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Come definire
il bene comune
Internazionale 1036 | 31 gennaio 2014 33
Noam
Chomsky
La “neodemocrazia”
– associata al
neoliberismo – è un
sistema in cui solo
le
élite godono
davvero
della libertà e della
sicurezza,
all’interno di un
sistema più generale
di diritti formali
NOAM CHOMSKY
è professore emerito
di linguistica all’Mit
di Boston. Il suo
ultimo libro uscito in
Italia è I padroni
dell’umanità. Saggi
politici (1970-2013)
(Ponte alle Grazie
2014). Questo
articolo è adattato da
una lezione tenuta da
Chomsky alla
Columbia university
di New York il 6
dicembre 2013.
Gli esseri umani sono animali sociali, e
che tipo di persone diventano dipende soprattutto dalle
condizioni sociali, culturali e istituzionali in cui vivono.
Quindi siamo portati a chiederci quale tipo di
organizzazione della società garantisca meglio giustizia,
benessere e realizzazione delle aspirazioni di ognuno,
cioè il bene comune. Per farlo vorrei partire da
un’interessante categoria di princìpi etici: quelli che sono
universali, in quanto in teoria professati da tutti, ma
che in pratica sono ignorati da tutti. Vanno da princìpi
molto generali, come quello per cui dovremmo applicare a
noi stessi i medesimi criteri che applichiamo agli
altri (se non criteri ancora più severi), a dottrine
specifiche, come l’impegno a promuovere la democrazia
e i diritti umani, proclamato da tutti, anche dai
mostri più disumani, ma che in realtà pochissimi
rispettano.
Un buon punto da cui partire è il saggio
Sulla libertà di John Stuart Mill, la cui epigrafe – tratta
daI limiti dell’attività dello stato di Wilhelm von Humboldt,
uno dei fondatori del liberalismo classico – sottolinea
“l’assoluta ed essenziale importanza dello sviluppo
umano nella sua più ricca diversità”. Ne consegue
che le istituzioni che ostacolano questo sviluppo sono
illegittime, a meno che possano in qualche modo
giustificare la propria esistenza. L’interesse per il bene
comune dovrebbe spingerci tutti a trovare il modo di
favorire lo sviluppo umano in tutta la sua più ricca
diversità. Adam Smith, un altro pensatore illuminista che
aveva una visione simile, riteneva che non fosse poi così
difficile concepire politiche umane. Nel suo saggio Teoria
dei sentimenti morali, osservava: “Per quanto egoista si
possa ritenere un uomo, ci sono evidenti princìpi nella
sua natura che lo portano a interessarsi alle sorti del
prossimo suo e che gli rendono indispensabile l’altrui
felicità, benché egli non ne guadagni nulla se non il
piacere di contemplarla”. Smith riconosce il potere di
quella che chiama “la vile massima dei padroni
dell’umanità” : “Tutto per noi e niente per gli altri”. Ma le
più benevole “passioni originarie della natura umana”
possono compensare questa patologia.
Il liberalismo classico naufragò sulle secche del
capitalismo, ma il suo impegno umanitario e le sue
aspirazioni non morirono. Rudolf Rocker, un pensatore e
attivista anarchico del ventesimo secolo, avrebbe
riproposto idee simili. Rocker parla di “una precisa
tendenza della storia dell’umanità” ad aspirare al “libero e
incontrastato sviluppo di tutte le forze individuali e sociali
della vita”, e traccia la storia di una tradizione anarchica
che sarebbe culminata nell’anarcosindacalismo
o, in Europa, in una variante del “socialismo libertario”.
Questo tipo di socialismo, sostiene, non propone un
“sistema sociale isso e chiuso in se stesso”, con una
risposta precisa a tutti i problemi della vita umana, ma
piuttosto una tendenza dello sviluppo umano a realizzare
gli ideali dell’illuminismo.
Visto in questi termini, l’anarchismo rientra nella più
ampia sfera di pensiero e d’azione del socialismo
libertario che avrebbe portato alle conquiste della
rivoluzione spagnola del 1936; alle aziende autogestite
che oggi si stanno diffondendo nella cintura
industriale statunitense, nel Messico settentrionale,
in Egitto e in diversi altri paesi, soprattutto nel Paese
Basco; ai molti movimenti cooperativi di tutto il mondo,
e a una buona parte delle iniziative promosse
dalle organizzazioni femministe e da quelle per la difesa
dei diritti civili e umani. Questa tendenza cerca di
individuare le strutture gerarchiche e autoritarie che
ostacolano lo sviluppo umano, e le sida molto
ragionevolmente a giustificare la propria esistenza. Se
non sono in grado di farlo, dovrebbero essere smantellate
e, secondo gli anarchici, “ricostruite dal basso”.
Allargare il pavimento della gabbia
In parte tutto questo può sembrare ovvio: perché mai
qualcuno dovrebbe difendere strutture e istituzioni
illegittime? Per fortuna le ovvietà hanno come minimo il
merito di essere vere, cosa che le distingue da molte altre
affermazioni politiche. E io penso che costituiscano
un buon punto di partenza per arrivare a una definizione
del bene comune. Per Rocker, “il problema del nostro
tempo è quello di liberare l’uomo dalla sciagura
dello sfruttamento economico e della schiavitù politica
e sociale”. A questo punto mi sembra opportuno
sottolineare che il libertarismo americano si distacca
nettamente dalla tradizione anarchica, in quanto accetta,
anzi propugna, la subordinazione dei lavoratori ai padroni
Come definire
il bene comune
Internazionale 1036 | 31 gennaio 2014 33
dell’economia, e la sottomissione di tutti agli aspetti più
distruttivi del mercato. L’anarchismo è notoriamente
contrario allo stato e, per usare le parole di Rocker,
propone come alternativa “l’amministrazione pianificata
delle cose nell’interesse comune”, affidata ad ampie
federazioni di comunità e luoghi di lavoro autogestiti.
Ma oggi gli anarchici che mirano a questo
obiettivo spesso sostengono che lo stato dovrebbe
proteggere le persone, la società e la terra stessa dalla
devastazione prodotta dal capitale concentrato in mani
private. Questa non è una contraddizione. Nella società
attuale ci sono persone che vivono in condizioni terribili.
Quindi è necessario usare ogni mezzo per
salvaguardarle, anche se l’obiettivo a lungo termine è la
costruzione di un’alternativa migliore. Il movimento dei
contadini brasiliani parla di “allargare il pavimento della
gabbia”, la gabbia delle istituzioni coercitive che può
essere allargata dalla lotta popolare, come in effetti è
successo nel corso degli anni.
Potremmo estendere quest’immagine e vedere la
gabbia delle istituzioni statali come una forma di difesa
dalle belve che si aggirano al suo esterno: le predatorie
istituzioni capitalistiche dedite per principio al guadagno
privato, al potere e al dominio, per le quali l’interesse
della comunità è marginale, esaltato nei discorsi retorici
ma ignorato nella pratica al livello di principio e
perfino di legge.
La maggior parte degli scritti accademici più autorevoli
in materia di scienze politiche confronta gli atteggiamenti
dei cittadini con le politiche governative.
In Affluence and influence. Economicequality and
politicalpower in America, lo studioso di Princeton Martin
Gilens rivela che la maggioranza della popolazione degli
Stati Uniti è in pratica priva di diritti. Circa il 70 per
cento della popolazione della fascia di reddito più bassa
noninfluisce minimamente sulla politica, conclude
Gilens. Salendo di fascia, l’influenza aumenta
gradualmente.
Al massimo livello ci sono le persone che invece
la determinano, con mezzi noti a tutti. Il sistema che ne
deriva non è una democrazia ma una plutocrazia. O,
per essere meno drastici, quella che lo studioso di diritto
ConorGearty chiama “neodemocrazia”, associata al
neoliberismo: un sistema in cui pochi godono della libertà,
e la sicurezza, nel senso più pieno della parola, è
garantita solo alle élite, all’interno di un sistema più
generale di diritti formali.
Come la talpa di Marx
Invece, come sostiene Rocker, un sistema davvero
democratico dovrebbe assumere il carattere di
“un’alleanza tra gruppi liberi di uomini e donne basata sul
lavoro cooperativo e sull’amministrazione pianificata delle
cose nell’interesse della comunità”. Nessuno ha mai
pensato che il filosofo statunitense John Dewey fosse
un anarchico. Però Dewey affermava che “oggi il potere
consiste nel controllare i mezzi di produzione, di scambio,
di pubblicità, di trasporto e di comunicazione.
Chiunque detenga questo potere regola la vita del
paese”, anche se permangono alcune forme
democratiche.
Fino a quando queste istituzioni non saranno nelle mani
dei cittadini, la politica resterà “l’ombra gettata sulla
società dalle grandi aziende”, come succede ancora
oggi. Queste idee conducono naturalmente a una visione
della società basata sul controllo delle istituzioni
produttive da parte dei lavoratori, come quella prospettata
da alcuni pensatori del diciannovesimo secolo, non
solo Karl Marx ma anche il meno noto John Stuart Mill.
Mill scriveva: “La forma di associazione che, se l’umanità
continua a migliorare, ci si deve aspettare che alla
ine prevalga… è l’associazione su basi di uguaglianza
dei lavoratori che possiedono collettivamente il capitale
con cui essi svolgono le loro attività e che sono diretti
da manager nominati e rimossi dai lavoratori”.
I padri fondatori degli Stati Uniti erano consapevoli
dei rischi della democrazia. Durante i dibattiti
dell’assemblea costituente James Madison metteva in
guardia i suoi colleghi su quei rischi. Prendendo a
modello l’Inghilterra osservava che “se le elezioni fossero
aperte a tutte le classi sociali, i possedimenti dei
proprietari terrieri inglesi sarebbero in pericolo”. Così
Madison voleva “disegnare la struttura di un sistema che
(...) durasse nel tempo” per “garantire il diritto di proprietà
contro il pericolo derivante da un’uguaglianza e da un
suffragio universale che affiderebbe il controllo della terra
a chi non ne possiede neanche una parte”. Gli
accademici statunitensi in genere concordano con lo
studioso della Brownuniversity, Gordon S. Wood,
secondo il quale “la costituzione è essenzialmente un
documento aristocratico ideato per tenere a freno le
tendenze democratiche dell’epoca”. Molto prima di
Madison, nella sua Politica, Aristotele aveva riscontrato
nella democrazia lo stesso problema: dopo aver preso in
esame una serie di sistemi politici, il filosofo greco
concludeva che fosse la migliore – o forse la meno
peggiore – forma di governo. Ma le riconosceva un
difetto. La grande massa dei poveri avrebbe potuto usare
il suo potere di voto per sottrarre le loro proprietà ai ricchi,
il che sarebbe stato ingiusto. Madison e Aristotele
arrivano però a conclusioni opposte: Aristotele consiglia
di ridurre la disuguaglianza con quello che noi
chiameremmo stato sociale. Madison pensava che la
soluzione fosse ridurre la democrazia.
Nei suoi ultimi anni Thomas Jefferson, l’autore principale
dellaDichiarazione d’indipendenza degli Stati
Uniti, colse la natura fondamentale di questo conflitto,
non ancora superato. Jefferson aveva seri timori sul
futurodi quell’esperimento democratico e faceva una
distinzione tra “aristocratici e democratici”. Gli aristocratici
sono “quelli che temono il popolo e ne diffidano,
quindi vogliono togliergli ogni potere per metterlo nelle
mani delle classi superiori”. I democratici, invece, “si
identificano con il popolo, hanno fiducia in lui, vogliono
prendersene cura e lo considerano il depositario più
onesto e sicuro, anche se non più saggio, del pubblico
Come definire
il bene comune
Internazionale 1036 | 31 gennaio 2014 33
interesse”. Oggi i successori degli “aristocratici” di
Jefferson sono in dubbio su chi debba svolgere il ruolo
guida: i tecnocrati e gli intellettuali che mirano a risolvere
i problemi con la politica, o i banchieri e i dirigenti delle
grandi aziende. È questa tutela politica che la vera
tradizione libertaria cerca di smantellare e di ricostruire
dal basso, trasformando l’industria, come diceva Dewey,
“da ordine feudale a ordine sociale democratico”,
basato sul controllo esercitato dai lavoratori, sul rispetto
della dignità di chi produce, in quanto persona reale
e non strumento nelle mani di altri.
Come la talpa di Marx – “la nostra vecchia amica, la
nostra vecchia talpa, che sa scavare così bene sottoterra
per poi emergere all’improvviso” – la tradizione libertaria
scava appena sotto la superficie, sempre pronta a far
capolino, a volte in un modo sorprendente e inaspettato,
per cercare di realizzare quella che a me sembra una
ragionevole approssimazione del bene comune. ubt

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  • 1. Come definire il bene comune Internazionale 1036 | 31 gennaio 2014 33 Noam Chomsky La “neodemocrazia” – associata al neoliberismo – è un sistema in cui solo le élite godono davvero della libertà e della sicurezza, all’interno di un sistema più generale di diritti formali NOAM CHOMSKY è professore emerito di linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è I padroni dell’umanità. Saggi politici (1970-2013) (Ponte alle Grazie 2014). Questo articolo è adattato da una lezione tenuta da Chomsky alla Columbia university di New York il 6 dicembre 2013. Gli esseri umani sono animali sociali, e che tipo di persone diventano dipende soprattutto dalle condizioni sociali, culturali e istituzionali in cui vivono. Quindi siamo portati a chiederci quale tipo di organizzazione della società garantisca meglio giustizia, benessere e realizzazione delle aspirazioni di ognuno, cioè il bene comune. 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L’interesse per il bene comune dovrebbe spingerci tutti a trovare il modo di favorire lo sviluppo umano in tutta la sua più ricca diversità. Adam Smith, un altro pensatore illuminista che aveva una visione simile, riteneva che non fosse poi così difficile concepire politiche umane. Nel suo saggio Teoria dei sentimenti morali, osservava: “Per quanto egoista si possa ritenere un uomo, ci sono evidenti princìpi nella sua natura che lo portano a interessarsi alle sorti del prossimo suo e che gli rendono indispensabile l’altrui felicità, benché egli non ne guadagni nulla se non il piacere di contemplarla”. Smith riconosce il potere di quella che chiama “la vile massima dei padroni dell’umanità” : “Tutto per noi e niente per gli altri”. Ma le più benevole “passioni originarie della natura umana” possono compensare questa patologia. Il liberalismo classico naufragò sulle secche del capitalismo, ma il suo impegno umanitario e le sue aspirazioni non morirono. Rudolf Rocker, un pensatore e attivista anarchico del ventesimo secolo, avrebbe riproposto idee simili. Rocker parla di “una precisa tendenza della storia dell’umanità” ad aspirare al “libero e incontrastato sviluppo di tutte le forze individuali e sociali della vita”, e traccia la storia di una tradizione anarchica che sarebbe culminata nell’anarcosindacalismo o, in Europa, in una variante del “socialismo libertario”. Questo tipo di socialismo, sostiene, non propone un “sistema sociale isso e chiuso in se stesso”, con una risposta precisa a tutti i problemi della vita umana, ma piuttosto una tendenza dello sviluppo umano a realizzare gli ideali dell’illuminismo. Visto in questi termini, l’anarchismo rientra nella più ampia sfera di pensiero e d’azione del socialismo libertario che avrebbe portato alle conquiste della rivoluzione spagnola del 1936; alle aziende autogestite che oggi si stanno diffondendo nella cintura industriale statunitense, nel Messico settentrionale, in Egitto e in diversi altri paesi, soprattutto nel Paese Basco; ai molti movimenti cooperativi di tutto il mondo, e a una buona parte delle iniziative promosse dalle organizzazioni femministe e da quelle per la difesa dei diritti civili e umani. Questa tendenza cerca di individuare le strutture gerarchiche e autoritarie che ostacolano lo sviluppo umano, e le sida molto ragionevolmente a giustificare la propria esistenza. Se non sono in grado di farlo, dovrebbero essere smantellate e, secondo gli anarchici, “ricostruite dal basso”. Allargare il pavimento della gabbia In parte tutto questo può sembrare ovvio: perché mai qualcuno dovrebbe difendere strutture e istituzioni illegittime? Per fortuna le ovvietà hanno come minimo il merito di essere vere, cosa che le distingue da molte altre affermazioni politiche. E io penso che costituiscano un buon punto di partenza per arrivare a una definizione del bene comune. Per Rocker, “il problema del nostro tempo è quello di liberare l’uomo dalla sciagura dello sfruttamento economico e della schiavitù politica e sociale”. A questo punto mi sembra opportuno sottolineare che il libertarismo americano si distacca nettamente dalla tradizione anarchica, in quanto accetta, anzi propugna, la subordinazione dei lavoratori ai padroni
  • 2. Come definire il bene comune Internazionale 1036 | 31 gennaio 2014 33 dell’economia, e la sottomissione di tutti agli aspetti più distruttivi del mercato. L’anarchismo è notoriamente contrario allo stato e, per usare le parole di Rocker, propone come alternativa “l’amministrazione pianificata delle cose nell’interesse comune”, affidata ad ampie federazioni di comunità e luoghi di lavoro autogestiti. Ma oggi gli anarchici che mirano a questo obiettivo spesso sostengono che lo stato dovrebbe proteggere le persone, la società e la terra stessa dalla devastazione prodotta dal capitale concentrato in mani private. Questa non è una contraddizione. Nella società attuale ci sono persone che vivono in condizioni terribili. Quindi è necessario usare ogni mezzo per salvaguardarle, anche se l’obiettivo a lungo termine è la costruzione di un’alternativa migliore. Il movimento dei contadini brasiliani parla di “allargare il pavimento della gabbia”, la gabbia delle istituzioni coercitive che può essere allargata dalla lotta popolare, come in effetti è successo nel corso degli anni. Potremmo estendere quest’immagine e vedere la gabbia delle istituzioni statali come una forma di difesa dalle belve che si aggirano al suo esterno: le predatorie istituzioni capitalistiche dedite per principio al guadagno privato, al potere e al dominio, per le quali l’interesse della comunità è marginale, esaltato nei discorsi retorici ma ignorato nella pratica al livello di principio e perfino di legge. La maggior parte degli scritti accademici più autorevoli in materia di scienze politiche confronta gli atteggiamenti dei cittadini con le politiche governative. In Affluence and influence. Economicequality and politicalpower in America, lo studioso di Princeton Martin Gilens rivela che la maggioranza della popolazione degli Stati Uniti è in pratica priva di diritti. Circa il 70 per cento della popolazione della fascia di reddito più bassa noninfluisce minimamente sulla politica, conclude Gilens. Salendo di fascia, l’influenza aumenta gradualmente. Al massimo livello ci sono le persone che invece la determinano, con mezzi noti a tutti. Il sistema che ne deriva non è una democrazia ma una plutocrazia. O, per essere meno drastici, quella che lo studioso di diritto ConorGearty chiama “neodemocrazia”, associata al neoliberismo: un sistema in cui pochi godono della libertà, e la sicurezza, nel senso più pieno della parola, è garantita solo alle élite, all’interno di un sistema più generale di diritti formali. Come la talpa di Marx Invece, come sostiene Rocker, un sistema davvero democratico dovrebbe assumere il carattere di “un’alleanza tra gruppi liberi di uomini e donne basata sul lavoro cooperativo e sull’amministrazione pianificata delle cose nell’interesse della comunità”. Nessuno ha mai pensato che il filosofo statunitense John Dewey fosse un anarchico. Però Dewey affermava che “oggi il potere consiste nel controllare i mezzi di produzione, di scambio, di pubblicità, di trasporto e di comunicazione. Chiunque detenga questo potere regola la vita del paese”, anche se permangono alcune forme democratiche. Fino a quando queste istituzioni non saranno nelle mani dei cittadini, la politica resterà “l’ombra gettata sulla società dalle grandi aziende”, come succede ancora oggi. Queste idee conducono naturalmente a una visione della società basata sul controllo delle istituzioni produttive da parte dei lavoratori, come quella prospettata da alcuni pensatori del diciannovesimo secolo, non solo Karl Marx ma anche il meno noto John Stuart Mill. Mill scriveva: “La forma di associazione che, se l’umanità continua a migliorare, ci si deve aspettare che alla ine prevalga… è l’associazione su basi di uguaglianza dei lavoratori che possiedono collettivamente il capitale con cui essi svolgono le loro attività e che sono diretti da manager nominati e rimossi dai lavoratori”. I padri fondatori degli Stati Uniti erano consapevoli dei rischi della democrazia. Durante i dibattiti dell’assemblea costituente James Madison metteva in guardia i suoi colleghi su quei rischi. Prendendo a modello l’Inghilterra osservava che “se le elezioni fossero aperte a tutte le classi sociali, i possedimenti dei proprietari terrieri inglesi sarebbero in pericolo”. Così Madison voleva “disegnare la struttura di un sistema che (...) durasse nel tempo” per “garantire il diritto di proprietà contro il pericolo derivante da un’uguaglianza e da un suffragio universale che affiderebbe il controllo della terra a chi non ne possiede neanche una parte”. Gli accademici statunitensi in genere concordano con lo studioso della Brownuniversity, Gordon S. Wood, secondo il quale “la costituzione è essenzialmente un documento aristocratico ideato per tenere a freno le tendenze democratiche dell’epoca”. Molto prima di Madison, nella sua Politica, Aristotele aveva riscontrato nella democrazia lo stesso problema: dopo aver preso in esame una serie di sistemi politici, il filosofo greco concludeva che fosse la migliore – o forse la meno peggiore – forma di governo. Ma le riconosceva un difetto. La grande massa dei poveri avrebbe potuto usare il suo potere di voto per sottrarre le loro proprietà ai ricchi, il che sarebbe stato ingiusto. Madison e Aristotele arrivano però a conclusioni opposte: Aristotele consiglia di ridurre la disuguaglianza con quello che noi chiameremmo stato sociale. Madison pensava che la soluzione fosse ridurre la democrazia. Nei suoi ultimi anni Thomas Jefferson, l’autore principale dellaDichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, colse la natura fondamentale di questo conflitto, non ancora superato. Jefferson aveva seri timori sul futurodi quell’esperimento democratico e faceva una distinzione tra “aristocratici e democratici”. Gli aristocratici sono “quelli che temono il popolo e ne diffidano, quindi vogliono togliergli ogni potere per metterlo nelle mani delle classi superiori”. I democratici, invece, “si identificano con il popolo, hanno fiducia in lui, vogliono prendersene cura e lo considerano il depositario più onesto e sicuro, anche se non più saggio, del pubblico
  • 3. Come definire il bene comune Internazionale 1036 | 31 gennaio 2014 33 interesse”. Oggi i successori degli “aristocratici” di Jefferson sono in dubbio su chi debba svolgere il ruolo guida: i tecnocrati e gli intellettuali che mirano a risolvere i problemi con la politica, o i banchieri e i dirigenti delle grandi aziende. È questa tutela politica che la vera tradizione libertaria cerca di smantellare e di ricostruire dal basso, trasformando l’industria, come diceva Dewey, “da ordine feudale a ordine sociale democratico”, basato sul controllo esercitato dai lavoratori, sul rispetto della dignità di chi produce, in quanto persona reale e non strumento nelle mani di altri. Come la talpa di Marx – “la nostra vecchia amica, la nostra vecchia talpa, che sa scavare così bene sottoterra per poi emergere all’improvviso” – la tradizione libertaria scava appena sotto la superficie, sempre pronta a far capolino, a volte in un modo sorprendente e inaspettato, per cercare di realizzare quella che a me sembra una ragionevole approssimazione del bene comune. ubt