elementi, quali il costo della vita o la copertura previdenziale e sanitaria.

2.3 Costi e benefici dell’emigrazione qualificata

Misurare quanti talenti lasciano un Paese, quanti ne arrivano o quanti ne tornano fornisce però solo una
fotografia parziale del fenomeno. Senza una valorizzazione dei costi e dei benefici della circolazione dei
talenti, è perlomeno incauto asserire che un determinato Paese si stia impoverendo o arricchendo in base ai
propri HSER e HSXR.


                                                         10
Ma come misurare costi e benefici? Per il Paese ricevente, esiste certamente un beneficio diretto in termini di
aumento della base imponibile, cioè del reddito, e della produttività. Purtroppo, dare un valore a questi
fenomeni è impossibile se non si hanno informazioni sull’occupazione dei laureati stranieri. Come anticipato,
un originale tentativo di quantificazione dei benefici è stato realizzato da I-com (2011), che ha stimato il
valore generato, in termini di valore di brevetti registrati, dai venti migliori scienziati italiani residenti
all’estero. I settori considerati sono quelli della chimica, dell’informatica e comunicazione e della
farmaceutica. I numeri riportati sono comunque impressionanti; fatte determinate ipotesi sul valore dei
singoli brevetti e dei tassi di sconto, il rapporto stima un valore attuale dell’attività di questi scienziati in 861
milioni di euro o, in altri termini, una perdita per scienziato di 63 milioni. In realtà, se questo tentativo ha il
merito di trovare una buona proxy per misurare il beneficio diretto di un cervello residente all’estero, trascura
il fatto che un ricercatore, come anche altri fattori di produzione, riesce a rendere quando è inserito in un
ambiente complementare e stimolante per le proprie capacità. Questi venti top scientists non avrebbero
necessariamente reso lo stesso valore in Italia; anzi: proprio per questo motivo, invece, lasciare la libertà ai
migliori scienziati di muoversi ma stabilire poi delle reti e collegamenti con gli stessi permetterebbero una
circolazione maggiore e diffusa dei risultati e della ricerca, così come dei benefici collegati.

Anche per i Paesi di origine, però, esiste un beneficio economico diretto dalla “fuga dei cervelli”: si tratta
delle rimesse che questi lavoratori inviano ai famigliari rimasti in patria. In Italia, tuttavia, questa voce ha
ormai perso l’importanza quantitativa che aveva una volta. Pur essendo l’Italia inclusa tra “top 10 remittance
recipients” dei paesi OCSE a maggior reddito nel 20108, l’incidenza delle rimesse sul PIL è ormai
trascurabile. Già nel 2000, infatti, le rimesse costituivano solo lo 0,03% del PIL (lo 0,17% secondo le stime
OCSE9), un valore di poco inferiore rispetto a quello della Francia (0,043%) e di poco superiore rispetto a
quello degli Stati Uniti (0,024%). È quindi possibile affermare che , in effetti, l’emigrazione dei talenti
italiani non porti alcun beneficio economico diretto al Paese.

Infine, per quanto riguarda i costi, l’approccio più semplice e intuitivo suggerisce di moltiplicare il numero
di laureati italiani che hanno lasciato il Paese per il costo sostenuto dal Paese di origine per la loro istruzione.
Secondo l’OCSE (OECD, 2009a), la spesa annuale per studente universitario in Italia nel 2009 è stata di
8.700 dollari (pari a circa 6.500 euro). Moltiplicando questa cifra per 6.552, il numero di laureati italiani che
nel 2008 hanno trasferito la propria residenza all’estero, si potrebbe concludere che nel 2008 l’Italia ha
supportato un costo diretto del brain drain di circa 170 milioni di euro, pari al costo di ogni laureato per
quattro anni di istruzione universitaria. Il risultato, seppure logico e immediato, va comunque preso con le
dovute precauzioni. Innanzitutto, non si sa se questi laureati provengono effettivamente da università
pubbliche o da università private (nel qual caso, la loro partecipazione al costo dell’università diminuirebbe
il costo per il paese); inoltre, non è dato conoscere per quanti anni hanno in effetti studiato (corso di laurea
triennale o magistrale).



2.4 Lo scambio di studenti

Una forma particolare di brain drain riguarda anche la mobilità degli studenti. I dati dell’OCSE, riportati
nella figura 1, dimostrano che l’aumento degli studenti iscritti a università estere è stato costante a partire dal
1975 ma è esploso negli ultimi quindici anni (OECD, 2007). Due terzi degli studenti stranieri iscritti in
università dei Paesi OCSE provengono da Paesi esterni all’OCSE stessa (in particolare Cina e India); in
Europa, le mete preferite sono Francia, Germania e Gran Bretagna; fuori dall’Europa, le mete più ambite
sono Stati Uniti e Australia (OECD, 2009).




8
    http://siteresources.worldbank.org/INTPROSPECTS/Resources/334934-1199807908806/HI-OECD.pdf
9
    Tani (2006).

                                                         11
Figura 1: Studenti iscritti in Università estere




                                                                                            Fonte: OECD (2007)


Il fenomeno è considerato positivo, sia per i Paesi di origine che per quelli di destinazione. Un tentativo di
quantificare i guadagni relativi a scambiare studenti con l’estero è stato realizzato da Vision (2011). Lo
studio valuta approssimativamente in 20.000 euro l’anno il contributo dello studente straniero in Italia,
misurato sulla base del pagamento delle tasse universitarie, dei consumi effettuati nella città dove risiede
(affitto, tempo libero, vitto, etc), al netto di eventuali borse di studio e del costo pubblico per la sua
istruzione. OECD (2001), invece, riporta alcune stime riferite ad altre specifiche università (vedi figura 2).


                 Figura 2: Costi e benefici annuali (in USD) di ospitare studenti stranieri




                                                                                            Fonte: OECD (2001)


Al di là delle cifra precise, che sono necessariamente soggette a forti approssimazioni e limiti di valutazione,
ciò che rileva è però l’individuazione degli aspetti positivi di ospitare studenti stranieri per il Paese di
destinazione, di quelli positivi per il Paese di origine (individui esposti a culture e tecnologie diverse, miglior
comprensione della lingua straniera) e infine di quelli negativi per il Paese di origine (sostanzialmente, la
probabilità che lo studente poi rimanga costantemente all’estero).


                                                        12
Tuttavia, alcuni indicatori sul nostro Paese sembrano far prevalere gli aspetti negativi per quanto riguarda la
mobilità degli studenti italiani. Dati OCSE (OECD, 2001) mostrano come gli studenti italiani che studiano
negli Stati Uniti siano tra quelli più propensi a restare a lavorare all’estero anche dopo avere completato gli
studi (oltre il 50%); non solo, sono anche tra gli studenti che effettivamente vi restano (circa il 40%).

Quanti sono invece gli studenti stranieri in Italia? Nel 2004/2005, su 1.820.221 studenti iscritti a Università
italiane, 38.298 erano stranieri (il 2,1% del totale). Per quanto riguarda i soli iscritti al primo anno
(immatricolati), su un totale di 331.893 studenti, gli stranieri erano 8.758 (il 2,6%). Tre anni dopo (anno
accademico 2007/2008), su 1.809.192 studenti iscritti a Università italiane, ben 51.803 erano stranieri (il
2,9% del totale). Per quanti riguarda i soli immatricolati, su un totale di 307.426 studenti, gli stranieri erano
11.500 (il 3,7%). La tabella 9 presenta i dettagli di queste cifre per provenienza geografica (continente) degli
studenti stranieri.


               Tabella 9: Studenti stranieri in Italia. Distribuzione per area di provenienza
                                                                     Iscritti
                         Provenienza                          2004/2005 2007/2008
                         Africa                                      9,7       11,1
                         Asia                                       10,1       15,3
                         Europa                                     72,1       64,7
                         Nord America                                1,7         1,6
                         Oceania                                     0,1         0,1
                         Sud America                                 6,3         7,2
                         Totale                                    100,0      100,0
                                               Elaborazioni su dati MIUR -URST/AFAM- Ufficio di statistica


L’Italia accoglie sempre più studenti extraeuropei, in particolare quelli provenienti da Cina, Nord Africa, ed
Europa dell’Est. Come mostrato dall’OCSE (OECD, 2011), però, il trend in crescita è ancora lontanissimo
dal raggiungere il livello di altri Paesi: meno del 2% degli studenti che studiano all’estero sceglie l’Italia
come meta, mentre gli Stati Uniti accolgono il 20% di questi studenti, la Gran Bretagna il 12% e la Francia
l’8%. Oltre alla lingua di insegnamento, che nella maggior parte dei casi è l’italiano, anche il costo elevato
delle spese di vitto e alloggio e la mancanza di una politica uniforme in materia costituiscono i maggiori
elementi di freno.

All’aumento degli iscritti in Italia è corrisposto un aumento (quasi un raddoppio) dei laureati stranieri in
Italia tra il 2004 e il 2009 (tabella 10). Curiosamente, le proporzioni degli studenti stranieri per provenienza
sono rimaste costanti nel tempo, e il loro valore assoluto è quasi raddoppiato per quanto riguarda gli studenti
provenienti dall’Africa e dal resto d’Europa, mentre è addirittura triplicato per quanto riguarda gli studenti
asiatici. In totale, i laureati stranieri erano l’1,3% del totale nel 2004 e il 2,3% nel 2009. Il tasso di crescita
degli studenti stranieri laureati in Italia nel periodo 2004-2005 è ancora più apprezzabile se si pensa che nel
1999 il loro valore era di 1.583 su 139.109 (l’1,1%, come nel 2004).

La ragione di questo incremento, sia per quanto riguarda il numero di studenti sia per quanto riguarda il
numero di laureati, è probabilmente individuabile in fattori geopolitici sovra-nazionali (per esempio, le
maggiori difficoltà di accesso negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 o la sempre maggiore apertura
all’occidente di Paesi come la Cina). Inoltre, alcune Università italiane hanno deciso di dedicare proprio agli
studenti stranieri specifiche politiche di accoglienza e sostengono (si veda la sezione 4).




                                                        13
Tabella 10: Laureati stranieri in Italia
                                         (valori assoluti e percentuali)
           Provenienza                            2004 (VA)      2009 (VA) 2004 (%) 2009 (%)
           Africa                                        313            611       9,0       9,0
           Asia                                          383          1.001     11,0       14,8
           Europa                                      2.482          4.519     71,1       66,9
           Nord America                                   63            139       1,8       2,1
           Oceania                                          6             8       0,2       0,1
           Sud America                                   242            475       6,9       7,0
           Totale                                      3.489          6.753    100,0     100,0
           Italiani residenti all’estero                 198            326
           Totale Laureati in Italia                268.821        292.810
                                                 Elaborazioni su dati MIUR -URST/AFAM- Ufficio di statistica




3. COME GESTIRE IL BRAIN DRAIN: ESPERIENZE INTERNAZIONALI A CONFRONTO

Lo sviluppo economico di un Paese è indubbiamente influenzato dai flussi migratori che lo riguardano
(Beine, Docquier e Rapoport, 2001; Cohen e Soto, 2006). Questi flussi possono avere conseguenze sia
negative sia positive tanto per il Paese di origine dei flussi quanto per quelli di destinazione. Si tratta di
conseguenze complesse e i cui effetti si sentono anche nel lungo periodo. Dal punto di vista della gestione
del brain drain ciò ha importanti ripercussioni, perché significa che la gestione e la valutazione del
fenomeno non possono limitarsi ai soli effetti negativi di breve periodo (impoverimento del capitale umano
nel Paese di origine) o a quelli positivi di medio-lungo periodo (eventuali rimesse dall’estero).

La capacità di alcuni Paesi di attrarre più talenti rispetto ad altri Paesi o di convincere i propri talenti a
ritornare dipende certamente da una serie di fattori legati alla cultura, alla lingua e alla storia di queste
nazioni. Tuttavia, essa dipende anche dalle specifiche politiche adottate dai singoli contesti nazionali. In
questa sezione si propone una classificazione delle politiche adottate a livello internazionali per gestire il
fenomeno del brain drain e si forniscono anche numerosi esempi di applicazione di queste politiche. La
maggior parte di queste politiche riguarda la gestione dei lavoratori, anche se ma in maniera sempre più
consistente l’attenzione dei policy maker si è spostata alla mobilità internazionale degli studenti.


                                     Tabella 11: Come attrarre talenti
                                           - Disincentivi alla residenza
1. Politiche coercitive di rientro         - Incentivi al rientro
                                           - Programmi RQN
                                           - Favorire la residenza temporanea
                                           - Favorire la residenza permanente
2. Politiche migratorie
                                           - Favorire esigenze contingenti del mercato del lavoro
                                           - Favorire l’accumulazione di capitale umano
3. Politiche limitative di trattenimento
                                           - Esenzioni fiscali
4. Politiche incentivanti di attrazione    - Incentivi economici generici
                                           - Altri incentivi
5. Accordi bilaterali
                                           - Diaspora network
6. Politiche pro-attive di circolazione    - Incentivi economici e politici
                                           - Favorire il ritorno con la creazione di nuovi distretti industriali




                                                       14
Come si diceva, le politiche di gestione del brain drain sono molto varie. È dunque utile cercare di riportarle
secondo una classificazione che aiuti a distinguerne i tratti essenziali, vale a dire la tipologia degli strumenti
scelti e i soggetti responsabili della loro implementazione a attuazione10. La tabella 11 riporta nella colonna
di sinistra la macroclassificazione di queste politiche e nella colonna di destra alcuni programmi specifici
adottati, che saranno poi presentati con maggior dettaglio nel seguito di questa sezione.

3.1 Politiche coercitive di rientro

Dal punto di vista dei Paesi di destinazione, il mezzo più tradizionale per la gestione dei flussi migratori è
quello delle politiche di rientro. Si tratta di politiche unilaterali o bilaterali (attraverso accordi con il Paese di
origine) per il rimpatrio dei migranti dopo un determinato periodo di tempo. In realtà, questo tipo di politiche
si applica soprattutto agli immigrati a più basse qualifiche (per il fatto che ricoprono posti di lavoro più a
rischio) o ai richiedenti asilo. Ciononostante, il diffondersi di conflitti bellici (anche su suolo europeo) e la
globalità della crisi internazionale hanno avuto effetti anche sulle occupazione a più elevata qualifica.

È quindi utile conoscere perlomeno i tratti salienti e caratterizzanti di queste politiche, che si possono così
classificare (IOM, 2004).

Politiche di ritorno forzato: politiche coercitive adottate conto la volontà dei migranti e che riguardano per
la stragrande maggioranza dei casi migrazioni illegali e individui non registrati nelle statistiche ufficiali.

Politiche di ritorno volontario: basate su decisioni assunte liberalmente e volontariamente dagli individui a
cui sono rivolte; per loro stessa natura, poiché cioè l’impegno finanziario e organizzativo dello Stato in
questi casi è minimo se non addirittura assente, difficilmente le statistiche si concentrano su questa tipologia
di rientri.

Politiche di ritorno volontario assistito: includono la possibilità di assistenza finanziaria e altre
agevolazioni che facilitino il rientro nel Paese di origine; si tratta delle politiche maggiormente diffuse: sono
considerate più economiche ed efficaci rispetto alle politiche di rientro obbligato, sono solitamente associate
a forme di informazione e assistenza nel periodo che precede il rientro, vengono spesso co-gestite da
organizzazioni internazionali e funzionano meglio quando derivano da accordi bilaterali tra i diversi Paesi.

Limitatamente a questo terzo tipo di politiche, che sono quelle più interessanti, possiamo ulteriormente
distinguere tre tipologie di interventi.

3.1.1   Rendere più difficoltosa la residenza

In alcuni Stati è sono previsti forti disincentivi finanziari che colpiscono gli immigrati che si trattengono
troppo a lungo sul proprio territorio. In Messico o in Spagna, per esempio, aumentano le trattenute sugli
stipendi, sia a carico del lavoratore che del datore di lavoro.

3.1.2   Rendere più profittevoli i rientri

Poiché spesso i rientri in patria sono sfavoriti dalla mancanza di prospettive economiche, alcune iniziative
internazionali hanno avuto come oggetto dei piani di finanziamento per start-up o di educazione
professionale. È il caso per esempio del VARRP (Voluntary Assisted Return and Reintegration Programme)
in Gran Bretagna, dedicato ai lavoratori della comunità cingalese, dei programmi Développement local
migrations e Co-développement migration,in Francia a favore di lavoratori regolari e irregolari provenienti
da Senegal, Mali e Romania che vogliono aprire un’attività d’impresa nel Paese di origine, o infine degli
accordi bilaterali tra Olanda e Marocco, Tunisia e Turchia. In generale, si tratta di programmi poco efficienti
e che devono gran parte dell’eventuale successo alla disponibilità e alle condizione economiche e di sviluppo

10
   L’elenco proposto differisce dalla classificazione tradizionale delle sei R (Return, Restriction, Recruitment,
Reparation, Resourcing, Retention) utilizzata invece da altri autori, come per esempio Wickramasekara (2002), in
quanto si è deciso di porre l’enfasi su elementi diversi di queste politiche, più specifici per il caso dei lavoratori
qualificati.

                                                         15
dei Paesi di origine. Limitandosi all’analisi più dettagliata del VAARP, questo programma assistito oltre
10,000 individui dalla sua creazione nel 1999. Uno degli strumenti utilizzati dal VARRP è il Reintegration
Fund che fornisce in media ad ogni lavoratore che torna in Sri Lanka circa 1.000 sterline, da utilizzare sia
come puro sostegno al reddito sia come mezzo per acquisire capitale fisico (ad esempio, attrezzature per
l’attività d’impresa) o umano (istruzione). Secondo le prime statistiche (Naik, Koehler e Laczko, 2008), la
maggior parte di questi fondi ha reso possibile la nascita di attività di pesca e di comunicazione. Tuttavia,
esse sono spesso criticate perché non garantiscono sufficientemente gli emigrati assistiti sul piano umanitario
e della sicurezza una volta tornati in patria.

Un’altra politica di questo tipo ma con un taglio diverso prevede la possibilità di trasferire interamente i
contributi pensionistici pagati nel Paese di destinazione al Pese di origine. Esperimenti di questo tipo sono
stati proposti in Francia e Germania nel corso degli anni ’80. In quei casi, le politiche non sono apparse
sufficienti e non hanno avuto un impatto significativo sui tassi di ritorno in patria. Al contrario, la possibilità
di trasferire questi contributi ha favorito la residenza nei paesi di destinazione fino all’accumulo di elevati
contributi previdenziali.

3.1.3   Programmi di tipo RQN (Return of Qualified Nationals)

Infine, alcuni programmi di rientro assistito sono stati specificatamente realizzati proprio a favore dei
lavoratori più qualificati. Nei paesi europei (IOM, 2004), si tratta di programmi dedicati ai lavoratori di
Bosnia-Erzegovina (Irlanda, Norvegia) o afgani (Austria, Finlandia). L’assistenza in questo caso va dagli
aiuti finanziari e organizzativi per il rientro al Paese di origine, spesso accompagnati da impegni formali
degli stessi lavoratori a essere parte attiva nel processo di ricostruzione del proprio Paese, al finanziamento
agevolato per l’attività d’impresa nel Paese di origine.

In generale, questo tipo di politiche ha un effetto molto incerto sui flussi migratori; non costituiscono dunque
lo strumento migliore per gestire un fenomeno complesso come quello delle migrazione dei talenti.

3.2 Politiche migratorie selettive

Oltre a forzare i rientri, i Paesi di destinazione possono cercare di selezionare i flussi migratori verso i propri
territori attraverso politiche migratorie opportunamente disegnate. Non è possibile affermare che lo scopo
principale delle politiche migratorie sia quello di selezionare i lavoratori maggiormente qualificati: lo scopo,
l’obiettivo e la portata di questo tipo di provvedimenti va ovviamente ben oltre (IOM, 2005). Tuttavia, è
anche evidente come all’interno di queste politiche si possano trovare vari metodi per rendere più semplice
gli ingressi proprio alle forze lavoro più qualificate. Le tipologie specifiche di queste politiche possono
essere anche molto diverse (Bertoli et al, 2009; Naik, Koehler e Laczko, 2008; OECD, 2002): alcuni Paesi
per esempio puntano sulla facilità di ottenimento della residenza permanente; altri Paesi, invece, tendono
maggiormente a favorire la concessione di una residenza temporanea. Ancora, alcuni Paesi selezionano i
flussi migratori in base a esigenze contingenti del mercato del lavoro; altri, al contrario, focalizzano la
propria attenzione sulla possibilità di maggiore integrazione di lungo periodo e quindi sul arricchimento più
generico di capitale umano del Paese.

3.2.1   Favorire la residenza temporanea

In USA la selezione dell’immigrazione qualificata attraverso la concessione di un visto (H1B), legato alle
esigenze lavorative contingenti. Il visto deve essere richiesto anche dal datore di lavoro. In Giappone
(OECD, 2008) viene semplificata la procedure per ottenere la residenza temporanea se i lavori qualificati
decidono di trasferirsi in aree ritenuti strategiche.

3.2.2   Favorire la residenza permanente

In Paesi come Australia, Canada e Nuova Zelanda è relativamente incentivata la richiesta di residenza
permanente (si veda sotto per maggiori dettagli), rispetto a quella temporanea, in modo tale da stabilire
legami di lungo periodo tra immigrati e popolazione locale. Nella Repubblica Ceca (OPECD, 2008), la


                                                        16
residenza permanente è concessa con maggiore facilità ai laureati stranieri nelle università ceche e che hanno
trovato già un lavoro.

3.2.3   Favorire esigenze contingenti del mercato del lavoro

Come riportato da Naik, Koehler e Laczko (2008), i settori più influenzati da scarsità di offerta, in molti
Paesi dell’OCSE, riguardano la cura delle persone. In Gran Bretagna, Irlanda, Stati Uniti, Canada e
Australia, per esempio si è osservata una tendenza ad “importare” medici dall’estero; in Nuova Zelanda,
invece, sono sempre più numerosi gli insegnati che provengono dall’estero. In particolare, come ben
illustrato anche in Bertoli et al. (2009), in Australia viene adottato un sistema molto selettivo, con
valutazione precisa delle capacità e delle qualifiche del lavoratore che chiede di essere ammesso, anche sulla
base delle esigenze del sistema produttivo locale. Vengono inoltre favoriti i lavoratori più giovani, al di sotto
dei 45 anni di età e il riconoscimento delle qualifiche avviene prima dell’ammissione.

3.2.4   Favorire l’accumulazione di capitale umano

In Canada e Nuova Zelanda (Tanner, 2005) il meccanismo di selezione è simile a quello australiano, ma con
importanti differenze dal punto di vista delle riconoscimento delle qualifiche, il che ha creato qualche
problema di mismatching nel passato. Inoltre, la residenza e concessa secondo un sistema a punti con criteri
che possono variare nel tempo e volti talvolta a enfatizzare prospettive occupazionali di breve periodo, legate
alle esigenze specifiche del mercato del lavoro, e talvolta invece a favorire di prospettive di integrazione
sociale e culturale di lungo periodo. I criteri per la concessione dei punti riguardano sia le qualifiche ottenute
dai lavoratori, sia l’esperienza accumulata sia, infine, caratteristiche personali (ad esempio, la conoscenza
della lingua).

3.3 Politiche limitative di trattenimento

Dal punto di vista dei Paesi di origine, la risposta tradizionale alla fuga dei cervelli è stata quella della difesa.
Wickramasekara (2002) fornisce alcune condizioni essenziali affinché politiche che limitano la possibilità di
mobilità verso l’estero abbiano successo. Queste condizioni possono essere viste anche come obiettivi
politici per quegli Stati di origine che vogliano, appunto, limitare il drenaggio di capitale umano verso altri
Paesi.

Innanzitutto, il contesto economico dovrebbe prevedere una rapida crescita, così da fornire adeguate
aspettative di remunerazione per i lavoratori ad alta qualificazione che decidono di non emigrare. Inoltre,
appaiono fondamentali investimenti in tecnologie di comunicazione, che rendono meno necessario il
trasferimento fisico connesso al trasferimento di conoscenze e tecnologie.

Si tratta di un approccio considerato ormai superato, inefficiente e soprattutto inefficace.

3.4 Politiche incentivanti di attrazione

Un ulteriore canale che hanno i Paesi di destinazione per selezionare i flussi migratori è quello delle politiche
fiscali incentivanti per determinati tipi di lavoratori o per determinate qualifiche.

3.4.1 Esenzioni fiscali

Dumont e Lamaître (2004) illustrano alcuni casi di esenzioni fiscali studiate per attrarre lavoratori qualificati.
In Australia, per esempio, sono previste esenzioni fiscali per quattro anni ai residenti temporanei, che
abbiano continuato a produrre reddito all’estero; in Canada, le esenzioni fiscali variano a seconda dello
provincia di residenza e del settore d’impiego: in Danimarca, sono previsti sconti fiscali di durata triennale
per lavoratori stranieri residenti in Danimarca e con un salario superiore a un determinato livello. Infine, in
Francia si applicano deduzioni fiscali specifiche ai lavoratori stranieri. Queste deduzioni, peraltro, si
applicano anche ai lavoratori francesi espatriati per più di dieci anni che tornano in patria.



                                                         17
3.4.2 Incentivi economici generici

In questo caso, i Paesi offrono ai lavoratori stranieri incentivi generici per facilitare il loro trasferimento nello
Stato (OECD, 2008). In Austria, il programma “brainpower” prevede il rimborso delle spese di viaggio
sostenute per i colloqui di lavoro, finanziamenti alla ricerca e aiuti finanziari per il trasferimento nel Paese.
In Canada, il programma “Canada Research Chairs Programme” prevede finanziamenti per la creazione di
posizioni all’interno delle università a favore dei migliori ricercatori stranieri; questi finanziamento sono
tuttavia concessi alle università, che operano poi la selezione dei candidati, e non direttamente ai candidati
stessi.

Un esperienza particolare è quella norvegese delle “Quota Scheme Scholarships”, che offre borse di studio a
studenti provenienti dagli stati dell’Europa dell’est e dell’sia centrale. La particolarità di questi finanziamenti
è che devono essere parzialmente rimborsati se questi studenti non tornano a risiedere nel loro Paese di
origine.

Infine, in Paesi come la Svizzera bastano i salari elevati per attrarre i lavoratori qualificati.

3.4.3 Altri incentivi

Gli incentivi offerti ai lavoratori stranieri non si limitano solo ad incentivi economici. In Corea, per esempio,
insieme alle borse di studio per studenti stranieri sono previsti corsi di lingua gratuiti (OECD, 2008). In
Olanda, invece, per i lavoratori qualificati le procedure burocratiche per l’ottenimento del permesso di
residenza è garantito in due settimane e il permesso di residenza è applicato automaticamente anche ai
famigliari del lavoratore.

3.5 Accordi bilaterali

Fino a questo punto le politiche di gestione del brain drain che abbiamo analizzato venivano intraprese dai
singoli Paesi, fossero essi di origine dei flussi o di destinazione. Recentemente si è però tentato di realizzare
accordi bilaterali tra i diversi Paesi, con la finalità o di limitare il drenaggio di capitale umano o di limitare i
danni creati d questo drenaggio.

Tuttavia, come ben documentato da Naik, Koehler e Laczko (2008), queste politiche sono state generalmente
un fallimento, sostanzialmente per l’incapacità di realizzare schemi che fossero implementabili. In altre
parole, questi accordi bilaterali non sono mai stati in grado di fornire incentivi sufficienti affinché venissero
rispettati contemporaneamente dai Paesi di origine, da quelli di destinazione e, naturalmente, dai lavoratori
interessati.

Per esempio, la Gran Bretagna ha siglato nel corso dei primi anni 2000 dei “Code of Practice” per impedire
al servizio sanitario nazionale (NHS) di assumere personale direttamente in diversi Paesi in via di sviluppo;
ciononostante, l’effetto sui flussi migratori è stato sostanzialmente nullo: i lavoratori nel settore sanitario
hanno continuato a entrare in Gran Bretagna attraverso diversi canali. In alternativa, alcuni Paesi membri
hanno proposto che all’interno del Commonwealth fossero previste compensazioni per il capitale umano
sottratto dagli altri Paesi. Semplicemente, queste proposte sono state ignorate da Gran Bretagna, Australia e
Canada, principali Paesi di destinazione, sulla base della difficoltà di definire il valore e il tipo di queste
compensazioni. Infine, Paesi di destinazione e Paesi di origine hanno provato a istituire “gemellaggi”,
prevedendo scambi temporanei di personale: è il caso, per esempio, dei medici geriatri in Egitto e Gran
Bretagna. Il problema di questo tipo di politiche è che non limitano affatto la possibilità che i flussi migratori
dai Paesi di origine siano monodirezionali. In altre parole, non garantiscono che i lavoratori emigrati tornino
in maniera permanente in patria.

3.6 Politiche di circolazione

Le più recenti e interessanti politiche per la gestione del brain drain partono dall’idea che sempre più
accettata che favorire la mobilità dei lavoratori qualificati favorisca la creazione, la diffusione e
l’arricchimento di conoscenza e capitale umano. Lo schema interpretativo di riferimento propone il

                                                         18
superamento delle categorie di brain drain o brain gain e stabilisce come nel mondo contemporaneo i
fenomeni migratori che riguardano le persone fisiche debbano considerarsi solo un aspetto della possibilità di
utilizzare il capitale umano collegato a questo capitale fisico. I fattori che hanno permesso questo nuovo
approccio sono da ricercarsi nella sempre maggiore integrazione tra Paesi diversi, nella relativa maggiore
facilità di spostamento rispetto al passato e nella crescente disponibilità dei lavoratori qualificati a cambiare
lavoro e a cercare costantemente migliori opportunità nel corso della vita lavorativa (Daugeliene e
Marcinkeviciene, 2009).

Nello specifico, questo tipo di politiche possono essere molto varie e comprendono, per esempio, sia
l’istituzione di reti tra lavoratori all’estero sia l’offerta di incentivi al rientro. Si tratta per lo più di politiche
realizzate da Paesi di origine o co-gestite e organizzate da organizzazioni internazionali (UNESCO, 2007).

Certamente le potenzialità di politiche di circolazione sono molto elevate. Il contributo dei lavoratori che
sono emigrati sul Paese di origine possono essere numerosi ed un elenco, non esaustivo, potrebbe
comprendere: la capacità di replicare in patria le tecnologie, le tecniche di lavoro e le capacità acquisite
all’estero; la creazione di nuove imprese; la possibilità di cooperazione scientifico e tecnologica, anche
attraverso la creazione di comunità “virtuali”; la possibilità di creare nuovi posti di lavoro; l’abilità
nell’attrarre investimenti; e così via.

Purtroppo i dati a disposizione sono molto scarsi se non addirittura inesistenti, poiché difficilmente i Paesi
che implementano programmi di rientro hanno strumenti di controllo dei flussi in entrate e uscita dei propri
residenti (Wickramasekara, 2002). Inoltre, al momento la positiva valutazione dei risultati derivanti da
queste politiche risente del fatto che spesso questi programmi sono veicolati come messaggi politici, con
grande enfasi su risultati non sempre dimostrabili.

Nel resto di questa sezione si riportano alcune esperienze, sviluppate negli ultimi trent’anni ma sempre più
perfezionate fino agli anni recenti, di politiche orientate al rientro dei talenti espatriati e si cercherà, per
quanto possibile, di valutarne l’impatto.

3.6.1   Diaspora networks

Il punto di partenza per realizzare una qualunque politica di circolazione dei lavoratori ad alta qualifica è la
capacità di stabilire legami tra i Paese di origine e i propri talenti emigrati. Per fare questo, alcuni Paesi
hanno sviluppato politiche di collegamento (networks) tra i propri scienziati sparsi nel mondo (diaspora),
con l’intento di promuovere la circolazione dei risultati e delle tecniche invece che la circolazione delle
persone fisiche, di influenzare e di implementare politiche pubbliche con l’aiuto degli stessi emigrati, di
incentivare la partecipazione diretta allo sviluppo di nuovo capitale umano in patria e di diffondere
informazioni sulle possibilità e opportunità di lavoro.

Il potenziale di questi networks è generalmente considerato molto elevato, soprattutto alla luce del fatto che
le nuove tecnologie di comunicazione ne rendono il funzionamento meno costoso rispetto al passato.
Ovviamente, maggiore sarà la dimensione della diaspora e maggiore saranno le potenzialità della creazione
delle reti.

In genere, si ritiene che il successo di questo tipo di politiche sia legato sostanzialmente a tre fattori (Naik,
Koehler e Laczko (2008)): i lavoratori che sono espatriati devono essere occupati in settori che permettono
un’adeguata accumulazioni di capitale, sia finanziario che sociale; il trasferimento di questo capitale verso il
Paese di origine deve essere poco costoso; il Paese di origine deve essere in grado di saper sfruttare questo
tipo di flussi. Nel caso specifico dei lavoratori qualificati, il primo tipo di fattore dovrebbe essere
normalmente soddisfatto; inoltre, in molti settori le moderne tecnologie di comunicazione permettono il
trasferimento di risorse (anche il know how) facilmente trasferibile. Resta ovviamente al singolo Paese di
origine, al suo grado di sviluppo e alla sua lungimiranza sociale e politica l’onere di dimostrare di essere in
grado di gestire questi flussi. Infine, ed è la ragione per qui la creazioni di reti viene inserita in questo gruppo
di politiche, mettere in contatto scienziati dello stesso Paese sparsi in tutto il mondo non dovrebbero essere
visto come mera alternativa alla circolazione fisica degli stessi (Tejada Guerrero e Bolay (2005)), bensì come
passaggio per facilitare e incentivare proprio la circolazione, sia dal Paese di origine che verso lo stesso.

                                                          19
Tra le esperienze più rilevanti, si riportano di seguito le esperienze di alcuni Paesi africani e della Colombia
(Tejada Guerrero e Bolay (2005); Naik, Koehler e Laczko (2008)).

The South African Network of Skills Abroad (SANSA), Migration for Development in Africa (MIDA),
Transfer of Knowledge Through Expatriate Nationals (TOKTEN). SANSA è un programma che è stato
utilizzato in Sudafrica per mettere in contatto professionisti sudafricani residenti all’estero (in particolare
negli Stati Uniti) con lavoratori nel Paese di origine, utilizzando principalmente internet e e-learnig. MIDA è
un programma dell’International Organization for Migration (IOM) che aggiunge al trasferimento di
capitale sociale attraverso le nuove moderne tecnologie anche la previsione di periodi di residenza nei Paesi
di origine da parte di professionisti emigrati (per esempio, nel caso dell’addestramento di medici in Ghana).
TOKTEN, infine, è un programma delle Nazioni Unite che promuove il ricorso ad emigrati come consulenti
per un breve periodo all’interno di imprese nel Paese di origine.

The Thai Reverse Brain Drain project, Thailandia. L’esperienza thailandese incoraggia lo scambio tra
scienziati ma soprattutto la consulenza degli emigrati e la loro circolazione, anche per brevi periodi, tra Paese
destinatario e Paese di origine.

Caldas Network of Colombian Scientists and Engineers Abroad, Colombia: creato nel 1992 su iniziativa
degli stessi scienziati, ricercatori e studenti colombiani all’estero, è stato una delle prime iniziative per la
creazione di reti ed è arrivato a contare circa 1000 iscritti residenti in 25 Paesi diversi. Il sistema prevedeva
lo scambio di risultati scientifici e tecnologie che potessero favorire gli stessi iscritti e gli scienziati
colombiani residenti nel Paese di origine. Si tratta di una delle prime e più rilevanti esperienze in questo
campo, anche se ha perso importanza negli ultimi anni, soprattutto a causa della mancanza di risorse.

3.6.2      Incentivi economici e politici

Moltissimi Paesi hanno sviluppato politiche per rendere profittevole il ritorno in patria dei propri lavoratori
emigrati, come per esempio l’introduzione di incentivi economici (esenzioni fiscali o aiuti finanziari) o
politici (aiuti burocratici per la concessione di cittadinanza ai famigliari).

La forma di questi incentivi, dunque, è molo variabile. In Albania sono stati sviluppati alcuni programmi (per
esempio, AlbStudent, NGO Mjaft! e the Soros Foundation) per favorire il ritorno di cittadini che hanno
svolto il proprio percorso di studi all’estero. Tuttavia, questi programmi furono criticati sotto vari aspetti.
Innanzitutto, le condizioni economiche in patria non rendevano comunque appetibile il ritorno; inoltre, questi
titoli di studio ottenuti all’estero non venivano sempre riconosciuti e alcuni settori come quello universitario
mantenevano anche nei confronti di questi lavoratori qualificati un elevato grado di chiusura. Infine, queste
schemi hanno sollevato obiezioni di equità per il fatto che sembravano favorire i laureati in università
straniere rispetto ai laureati in università nazionali.

Altre esperienze sono raccolte in OECD (2008)11. Tra queste vale la pena di ricordare i finanziamenti erogati
in Austria ai giovani ricercatori che abbiano risieduto nel Paese per almeno tre degli ultimi dieci anni prima
della fruizione del finanziamento per andare a svolgere un progetto di ricerca all’estero; in Belgio è invece
previsto un finanziamento biennale per i ricercatori che hanno lavorato all’estero per almeno due anni e che
vogliono tornare in patria; in Olanda, infine, vengono offerti finanziamenti biennali ai migliori studenti che
hanno completato il dottorato in Olanda e che desiderano specializzarsi ulteriormente all’estero.

Naturalmente, tra gli incentivi più importanti legati alla circolazione dei talenti non si può dimenticare il
processo di armonizzazione dei titoli di studio a livello europeo, né tutte le note iniziative dedicate alla
circolazione degli studenti




11
     Si veda anche Giannoccolo (2006).

                                                       20
3.6.3      Favorire il ritorno con la creazione di nuovi distretti industriali: i casi di Cina e India

Infine, un tipo particolare di politiche per incentivare il ritorno dei lavoratori qualificati residenti all’estero
prevede che lo Stato di origine, o anche le imprese private lì operanti, si facciano carico di andare a ricercare
nei Paesi già sviluppati i propri connazionali che, emigrati da studenti, possono contare ormai su almeno un
decennio di esperienza all’estero. Si tratta di programmi sviluppati già partire dagli anni ’80, ma di cui molti
continuano anche recentemente. Il settore di maggiore applicazione è quello della ricerca e dell’innovazione
e, proprio per la natura del settore, la priorità degli incentivi non è tanto quella del rientro sic et simpliciter
quanto quello della circolazione di queste persone che spesso, durante l’anno, possono spostarsi diverse volte
tra il paese natio e il Paese di destinazione. Due casi esemplari, di seguito riportati, sono quelli della
provincia cinese di Taiwan e di numerosi distretti industriali indiani.

La provincia cinese di Taiwan: come illustrato da Saxenian (2005), a Taiwan, a partire dagli anni ’70 e ‘80,
il brain drain aveva assunto dimensioni ragguardevoli, tant’è che circa l’80% degli studenti di questa
provincia che emigravano negli Stati Uniti non faceva ritorno in patria e restava invece a lavorare sia nelle
università che nel settore industriale privato. L’iniziativa politica, in quel caso, fu particolarmente articolata.
Innanzitutto, si cercarono di ricontattare i connazionali che lavorano già negli Stati Uniti (in particolare, nella
Silicon Valley) e, anche grazie alle loro consulenze, si decise di cambiare modello produttivo, adottando
innanzitutto un approccio più orientato al mercato, facilitando la sviluppo di aziende venture capital, e
investendo in ricerca e istruzione. La reazione degli emigrati fu duplice: da un lato, molti taiwanesi decisero
di tornare e di stabilirsi in patria, stabilendo essi stessi nuove aziende (si ricorda il caso esemplare del
distretto industriale di Hsinchu); dall’altro molti decisero di continuare a lavorare in entrambi Paesi,
favorendo ulteriormente la circolazione di talenti, tecnologie e informazione.

Il caso indiano: il caso indiano, e in particolare quello del distretto di Bangalore (ma casi analoghi si
possono trovare nelle città di Hyderabad e Bombay) è esemplare nell’illustrare le potenzialità che la
circolazione dei talenti può avere per il Paese di origine (Tejada Guerrero e Bolay (2005)). I migliori laureati
delle università indiane che sono emigrati, in particolare coloro che sono specializzati nello sviluppo di
tecnologie di informazione e comunicazione (IT) e che lavorano negli Stati Uniti, sono ritenuti fondamentali
per la capacità di attrarre investimenti, per l’abilità di favorire le esportazioni, nonché per lo sviluppo dei
sistemi educativi e sanitari, e così via. Secondo alcune stime, è stta proprio l’attività di questi lavoratori
indiani residenti all’estero a portare circa un terzo di tutti gli investimenti stranieri in India nel 1991.

L’ambiente in cui queste politiche si sono rivelate un successo deve però essere tenuto in considerazione. Si
trattava infatti, in entrambi i casi, di economie in forte crescita e quindi più adatte ad accogliere capitale
umano qualificato e a promuovere nuova attività economica. Non sempre è possibile, o è stato possibile,
reintegrare i propri lavoratori emigrati all’interno del Paese di origine. Alla luce di questi fallimenti, o anche
nell’impossibilità di replicare politiche di successo come quella Taiwanese, diversi Paesi hanno sviluppato
politiche alternative che comunque puntano alla valorizzazione del capitale umano nazionale emigrato
residente all’estero.

Come detto sopra, importante per massa che hanno nel mondo. Per avere un’idea della rilevanza di questo
fenomeno, limitatamente ai due Paesi più popolosi, vale dire Cina e India, si riporta in Figura 3 un grafico
recentemente pubblicato da The Economist12.




12
     Weaving the world together, The Economist, 19/11/2011.

                                                         21
Figura 3: La diaspora dei lavoratori ad alta qualifica cinesi e indiani




4. LE POLITICHE IN ITALIA

Come ampiamente documentato, l’Italia è un Paese sviluppato che si trova però nella posizione di essere un
Paese di origine nel fenomeno del brain drain e non un Paese di destinazione. L’esperienza italiana nel
campo delle politiche dedicate alla circolazione, al rientro o alla selezione dei lavoratori ad alta qualifica non
è delle più soddisfacenti. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di interventi poco articolati, spesso presi
senza una logica strutturale e di lungo periodo. Soprattutto, si tratta di esperimenti che non sono stati
adeguatamente monitorati e che dunque non hanno potuto fornire elementi per valutare le potenzialità e le
criticità delle scelte adottate.

Innanzitutto, in Italia, al momento, non esiste una vera e propria politica migratoria selettiva13. Esiste in
effetti un sistema a quote, basato sulle esigenze specifiche del mercato del lavoro, ma questa scelta appare
insufficiente per gestire la complessità e la potenzialità dei flussi migratori verso il nostro Paese. Quel che è
peggio, non sembra esistere un sistema produttivo in grado di sostenere una tale politica. Se le condizioni
economiche dei giovani laureati italiani sono tali per cui una quota di questi decide di lasciare il Paese,
sembra difficile che ciò renda appetibile l’ingresso di forza lavoro qualificata da altri Paesi.

Quando le politiche migratorie non sono adeguatamente disegnate, e questo è il caso anche del nostro Paese,
può anche emergere il fenomeno del cosiddetto brain waste: i lavoratori qualificati stranieri che arrivano in
un Paese non trovano lavori in grado di valorizzare il proprio capitale umano e vengono occupati in lavori
che non richiedono il loro preparazione. È il caso, documentato da Chaloff (2005), proprio del nostro Paese:
circa un quarto degli immigrati in Italia all’interno della quota “lavoratori domestici” possiede una laurea
conseguita nel Paese di origine.

Per quanto riguarda le politiche di rientro e quelle di attrazione, l’Italia ha tradizionalmente puntato al
settore universitario e della ricerca. In effetti, il nostro Paese è tra quelli che presentano un numero più
elevato di ricercatori rinomati che lavorano all’estero, così come mostrato in figura 4.




13
   Tra le proposte di riforma in questa direzione, segnaliamo il disegno di legge 120/2008 “Norme per l’ingresso,
l’accesso al lavoro e l’integrazione dei cittadini stranieri” (Livi Bacci e altri).

                                                       22
Figura 4: Quota di ricercatori con opere più citate che lavorano all’estero (per Paese di origine)




                                                                                            Fonte: OECD (2009b)


Per questo motivo, a partire dal 2001 (esperienza rinnovata fino al 2008) il Governo ha dedicato alcune
risorse al finanziamento del ritorno (o del trasferimento) di ricercatori residenti all’estero (Morano Foadi e
Foadi, 2003). Il programma non è rivolto ai soli ricercatori italiani ma a tutti i ricercatori che risiedono dal
almeno tre anni all’esterno dell’Italia. A queste persone viene offerto un contratto temporaneo (da due a
quattro anni) e ricevono uno stipendio co-finanziato dalle università e dal Ministero, il che rende i salari
offerti particolarmente generosi. Tuttavia, questa politica è stata criticata sotto vari aspetti. Da un lato, molti
ricercatori italiani all’estero, per non parlare degli stranieri, non erano a conoscenza dell’iniziativa; dall’altro,
i contratti temporanei e la poca trasparenza del meccanismo concorsuale italiano per l’ottenimento di una
posizione permanente all’interno dell’università italiana hanno fatto sì che molti dei ricercatori tornati
abbiano dovuto poi cercare una nuova occupazione all’estero.

Un intervento più recente (legge 238/2010, cosiddetta “Controesodo”) prevede incentivi fiscali per il rientro
dei lavoratori in Italia. Anche in questo caso, gli incentivi sono rivolti a tutti i lavoratori europei, quindi non
solo agli Italiani, che non hanno risieduto in Italia negli ultimi anni. La novità è che questa legge non è
limitata ai ricercatori universitari e anzi prevede incentivi proprio per i lavoratori nel settore privato, siano
essi lavoratori dipendenti o imprenditori che vogliono stabilire attività d’impresa in Italia. Si tratta di una
legge molto recente e quindi dagli effetti non ancora valutabili. È evidente però che appare quanto mai
necessario che il legislatore si doti un nucleo per la valutazione di questi interventi.

Più varia e fantasiosa invece l’attività di Università e Regioni italiane per favorire la mobilità dei talenti. Si
tratta, in questo caso, di interventi rivolti alla formazione e quindi dedicata alla mobilità degli studenti.

Nel 2008, Regione Sardegna e Università di Cagliari hanno indetto una selezione finalizzata alla stipula di
due contratti per attività di ricerca della durata di due ciascuno, con possibilità di rinnovo, a favore di docenti
e di giovani ricercatori ed esperti sardi impegnati all’estero da almeno un triennio in attività di ricerca. I
contratti sono esplicitamente finanziati con risorse della Regione Sardegna (legge regionale n. 3 del 2008),
devono prevedere lo svolgimento di un programma di ricerca concordato con i Dipartimenti presso i quali si
intende svolgere l’attività.




                                                         23
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Brain Drain. Paolo Balduzzi per Italents

  • 1. DAL BRAIN DRAIN ALLA CIRCOLAZIONE DEI TALENTI: REALTÀ ITALIANA ED ESPERIENZE INTERNAZIONALI Associazione ITalents www.italents.org Rapporto steso da: Paolo Balduzzi Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano IEF e CIFREL Largo Gemelli, 1 – 20123 Milano Telefono: 02.7234.3214 Fax: 02.7234.2781 e-mail: paolo.balduzzi@unicatt.it Abstract Il fenomeno del brain drain, inizialmente considerato solo come negativo, è stato più recentemente studiato anche considerandone i possibili effetti positivi. Da un alto, i Paesi avanzati concorrono sempre di più per coltivare e attrarre i talenti migliori, il cui valore è considerato uno degli elementi chiave dello sviluppo delle economie avanzate. Dall’altro, i Paesi in via di sviluppo, verificato il fallimento delle tradizionali politiche di trattenimento dei talenti, puntano su nuove politiche che favoriscono la circolazione del proprio capitale umano. Tuttavia, indipendentemente da come si guardi al fenomeno, il nostro Paese appare in forte difficoltà. In questo contributo viene descritta la realtà italiana del brain drain, partendo dalla letteratura scientifica e prendendo in esame alcuni dati nazionali e internazionali. Inoltre, vengono prese in esame alcune esperienze internazionali e nazionali di politiche per la gestione della fuga dei talenti. Il rapporto si conclude con una serie di osservazioni critiche su come dovrebbe articolarsi l’azione dei policy maker per favorire una mobilità internazionale virtuosa da parte dei migliori talenti italiani. Parole chiave: Brain drain - Degiovanimento – Squilibri generazionali ---------------------------------------- Paolo BALDUZZI Ricercatore in Scienza delle finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si occupa di political economy, federalismo fiscale e finanza locale, pensioni, disuguaglianza intergenerazionale. Coordina il sito di informazione www.degiovanimento.com e il blog http://degiovanimento.blogspot.com.
  • 2. INTRODUZIONE L’attenzione pubblica nei confronti del brain drain è aumentata considerevolmente negli ultimi anni. Il fenomeno, inizialmente considerato come sicuramente negativo, è ora più attentamente valutato come potenzialmente positivo sia, come ovvio, per i Paesi di destinazione, sia per gli stessi Paesi di origine dei flussi migratori. In linea di principio, le migrazioni di lavoratori non sono necessariamente un male. Il nostro Paese, nel corso degli anni, è stato interessato da ondate di migrazioni verso l’estero che, con intensità e forme diverse nel tempo, hanno portato molti lavoratori italiani a costituire piccole e grandi comunità in sud America, negli Stati Uniti, in quasi tutti i Paesi europei e mondiali. La volontà di realizzare appieno le proprie capacità, acquisite con l’esperienza o con lo studio, e, anche più semplicemente, la necessità di trovare un lavoro sono forze positive dal punto di vista individuale. È la spinta al miglioramento, alla crescita, delle volte al riscatto, che permette e ha permesso di migliorare le condizioni di vita di molti lavoratori. Tuttavia, questa risposta individuale al bisogno di miglioramento si può scontrare con un indebolimento collettivo quando i fenomeni migratori privano un Paese di risorse utili al resto della popolazione. È questo il caso della cosiddetta “fuga dei cervelli”. Si consideri per esempio un Paese tradizionalmente caratterizzato da scarsa istruzione terziaria: il fatto che molti tra i pochi laureati preferiscano portare altrove le proprie capacità costituirebbe un ulteriore indebolimento del capitale umano del Paese stesso. In un mondo in cui la capacità di innovare e di tenersi aggiornati risultano fondamentali per competere, vincere e crescere, perdere una quota dei lavoratori che più contribuirebbero a vincere questa competizione risulta un indubbio impoverimento per quel Paese. Il Paese a cui si fa riferimento non è certamente un Paese ipotetico ma, come probabilmente già si intuisce, è l’Italia. I numeri raccontano di un Paese ancora poco istruito, ulteriormente impoverito dalla migrazione di forza lavoro qualificata e incapace di attrarne di nuova da altri Paesi. Un quadro certamente cupo, dipinto a tinte ancora più fosche dalle cronache periodiche e da divulgazioni, che, seppur aneddotiche e non scientifiche, raccontano le storie di chi ha deciso di abbandonare l’Italia. È indubbio che la politica debba impegnarsi a cercare soluzioni e a dare risposte. È però doveroso che queste risposte non siano basate sulla pubblica percezione del problema ma su analisi quantitative e precise del fenomeno. Questo rapporto ha l’obiettivo di fornire qualche spunto ai policy maker che vogliano ragionare in maniera non ideologica sul tema della fuga dei cervelli. Si tratta solo di un primo tassello, perché i dati a disposizione sono ancora pochi. Tuttavia, questo lavoro mette insieme in forma ragionata e critica i più importanti dati finora raccolti sul fenomeno e presenta un quadro delle più importanti esperienze straniere e italiane in materia. Più precisamente, il presente lavora si articola come segue. Nella prima sezione, si definiscono il concetto di brain drain e dei suoi effetti positivi e negativi, presentando come la letteratura scientifica ha affrontato la questione nel tempo. Nella seconda sezione, si illustra invece la situazione italiana, attraverso l’esposizione dei dati e delle informazioni più rilevanti sulla mobilità di lavoratori qualificati e studenti. Si chiariscono inoltre quali siano i maggiori problemi per i ricercatori per quanto riguarda le fonti di questi dati. Nelle sezioni terza e quarta si presentano e commentano rispettivamente alcune delle maggiori esperienze internazionali e italiane per la gestione del brain drain; in particolare, per il caso italiano si commentano esperienze a livello nazionale, regionale e universitario. Infine, la sezione quinta conclude, proponendo alcuni elementi critici di riflessione che si spera possano essere utili ai policy maker nazionali e internazionali. 1. LA VALUTAZIONE DEL BRAIN DRAIN NELLA LETTERATURA SCIENTIFICA L’attenzione pubblica nei confronti del brain drain, fenomeno noto in Italia come “fuga di cervelli” o come “fuga dei talenti”, è cresciuta molto negli ultimi anni, anche se con un ritardo dovuto alla scarsità dei dati a disposizione. Inizialmente il fenomeno era visto come sicuramente negativo (il termine drain e fuga sono 1
  • 3. molto espliciti da questo punto di vista): questa visione tradizionale, che pure sopravvive tra molti commentatori, valutava infatti i movimenti migratori dei laureati verso l’estero come una sicura perdita del Paese di origine e non considerava la possibilità che questi individui tornassero in futuro. Più recentemente, questo approccio è stato messo in discussione e si è cominciato a valutare gli effetti benefici delle migrazioni di cervelli. Dapprima si sono studiati gli eventuali benefici che queste possono creare anche nel Paese di origine (per esempio, attraverso il reddito trasferito sotto forma di rimessa). Di seguito, la ricerca ha anche considerato la possibilità di flussi migratori di ritorno. In altre parole, si è passati da un approccio al fenomeno in termini di “fuga” a un approccio basato sulla “circolazione”. Parlare di brain drain e dei suoi effetti, negativi o positivi che siano, ha senso però quando possono essere stabilite (con una robusta teoria) e verificate (in via empirica e non solo aneddotica) una serie di relazioni causali. Innanzitutto, che esista e sia misurabile un beneficio economico diretto che un talento sottrae al proprio Paese quando emigra e che apporta invece al nuovo Paese di residenza; per esempio, un lavoratore che emigra porta con sé della base imponibile, vale a dire il reddito prodotto, che viene persa dal Paese di partenza. Inoltre, è necessario stabilire che esista e sia misurabile anche un eventuale beneficio indiretto creato dal fenomeno migratorio; è il caso per esempio delle esternalità positive collegate all’afflusso di maggiore e migliore capitale umano (stranieri laureati). È necessario inoltre verificare che esistano e che si possano misurare i costi diretti di questa emigrazione; ci si riferisce in questo caso non tanto alla perdita di beneficio economico quanto, per esempio, al cosiddetto “costo fiscale” dell’emigrazione, nella forma di spesa pubblica che uno Stato sostiene per formare i propri laureati e i cui ritorni invece sono incamerati da un altro Stato. Infine, non si possono escludere i benefici per uno Stato derivanti proprio dall’emigrazione dei talenti: è il caso, non certo secondario nemmeno per un paese come l’Italia, delle rimesse. Oltre all’esigenza di questi dati, esistono altri tipi di problemi, legati a eventuali confronti internazionali. Quando si volesse infatti confrontare tra loro Paesi diversi, si dovrebbero utilizzare misure standard per le variabili di riferimento indicate sopra, identiche o perlomeno molto simili. Come lamentato però da più studiosi (si veda, per esempio, Dumont e Lamaître, 2004), perfino la definizione stessa di “emigrazione” può variare da Paese a Paese, rendendo i confronti poco informativi. Al contrario, se si limitasse l’analisi a un solo Paese, esisterebbe ovviamente più libertà nella scelta degli indicatori e nella definizione delle variabili. Tuttavia, le misure ottenute non direbbero nulla riguardo alla posizione di quel Paese nel panorama internazionale. È necessario dunque, a questo punto, riassumere sia la letteratura in materia, per approfondire tutti gli aspetti critici collegati alla misurazione del fenomeno, sia presentare le fonti dei dati utilizzati nelle ricerche, per evidenziarne soprattutto le mancanze e i limiti. Come anticipato, la letteratura scientifica in materia (che peraltro interessa diverse discipline) trova ancora parecchia difficoltà a definire una misura univoca del fenomeno. In generale, però, è possibile trovare un certo consenso sull’esistenza delle seguenti relazioni di costo e beneficio conseguenti all’emigrazione dei talenti. I benefici diretti per i Paesi di destinazione. Docquier e Rapoport (2009) suggeriscono che il brain drain può influenzare il tasso di crescita della produzione, tanto nel Paese di destinazione quanto in quello di origine, attraverso cinque canali: produttività totale dei fattori, accumulazione di capitale umano, abilità e produttività media della forza lavoro più istruita, qualità delle istituzioni, e rimesse. L’evidenza empirica mostra che produzione, accumulazione di capitale e perfino occupazione sono generalmente positivamente correlate con il livello di immigrazione totale di un Paese, e che questi benefici aumentano all’aumentare della migrazione qualificata, mentre gli effetti dell’immigrazione, anche qualificata, sulla produttività totale dei fattori sono incerti (Bertoli et al., 2009). Inoltre, poiché l’aumento della produzione va di pari passo con l’aumento del reddito, il Paese di destinazione potrà contare anche su benefici fiscali collegati all’ampliamento della base imponibile. Tuttavia, isolare il contributo dell’immigrazione e quantificarlo non è sempre possibile e agevole. Una misura alternativa dei benefici, seppure necessariamente limitata a specifici ambiti di applicazione, è quella proposta da I-com (2011), che ha provato quantificare il valore dei brevetti registrati dai migliori venti scienziati italiani residenti all’estero. Per quanto innovativa e interessante, questa 2
  • 4. misura non considera il fatto che la registrazione dei brevetti è spesso opera di ricercatori che lavorano in team e con attrezzature adeguate. Se questi ricercatori fossero rimasti in Italia, non è dimostrabile che avrebbero creato lo stesso valore. I costi. Un laureato è uno studente che ha frequentato per almeno tre anni una università. Anche se il laureato ha partecipato in qualche modo ai costi per la propria istruzione, la percentuale di copertura dei costi, specialmente nelle università statali, è estremamente limitata. Una misura “minima” del costo fiscale del brain drain è quindi ottenibile in termini di spesa pubblica dedicata all’istruzione dei laureati che poi hanno lasciato il Paese. Una misura “massima” invece potrebbe considerare l’intero costo per l’istruzione (dalla primaria alla terziaria) del laureato che lascia il Paese. I benefici per il Paese di origine. I lavoratori emigrati all’estero tendono a trasferire al Paese di origine (o meglio, alle loro famiglie nel Paese d’origine) parte dei propri guadagni. È stata questa considerazione che ha fatto concludere alla letteratura tradizionale che la circolazione dei cervelli, soprattutto nei Paesi più poveri, potrebbe avere benefici per gli stessi Paesi di origine. Uno studente laureato in un Paese povero e che decida di lavorare in patria potrebbe e non essere in grado di guadagnare quanto guadagnerebbe all’estero. In effetti, è proprio per questo motivo che i laureati migliori se ne vanno. Il ritorno in patria di parte del reddito prodotto all’estero ripaga o addirittura più che compensa il Paese di origine per il costo fiscale sostenuto per l’istruzione del laureato espatriato. La letteratura più recente (Stark, Helmenstein e Prskawetz, 1997; Beine, Docquier e Rapoport, 2001; Bertoli e Brücker, 2008) ha inoltre evidenziato come proprio le prospettive di emigrazione siano positivamente correlate con l’aumento di capitale umano nel Paese di origine, con tutti i benefici che ciò può portare. L’idea è che, anticipando possibili guadagni più elevati all’estero in caso di emigrazione, un numero maggiore di cittadini nel Paese di origine sarà intenzionato a investire in istruzione rispetto al caso in cui invece questa prospettiva non esiste (cosiddetto brain effect). Certamente, in caso di effettiva emigrazione il beneficio tenderà a scomparire (drain effect); ciononostante, spesso il comportamento migratorio “effettivo” risulta inferiore a quello “desiderato”; inoltre, una quota di emigranti potrebbe ritornare nel Paese di origine dopo un certo periodo di anni, portando con sé esperienze e tecnologie (fenomeno dell’adozione; Docquier e Rapoport, 2009). Ragionando su tutti questi elementi si arriva a una considerazione fondamentale: come per ogni fattore di produzione, è bene che il capitale umano venga allocato dove più elevati sono i suoi rendimenti o dove maggiori sono le possibilità che questi rendimenti si realizzino. È quindi opportuno creare le condizioni perché questo capitale umano trovi conveniente tornare nel Paese di origine, o perlomeno creare dei network per far circolare le doti di conoscenza acquisite. Ancora Docquier e Rapoport (2009) ritengono che proprio la circolazione dei talenti abbia contributo all’apertura e alla modernizzazione di Paesi come Cina e India. Le esternalità positive e negative. Tra le esternalità positive per i Paesi di destinazione si considerano, solitamente, quelle legate alla presenza di una società mediamente più istruita nei Paesi di destinazione; per i Paesi di origine, invece, le esternalità positive fanno riferimento alla capacità dei migranti e dei residenti di creare reti per la circolazione di idee, good practices e, come appena ricordato, tecnologie. Questa circolazione vale naturalmente sia per i principi dell’economia (importanza della competizione, del commercio internazionale, etc.) sia per quelli della politica (importanza della partecipazione, del voto, dell’informazione libera, etc.), portando miglioramenti al funzionamento di istituzioni quali il mercato e la democrazia. Tra le esternalità negative, e ciò riguarda invece i soli Paesi di origine, si inseriscono invece quelle legate all’impoverimento dell’offerta di lavoro, in particolare quando è basso il grado di sostituibilità tra lavoratori di abilità e livelli di istruzione diversi (Bhagwati e Hamada, 1974; Piketty, 1997). Più recentemente, è stato anche proposto di considerare esternalità negative quelle legate al cosiddetto “degiovanimento”1 della società: questo fenomeno ha infatti, tra le sue conseguenze, un rallentamento della crescita economica e un aumento della corruzione2. Tutti questi benefici (o danni) collegati a esternalità non si possono dunque escludere; ovviamente, sono però ben difficilmente quantificabili. Un metodo per tenere in dovuta considerazione questi aspetti potrebbe essere quello di individuare opportune proxy per ogni esternalità individuata. Al momento, però, la letteratura non ha ancora trovato una proposta convincente. 1 www.degiovanimento.com. 2 Sul punto si vedano, per esempio, Balduzzi e Rosina (2010, 2011a, 2011b) o altri contributi su www.degiovanimento.com. 3
  • 5. Oppure, si possono ignorare questi aspetti, sapendo però che in questo modo si perderebbe parte della comprensione del fenomeno. A proposito della difficoltà dei confronti internazionali e di trovare degli standard di misurazione del fenomeno largamente accettati, Dumont e Lamaître (2004), come anticipato, rilevano che in alcuni Paesi vengono classificati come immigrati tutti coloro che sono nati all’estero, mentre altri Paesi si concentrano solo su coloro che hanno mantenuto la nazionalità straniera. Inoltre, gli stessi autori lamentano come le banche dati nazionali tendano a raccogliere maggiori informazioni su chi immigra nel Paese ma a perdere velocemente traccia dei propri espatriati all’estero. Per quanto concerne il caso italiano, questo significa che a meno di informazioni precise che solo l’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) potrebbe fornire, è necessario raccogliere i dati degli emigrati italiani direttamente dalle statistiche straniere, facendo bene attenzione a concentrarsi sui soli residenti italiani all’estero nati in Italia. Inoltre, vale la pena di ricordarlo, l’AIRE fornisce informazione solo sugli immigrati che sono registrati presso l’Agenzia stessa. Docquier e Rapoport (2009), invece, riassumono l’evoluzione delle misure di brain drain utilizzate e dei successivi miglioramenti. Un primo set di misure (Carrington e Detragiache, 1998; Docquier, Lowell e Marfouk, 2009) è basato sui dati dei censimenti 1990 e 2000 riguardanti le emigrazioni internazionali verso Paesi OCSE per livelli di istruzione. I maggiori problemi di queste misure riguardano il fatto che sono basati sulla popolazione con più di 25 anni, che utilizzano una definizione molto ampia di istruzione terziaria e che non comprendono informazioni sull’occupazione degli emigrati. Ciò significa che questi indicatori non permettono di tenere conto del fatto che alcuni emigrati si siano formati già nel Paese di destinazione (annullando ciò che abbiamo chiamato costo fiscale del brain drain), che non si possa adeguatamente distinguere tra laureati e detentori di titoli più elevati di studio e che, infine, non si sappia esattamente quanto questi talenti abbiano reso, in termini di reddito prodotto, nei Paesi di destinazione. In linea di principio, è infatti possibile che un laureato, pur emigrando, non sia poi in grado nemmeno all’estero di ottenere rendimenti elevati dal proprio investimento in capitale umano3. La misura proposta in questi contributi è l’”highly skilled expatriation rate” (HSER), il tasso di emigrazione degli individui altamente qualificati, cioè la quota di individui, all’interno della popolazione con elevata istruzione, che è emigrata. Per ovviare al problema del controllo del country of training, Beine, Docquier e Rapoport (2007) hanno usato dataset in cui approssimano questa variabile con l’età di emigrazione, distinguendone tre: 12, 18 e 22. Questa correzione, seppur coi limiti che può avere tale approssimazione, permette di valutare dove è avvenuta la formazione degli emigrati. Se la differenza tra tasso di emigrazione alle diverse età è elevato, ciò significa che molti individui si saranno formati nei Paesi di destinazione e che, dunque, non c’è costo fiscale diretto del brain drain. Ancora Docquier e Rapoport (2009) introducono infine una correzione che migliora l’informazione contenuta nell’indicatore precedente, vale a dire l’età precisa di ingresso nel Paese di destinazione. Anche in questo caso, l’età è considerata una proxy del luogo di conseguimento di diversi livelli di istruzione. Le banche dati utilizzati generalmente nelle ricerche, e potenzialmente molto utili, sono riassunte nella tabella 1. I dati utilizzati per i confronti internazionali sono solitamente riconducibili ai censimenti nazionali effettuati ogni dieci anni. Nel corso del tempo alcuni standard di rilevamento sono stati uniformati. Ciononostante, la bassa frequenza dei censimenti rende l’analisi, seppur indiretta, dei flussi praticamente impossibile. Ci si può comunque attendere un aggiornamento dei data set esistenti proprio a seguito delle rilevazioni di questo decennio. È questo il caso dei database di derivazione OCSE, variamente integrati, corretti e utilizzati, come mostrato poco sopra, nella quasi totalità della letteratura scientifica. Si tornerà invece più sotto sulle criticità delle fonti nazionali 3 Quest’ultimo fenomeno è noto come brain waste. 4
  • 6. Tabella 1: Fonti informative Fonte Contenuto e limiti OCSE Dati internazionali di stock, relativi ai censimenti decennali, su immigrazioni per età e titolo di studio. Il migliore per i confronti internazionali ma con pochi anni a disposizione EUROSTAT Dati internazionali, relativi a spesa per istruzione e caratteristiche degli emigrati. Il migliore per quanto riguarda la ricchezza delle informazioni contenute ISTAT Dati sulle emigrazioni annuali relativi all’Italia, per titolo di studio. Dati di non immediata accessibilità dal sito AIRE Dati relativi ai residenti italiani all’estero. Dati solo parzialmente accessibili pubblicamente MIUR Dati su studenti e laureati in Italia ALMALAUREA Dati sulla situazione occupazionale dei laureati italiani a uno, tre e cinque anni dal termine degli studi. Contiene informazioni sul luogo di occupazione CARITAS/MIGRANTES Dati derivati da AIRE, rielaborati con questionari in aree geografiche specifiche 2. LA SITUAZIONE IN ITALIA In questa sezione, si presentano alcuni dati, frutto di contributi precedenti o di elaborazioni su fonti statistiche ufficiali, che entrano nel dettaglio della realtà italiana. Innanzitutto si discute criticamente queste stesse fonti, evidenziando in particolare le loro lacune e le possibilità di miglioramento. Dopodiché, si introducono alcune misure di brain drain per quantificare il fenomeno in Italia e per operare alcuni confronti internazionali. Come evidenziato sopra, però, questo non basta. Il brain drain in sé non è né positivo né negativo: è dunque importante anche quantificare costi e benefici che queste emigrazioni comportano. Infine, si presentano alcuni dati sulla mobilità degli studenti italiani e sui flussi di studenti stranieri nelle università italiane. 2.1 Le fonti: cosa c’è e cosa manca Come già evidenziato in precedenza, la letteratura lamenta ancora oggi della mancanza di fonti informative complete e confrontabili. Ciononostante, nell’ultimo decennio si sono succeduti diversi tentativi di migliorare e integrare i database a disposizione. Si cercherà quindi di caratterizzare il fenomeno del brain drain per il nostro Paese utilizzando tutte le fonti a disposizione e presentando in maniera critica i risultati della letteratura. Ovviamente, non si tratterà di numeri totalmente nuovi a chi conosce la materia. Il presente contributo consiste comunque nel fare ordine tra le misure disponibili e, soprattutto, nell’approccio critico al loro utilizzo e nell’utilizzo di questi limiti per formulare richieste di integrazione dei database. Le fonti più importanti, almeno dal punto di vista teorico, sono sicuramente l’AIRE e l’ISTAT. L’AIRE fornisce la fotografia dei residenti italiani all’estero. Tuttavia, i dati dell’AIRE riguardano esclusivamente gli Italiani residenti all’estero che volontariamente si sono iscritti e hanno fornito informazioni. Questo aspetto non è per nulla secondario: diverse ricerche4 hanno infatti evidenziato come esistano discrepanze quantitativamente molto rilevanti tra la banca dati dell’AIRE e altri database. L’incompletezza e l’incongruenza dei dati rischiano di fornire una fotografia quantomeno incompleta, se non addirittura errata, 4 Ghio (2010), per esempio, insiste sulle discrepanze tra dati Eurostat e AIRE per quanto concerne gli Italiani residenti in Belgio. La scrittrice Claudia Cucchiarato (“Vivo altrove”, Bruno Mondadori, 2010), inoltre, ha condotto un esperimento sui residenti all’estero per “La Repubblica”. Dei 25.000 volontari che hanno risposto, meno del 46% risulta iscritto all’AIRE (http://www.repubblica.it/economia/2010/10/22/news/cucchiarato-8316581/). 5
  • 7. del fenomeno in esame. Inoltre, i dati accessibili pubblicamente sono molto limitati e non riportano alcune informazioni circa il grado di istruzione dei residenti italiani all’estero o del motivo della loro emigrazione né tantomeno del lavoro svolto o del reddito percepito. È chiaro, alla luce di quanto evidenziato sopra, che questi dati sono necessari per valutare eventuali costi e benefici del brain drain del nostro Paese. Qualche informazione in più è fornita invece dalle ricerche Caritas/Migrantes, che integrano i dati AIRE con questionari ad hoc limitati ad alcune specifiche aree geografiche (nel 2010, Canada, Francia, Regno Unito, Romania e Spagna). Per quanto più completi, questi dati risentono dunque ancora di una certa limitatezza geografica. Ulteriori informazioni sui titoli di studio all’estero sono ricavabili anche dal database “DaVinci” che, in modo molto macchinoso, fornisce la “geografia” dei 3000 ricercatori che sono iscritti al database. I dati sui trasferimenti di residenza dell’ISTAT, invece, danno conto delle variazioni annuali delle emigrazioni dall’Italia. Anche in questo caso, però, i dati non sono regolarmente e coerentemente raccolti. Per esempio, i dati relativi all’emigrazione per titolo di studio sono disponibili solo per il 2008 e non per gli anni precedenti. Inoltre, questi numeri sono stranamente disponibili nei documenti ufficiali ma non nelle tabelle messe a disposizione sul sito della stessa ISTAT. Benché poco chiaro, il sito del MIUR fornisce interessanti informazioni sul numero e sulla provenienza degli studenti stranieri in Italia, nonché sul numero dei laureati. Le informazioni sembrano in questo caso sufficienti ad analisi quantitative del fenomeno (anche se il sito non sempre appare facilmente accessibile e i dati sono stati affinati solo negli ultimi anni). Informazioni qualitative importanti, e non disponibili, dovrebbero riguardare il futuro lavorativo di questi laureati stranieri. Se, per esempio, studiassero in Italia e tornassero a lavorare in patria, si profilerebbe per il nostro Paese un “costo economico” identico a quello di uno studente italiano laureato che andasse a lavorare all’estero. La meritoria iniziativa di Almalaurea ha portato alla costruzione di un database che, per quanto ancora incompleto, riguarda ormai la maggioranza delle università pubbliche italiane. L’indagine riporta dati sulla situazione occupazionale dei laureati italiani a uno, tre e cinque anni dal termine degli studi, con informazioni sul luogo di occupazione. Purtroppo, la disponibilità della documentazione raccolta per tipo di corso e anni dalla laurea può variare da un anno di indagine all'altro e dunque i confronti non sono sempre possibili. Inoltre, e cosa più grave dal punto di vista della ricerca, il database on line non fornisce informazioni sulla situazione occupazionale all’estero dei laureati italiani, benché i rapporti annuali di Almalaurea riportino dati dettagliati. Riassumendo, sarebbe necessario poter avere a disposizione dati grezzi, tanto di flusso quanto di stock, che riportino numeri relativi al titolo di studio di chi lascia, di chi viene e di chi torna in Italia, il Paese in cui questo titolo è stato acquisito, il tipo di lavoro e il livello di reddito percepito dagli Italiani laureati che risiedono all’estero. Questi dati, insieme a quelli invece già disponibili e accessibili sul livello della spesa di istruzione in Italia, potranno infine permettere una ragionevole misura della circolazione dei talenti italiani. Infine, ulteriori informazioni qualitative interessanti potrebbero essere raccolte da ricerche campionarie che facciano emergere i motivi specifici dell’espatrio. Da questo punto di vista, i pochi tentativi realizzati (si vedano, per esempio, Monteleone e Torrisi, 2010, per i soli docenti universitari), evidenziano come cause principali la volontà di aderire a sistemi economici più produttivi, più meritocratici, con meno burocrazia e più stimolanti. Ovviamente, non va nemmeno ignorata la principale causa economica, vale a dire la ricerca di un wage premium soddisfacente e adeguato per il proprio titolo di studio (OECD, 2011). Tuttavia, è evidente che anche in questi contributi soffrono del limite di inadeguatezza della scelta del campione rappresentativo, fintantoché non si avranno informazioni sufficienti e complete sulla “popolazione” di riferimento. Nelle more di queste informazioni, si passa ora a presentare altri indicatori di brain drain proposti finora dalla letteratura5. 5 Il recente progetto “Global Science Project” del Politecnico di Milano mostre tuttavia le migliori premesse per la formazione di un database che comprenda informazione sui talenti italiani e di altri 16 Paesi residenti all’estero nelle arre scientifiche di chimica, biologia, scienza dei materiali e ambiente. 6
  • 8. 2.2 Il brain drain in Italia Una prima valutazione del fenomeno, sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo, è fornita da Becker, Ichino e Peri (2003). Nel loro lavoro, viene utilizzato un campione dei dati messi a 6 disposizione dall’AIRE, per “concessione” del Ministero dell’Interno . Come evidenziato sopra, si tratta di informazioni che riguardano gli italiani residenti all’estero e registrati presso l’agenzia. Le informazioni potrebbero dunque essere incomplete. Le misure di brain drain proposte dagli autori si basano sulla quantità di capitale umano del Paese, con l’idea che questo sia una determinante del reddito nazionale (e della sua crescita nel tempo): se il brain drain influisce negativamente sul capitale umano del nostro Paese, allora dobbiamo attenderci conseguenze negative anche sul reddito, misurato dal PIL, del Paese stesso. Più precisamente, il capitale umano è misurato o in termini di anni di scolarizzazione o in termini di titolo di studio. Per entrambi gli indici, il paper conferma una perdita di capitale umano da parte dell’Italia a partire dagli anni ’90. Per avere qualche informazione più precisa, però, è bene definire quanti sono gli Italiani residenti all’estero. Da questo punto di vista, sono i numeri forniti dall’AIRE e dalla Fondazione Migrantes (che integra la banca dati AIRE con indagini specifiche per alcuni Paesi7) a fornire i dati più completi. Nel 2008 il numero totali degli Italiani residenti all’estero era di 3.734.428, mentre nel 2009 era di 3.915.767. Si tratta però dei soli residenti iscritti all’AIRE: il dato dunque è probabilmente da rivedere in eccesso. Ai fini delle valutazioni sulla fuga dei cervelli, è bene inoltre sottolineare che poco meno del 60% di questi residenti è effettivamente emigrata, mentre i restanti sono cittadini italiani già nati all’estero. Questo dato è molto importante nella definizione del “costo” eventuale della fuga. Inoltre, questi dati non dicono nulla sul dove gli eventuali laureati hanno acquisito il titolo di studio. Infine, ogni anno sono circa 17.500 gli studenti universitari che si recano all’estero all’interno del programma i scambio Erasmus. Questi numeri sono abbastanza coerenti con i dati dei censimenti 2001 raccolti dall’OCSE e che quantificano in 2.430.339 lo stock di Italiani residenti all’estero e maggiori di 15 anni. La Tabella 2 raccoglie questi dati e li confronta con le caratteristiche degli immigrati in alcuni Paesi OCSE. Tabella 2: Immigrati ed Emigrati, per titolo di studio (2001) Istruzione Istruzione Istruzione terziaria secondaria primaria Paese Livello % Livello % Livello % Immigrati 246.554 12,2 677.013 33,5 1.097.367 54,3 Italia Emigrati 300.631 13,0 619.946 26,8 1.395.714 60,3 Immigrati 1.013.636 18,1 1.523.254 27.2 3.068.909 54,8 Francia Emigrati 348.432 36,4 313.538 32,8 294.700 30,8 Immigrati 1.970.870 15,3 5.294.297 41,1 4.534.288 35,2 Germania Emigrati 865.255 30,4 1.201.040 42,1 783.364 27,5 Immigrati 1.373.513 30,5 968.214 21,5 1.603.182 35,6 Gran Bretagna Emigrati 1.265.863 41,2 1.006.180 32,8 798.421 26,0 Spagna Immigrati 404.836 21,8 423.407 22,8 1.028.804 55,4 Emigrati 137.708 18,7 204.284 27,8 392.793 53,5 Immigrati 8.216.282 25,9 10.881.022 34,3 12.625.793 39,8 Stati Uniti Emigrati 390.244 49,9 220.869 28,3 170.665 21,8 Fonte: elaborazioni su Dumont e Lamaître (2004), dati OECD (2001; 2009a), Beltrame (2007). Nota: alcune percentuali non sommano a 100 per incompletezza dei dati (titolo di studio sconosciuto). Come si può facilmente notare, l’Italia è l’unica Paese tra quelli riportati in cui il saldo tra laureati residenti all’estero e immigrati laureati residenti in Italia è negativo. Tuttavia, quanto confronto che pure è istruttivo, non permette una valutazione completa del fenomeno, per il quale servirebbero dati aggiornati e soprattutto 6 La banca dati completa dell’AIRE non è infatti pubblicamente disponibile on line. 7 Fondazione Migrantes (anni vari). 7
  • 9. informazioni sui flussi annuali. In attesa dei dati dei censimenti 2011, l’AIRE potrebbe però gia oggi fornire informazioni sul numero di Italiani all’estero per titolo di studio. Al contrario, tra le informazioni pubblicamente accessibili (dal 2005), l’AIRE si limita a fornire la distribuzione dei residenti all’estero per fasce decennali di età (estremi esclusi), che riportiamo nella tabella 3. Tabella 3: Italiani residenti all’estero, per fasce d’età Fasce d’età/Anno 2005 2006 2007 2008 2009 2010 < 17 553.823 576.510 594.784 625.493 655.122 659.935 18-24 289.410 297.603 304.757 325.997 340.545 350.405 25-34 519.319 525.034 535.678 562.264 578.869 590.177 35-44 576.709 578.070 592.864 623.075 640.513 657.004 45-54 487.632 487.803 504.761 538.885 562.804 585.318 55-64 441.157 437.434 446.181 470.137 487.121 507.399 65-74 363.700 358.696 363.129 375.793 381.118 387.504 >75 288.706 286.658 307.223 331.970 349.640 377.493 Totale 3.520.809 3.547.808 3.649.377 3.853.614 3.995.732 4.115.235 Fonte: elaborazione su dati AIRE È opportuno poi chiedersi anche dove questi italiani laureati e residenti all’estero abbiano effettivamente conseguito il proprio titolo di studio. Qualche informazione aggiuntiva è fornita dall’ISTAT, a partire dal 2008. In quell’anno, infatti, sono emigrati (o meglio, hanno trasferito la loro residenza all’estero) 39.536 italiani, tra cui 6.552 laureati, vale a dire quasi il 17% del totale. Nel 2009, invece, sono emigrati 39.024 italiani, tra cui 5.839 laureati, vale a dire il 15% del totale. Tra il 2008 e il 2009, dunque, sono diminuite sia le emigrazioni sia, nel particolare, l’esodo dei laureati italiani verso l’estero, rispettivamente dell’1,3% e del 10,9%. Le tabelle 4 e 5 riportano le principali destinazioni rispettivamente del totale degli emigrati e dei soli laureati italiani. Tabella 4: La destinazioni degli emigrati italiani Destinazione Totale, 2008 Totale, 2009 Livello % Livello % Germania 6.185 15,6 6.281 16,1 Gran Bretagna 5.528 14,0 5.042 12,9 Svizzera 4.262 10,8 4.196 10,8 Francia 3.135 7,9 3.248 8,3 Spagna 2.924 7,4 2.890 7,4 Stati Uniti 2.591 6,6 2.345 6,0 Altri Paesi 14.911 37,7 15.022 38,5 Totale 39.536 100 39.024 100 Fonte: ISTAT ed elaborazioni su dati ISTAT Le tabelle riportano solo i primi sei Paesi di destinazione, che però rappresentano per entrambi gli anni il 60% circa degli emigrati e che corrispondono, salvo poche variazioni nell’ordine, ai primi sei Paesi di destinazione per i laureati. Presentano inoltre la quota di laureati emigrata: nel 2008 circa un quinto di chi è emigrato in Francia, Gran Bretagna o Stati Uniti era laureato, mentre l’incidenza era più vicina al 10% per Spagna e Germania; nel 2009, invece, sempre il 20% circa di chi è emigrato negli stati Uniti era laureato, mentre le percentuali calano al 15% circa per chi è emigrato in Francia e Gran Bretagna. Perdono quindi un po’ di appeal le tradizionali destinazioni dei laureati italiani. 8
  • 10. Tabella 5: La destinazioni dei laureati italiani Laureati emigrati, Laureati emigrati, % emigrati laureati 2008 2009 sul totale emigrati Livello % Livello % 2008 2009 Germania 685 10,5 580 9,9 11,1 9,2 Gran 1.094 16,7 820 14,0 19,8 16,3 Bretagna Svizzera 663 10,1 631 10,8 15,6 15,0 Francia 570 8,7 499 8,5 18,2 15,4 Spagna 396 6,0 414 7,1 13,5 14,3 Stati Uniti 545 8,3 451 7,7 21,0 19,2 Altri Paesi 2.599 60,3 2.444 58,0 Totale 6.552 100,0 5.839 100 16,6 15,0 Fonte: ISTAT ed elaborazioni su dati ISTAT Una misura grezza ma molto utilizzata in letteratura, come più sopra anticipato, è l’highly skilled expatriation rate (il tasso di emigrazione degli individui altamente qualificati, cioè la quota di individui, all’interno della popolazione con elevata istruzione, che è emigrata; HSER). Le elaborazioni più recenti per il calcolo di questo indice sono raccolte da Beine et al (2006). In Italia, questo valore è sceso dall’11,2% del 1990 al 10,0% del 2000. Questo significa che per ogni 100 studenti italiani che ottengono una laurea, dieci di loro lavorano all'estero. La situazione in altri Paesi è molto varia, come evidenziato in Tabella 6: nel 2000, questo rapporto era del 3,4% in Francia e del 4,3% in Spagna, ma ben oltre il 15% in Gran Bretagna. Tabella 6: Misure di brain drain (1): il tasso di emigrazione dei laureati HSER 1990 2000 Italia 11,2 10,0 Francia 2,7 3,4 Germania 5,7 5,2 Grecia 14,2 12,0 Spagna 3,8 4,3 Gran Bretagna 17,9 16,7 Stati Uniti 0,5 0,5 Fonte: Beine at al. (2006) Come anticipato, però, l’HSER non fornisce alcuna informazione né sui benefici apportati dai laureati emigrati né sui loro costi. Inoltre, non tiene nemmeno conto del reale luogo dove la qualificazione è stata conseguita (se in Italia o già all’estero). È evidente che se la differenza tra tasso di emigrazione alle diverse età è elevato, il costo fiscale diretto del brain drain è meno elevato di quanto atteso. La tabella 7 presenta quindi informazioni sull’HSER corretto per età di trasferimento, utilizzata come variabile proxy del luogo di conseguimento del titolo di studio. In Italia, nel 2000, il rapporto tra HSER a 22 anni e HSER non corretto era di circa il 60%, così come in Germania. In Francia, Gran Bretagna e Spagna il rapporto cresce invece a oltre il 70%. Questo significa che, in realtà, il 40% circa dei laureati italiani all’estero si era formata già oltre i confini nazionali, segno probabilmente che per il nostro Paese i ricongiungimenti famigliari sono ancora un importante fattore di emigrazione. 9
  • 11. Tabella 7: Misure di brain drain (2): il tasso di emigrazione dei laureati, per età HSER a 12 HSER a 18 HSER a 22 1990 2000 1990 2000 1990 2000 Italia 9,1 8,2 7,8 7,1 6,7 6,1 Francia 2,3 2,9 2,1 2,6 1,9 2,4 Germania 4,5 4,3 3,9 3,8 3,3 3,2 Grecia 12,2 10,4 10,8 9,3 9,4 8,3 Spagna 3,2 3,7 2,9 3,4 2,6 3,1 Gran Bretagna 15,2 14,3 14,0 13,0 12,6 11,7 Stati Uniti 0,4 0,4 0,4 0,4 0,4 0,3 Fonte: Beine at al. (2006) Un altro problema dell’HSER è che considera solo i flussi in uscita. È dunque utile ricorrere all’highly skilled exchange rate (tasso di scambio di individui con elevato grado di istruzione, HSXR), che è il rapporto tra flussi in entrata e flussi in uscita della popolazione altamente qualificata. Come illustrato in tabella 8, questo rapporto è del -1,2% in Italia, del 2,8% in Francia, del 2,2% in Germania, del 2,9% in Spagna, del 1,1% nel Regno Unito, e quasi del 20% in USA (Beltrame, 2007, su dati OCSE). Ciò suggerisce che l’eccezionalità dell’Italia, rispetto agli altri Paesi, non risiede nella sua incapacità di trattenere le persone più istruite quanto nell’incapacità di attrarne altre. Tabella 8: Misure di brain drain (3): il tasso di scambio dei laureati HSXR, 2005 Italia -1,2 Francia 2,8 Germania 2,2 Spagna 2,9 Gran Bretagna 1,1 Stati Uniti 19,9 Fonte: Beltrame (2007) Come mai in Italia dunque sono più i talenti che emigrano di quelli che arrivano? Si tratta, probabilmente, di una risposta strettamente collegata alle prospettive occupazionali ed economiche. Secondo Almalaurea (2011), infatti, a un anno dalla laurea ha un lavoro stabile il 48% dei laureati italiani occupati all’estero, 14 punti percentuali in più rispetto al complesso dei laureati specialistici italiani occupati in patria. Questo dato sconta certamente un effetto selezione: spesso che si sposta ha già un posto di lavoro che lo aspetta. Inoltre lo stesso dato andrebbe depurato anche dal numero di studenti stranieri che si sono laureati in Italia e che tornano in patria. Da notare però che anche le retribuzioni medie mensili sono superiori a quelle degli occupati in Italia: dopo un anno, circa 1.600 euro contro poco più di 1.000 euro, mentre dopo cinque anni la differenza è quasi di oltre il 50%: poco più di 2.000 euro contro soli 1.300 euro (livelli non molto diversi a quelli di cinque anni prima; Almalaurea, 2008). In questo caso, tuttavia, andrebbero valutati anche altri elementi, quali il costo della vita o la copertura previdenziale e sanitaria. 2.3 Costi e benefici dell’emigrazione qualificata Misurare quanti talenti lasciano un Paese, quanti ne arrivano o quanti ne tornano fornisce però solo una fotografia parziale del fenomeno. Senza una valorizzazione dei costi e dei benefici della circolazione dei talenti, è perlomeno incauto asserire che un determinato Paese si stia impoverendo o arricchendo in base ai propri HSER e HSXR. 10
  • 12. Ma come misurare costi e benefici? Per il Paese ricevente, esiste certamente un beneficio diretto in termini di aumento della base imponibile, cioè del reddito, e della produttività. Purtroppo, dare un valore a questi fenomeni è impossibile se non si hanno informazioni sull’occupazione dei laureati stranieri. Come anticipato, un originale tentativo di quantificazione dei benefici è stato realizzato da I-com (2011), che ha stimato il valore generato, in termini di valore di brevetti registrati, dai venti migliori scienziati italiani residenti all’estero. I settori considerati sono quelli della chimica, dell’informatica e comunicazione e della farmaceutica. I numeri riportati sono comunque impressionanti; fatte determinate ipotesi sul valore dei singoli brevetti e dei tassi di sconto, il rapporto stima un valore attuale dell’attività di questi scienziati in 861 milioni di euro o, in altri termini, una perdita per scienziato di 63 milioni. In realtà, se questo tentativo ha il merito di trovare una buona proxy per misurare il beneficio diretto di un cervello residente all’estero, trascura il fatto che un ricercatore, come anche altri fattori di produzione, riesce a rendere quando è inserito in un ambiente complementare e stimolante per le proprie capacità. Questi venti top scientists non avrebbero necessariamente reso lo stesso valore in Italia; anzi: proprio per questo motivo, invece, lasciare la libertà ai migliori scienziati di muoversi ma stabilire poi delle reti e collegamenti con gli stessi permetterebbero una circolazione maggiore e diffusa dei risultati e della ricerca, così come dei benefici collegati. Anche per i Paesi di origine, però, esiste un beneficio economico diretto dalla “fuga dei cervelli”: si tratta delle rimesse che questi lavoratori inviano ai famigliari rimasti in patria. In Italia, tuttavia, questa voce ha ormai perso l’importanza quantitativa che aveva una volta. Pur essendo l’Italia inclusa tra “top 10 remittance recipients” dei paesi OCSE a maggior reddito nel 20108, l’incidenza delle rimesse sul PIL è ormai trascurabile. Già nel 2000, infatti, le rimesse costituivano solo lo 0,03% del PIL (lo 0,17% secondo le stime OCSE9), un valore di poco inferiore rispetto a quello della Francia (0,043%) e di poco superiore rispetto a quello degli Stati Uniti (0,024%). È quindi possibile affermare che , in effetti, l’emigrazione dei talenti italiani non porti alcun beneficio economico diretto al Paese. Infine, per quanto riguarda i costi, l’approccio più semplice e intuitivo suggerisce di moltiplicare il numero di laureati italiani che hanno lasciato il Paese per il costo sostenuto dal Paese di origine per la loro istruzione. Secondo l’OCSE (OECD, 2009a), la spesa annuale per studente universitario in Italia nel 2009 è stata di 8.700 dollari (pari a circa 6.500 euro). Moltiplicando questa cifra per 6.552, il numero di laureati italiani che nel 2008 hanno trasferito la propria residenza all’estero, si potrebbe concludere che nel 2008 l’Italia ha supportato un costo diretto del brain drain di circa 170 milioni di euro, pari al costo di ogni laureato per quattro anni di istruzione universitaria. Il risultato, seppure logico e immediato, va comunque preso con le dovute precauzioni. Innanzitutto, non si sa se questi laureati provengono effettivamente da università pubbliche o da università private (nel qual caso, la loro partecipazione al costo dell’università diminuirebbe il costo per il paese); inoltre, non è dato conoscere per quanti anni hanno in effetti studiato (corso di laurea triennale o magistrale). 2.4 Lo scambio di studenti Una forma particolare di brain drain riguarda anche la mobilità degli studenti. I dati dell’OCSE, riportati nella figura 1, dimostrano che l’aumento degli studenti iscritti a università estere è stato costante a partire dal 1975 ma è esploso negli ultimi quindici anni (OECD, 2007). Due terzi degli studenti stranieri iscritti in università dei Paesi OCSE provengono da Paesi esterni all’OCSE stessa (in particolare Cina e India); in Europa, le mete preferite sono Francia, Germania e Gran Bretagna; fuori dall’Europa, le mete più ambite sono Stati Uniti e Australia (OECD, 2009). 8 http://siteresources.worldbank.org/INTPROSPECTS/Resources/334934-1199807908806/HI-OECD.pdf 9 Tani (2006). 11
  • 13. Figura 1: Studenti iscritti in Università estere Fonte: OECD (2007) Il fenomeno è considerato positivo, sia per i Paesi di origine che per quelli di destinazione. Un tentativo di quantificare i guadagni relativi a scambiare studenti con l’estero è stato realizzato da Vision (2011). Lo studio valuta approssimativamente in 20.000 euro l’anno il contributo dello studente straniero in Italia, misurato sulla base del pagamento delle tasse universitarie, dei consumi effettuati nella città dove risiede (affitto, tempo libero, vitto, etc), al netto di eventuali borse di studio e del costo pubblico per la sua istruzione. OECD (2001), invece, riporta alcune stime riferite ad altre specifiche università (vedi figura 2). Figura 2: Costi e benefici annuali (in USD) di ospitare studenti stranieri Fonte: OECD (2001) Al di là delle cifra precise, che sono necessariamente soggette a forti approssimazioni e limiti di valutazione, ciò che rileva è però l’individuazione degli aspetti positivi di ospitare studenti stranieri per il Paese di destinazione, di quelli positivi per il Paese di origine (individui esposti a culture e tecnologie diverse, miglior comprensione della lingua straniera) e infine di quelli negativi per il Paese di origine (sostanzialmente, la probabilità che lo studente poi rimanga costantemente all’estero). 12
  • 14. Tuttavia, alcuni indicatori sul nostro Paese sembrano far prevalere gli aspetti negativi per quanto riguarda la mobilità degli studenti italiani. Dati OCSE (OECD, 2001) mostrano come gli studenti italiani che studiano negli Stati Uniti siano tra quelli più propensi a restare a lavorare all’estero anche dopo avere completato gli studi (oltre il 50%); non solo, sono anche tra gli studenti che effettivamente vi restano (circa il 40%). Quanti sono invece gli studenti stranieri in Italia? Nel 2004/2005, su 1.820.221 studenti iscritti a Università italiane, 38.298 erano stranieri (il 2,1% del totale). Per quanto riguarda i soli iscritti al primo anno (immatricolati), su un totale di 331.893 studenti, gli stranieri erano 8.758 (il 2,6%). Tre anni dopo (anno accademico 2007/2008), su 1.809.192 studenti iscritti a Università italiane, ben 51.803 erano stranieri (il 2,9% del totale). Per quanti riguarda i soli immatricolati, su un totale di 307.426 studenti, gli stranieri erano 11.500 (il 3,7%). La tabella 9 presenta i dettagli di queste cifre per provenienza geografica (continente) degli studenti stranieri. Tabella 9: Studenti stranieri in Italia. Distribuzione per area di provenienza Iscritti Provenienza 2004/2005 2007/2008 Africa 9,7 11,1 Asia 10,1 15,3 Europa 72,1 64,7 Nord America 1,7 1,6 Oceania 0,1 0,1 Sud America 6,3 7,2 Totale 100,0 100,0 Elaborazioni su dati MIUR -URST/AFAM- Ufficio di statistica L’Italia accoglie sempre più studenti extraeuropei, in particolare quelli provenienti da Cina, Nord Africa, ed Europa dell’Est. Come mostrato dall’OCSE (OECD, 2011), però, il trend in crescita è ancora lontanissimo dal raggiungere il livello di altri Paesi: meno del 2% degli studenti che studiano all’estero sceglie l’Italia come meta, mentre gli Stati Uniti accolgono il 20% di questi studenti, la Gran Bretagna il 12% e la Francia l’8%. Oltre alla lingua di insegnamento, che nella maggior parte dei casi è l’italiano, anche il costo elevato delle spese di vitto e alloggio e la mancanza di una politica uniforme in materia costituiscono i maggiori elementi di freno. All’aumento degli iscritti in Italia è corrisposto un aumento (quasi un raddoppio) dei laureati stranieri in Italia tra il 2004 e il 2009 (tabella 10). Curiosamente, le proporzioni degli studenti stranieri per provenienza sono rimaste costanti nel tempo, e il loro valore assoluto è quasi raddoppiato per quanto riguarda gli studenti provenienti dall’Africa e dal resto d’Europa, mentre è addirittura triplicato per quanto riguarda gli studenti asiatici. In totale, i laureati stranieri erano l’1,3% del totale nel 2004 e il 2,3% nel 2009. Il tasso di crescita degli studenti stranieri laureati in Italia nel periodo 2004-2005 è ancora più apprezzabile se si pensa che nel 1999 il loro valore era di 1.583 su 139.109 (l’1,1%, come nel 2004). La ragione di questo incremento, sia per quanto riguarda il numero di studenti sia per quanto riguarda il numero di laureati, è probabilmente individuabile in fattori geopolitici sovra-nazionali (per esempio, le maggiori difficoltà di accesso negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 o la sempre maggiore apertura all’occidente di Paesi come la Cina). Inoltre, alcune Università italiane hanno deciso di dedicare proprio agli studenti stranieri specifiche politiche di accoglienza e sostengono (si veda la sezione 4). 13
  • 15. Tabella 10: Laureati stranieri in Italia (valori assoluti e percentuali) Provenienza 2004 (VA) 2009 (VA) 2004 (%) 2009 (%) Africa 313 611 9,0 9,0 Asia 383 1.001 11,0 14,8 Europa 2.482 4.519 71,1 66,9 Nord America 63 139 1,8 2,1 Oceania 6 8 0,2 0,1 Sud America 242 475 6,9 7,0 Totale 3.489 6.753 100,0 100,0 Italiani residenti all’estero 198 326 Totale Laureati in Italia 268.821 292.810 Elaborazioni su dati MIUR -URST/AFAM- Ufficio di statistica 3. COME GESTIRE IL BRAIN DRAIN: ESPERIENZE INTERNAZIONALI A CONFRONTO Lo sviluppo economico di un Paese è indubbiamente influenzato dai flussi migratori che lo riguardano (Beine, Docquier e Rapoport, 2001; Cohen e Soto, 2006). Questi flussi possono avere conseguenze sia negative sia positive tanto per il Paese di origine dei flussi quanto per quelli di destinazione. Si tratta di conseguenze complesse e i cui effetti si sentono anche nel lungo periodo. Dal punto di vista della gestione del brain drain ciò ha importanti ripercussioni, perché significa che la gestione e la valutazione del fenomeno non possono limitarsi ai soli effetti negativi di breve periodo (impoverimento del capitale umano nel Paese di origine) o a quelli positivi di medio-lungo periodo (eventuali rimesse dall’estero). La capacità di alcuni Paesi di attrarre più talenti rispetto ad altri Paesi o di convincere i propri talenti a ritornare dipende certamente da una serie di fattori legati alla cultura, alla lingua e alla storia di queste nazioni. Tuttavia, essa dipende anche dalle specifiche politiche adottate dai singoli contesti nazionali. In questa sezione si propone una classificazione delle politiche adottate a livello internazionali per gestire il fenomeno del brain drain e si forniscono anche numerosi esempi di applicazione di queste politiche. La maggior parte di queste politiche riguarda la gestione dei lavoratori, anche se ma in maniera sempre più consistente l’attenzione dei policy maker si è spostata alla mobilità internazionale degli studenti. Tabella 11: Come attrarre talenti - Disincentivi alla residenza 1. Politiche coercitive di rientro - Incentivi al rientro - Programmi RQN - Favorire la residenza temporanea - Favorire la residenza permanente 2. Politiche migratorie - Favorire esigenze contingenti del mercato del lavoro - Favorire l’accumulazione di capitale umano 3. Politiche limitative di trattenimento - Esenzioni fiscali 4. Politiche incentivanti di attrazione - Incentivi economici generici - Altri incentivi 5. Accordi bilaterali - Diaspora network 6. Politiche pro-attive di circolazione - Incentivi economici e politici - Favorire il ritorno con la creazione di nuovi distretti industriali 14
  • 16. Come si diceva, le politiche di gestione del brain drain sono molto varie. È dunque utile cercare di riportarle secondo una classificazione che aiuti a distinguerne i tratti essenziali, vale a dire la tipologia degli strumenti scelti e i soggetti responsabili della loro implementazione a attuazione10. La tabella 11 riporta nella colonna di sinistra la macroclassificazione di queste politiche e nella colonna di destra alcuni programmi specifici adottati, che saranno poi presentati con maggior dettaglio nel seguito di questa sezione. 3.1 Politiche coercitive di rientro Dal punto di vista dei Paesi di destinazione, il mezzo più tradizionale per la gestione dei flussi migratori è quello delle politiche di rientro. Si tratta di politiche unilaterali o bilaterali (attraverso accordi con il Paese di origine) per il rimpatrio dei migranti dopo un determinato periodo di tempo. In realtà, questo tipo di politiche si applica soprattutto agli immigrati a più basse qualifiche (per il fatto che ricoprono posti di lavoro più a rischio) o ai richiedenti asilo. Ciononostante, il diffondersi di conflitti bellici (anche su suolo europeo) e la globalità della crisi internazionale hanno avuto effetti anche sulle occupazione a più elevata qualifica. È quindi utile conoscere perlomeno i tratti salienti e caratterizzanti di queste politiche, che si possono così classificare (IOM, 2004). Politiche di ritorno forzato: politiche coercitive adottate conto la volontà dei migranti e che riguardano per la stragrande maggioranza dei casi migrazioni illegali e individui non registrati nelle statistiche ufficiali. Politiche di ritorno volontario: basate su decisioni assunte liberalmente e volontariamente dagli individui a cui sono rivolte; per loro stessa natura, poiché cioè l’impegno finanziario e organizzativo dello Stato in questi casi è minimo se non addirittura assente, difficilmente le statistiche si concentrano su questa tipologia di rientri. Politiche di ritorno volontario assistito: includono la possibilità di assistenza finanziaria e altre agevolazioni che facilitino il rientro nel Paese di origine; si tratta delle politiche maggiormente diffuse: sono considerate più economiche ed efficaci rispetto alle politiche di rientro obbligato, sono solitamente associate a forme di informazione e assistenza nel periodo che precede il rientro, vengono spesso co-gestite da organizzazioni internazionali e funzionano meglio quando derivano da accordi bilaterali tra i diversi Paesi. Limitatamente a questo terzo tipo di politiche, che sono quelle più interessanti, possiamo ulteriormente distinguere tre tipologie di interventi. 3.1.1 Rendere più difficoltosa la residenza In alcuni Stati è sono previsti forti disincentivi finanziari che colpiscono gli immigrati che si trattengono troppo a lungo sul proprio territorio. In Messico o in Spagna, per esempio, aumentano le trattenute sugli stipendi, sia a carico del lavoratore che del datore di lavoro. 3.1.2 Rendere più profittevoli i rientri Poiché spesso i rientri in patria sono sfavoriti dalla mancanza di prospettive economiche, alcune iniziative internazionali hanno avuto come oggetto dei piani di finanziamento per start-up o di educazione professionale. È il caso per esempio del VARRP (Voluntary Assisted Return and Reintegration Programme) in Gran Bretagna, dedicato ai lavoratori della comunità cingalese, dei programmi Développement local migrations e Co-développement migration,in Francia a favore di lavoratori regolari e irregolari provenienti da Senegal, Mali e Romania che vogliono aprire un’attività d’impresa nel Paese di origine, o infine degli accordi bilaterali tra Olanda e Marocco, Tunisia e Turchia. In generale, si tratta di programmi poco efficienti e che devono gran parte dell’eventuale successo alla disponibilità e alle condizione economiche e di sviluppo 10 L’elenco proposto differisce dalla classificazione tradizionale delle sei R (Return, Restriction, Recruitment, Reparation, Resourcing, Retention) utilizzata invece da altri autori, come per esempio Wickramasekara (2002), in quanto si è deciso di porre l’enfasi su elementi diversi di queste politiche, più specifici per il caso dei lavoratori qualificati. 15
  • 17. dei Paesi di origine. Limitandosi all’analisi più dettagliata del VAARP, questo programma assistito oltre 10,000 individui dalla sua creazione nel 1999. Uno degli strumenti utilizzati dal VARRP è il Reintegration Fund che fornisce in media ad ogni lavoratore che torna in Sri Lanka circa 1.000 sterline, da utilizzare sia come puro sostegno al reddito sia come mezzo per acquisire capitale fisico (ad esempio, attrezzature per l’attività d’impresa) o umano (istruzione). Secondo le prime statistiche (Naik, Koehler e Laczko, 2008), la maggior parte di questi fondi ha reso possibile la nascita di attività di pesca e di comunicazione. Tuttavia, esse sono spesso criticate perché non garantiscono sufficientemente gli emigrati assistiti sul piano umanitario e della sicurezza una volta tornati in patria. Un’altra politica di questo tipo ma con un taglio diverso prevede la possibilità di trasferire interamente i contributi pensionistici pagati nel Paese di destinazione al Pese di origine. Esperimenti di questo tipo sono stati proposti in Francia e Germania nel corso degli anni ’80. In quei casi, le politiche non sono apparse sufficienti e non hanno avuto un impatto significativo sui tassi di ritorno in patria. Al contrario, la possibilità di trasferire questi contributi ha favorito la residenza nei paesi di destinazione fino all’accumulo di elevati contributi previdenziali. 3.1.3 Programmi di tipo RQN (Return of Qualified Nationals) Infine, alcuni programmi di rientro assistito sono stati specificatamente realizzati proprio a favore dei lavoratori più qualificati. Nei paesi europei (IOM, 2004), si tratta di programmi dedicati ai lavoratori di Bosnia-Erzegovina (Irlanda, Norvegia) o afgani (Austria, Finlandia). L’assistenza in questo caso va dagli aiuti finanziari e organizzativi per il rientro al Paese di origine, spesso accompagnati da impegni formali degli stessi lavoratori a essere parte attiva nel processo di ricostruzione del proprio Paese, al finanziamento agevolato per l’attività d’impresa nel Paese di origine. In generale, questo tipo di politiche ha un effetto molto incerto sui flussi migratori; non costituiscono dunque lo strumento migliore per gestire un fenomeno complesso come quello delle migrazione dei talenti. 3.2 Politiche migratorie selettive Oltre a forzare i rientri, i Paesi di destinazione possono cercare di selezionare i flussi migratori verso i propri territori attraverso politiche migratorie opportunamente disegnate. Non è possibile affermare che lo scopo principale delle politiche migratorie sia quello di selezionare i lavoratori maggiormente qualificati: lo scopo, l’obiettivo e la portata di questo tipo di provvedimenti va ovviamente ben oltre (IOM, 2005). Tuttavia, è anche evidente come all’interno di queste politiche si possano trovare vari metodi per rendere più semplice gli ingressi proprio alle forze lavoro più qualificate. Le tipologie specifiche di queste politiche possono essere anche molto diverse (Bertoli et al, 2009; Naik, Koehler e Laczko, 2008; OECD, 2002): alcuni Paesi per esempio puntano sulla facilità di ottenimento della residenza permanente; altri Paesi, invece, tendono maggiormente a favorire la concessione di una residenza temporanea. Ancora, alcuni Paesi selezionano i flussi migratori in base a esigenze contingenti del mercato del lavoro; altri, al contrario, focalizzano la propria attenzione sulla possibilità di maggiore integrazione di lungo periodo e quindi sul arricchimento più generico di capitale umano del Paese. 3.2.1 Favorire la residenza temporanea In USA la selezione dell’immigrazione qualificata attraverso la concessione di un visto (H1B), legato alle esigenze lavorative contingenti. Il visto deve essere richiesto anche dal datore di lavoro. In Giappone (OECD, 2008) viene semplificata la procedure per ottenere la residenza temporanea se i lavori qualificati decidono di trasferirsi in aree ritenuti strategiche. 3.2.2 Favorire la residenza permanente In Paesi come Australia, Canada e Nuova Zelanda è relativamente incentivata la richiesta di residenza permanente (si veda sotto per maggiori dettagli), rispetto a quella temporanea, in modo tale da stabilire legami di lungo periodo tra immigrati e popolazione locale. Nella Repubblica Ceca (OPECD, 2008), la 16
  • 18. residenza permanente è concessa con maggiore facilità ai laureati stranieri nelle università ceche e che hanno trovato già un lavoro. 3.2.3 Favorire esigenze contingenti del mercato del lavoro Come riportato da Naik, Koehler e Laczko (2008), i settori più influenzati da scarsità di offerta, in molti Paesi dell’OCSE, riguardano la cura delle persone. In Gran Bretagna, Irlanda, Stati Uniti, Canada e Australia, per esempio si è osservata una tendenza ad “importare” medici dall’estero; in Nuova Zelanda, invece, sono sempre più numerosi gli insegnati che provengono dall’estero. In particolare, come ben illustrato anche in Bertoli et al. (2009), in Australia viene adottato un sistema molto selettivo, con valutazione precisa delle capacità e delle qualifiche del lavoratore che chiede di essere ammesso, anche sulla base delle esigenze del sistema produttivo locale. Vengono inoltre favoriti i lavoratori più giovani, al di sotto dei 45 anni di età e il riconoscimento delle qualifiche avviene prima dell’ammissione. 3.2.4 Favorire l’accumulazione di capitale umano In Canada e Nuova Zelanda (Tanner, 2005) il meccanismo di selezione è simile a quello australiano, ma con importanti differenze dal punto di vista delle riconoscimento delle qualifiche, il che ha creato qualche problema di mismatching nel passato. Inoltre, la residenza e concessa secondo un sistema a punti con criteri che possono variare nel tempo e volti talvolta a enfatizzare prospettive occupazionali di breve periodo, legate alle esigenze specifiche del mercato del lavoro, e talvolta invece a favorire di prospettive di integrazione sociale e culturale di lungo periodo. I criteri per la concessione dei punti riguardano sia le qualifiche ottenute dai lavoratori, sia l’esperienza accumulata sia, infine, caratteristiche personali (ad esempio, la conoscenza della lingua). 3.3 Politiche limitative di trattenimento Dal punto di vista dei Paesi di origine, la risposta tradizionale alla fuga dei cervelli è stata quella della difesa. Wickramasekara (2002) fornisce alcune condizioni essenziali affinché politiche che limitano la possibilità di mobilità verso l’estero abbiano successo. Queste condizioni possono essere viste anche come obiettivi politici per quegli Stati di origine che vogliano, appunto, limitare il drenaggio di capitale umano verso altri Paesi. Innanzitutto, il contesto economico dovrebbe prevedere una rapida crescita, così da fornire adeguate aspettative di remunerazione per i lavoratori ad alta qualificazione che decidono di non emigrare. Inoltre, appaiono fondamentali investimenti in tecnologie di comunicazione, che rendono meno necessario il trasferimento fisico connesso al trasferimento di conoscenze e tecnologie. Si tratta di un approccio considerato ormai superato, inefficiente e soprattutto inefficace. 3.4 Politiche incentivanti di attrazione Un ulteriore canale che hanno i Paesi di destinazione per selezionare i flussi migratori è quello delle politiche fiscali incentivanti per determinati tipi di lavoratori o per determinate qualifiche. 3.4.1 Esenzioni fiscali Dumont e Lamaître (2004) illustrano alcuni casi di esenzioni fiscali studiate per attrarre lavoratori qualificati. In Australia, per esempio, sono previste esenzioni fiscali per quattro anni ai residenti temporanei, che abbiano continuato a produrre reddito all’estero; in Canada, le esenzioni fiscali variano a seconda dello provincia di residenza e del settore d’impiego: in Danimarca, sono previsti sconti fiscali di durata triennale per lavoratori stranieri residenti in Danimarca e con un salario superiore a un determinato livello. Infine, in Francia si applicano deduzioni fiscali specifiche ai lavoratori stranieri. Queste deduzioni, peraltro, si applicano anche ai lavoratori francesi espatriati per più di dieci anni che tornano in patria. 17
  • 19. 3.4.2 Incentivi economici generici In questo caso, i Paesi offrono ai lavoratori stranieri incentivi generici per facilitare il loro trasferimento nello Stato (OECD, 2008). In Austria, il programma “brainpower” prevede il rimborso delle spese di viaggio sostenute per i colloqui di lavoro, finanziamenti alla ricerca e aiuti finanziari per il trasferimento nel Paese. In Canada, il programma “Canada Research Chairs Programme” prevede finanziamenti per la creazione di posizioni all’interno delle università a favore dei migliori ricercatori stranieri; questi finanziamento sono tuttavia concessi alle università, che operano poi la selezione dei candidati, e non direttamente ai candidati stessi. Un esperienza particolare è quella norvegese delle “Quota Scheme Scholarships”, che offre borse di studio a studenti provenienti dagli stati dell’Europa dell’est e dell’sia centrale. La particolarità di questi finanziamenti è che devono essere parzialmente rimborsati se questi studenti non tornano a risiedere nel loro Paese di origine. Infine, in Paesi come la Svizzera bastano i salari elevati per attrarre i lavoratori qualificati. 3.4.3 Altri incentivi Gli incentivi offerti ai lavoratori stranieri non si limitano solo ad incentivi economici. In Corea, per esempio, insieme alle borse di studio per studenti stranieri sono previsti corsi di lingua gratuiti (OECD, 2008). In Olanda, invece, per i lavoratori qualificati le procedure burocratiche per l’ottenimento del permesso di residenza è garantito in due settimane e il permesso di residenza è applicato automaticamente anche ai famigliari del lavoratore. 3.5 Accordi bilaterali Fino a questo punto le politiche di gestione del brain drain che abbiamo analizzato venivano intraprese dai singoli Paesi, fossero essi di origine dei flussi o di destinazione. Recentemente si è però tentato di realizzare accordi bilaterali tra i diversi Paesi, con la finalità o di limitare il drenaggio di capitale umano o di limitare i danni creati d questo drenaggio. Tuttavia, come ben documentato da Naik, Koehler e Laczko (2008), queste politiche sono state generalmente un fallimento, sostanzialmente per l’incapacità di realizzare schemi che fossero implementabili. In altre parole, questi accordi bilaterali non sono mai stati in grado di fornire incentivi sufficienti affinché venissero rispettati contemporaneamente dai Paesi di origine, da quelli di destinazione e, naturalmente, dai lavoratori interessati. Per esempio, la Gran Bretagna ha siglato nel corso dei primi anni 2000 dei “Code of Practice” per impedire al servizio sanitario nazionale (NHS) di assumere personale direttamente in diversi Paesi in via di sviluppo; ciononostante, l’effetto sui flussi migratori è stato sostanzialmente nullo: i lavoratori nel settore sanitario hanno continuato a entrare in Gran Bretagna attraverso diversi canali. In alternativa, alcuni Paesi membri hanno proposto che all’interno del Commonwealth fossero previste compensazioni per il capitale umano sottratto dagli altri Paesi. Semplicemente, queste proposte sono state ignorate da Gran Bretagna, Australia e Canada, principali Paesi di destinazione, sulla base della difficoltà di definire il valore e il tipo di queste compensazioni. Infine, Paesi di destinazione e Paesi di origine hanno provato a istituire “gemellaggi”, prevedendo scambi temporanei di personale: è il caso, per esempio, dei medici geriatri in Egitto e Gran Bretagna. Il problema di questo tipo di politiche è che non limitano affatto la possibilità che i flussi migratori dai Paesi di origine siano monodirezionali. In altre parole, non garantiscono che i lavoratori emigrati tornino in maniera permanente in patria. 3.6 Politiche di circolazione Le più recenti e interessanti politiche per la gestione del brain drain partono dall’idea che sempre più accettata che favorire la mobilità dei lavoratori qualificati favorisca la creazione, la diffusione e l’arricchimento di conoscenza e capitale umano. Lo schema interpretativo di riferimento propone il 18
  • 20. superamento delle categorie di brain drain o brain gain e stabilisce come nel mondo contemporaneo i fenomeni migratori che riguardano le persone fisiche debbano considerarsi solo un aspetto della possibilità di utilizzare il capitale umano collegato a questo capitale fisico. I fattori che hanno permesso questo nuovo approccio sono da ricercarsi nella sempre maggiore integrazione tra Paesi diversi, nella relativa maggiore facilità di spostamento rispetto al passato e nella crescente disponibilità dei lavoratori qualificati a cambiare lavoro e a cercare costantemente migliori opportunità nel corso della vita lavorativa (Daugeliene e Marcinkeviciene, 2009). Nello specifico, questo tipo di politiche possono essere molto varie e comprendono, per esempio, sia l’istituzione di reti tra lavoratori all’estero sia l’offerta di incentivi al rientro. Si tratta per lo più di politiche realizzate da Paesi di origine o co-gestite e organizzate da organizzazioni internazionali (UNESCO, 2007). Certamente le potenzialità di politiche di circolazione sono molto elevate. Il contributo dei lavoratori che sono emigrati sul Paese di origine possono essere numerosi ed un elenco, non esaustivo, potrebbe comprendere: la capacità di replicare in patria le tecnologie, le tecniche di lavoro e le capacità acquisite all’estero; la creazione di nuove imprese; la possibilità di cooperazione scientifico e tecnologica, anche attraverso la creazione di comunità “virtuali”; la possibilità di creare nuovi posti di lavoro; l’abilità nell’attrarre investimenti; e così via. Purtroppo i dati a disposizione sono molto scarsi se non addirittura inesistenti, poiché difficilmente i Paesi che implementano programmi di rientro hanno strumenti di controllo dei flussi in entrate e uscita dei propri residenti (Wickramasekara, 2002). Inoltre, al momento la positiva valutazione dei risultati derivanti da queste politiche risente del fatto che spesso questi programmi sono veicolati come messaggi politici, con grande enfasi su risultati non sempre dimostrabili. Nel resto di questa sezione si riportano alcune esperienze, sviluppate negli ultimi trent’anni ma sempre più perfezionate fino agli anni recenti, di politiche orientate al rientro dei talenti espatriati e si cercherà, per quanto possibile, di valutarne l’impatto. 3.6.1 Diaspora networks Il punto di partenza per realizzare una qualunque politica di circolazione dei lavoratori ad alta qualifica è la capacità di stabilire legami tra i Paese di origine e i propri talenti emigrati. Per fare questo, alcuni Paesi hanno sviluppato politiche di collegamento (networks) tra i propri scienziati sparsi nel mondo (diaspora), con l’intento di promuovere la circolazione dei risultati e delle tecniche invece che la circolazione delle persone fisiche, di influenzare e di implementare politiche pubbliche con l’aiuto degli stessi emigrati, di incentivare la partecipazione diretta allo sviluppo di nuovo capitale umano in patria e di diffondere informazioni sulle possibilità e opportunità di lavoro. Il potenziale di questi networks è generalmente considerato molto elevato, soprattutto alla luce del fatto che le nuove tecnologie di comunicazione ne rendono il funzionamento meno costoso rispetto al passato. Ovviamente, maggiore sarà la dimensione della diaspora e maggiore saranno le potenzialità della creazione delle reti. In genere, si ritiene che il successo di questo tipo di politiche sia legato sostanzialmente a tre fattori (Naik, Koehler e Laczko (2008)): i lavoratori che sono espatriati devono essere occupati in settori che permettono un’adeguata accumulazioni di capitale, sia finanziario che sociale; il trasferimento di questo capitale verso il Paese di origine deve essere poco costoso; il Paese di origine deve essere in grado di saper sfruttare questo tipo di flussi. Nel caso specifico dei lavoratori qualificati, il primo tipo di fattore dovrebbe essere normalmente soddisfatto; inoltre, in molti settori le moderne tecnologie di comunicazione permettono il trasferimento di risorse (anche il know how) facilmente trasferibile. Resta ovviamente al singolo Paese di origine, al suo grado di sviluppo e alla sua lungimiranza sociale e politica l’onere di dimostrare di essere in grado di gestire questi flussi. Infine, ed è la ragione per qui la creazioni di reti viene inserita in questo gruppo di politiche, mettere in contatto scienziati dello stesso Paese sparsi in tutto il mondo non dovrebbero essere visto come mera alternativa alla circolazione fisica degli stessi (Tejada Guerrero e Bolay (2005)), bensì come passaggio per facilitare e incentivare proprio la circolazione, sia dal Paese di origine che verso lo stesso. 19
  • 21. Tra le esperienze più rilevanti, si riportano di seguito le esperienze di alcuni Paesi africani e della Colombia (Tejada Guerrero e Bolay (2005); Naik, Koehler e Laczko (2008)). The South African Network of Skills Abroad (SANSA), Migration for Development in Africa (MIDA), Transfer of Knowledge Through Expatriate Nationals (TOKTEN). SANSA è un programma che è stato utilizzato in Sudafrica per mettere in contatto professionisti sudafricani residenti all’estero (in particolare negli Stati Uniti) con lavoratori nel Paese di origine, utilizzando principalmente internet e e-learnig. MIDA è un programma dell’International Organization for Migration (IOM) che aggiunge al trasferimento di capitale sociale attraverso le nuove moderne tecnologie anche la previsione di periodi di residenza nei Paesi di origine da parte di professionisti emigrati (per esempio, nel caso dell’addestramento di medici in Ghana). TOKTEN, infine, è un programma delle Nazioni Unite che promuove il ricorso ad emigrati come consulenti per un breve periodo all’interno di imprese nel Paese di origine. The Thai Reverse Brain Drain project, Thailandia. L’esperienza thailandese incoraggia lo scambio tra scienziati ma soprattutto la consulenza degli emigrati e la loro circolazione, anche per brevi periodi, tra Paese destinatario e Paese di origine. Caldas Network of Colombian Scientists and Engineers Abroad, Colombia: creato nel 1992 su iniziativa degli stessi scienziati, ricercatori e studenti colombiani all’estero, è stato una delle prime iniziative per la creazione di reti ed è arrivato a contare circa 1000 iscritti residenti in 25 Paesi diversi. Il sistema prevedeva lo scambio di risultati scientifici e tecnologie che potessero favorire gli stessi iscritti e gli scienziati colombiani residenti nel Paese di origine. Si tratta di una delle prime e più rilevanti esperienze in questo campo, anche se ha perso importanza negli ultimi anni, soprattutto a causa della mancanza di risorse. 3.6.2 Incentivi economici e politici Moltissimi Paesi hanno sviluppato politiche per rendere profittevole il ritorno in patria dei propri lavoratori emigrati, come per esempio l’introduzione di incentivi economici (esenzioni fiscali o aiuti finanziari) o politici (aiuti burocratici per la concessione di cittadinanza ai famigliari). La forma di questi incentivi, dunque, è molo variabile. In Albania sono stati sviluppati alcuni programmi (per esempio, AlbStudent, NGO Mjaft! e the Soros Foundation) per favorire il ritorno di cittadini che hanno svolto il proprio percorso di studi all’estero. Tuttavia, questi programmi furono criticati sotto vari aspetti. Innanzitutto, le condizioni economiche in patria non rendevano comunque appetibile il ritorno; inoltre, questi titoli di studio ottenuti all’estero non venivano sempre riconosciuti e alcuni settori come quello universitario mantenevano anche nei confronti di questi lavoratori qualificati un elevato grado di chiusura. Infine, queste schemi hanno sollevato obiezioni di equità per il fatto che sembravano favorire i laureati in università straniere rispetto ai laureati in università nazionali. Altre esperienze sono raccolte in OECD (2008)11. Tra queste vale la pena di ricordare i finanziamenti erogati in Austria ai giovani ricercatori che abbiano risieduto nel Paese per almeno tre degli ultimi dieci anni prima della fruizione del finanziamento per andare a svolgere un progetto di ricerca all’estero; in Belgio è invece previsto un finanziamento biennale per i ricercatori che hanno lavorato all’estero per almeno due anni e che vogliono tornare in patria; in Olanda, infine, vengono offerti finanziamenti biennali ai migliori studenti che hanno completato il dottorato in Olanda e che desiderano specializzarsi ulteriormente all’estero. Naturalmente, tra gli incentivi più importanti legati alla circolazione dei talenti non si può dimenticare il processo di armonizzazione dei titoli di studio a livello europeo, né tutte le note iniziative dedicate alla circolazione degli studenti 11 Si veda anche Giannoccolo (2006). 20
  • 22. 3.6.3 Favorire il ritorno con la creazione di nuovi distretti industriali: i casi di Cina e India Infine, un tipo particolare di politiche per incentivare il ritorno dei lavoratori qualificati residenti all’estero prevede che lo Stato di origine, o anche le imprese private lì operanti, si facciano carico di andare a ricercare nei Paesi già sviluppati i propri connazionali che, emigrati da studenti, possono contare ormai su almeno un decennio di esperienza all’estero. Si tratta di programmi sviluppati già partire dagli anni ’80, ma di cui molti continuano anche recentemente. Il settore di maggiore applicazione è quello della ricerca e dell’innovazione e, proprio per la natura del settore, la priorità degli incentivi non è tanto quella del rientro sic et simpliciter quanto quello della circolazione di queste persone che spesso, durante l’anno, possono spostarsi diverse volte tra il paese natio e il Paese di destinazione. Due casi esemplari, di seguito riportati, sono quelli della provincia cinese di Taiwan e di numerosi distretti industriali indiani. La provincia cinese di Taiwan: come illustrato da Saxenian (2005), a Taiwan, a partire dagli anni ’70 e ‘80, il brain drain aveva assunto dimensioni ragguardevoli, tant’è che circa l’80% degli studenti di questa provincia che emigravano negli Stati Uniti non faceva ritorno in patria e restava invece a lavorare sia nelle università che nel settore industriale privato. L’iniziativa politica, in quel caso, fu particolarmente articolata. Innanzitutto, si cercarono di ricontattare i connazionali che lavorano già negli Stati Uniti (in particolare, nella Silicon Valley) e, anche grazie alle loro consulenze, si decise di cambiare modello produttivo, adottando innanzitutto un approccio più orientato al mercato, facilitando la sviluppo di aziende venture capital, e investendo in ricerca e istruzione. La reazione degli emigrati fu duplice: da un lato, molti taiwanesi decisero di tornare e di stabilirsi in patria, stabilendo essi stessi nuove aziende (si ricorda il caso esemplare del distretto industriale di Hsinchu); dall’altro molti decisero di continuare a lavorare in entrambi Paesi, favorendo ulteriormente la circolazione di talenti, tecnologie e informazione. Il caso indiano: il caso indiano, e in particolare quello del distretto di Bangalore (ma casi analoghi si possono trovare nelle città di Hyderabad e Bombay) è esemplare nell’illustrare le potenzialità che la circolazione dei talenti può avere per il Paese di origine (Tejada Guerrero e Bolay (2005)). I migliori laureati delle università indiane che sono emigrati, in particolare coloro che sono specializzati nello sviluppo di tecnologie di informazione e comunicazione (IT) e che lavorano negli Stati Uniti, sono ritenuti fondamentali per la capacità di attrarre investimenti, per l’abilità di favorire le esportazioni, nonché per lo sviluppo dei sistemi educativi e sanitari, e così via. Secondo alcune stime, è stta proprio l’attività di questi lavoratori indiani residenti all’estero a portare circa un terzo di tutti gli investimenti stranieri in India nel 1991. L’ambiente in cui queste politiche si sono rivelate un successo deve però essere tenuto in considerazione. Si trattava infatti, in entrambi i casi, di economie in forte crescita e quindi più adatte ad accogliere capitale umano qualificato e a promuovere nuova attività economica. Non sempre è possibile, o è stato possibile, reintegrare i propri lavoratori emigrati all’interno del Paese di origine. Alla luce di questi fallimenti, o anche nell’impossibilità di replicare politiche di successo come quella Taiwanese, diversi Paesi hanno sviluppato politiche alternative che comunque puntano alla valorizzazione del capitale umano nazionale emigrato residente all’estero. Come detto sopra, importante per massa che hanno nel mondo. Per avere un’idea della rilevanza di questo fenomeno, limitatamente ai due Paesi più popolosi, vale dire Cina e India, si riporta in Figura 3 un grafico recentemente pubblicato da The Economist12. 12 Weaving the world together, The Economist, 19/11/2011. 21
  • 23. Figura 3: La diaspora dei lavoratori ad alta qualifica cinesi e indiani 4. LE POLITICHE IN ITALIA Come ampiamente documentato, l’Italia è un Paese sviluppato che si trova però nella posizione di essere un Paese di origine nel fenomeno del brain drain e non un Paese di destinazione. L’esperienza italiana nel campo delle politiche dedicate alla circolazione, al rientro o alla selezione dei lavoratori ad alta qualifica non è delle più soddisfacenti. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di interventi poco articolati, spesso presi senza una logica strutturale e di lungo periodo. Soprattutto, si tratta di esperimenti che non sono stati adeguatamente monitorati e che dunque non hanno potuto fornire elementi per valutare le potenzialità e le criticità delle scelte adottate. Innanzitutto, in Italia, al momento, non esiste una vera e propria politica migratoria selettiva13. Esiste in effetti un sistema a quote, basato sulle esigenze specifiche del mercato del lavoro, ma questa scelta appare insufficiente per gestire la complessità e la potenzialità dei flussi migratori verso il nostro Paese. Quel che è peggio, non sembra esistere un sistema produttivo in grado di sostenere una tale politica. Se le condizioni economiche dei giovani laureati italiani sono tali per cui una quota di questi decide di lasciare il Paese, sembra difficile che ciò renda appetibile l’ingresso di forza lavoro qualificata da altri Paesi. Quando le politiche migratorie non sono adeguatamente disegnate, e questo è il caso anche del nostro Paese, può anche emergere il fenomeno del cosiddetto brain waste: i lavoratori qualificati stranieri che arrivano in un Paese non trovano lavori in grado di valorizzare il proprio capitale umano e vengono occupati in lavori che non richiedono il loro preparazione. È il caso, documentato da Chaloff (2005), proprio del nostro Paese: circa un quarto degli immigrati in Italia all’interno della quota “lavoratori domestici” possiede una laurea conseguita nel Paese di origine. Per quanto riguarda le politiche di rientro e quelle di attrazione, l’Italia ha tradizionalmente puntato al settore universitario e della ricerca. In effetti, il nostro Paese è tra quelli che presentano un numero più elevato di ricercatori rinomati che lavorano all’estero, così come mostrato in figura 4. 13 Tra le proposte di riforma in questa direzione, segnaliamo il disegno di legge 120/2008 “Norme per l’ingresso, l’accesso al lavoro e l’integrazione dei cittadini stranieri” (Livi Bacci e altri). 22
  • 24. Figura 4: Quota di ricercatori con opere più citate che lavorano all’estero (per Paese di origine) Fonte: OECD (2009b) Per questo motivo, a partire dal 2001 (esperienza rinnovata fino al 2008) il Governo ha dedicato alcune risorse al finanziamento del ritorno (o del trasferimento) di ricercatori residenti all’estero (Morano Foadi e Foadi, 2003). Il programma non è rivolto ai soli ricercatori italiani ma a tutti i ricercatori che risiedono dal almeno tre anni all’esterno dell’Italia. A queste persone viene offerto un contratto temporaneo (da due a quattro anni) e ricevono uno stipendio co-finanziato dalle università e dal Ministero, il che rende i salari offerti particolarmente generosi. Tuttavia, questa politica è stata criticata sotto vari aspetti. Da un lato, molti ricercatori italiani all’estero, per non parlare degli stranieri, non erano a conoscenza dell’iniziativa; dall’altro, i contratti temporanei e la poca trasparenza del meccanismo concorsuale italiano per l’ottenimento di una posizione permanente all’interno dell’università italiana hanno fatto sì che molti dei ricercatori tornati abbiano dovuto poi cercare una nuova occupazione all’estero. Un intervento più recente (legge 238/2010, cosiddetta “Controesodo”) prevede incentivi fiscali per il rientro dei lavoratori in Italia. Anche in questo caso, gli incentivi sono rivolti a tutti i lavoratori europei, quindi non solo agli Italiani, che non hanno risieduto in Italia negli ultimi anni. La novità è che questa legge non è limitata ai ricercatori universitari e anzi prevede incentivi proprio per i lavoratori nel settore privato, siano essi lavoratori dipendenti o imprenditori che vogliono stabilire attività d’impresa in Italia. Si tratta di una legge molto recente e quindi dagli effetti non ancora valutabili. È evidente però che appare quanto mai necessario che il legislatore si doti un nucleo per la valutazione di questi interventi. Più varia e fantasiosa invece l’attività di Università e Regioni italiane per favorire la mobilità dei talenti. Si tratta, in questo caso, di interventi rivolti alla formazione e quindi dedicata alla mobilità degli studenti. Nel 2008, Regione Sardegna e Università di Cagliari hanno indetto una selezione finalizzata alla stipula di due contratti per attività di ricerca della durata di due ciascuno, con possibilità di rinnovo, a favore di docenti e di giovani ricercatori ed esperti sardi impegnati all’estero da almeno un triennio in attività di ricerca. I contratti sono esplicitamente finanziati con risorse della Regione Sardegna (legge regionale n. 3 del 2008), devono prevedere lo svolgimento di un programma di ricerca concordato con i Dipartimenti presso i quali si intende svolgere l’attività. 23