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ADESSO TOCCAA TE
La lotta alle mafie e gli insegnamenti di
Falcone, Borsellino e Caponnetto
Ricordo di
Rudolph Giuliani
Scuola di Legalità “don Peppe Diana”
di Roma e del Molise
Edizioni Legalitas - Roma 2017
2
3
A mia figlia Isabella
4
“La mafia, lo ribadisco ancora una volta, non è un cancro
proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi
con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni
tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata
che appartiene a tutti gli strati della società. La mafia è
l'organizzazione più agile, duttile e pragmatica che si possa
immaginare rispetto alle istituzioni e alla società nel suo insieme”.
“Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze,
perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori
dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
“Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha
fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai
discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili”.
“Questo è il Paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa
e per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l'hai fatta
esplodere”.
Giovanni Falcone
5
Ricordo di Rudolph Giuliani
Come ho detto più volte a chi me lo chiedeva, il ricordo più
prezioso che ho del mio amico Giovanni Falcone risale all'ultima
volta che venne a New York a trovarmi: era il 1991. Stavamo
lavorando a un caso giudiziario riguardante i rapporti tra Cosa
Nostra italiana e mafia americana. Un giorno mi affacciai alla
finestra del mio ufficio e lo vidi camminare in strada, da solo,
senza scorta, in pieno centro. Quando risalì, gli dissi: “Giovanni,
ma che fai metti a rischio la tua incolumità?”. Mi rispose che nel
mio Paese si sentiva tranquillo perché c’era una grande libertà. Dal
suo assassinio sono passati ventisei anni e il mio ricordo più vivo
di lui resta il suo incessante impegno nella lotta alla criminalità
organizzata su tutti i fronti. Era un mastino che non mollava mai la
presa. Giovanni Falcone ha lasciato un'enorme eredità e un
magnifico esempio da seguire per i giovani. Era un super-eroe ma
non con i super-poteri bensì con una forza di volontà e un acume
investigativo che nella lotta internazionale al crimine organizzato
ed a Cosa Nostra, non ho mai più riscontrato. Ricordo che lui
amava molto l'Italia e la sua terra, la Sicilia. Quando parlava della
Sicilia, si emozionava. Sosteneva che alla base del suo mancato
sviluppo c'era la mafia. Quando seppi della morte di Falcone prima
e di quella di Paolo Borsellino dopo, ne rimasi profondamente
sconvolto. E' veramente difficile esprimere il dolore che ho
provato, neanche oggi sarei in grado di manifestarlo a parole. Mi
auguro soltanto che i giovani non dimentichino i tanti martiri della
lotta alla criminalità organizzata italiana e soprattutto abbiano
come riferimento i loro insegnamenti.
6
Premessa
Perché scrivere questo libro? E' la domanda che mi sono posto
prima di iniziare il lavoro. L'ho fatto perché mi sono reso conto
che la storia di quel periodo è nota a pochissimi giovani. Vorrei,
dunque, che in tanti possano conoscerla attraverso il mio incontro
con la legalità, con Giovanni Falcone e con chi ha fatto la storia
dell’antimafia, quella vera, quella in trincea. Il primo “impatto” è
avvenuto nel lontano 1991 quando, giovane laureando in
giurisprudenza, scrissi al giudice Giovanni Falcone una lettera
nella quale gli esprimevo ammirazione ritenendolo esempio da
seguire ma, al tempo stesso, gli rimproveravo di lasciare Palermo
per andare a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia come
direttore generale degli affari penali. Era un momento difficile per
lui e per il pool antimafia, coordinato da Antonino Caponnetto, ma
nonostante ciò, nel febbraio del 1992, del tutto inaspettata, mi
arrivò la sua risposta: aveva trovato il tempo di scrivere a un
giovane anonimo nonostante in quel periodo fosse bersaglio
continuo di attacchi e denigrazioni di ogni genere. La lettera è
breve, intensa, entusiasmante e ha segnato per sempre la mia vita.
Falcone non fu l’unico incontro che ho avuto. Nel luglio del 1991
a Trivento ascoltai e potei stringere la mano a Paolo Borsellino che
era venuto, invitato dalla Caritas diocesana, per parlare dei
rapporti tra mafia e politica. L’anno successivo, mi laureai con una
tesi dal titolo “Appalti pubblici e normativa antimafia” e
incominciai, giovanissimo professore a contratto, ad insegnare
diritto penale e a occuparmi di criminalità organizzata, di
corruzione e di crimini dei colletti bianchi. Un altro incontro
segnerà ulteriormente la mia esistenza: quello con il giudice
7
Antonino Caponnetto. Con lui incominciai un cammino
appassionante e straordinario caratterizzato da tanti incontri con i
ragazzi in molte scuole d’Italia. Da allora, il lavoro continua in
maniera incessante e con questo libro si arricchisce di un nuovo
strumento di conoscenza e di approfondimento. Il suo titolo
“Adesso tocca a te” è un incitamento per noi tutti a fare la nostra
parte “costi quel che costi”, come diceva Falcone. Se vogliamo
lottare le mafie, non possiamo e non dobbiamo più sottrarci ai
nostri doveri, dai più semplici sino a quelli più impegnativi.
Portocannone, 9 luglio 2017
Vincenzo Musacchio
8
I
Il valore di Giovanni Falcone
Giovanni Falcone nasce in una famiglia benestante: il padre era
direttore del laboratorio chimico d’igiene e profilassi di Palermo e
la madre era figlia di un noto ginecologo della stessa città. Aveva
due sorelle maggiori: Anna e Maria. Venne al mondo il 18 maggio
1939 a Palermo in via Castro Filippo nel quartiere della Kalsa,
fatalmente lo stesso di Paolo Borsellino e di molti futuri mafiosi
come Tommaso Buscetta. Come raccontano i suoi parenti, il suo
parto ebbe una particolarità: nacque con i pugni chiusi e senza
vagiti. Nel momento della nascita, dalla finestra aperta entrò una
colomba, simbolo di pace, che poi rimase a lungo in casa.
Falcone ha dedicato la sua vita alla lotta contro la mafia senza mai
minimamente arretrare di fronte ai gravi rischi cui si esponeva con
la sua attività. Fu sempre mosso da un eccezionale spirito di
servizio verso lo Stato e le sue istituzioni. È stato tra i primi a
identificare “Cosa Nostra” come un’organizzazione parallela allo
9
Stato, unitaria e verticistica in un’epoca in cui si negava l’esistenza
della stessa. La sua tesi è stata in seguito confermata dalle
dichiarazioni rilasciate nel maxiprocesso dal primo importante
pentito di mafia, Tommaso Buscetta. Grazie ai suoi metodi
d’indagine ha posto fine all’interminabile sfilza di assoluzioni per
insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in
Sicilia negli anni settanta e ottanta. La sua grande intuizione,
valida ancor oggi, fu quella di avvalersi d’indagini finanziarie
individuando i capitali sospetti che riconducevano alla criminalità
organizzata. Dedizione massima, pervicacia, grande rigore
investigativo, indagini finanziarie ed estrema capacità di coesione
all’interno del gruppo caratterizzarono il suo agire. Furono queste
le peculiarità che poi hanno consentito la realizzazione del primo
maxiprocesso alla mafia, il più grande risultato giudiziario mai
conseguito ancor oggi contro un’organizzazione criminale.
L’eccezionale lavoro di un gruppo di magistrati guidati da Falcone
approdò al dibattimento pubblico che vide alla sbarra quasi
cinquecento mafiosi, tra boss e sottoposti. Esemplare e di portata
internazionale fu la sentenza, che consentì alla magistratura di
condannare all’ergastolo l’intera direzione strategica di Cosa
Nostra. Accuse poi tutte confermate in Cassazione. In tutti questi
anni mi sono sempre chiesto cosa sia rimasto della stagione del
Pool antimafia oggi? Pochissimo! Resta, senza dubbio alcuno,
l’esempio indelebile di uomini come Rocco Chinnici, Antonino
Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che seppero
incarnare i valori dell’impegno a favore dello Stato e della legalità,
senza essere mai fermati dalla paura durante loro preziosissima
attività investigativa. Credo che il contributo di conoscenza delle
mafie fornito dal Pool antimafia al nostro Paese sia davvero
impareggiabile. Questa esperienza purtroppo terminò, di fatto, nel
1992 con l’uccisione di Falcone e Borsellino, anche se già alla fine
degli anni ottanta una parte delle istituzioni ostacolò lo sviluppo e
la prosecuzione dell'attività investigativa contro la mafia. Nel 1988
10
il Capo dell’ufficio istruzione di Palermo di allora, separò le
inchieste e segnò la fine della meravigliosa stagione del Pool
antimafia al quale non può non essere riconosciuto il merito
assoluto di aver distrutto il mito dell’invincibilità della mafia e di
aver riabilitato l’attendibilità dello Stato. Personalmente, il Pool di
Palermo (Chinnici, Caponnetto, Falcone, Borsellino, Di Lello,
Guarnotta e per le indagini di polizia, Cassarà e Montana) a me
giovane laureato in giurisprudenza ha dato il senso di credibilità
dello Stato che si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con
volti seri e degni di fede nei quali io mi identificavo totalmente.
Salvo rare eccezioni, oggi, mio malgrado, non ritrovo più persone
in grado di darmi quelle sensazioni che ebbi invece molto forti
negli anni aurei del pool antimafia. Quelli erano “veri” magistrati,
di quella “razza” che quando indossava la toga si spogliava del
proprio essere persona per diventare un degno rappresentante della
legge: una rarità nei giorni nostri!
Gli strumenti di lotta alla mafia
Non fu la “super-procura” l’unico strumento di contrasto alla
mafia ideato da Falcone. In quello stesso periodo furono gettate le
basi per la nascita di norme e leggi che regolarono la gestione dei
collaboratori di giustizia. Sul piano della necessità di impedire la
comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà, prese
corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di carcerazione
differenziata (il 41 bis) per mafiosi. Il 30 gennaio del 1992, con
una sentenza storica, la Cassazione riconobbe valido l’impianto
accusatorio che aveva portato alla sentenza di primo grado e
rivede, aggravandolo, il giudizio d’appello che aveva mitigato le
precedenti condanne. La Suprema Corte ripristina diciannove
ergastoli e migliaia di anni di carcere per boss e gregari. Il
11
cosiddetto “teorema Buscetta” è sancito definitivamente, insieme
con il trionfo di Giovanni Falcone: il “suo” maxiprocesso regge
alla prova finale. L’apice del successo sarà proprio l’inizio della
fine del giudice. Cresce l’odio della mafia nei suoi confronti e,
parallelamente, cresce l’avversione politica per un magistrato che
si avvicina pericolosamente al territorio inesplorato delle
connivenze politiche e istituzionali. E’ giudicato talmente
“pericoloso” da convincere i suoi nemici a una soluzione finale,
diversa e più cruenta di quella che ne aveva decretato l’espulsione
da Palermo. Giovanni Falcone, da parte sua, sa che il conto con la
mafia è aperto e considera l’attentato alla sua persona come più di
un’eventualità, anzi una certezza che sarebbe prima o poi arrivata.
Tuttavia va avanti per la sua strada. Cosa lo spingeva a farlo?
Certamente aveva paura, ma come mai insisteva nel continuare a
lottare, anche se sapeva che la mafia lo avrebbe ucciso? Falcone
alla domanda rivoltagli da un giornalista che gli chiede: “Ma chi
glielo fa fare?” Risponde sorridendo: “Soltanto lo spirito di
servizio”. Il giornalista insiste: “Ha mai avuto dei momenti di
scoramento, magari di dubbi, delle tentazioni di abbandonare
questa lotta?” Falcone serio: “No mai”. Aveva una strategia
efficace per riuscire a combattere la mafia. Innanzi tutto, sosteneva
si dovessero usare i pentiti come strumento principale. Perché
senza capire e conoscere come l’organizzazione funzionasse
dall’interno, non si poteva combatterla. E chi poteva saperlo
meglio degli ex membri dell'associazione? Sosteneva che ai pentiti
dovesse essere offerta una protezione e uno stipendio, perché la
mafia cercava in ogni modo di ucciderli. Nessuno avrebbe mai
osato pentirsi se non gli fosse stata offerta una forma di tutela.
Secondo Falcone gli uomini della mafia uccidevano solo se
veramente necessario. Scrive nel suo libro “Cose di Cosa Nostra”
che la mafia è più forte quando non si fa sentire. Se invece
commette tanti omicidi, in un breve periodo, vuol dire che si trova
in difficoltà. Significa che si sente minacciata e che deve
12
difendersi. Si parla spesso di “cadaveri eccellenti” che nel
linguaggio mafioso, significano persone ufficialmente altolocate
uccise dalla mafia, per esempio, magistrati, politici, giornalisti,
imprenditori. Quando commette tanti “omicidi eccellenti”, la
mafia si trova in estrema difficoltà. Sulla pax mafiosa di questi
anni, oggi occorrerebbe riflettere molto!
Il lato “oscuro” della morte di Falcone
Il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone e la moglie Francesca, di
ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un
aereo dei servizi segreti partito dall'aeroporto romano di Ciampino
alle ore 16,40. Tre auto, una Croma marrone, una bianca e una
azzurra li aspettano. La loro scorta è una squadra affiatatissima che
ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989
dell'Addaura. Poco dopo aver imboccato l’autostrada che
congiunge l’aeroporto alla città, all’altezza dello svincolo di
Capaci, una terrificante esplosione (500 kg di tritolo) disintegra il
corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca
Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio
Montinaro e Vito Schifani. Sono ancora molti i lati oscuri che
avvolgono quella strage. Sono fermamente convinto che Giovanni
Falcone faceva paura non solo per le sue attività antimafia, ma
perché come investigatore, era riuscito ad avere uno sguardo
completo su molti avvenimenti dell’epoca, accumulando talmente
tante informazioni da diventare un pericolo non solo per la mafia,
ma anche per quei pezzi di istituzioni deviate e avvezze alla
mafiosità e alla corruzione. Borsellino prima di morire disse più
volte che Giovanni Falcone aveva tentato di indagare su “Gladio”,
organizzazione clandestina italiana. Le informazioni che aveva
raccolto furono fatte sparire. Ancor oggi ci sono molti interrogativi
13
sulla strage del 1992 che non hanno mai avuto una risposta.
L’attentato di Capaci fu una strage di mafia con molte complicità
di Stato. Si conoscono esecutori materiali e mandanti mafiosi ma
manca ancora oggi il tassello del c.d. terzo livello, quello della
politica. Falcone su questo terzo livello si espresse poco, ma su
questo argomento voglio ricordare le parole di Pippo Fava: “I
mafiosi veri stanno in ben altri luoghi, in ben altre assemblee. I
mafiosi sono in Parlamento, a volte sono quelli ai vertici della
Nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti
impone la piccola taglia sulla tua attività; questa è roba da piccola
criminalità che ormai abita in tutte le città italiane ed europee. Il
problema della mafia è molto più tragico e importante, è un
problema di vertice nella gestione della Nazione che rischia di
portare alla rovina e al decadimento culturale”. Queste parole, pur
se datate nel tempo, sono ancora attualissime. Credo che
difficilmente conosceremo mai il terzo livello finché esisteranno
connivenze tra lo Stato e le mafie. Erano arrivati vicinissimi a
scoprirlo Chinnici, Falcone e Borsellino, tutti e tre stranamente
fatti saltare in aria col tritolo come a voler dire: il terzo livello non
si tocca altrimenti questa è la fine che si fa. Un macabro
avvertimento per chi volesse riprendere il percorso interrotto dai
tre giudici.
Gli uomini passano le idee restano
La morte di Giovanni Falcone poteva essere sentita come una
sconfitta della Giustizia e dello Stato, come la fine di una
speranza, in realtà, il suo assassinio ha rappresentato l’inizio di
una vera rinascita della società civile, che ha obbligato le
istituzioni statali a sferrare nei confronti della mafia un attacco tale
da ridurre quasi al tappeto Cosa Nostra. Tutti i più grandi latitanti,
14
tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione e l’azione della
magistratura e delle forze dell’ordine continua imperterrita anche
se tra mille difficoltà. È importante, però, che l’azione non si
fermi. Qualsiasi indecisione o allentamento della tensione giova
alla mafia. Per questo è fondamentale l’impegno delle istituzioni e,
soprattutto, la vigilanza della società civile. Spetta a tutti noi, ai
giovani, che saranno i protagonisti del domani, mantenere alto
l’esempio lasciato da Giovanni Falcone e fare propria la lezione di
legalità, di professionalità e di amore per lo Stato che il magistrato
ci ha lasciato. La frase che da il titolo a questo paragrafo, Falcone
l’ha detta rivolgendosi ai giovani, non solo a coloro che avrebbero
intrapreso una carriera come la sua, ma anche ai futuri giovani
mafiosi. Perché sia gli onesti che i mafiosi contano molto sui
giovani per un futuro di continuità. Quindi, come le idee di
Falcone saranno probabilmente seguite da qualche giovane
magistrato, così le idee mafiose di un boss saranno seguite da
qualche giovane mafioso. Purtroppo è un fattore ciclico perverso
ed inevitabile che si ripeterà per lungo tempo. Nonostante le
grandi vittorie del passato, con le mafie attualmente non stiamo
affatto vincendo la partita. Per vincerla ritengo occorra cambiare:
il codice penale, il codice di procedura penale, l’ordinamento
giudiziario e penitenziario. Sono necessarie tutte quelle riforme
che facciano sì che delinquere non sia più conveniente come
invece lo è oggi. La battaglia è ancora lunga e dura ma volendo si
può ancora vincerla.
Falcone “scomodo”
Uno dei periodi in cui Falcone fu particolarmente avversato anche
da molti dei suoi colleghi fu quando espresse le sue idee sulla
riforma della giustizia. Pochissimi conoscono le sue opinioni in
15
materia. Per prima cosa si occupò di diritto penale sostanziale.
Sosteneva fermamente la necessità della figura del concorso
esterno in associazione mafiosa. Il delitto da anni al centro di
polemiche. Fu proprio Giovanni Falcone, nel 1987, a sottolineare
la necessità di una figura giuridica capace di reprimere quel che
definiva “fiancheggiamento, collusione, contiguità”. È così che,
dall’unione tra gli articoli 416 bis e 110 del codice penale
(concorso nel reato), si è affermato il “concorso esterno in
associazione mafiosa”. Poco prima di morire nel 1992 sostenne
che con il nuovo processo penale, non si potesse ancora a lungo
continuare a punire il vecchio delitto di associazione per
delinquere di stampo mafioso in quanto tale, ma bisognava
orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici, poiché la
prova si sarebbe formata in dibattimento. Ciò rendeva
estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di
colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione
dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa.
Sull’obbligatorietà dell’azione penale, sosteneva che non potessero
esistere argomenti tabù e difese quasi sacrali di istituti, come per
esempio proprio quello in questione. Aggiungeva che se negli Stati
Uniti la giustizia fosse più rapida, efficiente e attenta ai diritti della
difesa, questo dipendeva anche dallo strumento fondamentale della
non obbligatorietà dell’azione penale. La parte più radicale del suo
pensiero riguardava la separazione delle carriere tra giudice e
pubblico ministero. Era convinto che la regolamentazione delle
funzioni e della carriera del pubblico ministero non potesse essere
identica a quella dei magistrati giudicanti, essendo diverse le
funzioni, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali
richieste: investigatore il Pm, arbitro il giudice. Falcone sosteneva
che il tema andasse affrontato senza paure, accantonando lo
spauracchio della dipendenza del pubblico ministero
dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale,
puntualmente sbandierate quando si parla di differenziazione delle
16
carriere. Giovanni Falcone era anche favorevole all’articolo 41 bis
che nella formulazione attuale risale proprio al 1992, quando a
seguito della stagione degli attentati ebbe l’idea di estendere
questo provvedimento ai mafiosi. Ci volle la sua morte proprio a
causa di un attentato della mafia per vedere la sua idea realizzata.
L’introduzione dell’articolo "41 bis" fu la molla che determinò nel
93 gli attentati sanguinosi di Firenze, Roma e Milano. I mafiosi il
carcere duro non lo vogliono e questo è un punto importante, sul
quale noi, a quasi venticinque anni dalla scomparsa di Falcone e
Borsellino non dobbiamo mai smettere di riflettere. Queste misure
però, in concreto, non hanno mai funzionato bene. A un anno dalla
strage di Via d’Amelio, l’ordine per nuovi attentati fu reiterato
proprio dal carcere. L’articolo "41 bis", a mio modestissimo
giudizio, non è mai stato applicato nella sua completa
inflessibilità, così come avrebbe dovuto essere in seguito
all’uccisione di Falcone e Borsellino, nondimeno alla mafia non è
mai piaciuto lo stesso. Per quanto mi riguarda, sono per la sua
piena applicazione che estenderei anche ai corrotti.
17
II
Il ricordo di Falcone su “La Voce di New York”
Ogni anno che passa, è sempre più difficile trovare consensi
quando si vuole parlare di legalità e si vogliono ricordare le
vittime che per tale ideale hanno donato la loro vita. E' sempre la
stessa storia: la legalità in questo Paese non è la regola ma
l'eccezione. All'epoca, non avevo ancora ventiquattro anni e
ricordo ogni minimo dettaglio di quell'orribile 23 maggio 1992. La
mia ammirazione per Giovanni Falcone, per la sua vita, i suoi
ideali e la sua perseveranza, sono stati uno dei motivi di orgoglio
per aver studiato Giurisprudenza e per avere sostenuto la tesi di
laurea in diritto penale proprio sulla normativa antimafia in
materia di appalti pubblici. Ero orgoglioso dell'esistenza di
magistrati come lui dediti al servizio dello Stato con spirito di
sacrificio mai visto prima di allora. Mi chiedevo come si facesse a
non supportarlo nelle sue azioni! Era pronto alla morte Falcone,
lottatore infaticabile in uno Stato che lo ha abbandonato senza mai
aver voluto combattere con forza e determinazione le mafie.
Falcone aveva paura ma era spinto dalla convinzione che un futuro
migliore fosse possibile e che la mafia potesse essere sconfitta.
Purtroppo ricordo molto bene come all'epoca fu isolato da tutti.
Nessuno si ricorda di lui tranne le ricorrenze, dove ci sono inutili
passerelle con falsi attestati di solidarietà e di stima come se fosse
un concorso a premi. Quando li vedo e li ascolto ogni anno, penso
all’enorme ipocrisia perché ricordo bene che Falcone fu bocciato
come consigliere istruttore, bocciato come procuratore della
Repubblica di Palermo, bocciato come membro al CSM e sono
certo sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale
18
antimafia se non fosse stato assassinato prima. Eppure ogni anno
lo Stato celebra Giovanni Falcone come se questo passato non
fosse mai esistito: purtroppo questi fatti non si possono
dimenticare! Non abbiamo bisogno di parole false, inutili e vuote o
di presenze un giorno l’anno da parte delle istituzioni, quando poi
nei fatti non si lotta la mafia né la corruzione ad essa strettamente
correlata. Per rendere davvero omaggio alla vita e al valore di
Giovanni Falcone c'è un solo modo: sconfiggere le mafie e
ristabilire la supremazia dello Stato sul crimine organizzato e sulla
corruzione dilagante. Chi vuole onorarlo non deve mollare la lotta
alle mafie, dal singolo cittadino sino al Presidente della
Repubblica, ognuno con i propri mezzi e le proprie forze, dalle
piccole cose sino ai grandi sforzi che spettano allo Stato. Falcone
diceva: “Non si può sconfiggere la mafia chiedendo l'eroismo di
inermi cittadini, ma mettendo in campo tutte le forze migliori delle
istituzioni”. Spero tanto che un giorno questo suo desiderio si
realizzi.
La lettera a Falcone: il contesto storico
Era una giornata uggiosa e fredda del 1991 e giravano voci che
l'uccisione di Giovanni Falcone fosse già stata decisa nel corso di
alcune riunioni della Commissione regionale di Cosa Nostra, tra
settembre e dicembre 1991 dal boss sanguinario Salvatore Riina.
In quel periodo furono organizzati anche gli attentati contro l'allora
ministro Claudio Martelli e il giornalista Maurizio Costanzo. C'era
già stata la memorabile sentenza della Cassazione che confermava
gli ergastoli del maxiprocesso. Negli anni tra il 1990 e il 1992,
Falcone fu attaccato da diversi fronti, in particolare, è
estremamente noto l'intervento di Leoluca Orlando (più volte
Sindaco di Palermo) nella trasmissione di Rai 3 “Samarcanda”.
19
Anche Totò Cuffaro (ex onorevole ed ex Governatore della
Regione Sicilia e condannato per mafia) si era scagliato contro
Falcone in una trasmissione televisiva.
Nel 1990 alle elezioni dei membri togati del Consiglio superiore
della magistratura, Falcone si candidò per la lista “Movimento per
la giustizia”: l'esito fu però negativo. La sua vicinanza al socialista
Claudio Martelli lo fece attaccare da molte parti del mondo
politico. In particolare, l’appoggio di Martelli fa destare sospetti da
parte dei partiti di centro-sinistra che fino ad allora avevano
appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Egli in realtà
profonde tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il
Parlamento avrebbe successivamente approvato, in particolare
sulla Procura Nazionale Antimafia. Alcuni magistrati, tra i quali lo
stesso Paolo Borsellino, criticano poi il progetto della “super-
procura”, denunciando il rischio che essa possa costituire
paradossalmente un elemento strategico nell’allontanamento di
Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle
sue indagini. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a
difendersi davanti al C.S.M. in seguito all’esposto presentato il
mese prima (l’11 settembre) da Leoluca Orlando. L’esposto contro
Falcone é il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando
al magistrato palermitano, il quale ribatte ancora alle accuse
definendole “eresie, insinuazioni” e “un modo di far politica
attraverso il sistema giudiziario”. Sempre davanti al C.S.M.
Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo,
20
afferma che “non si può investire nella cultura del sospetto di tutto
e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è
l’anticamera del khomeinismo”.
In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 è
assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante
segnale dell’inasprimento della strategia mafiosa. La mafia rompe
gli equilibri consolidati e alza il tiro verso lo Stato, per ridefinire
alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco
più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del Ros che
analizzava l’imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed
imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di
ottemperare a ulteriori approfondimenti. Il ruolo di “super-
procuratore” cui stava lavorando avrebbe consentito di
concretizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose
sin lì impensabile. Ma ancor prima di essere formalmente indicato,
si riaprono ennesime polemiche sul timore di una riduzione
dell’autonomia della magistratura e una subordinazione della
stessa al potere politico. Esse sfociano per lo più in uno sciopero
dell’Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del
Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppone
inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone
risponde sempre con lucidità di analisi e limpidezza di
argomentazioni, intravedendo presumibilmente che il coronamento
della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più
efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua
21
determinazione, egli é sempre più solo all’interno delle istituzioni,
condizione questa che prefigurerà la sua fine.
Il contenuto della mia lettera
In questo clima, decido di scrivere a Giovanni Falcone: una lettera
che mai avrei potuto immaginare cambiasse il corso della mia vita.
Era il periodo natalizio, esattamente il 24 dicembre 1991 (lo
ricordo nitidamente poiché è il compleanno di mia madre). Prendo
carta e penna e comincio a scrivere su un foglio a quadretti piccoli
per poi trasferire il tutto nel computer senza errori di sorta.
La lettera è velocissima, spontanea e immediata, viene, come si
suol dire, di getto: “Gentilissimo Giudice Falcone, le invio la
presente missiva con scarsa speranza di ricevere risposta, e, se così
fosse, la giustifico e la comprendo considerato il suo particolare
momento di vita privata e professionale. Come cittadino, ma
soprattutto come laureando in Giurisprudenza, con una tesi che
riguarda proprio la mafia e gli appalti pubblici, mi auguro tanto
possa leggere queste poche righe che seguono e che esprimono
22
vicinanza, stima e stati d'animo di un anonimo studente di una
piccola terra quale il Molise. Leggo, vedo e ascolto che Lei è visto
come “nemico” anche dai suoi colleghi, contrastato, combattuto,
ritenuto quasi come un “pericolo” da fermare. Vada avanti perché
l'Italia onesta è con Lei. Condivido il suo metodo di lavoro e sono
certo sia un modo efficace per combattere la mafia. Ha fatto
abbattere il muro del segreto bancario, introdotto il concetto di
pragmaticità delle indagini e quello del coordinamento, della
veduta d’insieme, delle singole indagini, tutti fattori di non poco
conto. A noi giovani la sua figura insegna la propensione al
proprio dovere, la lezione che ognuno deve fare la propria parte,
costi quel che costi, affrontando qualsiasi sacrificio. La vedo come
un eroe isolato a difendere un sistema che nessuno vuol salvare. Io
credo in Lei e le sono vicino e penso che siano tanti i giovani oltre
me, anche tra i suoi colleghi. Non lasci Palermo per andare a
Roma sarebbe un abbandono e lascerebbe soli i suoi colleghi che
credono in lei. Ho paura che la lotta alla mafia con il suo
allontanamento dalla Sicilia possa subire un brusco rallentamento.
Con infinita stima ed ammirazione. Vincenzo Musacchio”.
La risposta di Giovanni Falcone
Passò poco più di un mese, il 3 febbraio 1992 sotto il portone di
casa (non avevo ancora la cassetta postale) trovo una busta bianca
con intestazione blu proveniente dalla Procura della Repubblica di
Palermo. Un profumo agrodolce misto all'odore di tabacco
impregnava la busta. La apro, il profumo aumenta, mi tremano le
mani perché immagino il suo contenuto comincio a leggere la sua
lettura: “Caro dott. Musacchio, innanzitutto grazie per la bella
lettera che mi ha inviato. Anche io come lei sono convinto che il
mio posto sia a Palermo ma ci sono momenti in cui occorre fare
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delle scelte e impiegare tutte le energie possibili per la lotta alla
mafia. Mi creda il mio non è un abbandono. Continui a credere
nella giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali.
Cordialmente, Giovanni Falcone”.
Quella lettera, il suo contenuto, il suo profumo, il sentirla tra le
mie mani mi riempì il cuore e la vita intera: mi sembrò che
Falcone fosse li davanti a me e che mi sorridesse e mi poggiasse il
braccio sulla spalla come se volesse indicarmi il cammino da
intraprendere. Mi sentii abbracciato dalle sue idee, liberato dalla
malinconia, dai cattivi pensieri, dall’isolamento forzato dei miei
studi. Con la sua lettera rinacque in me la voglia di lottare
pensando al suo insegnamento. Quella lettera fu allora ed è ancor
oggi un invito ai giovani, in qualsiasi luogo e situazione si trovino,
a rinnovare l'incontro con la legalità, con Giovanni Falcone, a
prendere la decisione di cercarlo ogni giorno senza sosta come
esempio da seguire. È necessario essere consapevoli che per
sconfiggere le illegalità, l’unica via consiste nell’imparare a
incontrarsi con gli altri e lottare insieme. Da quella lettera ho
appreso come riscoprire Giovanni Falcone nel volto degli altri,
nella loro voce, nelle loro richieste, imparando a soffrire, come
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fece lui, quando subisco aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza
stancarmi mai di scegliere la legalità e i giovani. La gioia di quella
lettera era immensa ma non so per quale recondita motivazione la
conservai e condivisi il segreto solo con mio padre sotto la
promessa di non dire nulla in famiglia. E fu così per tanti anni.
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III
Come ho vissuto la Strage di Capaci
Portocannone, piccolo paesino con meno di tremila anime in
Molise, 23 maggio 1992 ore 18,00 circa, stavo lavorando alla mia
tesi di laurea proprio sui temi della mafia quando mi sento
chiamare da mio padre con un tono insolito, allarmistico. Corro e
per la foga e la paura fosse successo qualcosa di grave a qualcuno
della famiglia scivolo e cado a terra. Mi rialzo in fretta e arrivo in
cucina, c'era un’edizione straordinaria del telegiornale. Mio padre,
con un'espressione cupa, mi disse: hanno ucciso Falcone, sua
moglie e la sua scorta! Fui pervaso da una grande rabbia mista
alla voglia di reagire senza sapere come e contro chi. Mio padre
era ammutolito e mia madre guardando le conseguenze
dell'esplosione piangeva quasi fosse morto un suo familiare. Dopo
qualche minuto fui pienamente consapevole di quella gravità
anch’io. Era morto Giovanni Falcone. Si proprio quel giudice che
pochi mesi prima aveva trovato il tempo per rispondere a una mia
lettera dove peraltro lo avevo accusato di abbandonare Palermo.
Mi sentii in colpa! Davanti al televisore una scena di guerra: fumo,
distruzione, voragini, pezzi d’auto sparsi ovunque. Mi sembrava di
sentire l'odore della polvere da sparo.
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Mio padre disse che lo scenario gli ricordava un bombardamento
della seconda guerra mondiale che purtroppo da bambino aveva
vissuto. L’enorme rabbia di quel momento inspiegabilmente e
inaspettatamente lasciò spazio al mio personale ricordo e tra me
pensai: gli sarò grato per sempre perché grazie a lui nessuno più
potrà mai dire che la mafia non esiste. Grazie a lui ho chiaro
contro cosa lottare d’ora in poi. La sua faccia, il suo sguardo,
soprattutto il suo sorriso, sono diventati parte di me come se lui
fosse stato da sempre un membro della mia famiglia. Mi ricordai
soprattutto quel sorriso mentre rispondeva alla domanda di
Marcelle Padovani: “il vigliacco muore ogni giorno, chi non ha
paura una volta sola”, Falcone risponde: “L’importante non è
stabilire se uno ha paura, ma imparare a conviverci e a non farsene
condizionare”. Falcone con la sua lettera mi ha insegnato che
bisogna lottare per un futuro migliore, non essere apatici o peggio
indifferenti e non arrendersi dinnanzi alle prime difficoltà. Falcone
mi ha “obbligato” a fare la mia parte (“Adesso tocca a me!”) e che
ci sono uomini giusti, che non si piegano, uomini come lui per cui
io oggi resto nel mio Paese e lotto per un futuro migliore. In fondo,
Falcone poteva essere mio padre! Sapeva che prima o poi sarebbe
successo, sapeva che per sconfiggere il nemico avrebbe dovuto
imparare a convivere con la paura, sapeva che per quella sua
irrefrenabile sete di verità e di giustizia avrebbe messo in pericolo
la sua vita e quella di chi gli stava accanto. E questo avrebbe
comportato il sacrificio di una vita normale per una sotto scorta
isolato e spesso attaccato. Una vita di rinunce, senza figli, perché
dei bambini non potrebbero né dovrebbero vivere così. Lui era
solito dire ai suoi colleghi e amici di non volere figli perché
sarebbero stati certamente futuri orfani. Eppure non si è fermato,
nel nome della giustizia, nel nome di quello Stato da cui, a un
certo punto, si è sentito abbandonato. Quel giorno ho trovato il
mio riferimento esistenziale, l'esempio cui ispirarmi, un uomo
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senza super poteri ma in giacca e cravatta, che solamente con la
forza del coraggio e lo spirito di sacrificio è riuscito a infliggere
colpi mortali a nemici potenti come le mafie e abbattere retaggi
sovrumani come quello dell’omertà. Grazie Giudice Falcone!
I funerali a Palermo
Il 25 maggio 1992 si svolsero a Palermo i funerali delle vittime.
Sono passati due giorni dalla strage di Capaci e a Roma è eletto
Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Alle esequie
partecipa l’intera città, assieme a colleghi, familiari e personalità
come Pino Arlacchi, Giuseppe Ayala e Tano Grasso. Gli alti
rappresentanti del mondo politico, presenti in chiesa, come
Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni
Galloni, sono duramente contestati. Insieme con mio cugino
decidiamo di partire per Palermo. Ricordo che mio padre non mi
ostacolò nel mio intento, invece, mia madre, particolarmente
premurosa, aveva paura che potesse succedermi qualcosa. La sua
paura era talmente forte che temeva nuovi attentati il giorno dei
funerali. Partimmo la mattina del 24 a bordo di una 131 Mirafiori
verde con scorte di acqua e viveri (pane e frittata o in alternativa
con salsiccia casereccia e frutta delle nostre campagne che
avevamo raccolto la sera prima) per riuscire ad arrivare a Palermo
in serata dove ci aspettavano alcuni nostri amici. Il viaggio fu
triste ma al tempo stesso meraviglioso. Parlammo di mafia e di
morte dello Stato, ascoltammo musica di Fabrizio De André (mio
cantante preferito) e Pino Daniele (preferito di mio cugino)
ammirando il meraviglioso paesaggio calabrese. L’azzurro del
mare che guardavamo dalla macchina era a dir poco stupendo, i
paesaggi espressivi esaltavano la purezza e la bellezza di questa
terra. Ammirammo panorami unici a ogni chilometro, tesori della
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natura dalla bellezza estasiante. Mi colpì la natura e l’amenità dei
fiori di gelsomino ovunque. Arrivammo a Reggio Calabria
all'imbrunire e ci imbarcammo subito. Dal traghetto vedevo
allontanarsi le luci della città mentre prendeva forma quella parte
dello stivale che tutti abbiamo visto sui libri di geografia. Intanto
incominciava a intravedersi Messina: la Sicilia era ormai vicina.
Appena sbarcati, ci dirigemmo immediatamente verso Palermo,
dove ci aspettavano i nostri amici. Era buio e la città era
particolarmente cupa e silenziosa come se avesse compreso cosa
fosse accaduto due giorni prima. Andammo a casa di questi nostri
amici nella zona di Mondello. Quella notte dormii pochissimo e
potei ammirare l'alba sulla spiaggia vicinissima: uno spettacolo
stupendo che ricordo come fosse ora. Palermo era
meravigliosamente bella e ancora oggi sono innamorato di questa
città e dei suoi abitanti. Il sole era appena sorto illuminava con la
sua luce dorata, quasi affettuosa, l'immensità del mare: era giunta
l'ora di avviarci verso la chiesa dove si sarebbero tenuti i funerali.
In prossimità della zona la mia prima sensazione fu che con la
morte di Falcone fosse davvero finita la lotta alla mafia. Chi come
me credeva in lui e nella giustizia era stato per sempre,
irrimediabilmente, sconfitto. Pensai che per avere un futuro non
restasse che andarsene al più presto dall'Italia. Furono queste le
mie prime riflessioni. Nella piazza antistante alla chiesa, lo
scenario era da batticuore. La folla, tesa e infuriata, riempiva ogni
centimetro quadrato.
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Urlava continuamente la parola “giustizia”. In molti gridavano
viva Giovanni Falcone, abbasso lo Stato italiano. I fischi erano
continui verso tutti politici che arrivavano. Il clima era di quelli
che preannunciava una sommossa popolare di manzoniana
memoria. Dentro la basilica, in cui non riuscii a infilarmi, le grida
lasciavano il posto al pianto, alla commozione e all’angoscia
generale. Trovai posto in una specie di pilastro incavato poiché
davvero ogni centimetro era occupato. Accanto a me quasi
appiccicata c'era una signora che non smetteva di piangere e
ripeteva sempre una frase in siciliano stretto che presumo volesse
dire “non doveva succedere”. Il culmine si raggiunse quando
Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, uno dei poliziotti di
scorta caduti nella strage, spezzò tra i singhiozzi la lettura che le
era stata affidata, rivolgendosi direttamente ai carnefici di suo
marito. In quell'istante pensai: non è affatto finito tutto! La mafia
non può prevalere e quelli che la pensavano come me erano tanti
quel giorno! Nei giorni a venire, difatti, alla gente venne
un’insolita voglia di partecipare alla vita democratica, di
pretendere giustizia, di riconquistare, metro dopo metro, una delle
città più belle d’Italia. La morte di Falcone non era la fine di tutto
ma l'inizio di una nuova stagione di reazione dei cittadini alla
mafia.
Ilda Boccassini ricorda Falcone
Alle innumerevoli critiche degli amici di Falcone si aggiunsero gli
sfoghi di Ilda Boccassini (magistrato e allieva di Falcone), che
puntò il dito contro coloro che lo avevano tradito. Riporto le sue
parole, pronunciate ai colleghi nell’aula magna del tribunale di
Milano, massi pesantissimi che lasciarono il segno: “Voi avete
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fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre
critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio
di andare ai suoi funerali”. Nel suo sfogo il magistrato, che si farà
trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci,
ricorderà anche il linciaggio subito dall’amico da parte dei suoi
colleghi magistrati. “Due mesi fa ero a Palermo in un’assemblea
dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati). Non potrò mai
dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da
magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al
potere politico. Mario Almerighi l’ha definito un nemico politico.
Ora io dico che una cosa è criticare la super-procura. Un’altra,
come hanno fatto il Consiglio superiore della magistratura, gli
intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni
non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato
impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha
scelto l’unica strada possibile, il Ministero della Giustizia, per fare
in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria
contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione”.
Le parole della vedova Schifani
Le parole più autentiche e toccanti che colpirono nel profondo
dell'anima furono quelle di Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito
Schifani: “a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo
Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia,
adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua
dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per
voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere
in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non
cambiano... loro non vogliono cambiare... Vi chiediamo per la città
di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue,
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di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore
per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore...”. Molti anni dopo, nel
2012 Rosaria dirà che la sua idea è rimasta intatta.
“Nessuno voleva morire quel giorno. Nessuno voleva fare l’eroe, il
martire, il decorato dalla Patria. Loro sono stati soltanto dei poveri
sfigati, che sono finiti lì, al momento sbagliato, al posto sbagliato.
Ho tanti dubbi. Quante volte si è sentito parlare di talpe. Di che
stupirsi? Non è appurato ormai che per l’omicidio del commissario
Ninni Cassarà, nel 1985, la telefonata ai killer per avvertire che
stava tornando a casa partì dalla questura? Io parlo per percezioni,
non ho prove in mano. Ma sento che qualcuno si è venduto i suoi
fratelli, li ha traditi”.
Paolo Borsellino ricorda l'amico di sempre
Borsellino arriva in chiesa a piedi da piazza Magione, insieme alla
sorella Rita, la scorta e i quasi cinquantamila ragazzi, di tutta
Italia, in un’imponente fiaccolata. Tra gli applausi scroscianti, che
riempiono le navate, Borsellino si avvicina al pulpito, prende il
microfono e di colpo cala il silenzio, un silenzio assoluto:
"Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del
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male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo
stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe
condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano
Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della
sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone,
l’estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi
compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso
percorso che egli s’imponeva. Perché non è fuggito, perché ha
accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato,
perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della
speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto
d’amore verso questa sua città, verso questa terra che l’ha
generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare,
per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa
meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e
ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed
è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e
professionali per rendere migliore questa città e la patria cui
appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E
non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il
lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva porsi sulla stessa
lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (…)
non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma
un movimento culturale e morale, anche religioso, che
coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del
fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del
compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi
della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve
periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati
dalle dichiarazioni di Buscetta, mi disse: la gente fa il tifo per noi.
E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che
l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice.
Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava
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anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di
accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la
sua vera forza. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare
poco, perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza
per il prezzo che la lotta alla mafia, la lotta al male, costringeva la
cittadinanza a pagare. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle
sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore
che costava però a ciascuno non certo i terribili sacrifici di
Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grandi vantaggi, a tante
piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti
situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità.
Insofferenza che finì per provocare e ottenere, purtroppo,
provvedimenti legislativi che, fondati su un’ubriacatura di
garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra
e fornirono un alibi a chi, dolorosamente o colposamente, di lotta
alla mafia non ha mai voluto occuparsi. In questa situazione
Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Tentò di ricreare altrove,
da più vasta prospettiva, le condizioni ottimali per il suo lavoro.
Per poter continuare a dare. Per poter continuare ad amare. Fu
accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Menzogna!
Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il
lavoro di dieci anni. E Falcone lavorò incessantemente per
rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come
lo era sempre stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di
quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore, e
tutti si accorgono di quale dimensione ha questa perdita. Anche
che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato
hanno perso il diritto di parlare. Nessuno tuttavia ha perso il
diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se
egli è morto nella carne, è vivo nello spirito, come la fede ci
insegna; le nostre coscienze, se non si sono svegliate, devono
svegliarsi! La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal
sacrificio della sua donna, dal sacrificio della sua scorta. Molti
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cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia
nelle indagini concernenti la morte di Falcone. Il potere politico
trova, incredibilmente, il coraggio di ammettere i suoi sbagli e
cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli
strumenti loro tolti con stupidi pretesti accademici. Occorre evitare
che si ritorni di nuovo indietro, occorre dare un senso alla morte di
Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei
valorosi uomini della sua scorta. Sono morti per tutti noi, per gli
ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo
pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera; facendo il nostro
dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono
sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso i benefici che
potremmo trarre (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di
lavoro); collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui
crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di
giustizia: troncando immediatamente ogni legame d’interesse,
anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona
portatrice d’interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno
questa gravosa e bellissima eredità di spirito. Dimostrando a noi
stessi e al mondo che Falcone è vivo”.
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La “vera” primavera di Palermo
Dopo la morte di Falcone e di Borsellino i cittadini fecero sentire
la loro voce, nacquero fondazioni intitolate ai due giudici. Ancora
oggi sono infaticabili, Maria Falcone, Salvatore e Rita Borsellino,
che incontrano i ragazzi, in Sicilia e nel resto d'Italia per
raccontare, come diceva Giovanni Falcone, che “la mafia non è
affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha
un inizio e avrà anche una fine”. In via d'Amelio e in via
Notarbartolo davanti a quella che fu la casa di Falcone, ci sono due
alberi: hanno il tronco coperto di foglietti, disegni, pensieri,
poesie, fotografie di chiunque voglia lasciare una testimonianza,
per ricordare ogni giorno che la morte dei due giudici non è
avvenuta invano. La stagione delle stragi continuò, così come i
depistaggi nelle indagini, gli accordi segreti tra la mafia ed
esponenti corrotti delle istituzioni; ma qualcosa cominciò a
cambiare. Furono inviati in Sicilia ventimila soldati a proteggere
sia i giudici sia i cittadini, arrivò un nuovo procuratore della
Repubblica, Gian Carlo Caselli, nel 1993 fu arrestato Totò Riina, il
cosiddetto "capo dei capi", e poi uno dopo l'altro gli altri capi
mafiosi. Si moltiplicarono le testimonianze dei pentiti, i processi
andarono avanti. Per molto tempo ci fu la Nave della Legalità:
migliaia di studenti presenti ogni anno a questa manifestazione
furono il simbolo della voglia di costruire un patto tra le
istituzioni, le scuole e il resto della società civile contro tutte le
mafie. Cambiò anche il corso della politica italiana. A cominciare
dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica avvenuta
quarantotto ore dopo l’eccidio, e senza l’esplosione chissà quanto
si sarebbe andati avanti e con quali risultati. Le conseguenze del
terremoto, quasi uno tsunami, si trascinano ancora oggi con le
polemiche sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia avviata
tra una bomba e l’altra, e con indagini che anziché chiarire i punti
oscuri sembrano indicare ogni volta nuovi buchi neri. Gli esecutori
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materiali della strage sono stati in gran parte individuati, manca
ancora qualche frammento che i magistrati stanno tentando di
colmare dopo le ultime dichiarazioni di due nuovi pentiti, ma i veri
mandanti restano ancora oscuri. E’ bene non dimenticarlo, nelle
commemorazioni che giustamente illustreranno i successi del
giudice antimafia per eccellenza, e ne tesseranno le lodi. Perché è
vero che è “beato quel Paese che non ha bisogno di eroi”, ma
ancora più beato sarebbe quel Paese che non ha bisogno di eroi
celebrati solo dopo la morte, mentre in vita erano disconosciuti e
osteggiati.
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IV
L'incontro con Paolo Borsellino
Era la seconda decade di luglio del 1991 ed ero alle prese con il
mio grande amore: l'esame di diritto penale, (circa 3500 pagine,
titolare della cattedra il “terribile e severissimo” prof. Vincenzo
Scordamaglia), quando lessi in una locandina affissa in un famoso
bar a Termoli che sarebbe venuto a Trivento Paolo Borsellino per
parlare di mafia e politica.
Non potevo mancare, così domandai la macchina di famiglia a mio
padre sperando non gli servisse. Mi avviai da solo con la “mitica”
127 blu scolorito - odorava di terra e a volte al suo interno
germogliava persino il grano (mio padre era agricoltore) nella
canicola di luglio (forse 38° circa) - per arrivare puntuale a
Trivento. Nelle curve ogni tanto la macchina stentava ma arrivai in
tempo. L’incontro era all’aperto e l'aria era fresca, lui era già
arrivato ed era seduto a un tavolo tutto bianco con accanto il suo
pacchetto di MS e con la sigaretta accesa in bocca. Pochi i giovani
presenti, cosa che lui evidenziò, poi cominciò subito a parlare di
legalità e di rapporti tra mafia e politica. La sua cadenza era lenta
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ma efficace e piena di spunti di riflessione. Ero felicissimo perché
mi stava facendo scoprire cose su cui ogni italiano avrebbe dovuto
riflettere. Subito fece un’affermazione che io condivido
pienamente e il succo era più o meno questo: argomentò come il
rapporto tra il politico e il mafioso era spesso falso e si espresse
più o meno come avrebbe fatto di li a poco anche attraverso i
media: “perché si dice quel politico era vicino a un mafioso, quel
politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le
organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato,
quindi quel politico è un uomo onesto”. Per lui questo non era un
assioma, anzi era esattamente il contrario. Affermò che il ruolo
della magistratura era specifico mentre la politica aveva maggiori
poteri per poter espellere al suo interno i collusi e i contigui con la
mafia. I politici, le organizzazioni disciplinari delle varie
amministrazioni pubbliche dovrebbero agire con energia e trarre le
dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che
seppur non costituissero reato rendevano, di fatto, il politico
inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Queste esigenze
non sono state mai realizzate perché ci si è nascosti dietro lo
schermo della pronuncia giudiziale: “Tizio non è mai stato
condannato, quindi è un uomo onesto”. Per Borsellino questo
discorso non reggeva in una democrazia, dove i partiti politici
avrebbero dovuto e potuto fare pulizia profonda al loro interno.
Chiuse il suo intervento, bersagliato da tantissime domande, con la
frase poi divenuta famosa: “Politica e mafia sono due poteri che
vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si
mettono d’accordo”. Le domande erano assolutamente libere e non
concordate così anch’io feci la mia: “dottor Borsellino lei teme per
la sua vita?”. La sua risposta seguita quasi da un ghigno fu più o
meno la seguente: “Si. Temo per la mia vita e soprattutto per
quella delle persone che mi sono vicine, dai miei familiari agli
uomini della mia scorta. So che la mafia vuole la mia morte come
quella del mio fraterno amico Giovanni Falcone ma penso che se
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moriremo non sarà solo per volere della mafia ma per una serie di
concause che vanno dal nostro isolamento fino alla complicità
delle istituzioni colluse e corrotte”. Vi fu un lungo silenzio, la mia
fu l’ultima domanda. Mi alzai e mi diressi verso di lui come tutti i
presenti, gli strinsi la mano, ricordo che la sua presa era molto
forte, lui mi sorrise poi accese una nuova sigaretta e si diresse
verso l'auto di Stato che lo stava aspettando. Mi rimase impresso il
fatto che si fermò per stringere la mano a tutti, nessuno escluso.
Notai anche che fumò durante tutto il convegno a volte
accendendo la sigaretta nuova con quella appena finita. Fu una
giornata memorabile che ancora oggi resta stampata nella mia
mente e che mi guida e m’induce a riflettere ogni giorno
soprattutto sugli attuali rapporti tra mafie e politica.
La lezione di Borsellino: i rapporti mafia-politica
Le idee di Borsellino di allora sono ancora attualissime oggi. La
simbiosi tra mafie, politica ed economia attualmente è presente in
molti settori produttivi nazionali con grande prevalenza nel settore
degli appalti pubblici e delle pubbliche sovvenzioni statali ed
europee. I predetti legami servono alle mafie soprattutto per
condizionare le scelte degli amministratori che sovrintendono le
procedure pubbliche, instaurando in tal modo un circuito per lo
scambio di favori illeciti. La politica, da un lato, garantisce affari e
profitti alla criminalità organizzata, dall’altro, quest’ultima
assicura la disponibilità di voti necessari per essere eletti ai politici
collusi. Mafia e politica, sotto questo profilo, si sostengono e si
garantiscono a vicenda. Il terreno d’incontro è la corruzione e il
profitto economico. Per i mafiosi, le enormi quantità di denaro a
disposizione costituiscono anche il mezzo per accedere nella
cabina di regia degli enti dello Stato sia a livello centrale che
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periferico allo scopo di eliminare la possibile concorrenza alle loro
imprese e agire in regime di monopolio. In questo contesto, molto
preoccupante, occorre domandarsi cosa si può fare per arginare
queste situazioni criminose? Una delle azioni da concretizzare,
senza tentennamenti, è senza dubbio quella di impedire ai politici e
ai burocrati di turno – attraverso una legislazione stringente e una
rete di controlli effettiva ed efficace – di dare ai clan mafiosi la
possibilità di gestire assunzioni, appalti e altri vantaggi che
consentono loro di offrire ai cittadini possibilità di lavoro. E’
indispensabile fare in modo che per ottenere i propri diritti non si
debba più ricorrere al mafioso, al politico o imprenditore colluso.
Bisogna assolutamente sradicare la convinzione che la mafia
garantisca lavoro. Una cosa difficile da realizzare, soprattutto nel
Sud d’Italia, dove lo Stato latita da molto tempo. Dalla rottura dei
legami mafie-politica-imprenditoria, a mio avviso, comincerà il
vero cambiamento, ma, ciò è possibile solo a condizione che nel
nostro Paese si comincino a lottare concretamente la criminalità
organizzata, la corruzione, l’evasione fiscale e la mala politica. Da
esperto della materia posso affermare che l’attuale legislazione è
assolutamente insufficiente. La dimostrazione della nostra tesi, ad
esempio, risiede nel fatto che l’Italia sia la Nazione più corrotta
d’Europa e al tempo stesso quella in cui vi sono meno condanne
per corruzione, concussione e abuso d’ufficio. Di certo il virus che
sta uccidendo lentamente il nostro Stato in buona parte risiede
nell’indebolimento delle norme di controllo, nel depotenziamento
del sistema giudiziario e in una burocrazia ferma al secolo scorso
priva di trasparenza e di economicità. E’ il mix tra corruzione
politica, criminalità organizzata ed economia adulterata il vero
cancro della nostra società e non si può continuare a parlare di
onestà, di trasparenza e di efficienza in uno Stato che, di fatto, non
vuole lottare questi fenomeni così aberranti. Il cittadino dovrebbe
comprendere che mafiosi, politici e imprenditori perseguono il
profitto fine a se stesso servendosi soprattutto di denaro pubblico,
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di cui non si riesce nemmeno a tracciare il percorso perché le
norme sul riciclaggio sono inefficaci e quelle sull'auto-riciclaggio
inesistenti. Le confische patrimoniali, molto temute dai mafiosi,
languono e anche questo è un aspetto a dir poco allarmante. In
questo scenario catastrofico occorrerebbe una rivoluzione culturale
che parta dai giovani sulla scorta di quanto accaduto in passato per
combattere la mafia – penso alla “Primavera di Palermo” negli
anni novanta – quando una moltitudine di cittadini ebbe il
coraggio di scendere in piazza dopo le stragi di Capaci e Via
D’Amelio per dire no alla mafia. Ecco occorre una nuova
“Primavera di Palermo” ma questa volta senza i tanti morti ed
estesa a tutta la Nazione per dire no alle mafie e alla corruzione.
L’Italia si gioca una partita importantissima: o affronta i veri
problemi che la attanagliano, e che ho descritto in precedenza, o
sarà destinata al collasso totale.
L'incontro con Antonino Caponnetto
Era il 17 febbraio 1995 e grazie all'intercessione di Maria Falcone
riesco a contattare e portare a Termoli come relatore sul tema "La
lotta alla criminalità organizzata nello Stato di diritto: problemi e
prospettive" il Giudice Antonino Caponnetto. A gennaio del 1993
assieme a magistrati, forze di polizia, avvocati e tanti esponenti
della società civile avevamo fondato il Centro Nazionale di Studi e
Ricerche sulla Prevenzione Criminale “Giovanni Falcone” con
presidente onorario proprio Maria Falcone. Caponnetto arriva in
una Termoli deserta per le imponenti misure di sicurezza: era
ancora Consigliere Capo Istruttore a Palermo. Al suo arrivo gli si
fanno avanti tutte le più alte cariche presenti ma lui del tutto
inaspettatamente chiede del dottor Musacchio. Oltre ad essere un
emerito sconosciuto, ero l'ultimo di una lunga fila oscurato da
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persone istituzionalmente più importanti di me. Alzo la mano e lui
scorre la fila e viene verso di me. Mi disse: “Caro Musacchio,
Maria Falcone mi ha parlato molto bene di te... Vieni ... e mi porta
verso il panorama marino di Piazza Sant'Antonio, circondati quasi
da un esercito di poliziotti e carabinieri. Allora come vogliamo
impostare quest'incontro?” E così incominciammo a parlare di
come approfondire il tema del convegno. Eravamo io, lui e il
vescovo di Termoli di allora.
Il Cinema Sant'Antonio è stracolmo e tantissime persone
purtroppo restano fuori. Il Convegno procede normalmente. Il
sunto può essere dato da una sua massima: “La mafia teme la
scuola più della giustizia. L'istruzione taglia l'erba sotto i piedi
della cultura mafiosa”. Ricordo fece una disamina del fenomeno
mafioso, fornì l'orientamento necessario per comprendere i legami
che essa intrattiene col mondo politico. Lo guardavo estasiato
dalla sua dolcezza nell'esporre le sue tesi, poi disse: “a differenza
delle organizzazioni puramente criminali, o del terrorismo, la
mafia ha come sua specificità un rapporto privilegiato con le élite
dominanti e le istituzioni, che le permettono una presenza stabile
nella struttura stessa dello Stato”. E che “La mafia è l'estensione
logica e la degenerazione ultima di un’onnicomprensiva cultura
del clientelismo, del favoritismo, dell'appropriazione di risorse
pubbliche per fini privati”. Terminò il suo intervento con un invito:
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occorre che gli onesti si riapproprino delle istituzioni e della
politica! Quest'ultima frase me la ripeté ogni volta che ci
incontravamo o che ci sentivamo al telefono.
La cena con Caponnetto e sua moglie Elisabetta
Terminato il Convegno, era ormai buio, presi coraggio e chiesi al
Giudice Caponnetto se voleva cenare con me e la mia famiglia. Mi
aspettavo un secco no anche perché aveva già prenotato un albergo
in loco e poi lo aspettavano molte delle autorità presenti. La sua
risposta fu: perché no? Ma si deve fare carico anche di mia moglie
mi disse sorridendo. Mi mise la mano sulla spalla e mi chiese dove
andassimo. Li portai a casa dei miei genitori che rimasero a dir
poco disorientati. Vidi lo sguardo di mia madre che se avesse
potuto mi avrebbe “giustiziato” in loco senza processo. Fu una
cena semplicissima (mia madre da buona pugliese in fretta e furia
preparò le orecchiette con i pomodorini fatte con la farina del
nostro grano e ricordo furono graditissime dalla coppia), oltre alla
mia famiglia c'erano tre magistrati miei amici di lunga data. Le
sorprese non finirono li. Dopo cena convinsi il dottor Caponnetto a
rimanere a dormire in casa per poi ripartire la mattina presto come
era in programma. Credo gli fossi particolarmente simpatico. La
nostra casa fu presidiata tutto il tempo. I miei genitori cedettero il
loro letto matrimoniale ed io ebbi l'enorme privilegio di passare
alcune preziosissime ore con chi creò (sull'insegnamento di
Chinnici) il pool antimafia di Palermo.
I nostri dialoghi
Parlammo tanto (onestamente non ricordo tutto) e ho memoria del
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fatto che rimarcò molte volte di non smettere di ricordare che
Falcone e Borsellino diventarono eroi nazionali soltanto dopo la
loro morte. Prima - continuò - sono stati continuo oggetto di
veleni, sospetti, maldicenze che, tutte insieme, rafforzarono
l’intreccio che portò alla loro fine. Mi confermò che furono spesso
accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello Stato.
Quando, il 21 giugno del 1989 (attentato dell’Addaura) la polizia
ritrovò l'esplosivo in un borsone lasciato nella spiaggia antistante
alla villa che Falcone aveva preso in affitto, ci fu chi disse che
l’attentato il magistrato se lo era organizzato da solo per farsi
pubblicità. Si soffermò sugli attacchi durissimi che Falcone
ricevette da Leoluca Orlando e ricordò quando Salvatore (Totò)
Cuffaro inveì sempre contro Falcone sostenendo che i discorsi
sulla mafia che si stavano facendo erano lesivi della dignità della
Sicilia. Si ricordò persino un’intervista di Corrado Augias a
Falcone nel corso della trasmissione Babele, nel 1992, pochi mesi
prima della morte del magistrato. A un certo punto, una delle ospiti
in studio ritiene di poter chiedere candidamente al magistrato: “Lei
dice che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei è
fortunatamente ancora tra noi, chi la protegge?” E Falcone,
sconsolato: “Questo significa che per essere credibili bisogna
essere ammazzati, in questo Paese?” Mi disse che tutti questi
attacchi facevano molto male a Falcone, anche se lui non lo dava a
vedere. Mi raccontò della sua mancata nomina, dopo il suo
pensionamento, a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Il
Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli.
Il che era legittimo ma sconcertante non con il senno del poi, ma
già con quello che avrebbe dovuto guardare ai risultati del
maxiprocesso. Tutto il pool antimafia non riusciva a comprendere
come fosse possibile sbagliarsi così tanto su Falcone e Borsellino
mentre erano vivi! Su Paolo Borsellino mi raccontò che sapeva di
essere nella lista della mafia e che il tritolo per lui fosse già
arrivato a Palermo. Mi raccontò che Borsellino aveva chiesto già
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un mese prima della strage alla Questura palermitana di voler
disporre la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante
all’abitazione della madre. Era affranto e incredulo su questo fatto.
Gli domandai della sua frase straziante alle telecamere subito dopo
la Strage di via d'Amelio: “È finito tutto!”. Mi rispose che in quel
momento avrebbe voluto morire anche lui. Evidenziò il rammarico
per quella frase detta in un momento di sconforto e mi disse che
quelle parole da allora in poi dovevano essere un motivo in più per
farsi coraggio, per riprendere le forze e la speranza, e lavorare sul
cambiamento culturale e sulla lotta alla mafia. Caponnetto diventò
il primo rappresentante della società civile, girò l’Italia in lungo e
in largo per testimoniare nelle scuole la sua esperienza e portare
avanti le idee dei magistrati uccisi dalla mafia. Ci sentimmo molte
volte, ebbi il privilegio di avere il telefono di casa a Firenze dove
se non ricordo male, abitava in Via Baldasseroni e partecipammo
insieme ad alcuni incontri soprattutto con gli studenti. Quando
ripenso a quei momenti, mi pervade un’enorme sensazione di
felicità. Quando il 6 dicembre del 2002 morì in un ospedale
fiorentino piansi come quando si perde un familiare. Ancora oggi
mantengo la promessa che gli feci e che lui direttamente mi chiese
di mantenere. Mi disse: Vincenzo mi devi promettere una cosa...
Spero di onorare la mia promessa e mi auguro che da lassù lui mi
possa guidare.
Quando Falcone inquisì Vito Ciancimino
Falcone era sulle tracce di parte del patrimonio illecito di Vito
Ciancimino e il suo obiettivo era quello di confiscargli i beni.
Sapeva che una delle misure più efficaci contro la mafia oltre alle
indagini patrimoniali fosse anche il sequestro e la confisca dei loro
beni. Caponnetto mi raccontò, quasi a mo' di favola, talmente era
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lieve la sua voce, che Falcone aveva scoperto i rapporti tra
Ciancimino e alcune banche finalizzati al riciclaggio del denaro
sporco. Il “riciclo” consisteva spesso nell’acquisto di immobili
all’estero, alcuni dei quali in Canada. Con l'aiuto di alcuni colleghi
e delle forze di polizia era riuscito anche a tracciare gli
spostamenti di un prestanome che Ciancimino aveva a Palermo.
Falcone stava per ordinare il sequestro degli immobili ma fu
tradito all’ultimo momento. Causa del tradimento fu un “corvo”,
ossia una spia di Ciancimino che, saputo delle intenzioni del
magistrato, riuscì ad avvertire per tempo il vero proprietario degli
immobili. Questi vendette tutto in fretta e furia, in modo da non
poter subire il sequestro. Falcone - sempre secondo Caponnetto -
spesso, quando lui era a capo del Pool, era solito dirgli che se le
indagini si fossero svolte secondo le previsioni e senza traditori
anche all'interno del palazzo di Giustizia, un gran numero
d’immobili non solo di Ciancimino ma anche di altri importanti
mafiosi sarebbero stati sequestrati proprio a causa della loro
origine illecita. Falcone, ma anche lo stesso Caponnetto, spesso
parlò anche d’intrighi tra la massoneria con alcuni pezzi delle
istituzioni. Questo secondo lui certificava il potere che la mafia
possedeva anche in quel periodo estremamente difficile.
Il rapporto tra Falcone e Buscetta
Tra le tante cose di cui parlai con Antonino Caponnetto vi fu anche
la figura del pentito Tommaso Buscetta e il rapporto che con lui
ebbe Giovanni Falcone. Per onore di verità, mi disse Caponnetto,
Falcone riteneva che Buscetta non si pentì mai, sebbene le sue
confessioni furono oro colato e che grazie alle sue dichiarazioni
riuscì a decifrare i codici di mafia fino a quel momento ignoti.
Falcone riteneva che il primo vero pentito di mafia fosse stato un
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certo Leonardo Vitale che nel lontano 1973 con gran coraggio
denunciò alla polizia Totò Riina, Bernando Provenzano, Michele
Greco e Vito Ciancimino. Tommaso Buscetta, invece, non si pentì
rispetto ai crimini commessi, piuttosto prese le distanze
dall'organizzazione mafiosa di cui faceva parte e di cui non
riconosceva più il modus operandi. Prese le distanze da quello che
la mafia era diventata con i Corleonesi di Riina, non dalla mafia di
cui lui aveva fatto parte.
Falcone lo “apprezzava” poiché la guerra tra fazioni mafiose e la
vendetta trasversale attuata dai Corleonesi colpì un fratello, un
genero, un cognato e quattro nipoti. Anche due dei suoi otto figli,
inoltre, furono vittime della cosiddetta “lupara bianca”, cioè
sparirono per non venire mai più ritrovati. Quando arrivai io – mi
raccontò Caponnetto – scelsi i magistrati con la maggiore
esperienza maturata in campo di processi alla mafia per metterla al
servizio della lotta alla criminalità organizzata e spianai la strada a
Giovanni Falcone che stimavo e apprezzavo per il suo valore e la
sua dedizione al lavoro di squadra. Secondo Caponnetto, Buscetta
scelse la strada della collaborazione perché vedeva in Falcone un
confessore, un uomo che ispirava fermezza e autorità, un uomo
che meritò e conquistò il rispetto del “pentito-non-pentito”
Buscetta. Nel 1984 il giudice Falcone volò in Brasile per
l'estradizione in Italia di un criminale e ne tornò con un pentito
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eccellente. Le prime parole che si scambiarono Falcone e Buscetta
da “collaboratori” furono queste, dirette dal pentito al giudice:
“L'avverto, signor giudice. Dopo quest'interrogatorio lei diventerà
forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di
distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che
il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E' sempre del parere
di interrogarmi?”. Falcone non ebbe paura, andò avanti, capì e
rimase del parere di interrogare Buscetta. Ascoltò per mesi le sue
confessioni senza che nulla si sapesse all'esterno, questo era il
patto di fiducia stretto con “don Masino” spesso lo chiamava così.
Falcone pose le basi per la più proficua e onesta collaborazione
mai avvenuta tra Stato e criminalità organizzata rimarcando
sempre che prima di Buscetta si aveva una visione superficiale
della mafia. Dopo di lui la mafia ebbe dei nomi, dei volti, delle
gerarchie, delle famiglie, dei capi mandamento, dei capi famiglia,
dei giuramenti, delle regole, dei simboli, dei codici. La mafia, in
Sicilia, aveva un nome, quel nome era “Cosa Nostra”. Falcone
disse di Buscetta che fu come un professore che gli insegnava una
lingua straniera permettendogli di comunicare con le parole e non
più con gesti scimmieschi. Dopo la morte di Falcone, Buscetta lo
ricordò così: “Era il mio faro, ci capivamo senza parlare. Era
intuito, intelligenza, onestà e voglia di lavorare. Io godevo a
parlare con lui”.
La morte di Ninni Cassarà
Uno dei poliziotti che Falcone adorava per il suo fiuto e la sua
dedizione al lavoro investigativo era Ninni Cassarà. Così mentre
eravamo vicini al caminetto di casa mia che ardeva a gran forza
(era un focolaio dei primi del novecento, enorme) chiesi a
Caponnetto di Ninni Cassarà. Ricordò il suo corpo disteso a terra,
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coperto in un lenzuolo bianco in un lago di sangue e ricordò la
faccia di Giovanni Falcone. Laura, sua moglie, solo lei,
accovacciata sulle scale accanto al corpo di suo marito ormai
esanime.
Mi disse che Ninni Cassarà, così come Beppe Montana, Calogero
Zucchetto, Roberto Antiochia e molti altri, erano poliziotti in
prima linea. Ragazzi di una stagione “straordinaria”, che non si
ripeté mai più. Quella mafia che ammazzava e faceva affari,
doveva essere contrastata e loro sapevano quello che facevano e
gli piaceva farlo. La sensazione che ebbi io, ma anche Falcone e
Borsellino, fu che con la morte di Cassarà si fosse alzato il tiro.
Ricordò le parole famose di Beppe Montana: “A Palermo siamo
poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E
i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E
se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza
difficoltà”. Era nella logica di Cosa Nostra ammazzare i poliziotti
bravi e inavvicinabili. Antonino Cassarà, detto Ninni, commissario
di Palermo, fu uno di questi.
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La morte di don Pino Puglisi
Dopo le stragi in cui morirono Falcone e Borsellino un altro
assassinio in terra di Sicilia mi colpì molto: quello di don Puglisi.
Fu la risposta e il segnale della mafia agli educatori ritenuti
pericolosi: “la mafia sarà sconfitta da un esercito di maestri”. Il
pentito Gaspare Spatuzza raccontò che don Pino era un uomo che
poteva minare le fondamenta del controllo totale sul quartiere di
Brancaccio. “Andava per conto suo a risvegliare le coscienze e ad
aiutare le famiglie povere, cosa che facevamo anche noi mafiosi
verso i bisognosi”.
Il veleno della mafia e il suo antidoto si sfidano ma l'antidoto è
molto più potente poiché è una forza semplice e convincente di chi
pronuncia parole vissute e le concretizza nella vita di tutti i giorni.
Aveva di che disperarsi e rattristarsi, ma sorrideva sempre. Non si
trattava di un ottimismo leggero perché poco compromesso con la
realtà, ma del sorriso di chi non ignora i problemi e li affronta
giorno per giorno nella celebrazione della Messa. Da lì traeva la
sua forza quotidiana. Raccontò il suo Vescovo che come Falcone e
Borsellino anche lui fosse un lavoratore indefesso. Lavorava con
pazienza e costanza, convinto che quel poco avrebbe dato frutto
anche in un quartiere come Brancaccio, nel quale portava i ragazzi
del liceo a fare volontariato nel Centro pastorale “Padre Nostro”,
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dove faceva studiare e giocare bambini e ragazzi per “restituire la
dovuta dignità a chi ne era stato privato”, perché diceva che “la
Chiesa può essere edificata solo pregando e studiando, celebrando
e discutendo, amando e lavorando”. Nel suo appartamento, dopo
l'assassinio, trovarono più di tremila volumi e un poster che amava
mettere in evidenza: un grande orologio senza lancette e la scritta
“Per Cristo a tempo pieno”. Cercò di evangelizzare un quartiere ad
alto tasso mafioso. Era il primo a dare il buon esempio: la mattina
del suo omicidio era andato a chiedere l'ennesimo permesso -
sistematicamente ignorato - al Comune per la costruzione di una
scuola media. Il giorno in cui lo uccisero aveva celebrato due
matrimoni, aveva preparato alcuni genitori al battesimo dei
bambini e aveva incontrato degli sposi che desideravano parlargli,
oltre ad aver fatto un po' di festa con alcuni amici, essendo il suo
compleanno. Era un prete che faceva seriamente il prete, come
Falcone e Borsellino svolgevano seriamente il ruolo di magistrati.
Non accettava compromessi e vie facili. Imitare questi uomini
significa imitare la loro vita ordinaria, il loro lavoro ben fatto,
preparato, anche quando è noioso, la cura dei dettagli, il rifiuto
della raccomandazione, della chiacchiera maligna contro gli altri,
della lamentela inutile. A noi è chiesto di pagare il biglietto, di non
copiare i compiti, non comprare lauree, chiedere lo scontrino,
conoscere e collaborare con le istituzioni. Per ricordare questi
uomini dobbiamo smetterla di sistemarli su piedistalli che li
pongono tanto in alto da renderli irraggiungibili, ma dobbiamo
farli scendere per le strade, nelle piazze e nei nostri cuori.
Falcone e Borsellino “prigionieri”
Tra le tante storie, che mi raccontò Antonino Caponnetto, ci fu
anche l'esperienza al Carcere dell'Asinara. Di notte sbarcarono
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sull’isola Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le proprie
famiglie. Il trasferimento fu improvviso, rapido, non ci fu
nemmeno tempo di fare i bagagli, d’altronde la minaccia,
intercettata dai Carabinieri, era grave: un attentato contro i due
giudici e i loro familiari partito dai vertici di Cosa Nostra. Come
capo del Pool antimafia Caponnetto autorizzò il trasferimento.
Era un’estate calda, come non se ne vedevano da tempo, e i due
magistrati e le loro famiglie vissero completamente isolati,
controllati a vista dalle guardie penitenziarie. Una condizione non
facile da sopportare. Lucia, la figlia più grande di Borsellino, non
accettò quel “martirio” e dovette essere riportata a Palermo, e
Paolo, imponendosi ai suoi superiori, la accompagnò correndo un
grave rischio. Quando erano fuori, sentivano spesso cantare una
vecchia melodia napoletana e scoprirono poi che a cantarla era
Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata.
Trascorsero un mese fatto di notti insonni, di sorrisi, di scherzi, di
pensieri, una lunga, inaspettata tregua in attesa di riprendere il
lavoro, in attesa che il ministero fornisse le carte per continuare la
stesura dell’ordinanza del maxiprocesso. Le carte arrivarono,
Paolo e Giovanni ricominciarono a lavorare giorno e notte con
ritmi a dir poco sovrumani. Nello stesso modo improvviso in cui
erano partiti, così all’improvviso dovettero ritornare a Palermo: il
maxiprocesso e la loro orribile fine li attendevano. Assurdo
nell'assurdo: ai due magistrati palermitani fu notificata in ufficio
una fattura da saldare: 415.800 lire a testa per le bevande
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consumate durante i venticinque giorni all’Asinara. Fu il conto
dell’amministrazione penitenziaria, uno dei tanti “regali” dello
Stato italiano ai due giudici del pool antimafia.
La morte di Paolo Borsellino
Paolo Borsellino è stato ucciso un giorno prima che andasse a
rendere noto alla Procura di Caltanissetta quel che sapeva sulle
“confidenze” del suo amico Giovanni Falcone e quelli che
potevano essere i moventi e l'ambito nel quale Falcone era stato
assassinato il 23 maggio del 1992 assieme alla moglie Francesca
Morvillo e agli uomini della sua scorta. E' quanto emerge
dall'ultimo processo in corso per la strage di Via D'Amelio e dove
ha deposto la figlia del magistrato, Lucia Borsellino, la quale ha
confermato l'esistenza dell'agenda rossa del padre e il fatto che non
è stata mai ritrovata.
Anche Antonino Caponnetto mi disse che Borsellino, dopo la
morte di Giovanni Falcone, attendeva con ansia di essere
interrogato dai magistrati della Procura nissena, a tal punto che
una volta disse pubblicamente: “io qui non vi posso dire nulla, ciò
che ho da dire lo dirò ai magistrati competenti”. Chi sapeva che
Paolo Borsellino il giorno dopo sarebbe andato a raccontare la sua
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verità sulla morte del collega e amico fraterno Giovanni Falcone?
Una talpa che sapeva che quel 19 luglio Borsellino sarebbe andato
a trovare la madre e che il giorno dopo sarebbe andato a
testimoniare a Caltanissetta? Interrogativi che si aggiungono agli
altri tanti interrogativi e depistaggi che ruotano attorno alla strage
in cui fu ucciso Paolo Borsellino che la Procura di Caltanissetta
cerca di risolvere con molte difficoltà. Che Borsellino avesse tante
cose da dire sulla morte del suo amico Giovanni Falcone, lo aveva
preannunciato il 19 giugno del 1992 quando nell'atrio della
biblioteca comunale di Palermo partecipò ad un dibattito pubblico.
In quell'occasione Paolo Borsellino profferì le seguenti parole: “In
questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone, perché
avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a
Giovanni Falcone, avendo raccolto come suo amico tante sue
confidenze, prima di parlare in pubblico, anche delle opinioni e
delle convinzioni che io mi sono fatto raccogliendo tali
confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per
prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria (la Procura
di Caltanissetta), che è l'unica in grado di valutare quando queste
cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento
che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto,
nell'immediatezza di questa tragedia ha fatto pensare a me, e non
soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra
vita”. E che Paolo Borsellino il giorno dopo la sua morte sarebbe
andato a testimoniare sull'inchiesta per la strage Falcone l’ha
confermato l'allora Procuratore aggiunto di Caltanissetta,
Francesco Paolo Giordano, adesso Procuratore di Siracusa
dichiarandolo anche a un’udienza del processo.
Giovanni Falcone e Francesca Morvillo
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L'ultima cosa che ricordo chiesi a Caponnetto prima di andare a
dormire riguardò l'amore tra Falcone e Francesca Morvillo. Mi
sorrise, per un attimo fu titubante e poi mi raccontò che le ultime
parole di Francesca, agonizzante in ospedale dopo l’attentato
furono: “Dov’è Giovanni?”. Mi disse che loro due si conobbero e
s’innamorarono subito a casa di amici e che la loro storia d’amore
non è stata fra le più semplici poiché condannati dalla mafia a non
poter restare mai da soli, a dover condividere ogni momento
d’intimità con gli agenti della scorta, perfino quello della morte.
Ma soprattutto condannati a vivere lontani, lui a Roma e lei a
Palermo, insieme solo in quei fine settimana blindati, senza poter
andare a cena fuori insieme, a cinema, a teatro o a passeggiare
abbracciati sul lungomare siciliano. Nonostante ciò si sentivano
spessissimo al telefono e passavano qualche week end insieme.
Lei andava a prenderlo all’aeroporto con l’auto blindata e si
ritagliavano una normalità.
Talvolta uscivano in barca in mare aperto poiché Falcone era
diplomato all’accademia navale e con la barca a vela si divertiva
molto. A volte avevano una serata a teatro, o al cinema, o a cena
fuori. Falcone a Palermo adorava mangiare il pesce. Si
raccontavano ogni cosa del tempo trascorso lontani l’uno
dall’altra. Insieme, fino e oltre la morte. Quando penso a loro due
mi viene in mente un passo della Divina Commedia che ho sempre
adorato: “Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del
costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona”. Il
loro amore è di tale intensità, che anche dopo la morte resiste
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ancora.
L'incontro con Maria Falcone
Pochi mesi dopo la morte di Giovanni Falcone, presi contatto con
la sorella Maria e ci incontrammo a Roma, dove era invitata a un
convegno per ricordare la memoria del fratello. Le dissi
dell'associazione che avevamo creato in Molise e le chiesi la firma
per diventarne ufficialmente il presidente onorario: accettò. Poi
parlammo un po' e mi disse della grande paura per le prime
inchieste delicate del fratello soprattutto da quando iniziò a
lavorare con Rocco Chinnici che gli affidò alcune delle più
complicate inchieste di mafia. Una volta glielo dissi pure:
"Giovanni ma chi te lo fa fare?" E lui le rispose: "Si vive una volta
sola". Così come Caponnetto anche Maria Falcone mi confermò
che il fratello soffriva per i continui attacchi dei colleghi. Lo
faceva stare male l'invidia che sentiva attorno a se. Ma ha sempre
avuto un alto senso del dovere e per questo non ha mai esitato ad
andare avanti. Amava tantissimo una frase di Kennedy, trovata
scritta in un aeroporto: “Occorre compiere sino in fondo il proprio
dovere, costi quel che costi, perché nel compimento del dovere sta
la radice della dignità umana di ciascuno” e su questi ideali ha
improntato la sua vita, pur consapevole che lo avrebbe portato alla
morte. Ciò che più temeva era che con la sua morte tutto sarebbe
finito e che nessuno avrebbe più portato avanti le sue idee. La sua
morte, invece, ha quasi stanato le complici omertà costringendo la
gente a schierarsi, o con lui e il suo senso della giustizia e delle
regole, o con i mafiosi. Grazie a lei portai in Molise Caponnetto e
tanti altri illustri personaggi dell'antimafia.
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Il ricordo di Giuseppe Costanza
Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto
anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992, era a
Capaci a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria.
La sua testimonianza resa agli studenti di Portocannone con la
Scuola di Legalità l'8 ottobre 2016.
I ragazzi gli chiedono un ricordo del “dottore” così lo chiamava lui
e comincia a raccontare. Ci dice subito che una settimana prima di
Capaci il dottor Falcone gli disse che sarebbe stato nominato di lì a
breve procuratore nazionale antimafia. Lo disse con grande gioia e
soddisfazione e con il suo solito sorriso. Ho pensato subito –
continua Costanza – che se lui avesse avuto quell'incarico ci
sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone gli disse che
all'Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra
Procure, di avocare a sé i fascicoli e che con questi e altri poteri
che avrebbe potuto avere, la mafia poteva essere combattuta
efficacemente. Ci racconta poi che Falcone gli chiese di preparare
una Fiat Uno per potersi muoversi liberamente, senza scorta, nella
capitale. Dopo Capaci mi sono fatto questa domanda: “se volevano
colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci.
Perché Capaci?” Lui un'idea c'è l'ha: non si tratta solo di una strage
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di mafia! Ci ricorda che il 23 maggio del 1992 Falcone lo chiamò
a casa, alle 7, e gli comunicò l'orario di arrivo. Lui allertò la scorta.
“Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo”. Falcone,
sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie
mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta
arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui
istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo
richiamai: “Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare”. Lui
rispose: “Scusi, scusi” e reinserì le chiavi. In quel momento,
l’esplosione. Non ricordo altro. Dallo sconforto del racconto
(commosso) ci dice: “ragazzi credetemi, era meglio morire”. Avrei
fatto parte delle vittime che sono ricordate ma che non possono
parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Continua a
raccontarci dei presunti “amici di Falcone” di oggi che allora non
esistevano affatto e ci ribadisce che gli unici suoi veri amici erano
quelli del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea
di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un chiacchiericcio. Io
lo ricordo come un motore trainante, un caterpillar. Lui viveva in
ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno
girava con il carrello per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo
era Falcone. A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro
livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze.
Ormai il 23 maggio mi chiudo in casa e non voglio saperne niente.
Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che
ero a Capaci non sono nemmeno considerato. Questa cosa mi fa
ancora male.
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V
L'educazione alla legalità entra nella mia vita
Dopo la lettera di Falcone che illuminò il mio cammino,
arrivarono le prime soddisfazioni. Nel 1994 vinsi una borsa di
studio per la specializzazione biennale al Consiglio Nazionale
delle Ricerche di Bologna presso l'Istituto di Ricerca sui Sistemi
Giudiziari diretto dal Prof. Giuseppe Di Federico. Approfondii
molti temi riguardanti l'organizzazione giudiziaria e la lotta al
crimine organizzato. Un anno prima nella nascente Facoltà di
Giurisprudenza del Molise avevo vinto il concorso per titoli
riguardante la docenza a contratto di diritto penale. Fui il più
giovane professore a contratto d'Italia per quell'anno. Non vi fu
mai lezione in cui la lotta alle mafie e le figure di coloro che le
lottarono pagando con la loro vita non fossero parte integrante dei
nostri dialoghi e confronti in aula. Ricordo che spesso
organizzavamo seminari estivi fuori dall'Università in paesini di
montagna spopolati per la fuga dei giovani in terre del nord. In
particolare ne ricordo uno tenuto a Pescopennataro paesino di circa
trecento anime in provincia di Isernia in mezzo ad un bosco in
prossimità di un ruscello con un’acqua imbevibile tanto era fredda.
Eravamo una ventina di ragazzi, parlammo di legalità, di
corruzione e di lotta al crimine organizzato. Ricordo che partimmo
proprio da un pensiero di Giovanni Falcone: “La mafia non è
affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha
un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto
che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini,
ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle
istituzioni”. Poi, con i ragazzi quasi sbigottiti citai un certo Giorgio
Gaber parlando di libertà intesa come partecipazione e di legalità
60
intesa come impegno personale. La legalità rimarcai ai ragazzi
attenti e silenziosi è un'esigenza fondamentale della vita umana per
promuovere il pieno sviluppo dell'individuo e il perseguimento del
bene comune. La legalità non è un valore in quanto tale: è un
percorso che parte dal singolo per arrivare alla collettività. Le
regole funzionano se incontrano persone consapevoli, responsabili,
capaci di distinguere, di scegliere, di essere coerenti con quelle
scelte. Il rapporto con le regole non può essere solo di
adeguamento, tanto meno di convenienza o paura. La regola parla
a ciascuno di noi, ma non possiamo circoscrivere il suo messaggio
alla sola esistenza individuale: in ballo c'è il bene comune, la vita
di tutti, la società. L'educazione alla legalità si colloca allora nel
più ampio orizzonte dell'educarci insieme ai rapporti umani, con
tutto ciò che questo comporta: capacità di riconoscimento, di
ascolto, di reciprocità, d'incontro, di accoglienza. La cultura e la
conoscenza sono il cibo di cui si nutre la legalità. Ricordai loro
cosa mi aveva detto Caponnetto in più occasioni. Il suo impegno
per la giustizia non è finito con la carriera di magistrato. Dopo
essere andato in pensione, ha iniziato a girare l'Italia per dare voce
a una memoria da trasformare in impegno, e trasmettere ai giovani
il senso di una legalità da costruire a partire dalle nostre scelte
quotidiane, dalle piccole cose. Conclusi con una frase mia: “Se
vogliamo lottare il crimine e fare della legalità la nostra ragione di
vita il segreto è il nostro impegno personale”. Quel giorno resta
indelebile nella mia memoria ed ebbi una grande soddisfazione
alcuni anni dopo: una di quelle ragazze si laureò con me
discutendo la tesi sul riciclaggio di denaro sporco e oggi è un
apprezzato magistrato. Mia figlia Isabella di soli sei anni ha
vissuto con me tante esperienze legate alla legalità ed è felice di
avere sei nonni: quelli paterni, quelli materni e Falcone e
Borsellino. Li riconosce appena li vede, dall'età di tre anni, e
quest'anno per la prima volta ha potuto appendere nell'Albero
Falcone, grazie alla Fondazione di Palermo, un suo disegno
61
raffigurante i due magistrati inseparabili.
Gli scritti in memoria di Giovanni Falcone
La morte di Falcone è ancora viva nel mio cuore e allora con gran
forza d'animo decido di intraprendere un progetto molto ambizioso
e difficile da realizzare: coordinare un insieme di scritti in
memoria del giudice assassinato. Siamo nel 1996. Estendo gli
inviti a tantissime persone, colleghi, amici e esperti della materia. I
primi a rispondere furono Francesco Saverio Borrelli, Procuratore
Capo della Repubblica di Milano (mente di Mani Pulite); Giuliano
Vassalli, Presidente emerito della Corte Costituzionale e amico di
Falcone in vita; Ettore Gallo, Presidente emerito della Corte
Costituzionale; Pino Arlacchi, all'epoca Segretario Generale
Aggiunto dell'ONU, amico e diretto collaboratore di Falcone;
Gianni De Gennaro, all'epoca Capo della Polizia e diretto
collaboratore di Falcone; Ferrando Mantovani, Ordinario di diritto
penale a Firenze, uno dei maggiori penalisti viventi; Luigi Conti,
Presidente della Corte di Appello di Torino e allievo di Antolisei.
Quando chiusi il gruppo di lavoro, rilevai due fatti: il primo, la
felicità nel dedicare alla memoria di Falcone alcuni scritti unici e
sentiti profondamente dagli autori; il secondo, l'alto numero di
rinunce con le scuse più grossolane. Ricordo ci fu una persona, che
62
ritenevo fosse amico di Falcone, ma poi grazie ad amici scoprii
che non lo era affatto, che mi disse di non poter partecipare perché
doveva aiutare il figlio a elaborare la tesi di laurea. Il lavoro vide
la luce un anno dopo sia in cartaceo sia nella versione telematica.
Fu un successo con oltre 5000 copie, in gran parte regalate e circa
100.000 download.
Il Centro Studi e Ricerche “Giovanni Falcone”
Era il 1993, io, un sacerdote, don Giuseppe de Virgilio, tre
magistrati, la dr.ssa Margiolina Mastronardi, il dr. Liberato
Paolitto, la dr.ssa Viranna Antonelli e un commissario di Polizia, la
dr.ssa Augusta di Giorgi, fondiamo questo Centro per ricordare la
memoria di Giovanni Falcone. L'associazione culturale lavorerà
per quasi vent'anni. I primi dieci con grandissimi risultati. Maria
Falcone sarà il Presidente onorario e grazie a lei potemmo
realizzare tante iniziative di alto spessore culturale. In quasi tutte
le manifestazioni ci fu sempre la presenza delle scuole. Tra i
partecipanti alle nostre iniziative culturali all'insegna della legalità
ci furono grandi personalità come Giuliano Vassalli che ci parlò
del ruolo della pena e dell’idea di rieducazione del condannato;
Ettore Gallo, che ci fece una memorabile lezione sulla
Costituzione italiana; Giancarlo Caselli che ci parlò di lotta al
terrorismo e alla criminalità organizzata; il giudice Antonino
Caponnetto, che ci incantò con le sue teorie sulla lotta alle mafie;
Massimo Severo Giannini, che ci parlò del ruolo della pubblica
amministrazione nello Stato di diritto e tantissime altre persone.
Grazie all'impegno di tutti almeno per una decina d'anni, fino al
2002 il nostro Centro portò l'educazione alla legalità in tutta la
società civile dell'epoca con particolare predilezione verso i
giovani.
63
La mia missione: l'insegnamento
Insegnare è un lavoro bellissimo, ogni volta che inizio una lezione
di diritto penale mi rendo conto che non è un lavoro ma un
arricchimento personale che non cambierei con nient’altro al
mondo tanto che completa e realizza la mia voglia di comunicare
con l'altro. Proprio quando parliamo dell'uomo, del crimine, della
pena, delle regole, mi rendo conto di essere un riferimento per le
giovani generazioni. Caponnetto mi rimarcava sempre quanto ci
fosse bisogno d’insegnanti capaci di dare un senso alla scuola, allo
studio e alla cultura, senza ridurre tutto alla sola trasmissione di
conoscenze pragmatiche ma puntando a costruire una relazione
con ciascuno studente, che deve sentirsi parte di un progetto
culturale.
Ho sempre lavorato in questa direzione insegnando non solo i
contenuti di una materia, ma anche i valori della vita e della
persona umana. Ho provato a far comprendere quali sono i valori
che creano vivibilità nella società civile, educando alla legalità e
facendo rifiutare il puzzo del compromesso. Il mio è stato ed è
tuttora un impegno con il futuro di ogni studente, un impegno per
la loro libertà, per la loro coscienza, per la loro formazione. Gli
64
ostacoli sono stati tantissimi ma ho sempre cercato di dare ai
ragazzi la possibilità di scegliere consapevolmente. Sono stato
spesso isolato dall'ambiente accademico ma ho sempre avuto il
supporto degli studenti e dei loro genitori con cui sono riuscito non
di rado a condividere il mio lavoro educativo costruendo in alcuni
casi relazioni umane durature, perché i ragazzi oggi hanno bisogno
di esempi, di riferimenti, di umanità. Per quanto ho potuto ho
cercato di dar loro i riferimenti tra le vittime della criminalità
organizzata. Ho svolto le mie lezioni, affrontando sempre i
problemi che s’incontrano nel quotidiano. Ho cercato di far
comprendere che la legalità chiama in causa la responsabilità
individuale e quella collettiva nella miriade di azioni quotidiane e
di scelte che ognuno di noi si trova a compiere. Il mio compito è
stato proprio quello di sollecitare la partecipazione e la
discussione. Per uscire da un circuito d’illegalità, a volte è
sufficiente prendere coscienza di quanto ci ruota intorno, essere
vigili su dinamiche che ci appaiono poco chiare, non tacere,
interrogarsi, far sentire la propria voce, non essere passivi, la
criminalità organizzata va costantemente alla ricerca del consenso
tanto che ogni giorno si sente qualcuno dire che le mafie, in fondo,
danno lavoro dove lavoro non c’è. Nulla di più falso. Le mafie da
qualsiasi prospettiva si analizzino sono e restano il male assoluto.
Scrivo di nuovo a Giovanni Falcone
Dopo cinque lustri, nel mio cuore si accende una spia che segnala
al cervello il seguente diktat: devi scrivere di nuovo una lettera al
giudice Falcone. Non ci penso due volte e comincio: Caro Giudice
Falcone, sono passati quasi ventiquattro anni dall’ultima volta che
le scrissi e oggi come allora, sento la necessità e soprattutto ritrovo
lo spirito per scriverle nuovamente. Purtroppo, so già che questa
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  • 1. 1 ADESSO TOCCAA TE La lotta alle mafie e gli insegnamenti di Falcone, Borsellino e Caponnetto Ricordo di Rudolph Giuliani Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise Edizioni Legalitas - Roma 2017
  • 2. 2
  • 3. 3 A mia figlia Isabella
  • 4. 4 “La mafia, lo ribadisco ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. La mafia è l'organizzazione più agile, duttile e pragmatica che si possa immaginare rispetto alle istituzioni e alla società nel suo insieme”. “Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. “Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili”. “Questo è il Paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l'hai fatta esplodere”. Giovanni Falcone
  • 5. 5 Ricordo di Rudolph Giuliani Come ho detto più volte a chi me lo chiedeva, il ricordo più prezioso che ho del mio amico Giovanni Falcone risale all'ultima volta che venne a New York a trovarmi: era il 1991. Stavamo lavorando a un caso giudiziario riguardante i rapporti tra Cosa Nostra italiana e mafia americana. Un giorno mi affacciai alla finestra del mio ufficio e lo vidi camminare in strada, da solo, senza scorta, in pieno centro. Quando risalì, gli dissi: “Giovanni, ma che fai metti a rischio la tua incolumità?”. Mi rispose che nel mio Paese si sentiva tranquillo perché c’era una grande libertà. Dal suo assassinio sono passati ventisei anni e il mio ricordo più vivo di lui resta il suo incessante impegno nella lotta alla criminalità organizzata su tutti i fronti. Era un mastino che non mollava mai la presa. Giovanni Falcone ha lasciato un'enorme eredità e un magnifico esempio da seguire per i giovani. Era un super-eroe ma non con i super-poteri bensì con una forza di volontà e un acume investigativo che nella lotta internazionale al crimine organizzato ed a Cosa Nostra, non ho mai più riscontrato. Ricordo che lui amava molto l'Italia e la sua terra, la Sicilia. Quando parlava della Sicilia, si emozionava. Sosteneva che alla base del suo mancato sviluppo c'era la mafia. Quando seppi della morte di Falcone prima e di quella di Paolo Borsellino dopo, ne rimasi profondamente sconvolto. E' veramente difficile esprimere il dolore che ho provato, neanche oggi sarei in grado di manifestarlo a parole. Mi auguro soltanto che i giovani non dimentichino i tanti martiri della lotta alla criminalità organizzata italiana e soprattutto abbiano come riferimento i loro insegnamenti.
  • 6. 6 Premessa Perché scrivere questo libro? E' la domanda che mi sono posto prima di iniziare il lavoro. L'ho fatto perché mi sono reso conto che la storia di quel periodo è nota a pochissimi giovani. Vorrei, dunque, che in tanti possano conoscerla attraverso il mio incontro con la legalità, con Giovanni Falcone e con chi ha fatto la storia dell’antimafia, quella vera, quella in trincea. Il primo “impatto” è avvenuto nel lontano 1991 quando, giovane laureando in giurisprudenza, scrissi al giudice Giovanni Falcone una lettera nella quale gli esprimevo ammirazione ritenendolo esempio da seguire ma, al tempo stesso, gli rimproveravo di lasciare Palermo per andare a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia come direttore generale degli affari penali. Era un momento difficile per lui e per il pool antimafia, coordinato da Antonino Caponnetto, ma nonostante ciò, nel febbraio del 1992, del tutto inaspettata, mi arrivò la sua risposta: aveva trovato il tempo di scrivere a un giovane anonimo nonostante in quel periodo fosse bersaglio continuo di attacchi e denigrazioni di ogni genere. La lettera è breve, intensa, entusiasmante e ha segnato per sempre la mia vita. Falcone non fu l’unico incontro che ho avuto. Nel luglio del 1991 a Trivento ascoltai e potei stringere la mano a Paolo Borsellino che era venuto, invitato dalla Caritas diocesana, per parlare dei rapporti tra mafia e politica. L’anno successivo, mi laureai con una tesi dal titolo “Appalti pubblici e normativa antimafia” e incominciai, giovanissimo professore a contratto, ad insegnare diritto penale e a occuparmi di criminalità organizzata, di corruzione e di crimini dei colletti bianchi. Un altro incontro segnerà ulteriormente la mia esistenza: quello con il giudice
  • 7. 7 Antonino Caponnetto. Con lui incominciai un cammino appassionante e straordinario caratterizzato da tanti incontri con i ragazzi in molte scuole d’Italia. Da allora, il lavoro continua in maniera incessante e con questo libro si arricchisce di un nuovo strumento di conoscenza e di approfondimento. Il suo titolo “Adesso tocca a te” è un incitamento per noi tutti a fare la nostra parte “costi quel che costi”, come diceva Falcone. Se vogliamo lottare le mafie, non possiamo e non dobbiamo più sottrarci ai nostri doveri, dai più semplici sino a quelli più impegnativi. Portocannone, 9 luglio 2017 Vincenzo Musacchio
  • 8. 8 I Il valore di Giovanni Falcone Giovanni Falcone nasce in una famiglia benestante: il padre era direttore del laboratorio chimico d’igiene e profilassi di Palermo e la madre era figlia di un noto ginecologo della stessa città. Aveva due sorelle maggiori: Anna e Maria. Venne al mondo il 18 maggio 1939 a Palermo in via Castro Filippo nel quartiere della Kalsa, fatalmente lo stesso di Paolo Borsellino e di molti futuri mafiosi come Tommaso Buscetta. Come raccontano i suoi parenti, il suo parto ebbe una particolarità: nacque con i pugni chiusi e senza vagiti. Nel momento della nascita, dalla finestra aperta entrò una colomba, simbolo di pace, che poi rimase a lungo in casa. Falcone ha dedicato la sua vita alla lotta contro la mafia senza mai minimamente arretrare di fronte ai gravi rischi cui si esponeva con la sua attività. Fu sempre mosso da un eccezionale spirito di servizio verso lo Stato e le sue istituzioni. È stato tra i primi a identificare “Cosa Nostra” come un’organizzazione parallela allo
  • 9. 9 Stato, unitaria e verticistica in un’epoca in cui si negava l’esistenza della stessa. La sua tesi è stata in seguito confermata dalle dichiarazioni rilasciate nel maxiprocesso dal primo importante pentito di mafia, Tommaso Buscetta. Grazie ai suoi metodi d’indagine ha posto fine all’interminabile sfilza di assoluzioni per insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in Sicilia negli anni settanta e ottanta. La sua grande intuizione, valida ancor oggi, fu quella di avvalersi d’indagini finanziarie individuando i capitali sospetti che riconducevano alla criminalità organizzata. Dedizione massima, pervicacia, grande rigore investigativo, indagini finanziarie ed estrema capacità di coesione all’interno del gruppo caratterizzarono il suo agire. Furono queste le peculiarità che poi hanno consentito la realizzazione del primo maxiprocesso alla mafia, il più grande risultato giudiziario mai conseguito ancor oggi contro un’organizzazione criminale. L’eccezionale lavoro di un gruppo di magistrati guidati da Falcone approdò al dibattimento pubblico che vide alla sbarra quasi cinquecento mafiosi, tra boss e sottoposti. Esemplare e di portata internazionale fu la sentenza, che consentì alla magistratura di condannare all’ergastolo l’intera direzione strategica di Cosa Nostra. Accuse poi tutte confermate in Cassazione. In tutti questi anni mi sono sempre chiesto cosa sia rimasto della stagione del Pool antimafia oggi? Pochissimo! Resta, senza dubbio alcuno, l’esempio indelebile di uomini come Rocco Chinnici, Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che seppero incarnare i valori dell’impegno a favore dello Stato e della legalità, senza essere mai fermati dalla paura durante loro preziosissima attività investigativa. Credo che il contributo di conoscenza delle mafie fornito dal Pool antimafia al nostro Paese sia davvero impareggiabile. Questa esperienza purtroppo terminò, di fatto, nel 1992 con l’uccisione di Falcone e Borsellino, anche se già alla fine degli anni ottanta una parte delle istituzioni ostacolò lo sviluppo e la prosecuzione dell'attività investigativa contro la mafia. Nel 1988
  • 10. 10 il Capo dell’ufficio istruzione di Palermo di allora, separò le inchieste e segnò la fine della meravigliosa stagione del Pool antimafia al quale non può non essere riconosciuto il merito assoluto di aver distrutto il mito dell’invincibilità della mafia e di aver riabilitato l’attendibilità dello Stato. Personalmente, il Pool di Palermo (Chinnici, Caponnetto, Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta e per le indagini di polizia, Cassarà e Montana) a me giovane laureato in giurisprudenza ha dato il senso di credibilità dello Stato che si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti seri e degni di fede nei quali io mi identificavo totalmente. Salvo rare eccezioni, oggi, mio malgrado, non ritrovo più persone in grado di darmi quelle sensazioni che ebbi invece molto forti negli anni aurei del pool antimafia. Quelli erano “veri” magistrati, di quella “razza” che quando indossava la toga si spogliava del proprio essere persona per diventare un degno rappresentante della legge: una rarità nei giorni nostri! Gli strumenti di lotta alla mafia Non fu la “super-procura” l’unico strumento di contrasto alla mafia ideato da Falcone. In quello stesso periodo furono gettate le basi per la nascita di norme e leggi che regolarono la gestione dei collaboratori di giustizia. Sul piano della necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà, prese corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi. Il 30 gennaio del 1992, con una sentenza storica, la Cassazione riconobbe valido l’impianto accusatorio che aveva portato alla sentenza di primo grado e rivede, aggravandolo, il giudizio d’appello che aveva mitigato le precedenti condanne. La Suprema Corte ripristina diciannove ergastoli e migliaia di anni di carcere per boss e gregari. Il
  • 11. 11 cosiddetto “teorema Buscetta” è sancito definitivamente, insieme con il trionfo di Giovanni Falcone: il “suo” maxiprocesso regge alla prova finale. L’apice del successo sarà proprio l’inizio della fine del giudice. Cresce l’odio della mafia nei suoi confronti e, parallelamente, cresce l’avversione politica per un magistrato che si avvicina pericolosamente al territorio inesplorato delle connivenze politiche e istituzionali. E’ giudicato talmente “pericoloso” da convincere i suoi nemici a una soluzione finale, diversa e più cruenta di quella che ne aveva decretato l’espulsione da Palermo. Giovanni Falcone, da parte sua, sa che il conto con la mafia è aperto e considera l’attentato alla sua persona come più di un’eventualità, anzi una certezza che sarebbe prima o poi arrivata. Tuttavia va avanti per la sua strada. Cosa lo spingeva a farlo? Certamente aveva paura, ma come mai insisteva nel continuare a lottare, anche se sapeva che la mafia lo avrebbe ucciso? Falcone alla domanda rivoltagli da un giornalista che gli chiede: “Ma chi glielo fa fare?” Risponde sorridendo: “Soltanto lo spirito di servizio”. Il giornalista insiste: “Ha mai avuto dei momenti di scoramento, magari di dubbi, delle tentazioni di abbandonare questa lotta?” Falcone serio: “No mai”. Aveva una strategia efficace per riuscire a combattere la mafia. Innanzi tutto, sosteneva si dovessero usare i pentiti come strumento principale. Perché senza capire e conoscere come l’organizzazione funzionasse dall’interno, non si poteva combatterla. E chi poteva saperlo meglio degli ex membri dell'associazione? Sosteneva che ai pentiti dovesse essere offerta una protezione e uno stipendio, perché la mafia cercava in ogni modo di ucciderli. Nessuno avrebbe mai osato pentirsi se non gli fosse stata offerta una forma di tutela. Secondo Falcone gli uomini della mafia uccidevano solo se veramente necessario. Scrive nel suo libro “Cose di Cosa Nostra” che la mafia è più forte quando non si fa sentire. Se invece commette tanti omicidi, in un breve periodo, vuol dire che si trova in difficoltà. Significa che si sente minacciata e che deve
  • 12. 12 difendersi. Si parla spesso di “cadaveri eccellenti” che nel linguaggio mafioso, significano persone ufficialmente altolocate uccise dalla mafia, per esempio, magistrati, politici, giornalisti, imprenditori. Quando commette tanti “omicidi eccellenti”, la mafia si trova in estrema difficoltà. Sulla pax mafiosa di questi anni, oggi occorrerebbe riflettere molto! Il lato “oscuro” della morte di Falcone Il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall'aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Tre auto, una Croma marrone, una bianca e una azzurra li aspettano. La loro scorta è una squadra affiatatissima che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989 dell'Addaura. Poco dopo aver imboccato l’autostrada che congiunge l’aeroporto alla città, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione (500 kg di tritolo) disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Sono ancora molti i lati oscuri che avvolgono quella strage. Sono fermamente convinto che Giovanni Falcone faceva paura non solo per le sue attività antimafia, ma perché come investigatore, era riuscito ad avere uno sguardo completo su molti avvenimenti dell’epoca, accumulando talmente tante informazioni da diventare un pericolo non solo per la mafia, ma anche per quei pezzi di istituzioni deviate e avvezze alla mafiosità e alla corruzione. Borsellino prima di morire disse più volte che Giovanni Falcone aveva tentato di indagare su “Gladio”, organizzazione clandestina italiana. Le informazioni che aveva raccolto furono fatte sparire. Ancor oggi ci sono molti interrogativi
  • 13. 13 sulla strage del 1992 che non hanno mai avuto una risposta. L’attentato di Capaci fu una strage di mafia con molte complicità di Stato. Si conoscono esecutori materiali e mandanti mafiosi ma manca ancora oggi il tassello del c.d. terzo livello, quello della politica. Falcone su questo terzo livello si espresse poco, ma su questo argomento voglio ricordare le parole di Pippo Fava: “I mafiosi veri stanno in ben altri luoghi, in ben altre assemblee. I mafiosi sono in Parlamento, a volte sono quelli ai vertici della Nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti impone la piccola taglia sulla tua attività; questa è roba da piccola criminalità che ormai abita in tutte le città italiane ed europee. Il problema della mafia è molto più tragico e importante, è un problema di vertice nella gestione della Nazione che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale”. Queste parole, pur se datate nel tempo, sono ancora attualissime. Credo che difficilmente conosceremo mai il terzo livello finché esisteranno connivenze tra lo Stato e le mafie. Erano arrivati vicinissimi a scoprirlo Chinnici, Falcone e Borsellino, tutti e tre stranamente fatti saltare in aria col tritolo come a voler dire: il terzo livello non si tocca altrimenti questa è la fine che si fa. Un macabro avvertimento per chi volesse riprendere il percorso interrotto dai tre giudici. Gli uomini passano le idee restano La morte di Giovanni Falcone poteva essere sentita come una sconfitta della Giustizia e dello Stato, come la fine di una speranza, in realtà, il suo assassinio ha rappresentato l’inizio di una vera rinascita della società civile, che ha obbligato le istituzioni statali a sferrare nei confronti della mafia un attacco tale da ridurre quasi al tappeto Cosa Nostra. Tutti i più grandi latitanti,
  • 14. 14 tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione e l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine continua imperterrita anche se tra mille difficoltà. È importante, però, che l’azione non si fermi. Qualsiasi indecisione o allentamento della tensione giova alla mafia. Per questo è fondamentale l’impegno delle istituzioni e, soprattutto, la vigilanza della società civile. Spetta a tutti noi, ai giovani, che saranno i protagonisti del domani, mantenere alto l’esempio lasciato da Giovanni Falcone e fare propria la lezione di legalità, di professionalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha lasciato. La frase che da il titolo a questo paragrafo, Falcone l’ha detta rivolgendosi ai giovani, non solo a coloro che avrebbero intrapreso una carriera come la sua, ma anche ai futuri giovani mafiosi. Perché sia gli onesti che i mafiosi contano molto sui giovani per un futuro di continuità. Quindi, come le idee di Falcone saranno probabilmente seguite da qualche giovane magistrato, così le idee mafiose di un boss saranno seguite da qualche giovane mafioso. Purtroppo è un fattore ciclico perverso ed inevitabile che si ripeterà per lungo tempo. Nonostante le grandi vittorie del passato, con le mafie attualmente non stiamo affatto vincendo la partita. Per vincerla ritengo occorra cambiare: il codice penale, il codice di procedura penale, l’ordinamento giudiziario e penitenziario. Sono necessarie tutte quelle riforme che facciano sì che delinquere non sia più conveniente come invece lo è oggi. La battaglia è ancora lunga e dura ma volendo si può ancora vincerla. Falcone “scomodo” Uno dei periodi in cui Falcone fu particolarmente avversato anche da molti dei suoi colleghi fu quando espresse le sue idee sulla riforma della giustizia. Pochissimi conoscono le sue opinioni in
  • 15. 15 materia. Per prima cosa si occupò di diritto penale sostanziale. Sosteneva fermamente la necessità della figura del concorso esterno in associazione mafiosa. Il delitto da anni al centro di polemiche. Fu proprio Giovanni Falcone, nel 1987, a sottolineare la necessità di una figura giuridica capace di reprimere quel che definiva “fiancheggiamento, collusione, contiguità”. È così che, dall’unione tra gli articoli 416 bis e 110 del codice penale (concorso nel reato), si è affermato il “concorso esterno in associazione mafiosa”. Poco prima di morire nel 1992 sostenne che con il nuovo processo penale, non si potesse ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso in quanto tale, ma bisognava orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici, poiché la prova si sarebbe formata in dibattimento. Ciò rendeva estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa. Sull’obbligatorietà dell’azione penale, sosteneva che non potessero esistere argomenti tabù e difese quasi sacrali di istituti, come per esempio proprio quello in questione. Aggiungeva che se negli Stati Uniti la giustizia fosse più rapida, efficiente e attenta ai diritti della difesa, questo dipendeva anche dallo strumento fondamentale della non obbligatorietà dell’azione penale. La parte più radicale del suo pensiero riguardava la separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero. Era convinto che la regolamentazione delle funzioni e della carriera del pubblico ministero non potesse essere identica a quella dei magistrati giudicanti, essendo diverse le funzioni, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore il Pm, arbitro il giudice. Falcone sosteneva che il tema andasse affrontato senza paure, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, puntualmente sbandierate quando si parla di differenziazione delle
  • 16. 16 carriere. Giovanni Falcone era anche favorevole all’articolo 41 bis che nella formulazione attuale risale proprio al 1992, quando a seguito della stagione degli attentati ebbe l’idea di estendere questo provvedimento ai mafiosi. Ci volle la sua morte proprio a causa di un attentato della mafia per vedere la sua idea realizzata. L’introduzione dell’articolo "41 bis" fu la molla che determinò nel 93 gli attentati sanguinosi di Firenze, Roma e Milano. I mafiosi il carcere duro non lo vogliono e questo è un punto importante, sul quale noi, a quasi venticinque anni dalla scomparsa di Falcone e Borsellino non dobbiamo mai smettere di riflettere. Queste misure però, in concreto, non hanno mai funzionato bene. A un anno dalla strage di Via d’Amelio, l’ordine per nuovi attentati fu reiterato proprio dal carcere. L’articolo "41 bis", a mio modestissimo giudizio, non è mai stato applicato nella sua completa inflessibilità, così come avrebbe dovuto essere in seguito all’uccisione di Falcone e Borsellino, nondimeno alla mafia non è mai piaciuto lo stesso. Per quanto mi riguarda, sono per la sua piena applicazione che estenderei anche ai corrotti.
  • 17. 17 II Il ricordo di Falcone su “La Voce di New York” Ogni anno che passa, è sempre più difficile trovare consensi quando si vuole parlare di legalità e si vogliono ricordare le vittime che per tale ideale hanno donato la loro vita. E' sempre la stessa storia: la legalità in questo Paese non è la regola ma l'eccezione. All'epoca, non avevo ancora ventiquattro anni e ricordo ogni minimo dettaglio di quell'orribile 23 maggio 1992. La mia ammirazione per Giovanni Falcone, per la sua vita, i suoi ideali e la sua perseveranza, sono stati uno dei motivi di orgoglio per aver studiato Giurisprudenza e per avere sostenuto la tesi di laurea in diritto penale proprio sulla normativa antimafia in materia di appalti pubblici. Ero orgoglioso dell'esistenza di magistrati come lui dediti al servizio dello Stato con spirito di sacrificio mai visto prima di allora. Mi chiedevo come si facesse a non supportarlo nelle sue azioni! Era pronto alla morte Falcone, lottatore infaticabile in uno Stato che lo ha abbandonato senza mai aver voluto combattere con forza e determinazione le mafie. Falcone aveva paura ma era spinto dalla convinzione che un futuro migliore fosse possibile e che la mafia potesse essere sconfitta. Purtroppo ricordo molto bene come all'epoca fu isolato da tutti. Nessuno si ricorda di lui tranne le ricorrenze, dove ci sono inutili passerelle con falsi attestati di solidarietà e di stima come se fosse un concorso a premi. Quando li vedo e li ascolto ogni anno, penso all’enorme ipocrisia perché ricordo bene che Falcone fu bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore della Repubblica di Palermo, bocciato come membro al CSM e sono certo sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale
  • 18. 18 antimafia se non fosse stato assassinato prima. Eppure ogni anno lo Stato celebra Giovanni Falcone come se questo passato non fosse mai esistito: purtroppo questi fatti non si possono dimenticare! Non abbiamo bisogno di parole false, inutili e vuote o di presenze un giorno l’anno da parte delle istituzioni, quando poi nei fatti non si lotta la mafia né la corruzione ad essa strettamente correlata. Per rendere davvero omaggio alla vita e al valore di Giovanni Falcone c'è un solo modo: sconfiggere le mafie e ristabilire la supremazia dello Stato sul crimine organizzato e sulla corruzione dilagante. Chi vuole onorarlo non deve mollare la lotta alle mafie, dal singolo cittadino sino al Presidente della Repubblica, ognuno con i propri mezzi e le proprie forze, dalle piccole cose sino ai grandi sforzi che spettano allo Stato. Falcone diceva: “Non si può sconfiggere la mafia chiedendo l'eroismo di inermi cittadini, ma mettendo in campo tutte le forze migliori delle istituzioni”. Spero tanto che un giorno questo suo desiderio si realizzi. La lettera a Falcone: il contesto storico Era una giornata uggiosa e fredda del 1991 e giravano voci che l'uccisione di Giovanni Falcone fosse già stata decisa nel corso di alcune riunioni della Commissione regionale di Cosa Nostra, tra settembre e dicembre 1991 dal boss sanguinario Salvatore Riina. In quel periodo furono organizzati anche gli attentati contro l'allora ministro Claudio Martelli e il giornalista Maurizio Costanzo. C'era già stata la memorabile sentenza della Cassazione che confermava gli ergastoli del maxiprocesso. Negli anni tra il 1990 e il 1992, Falcone fu attaccato da diversi fronti, in particolare, è estremamente noto l'intervento di Leoluca Orlando (più volte Sindaco di Palermo) nella trasmissione di Rai 3 “Samarcanda”.
  • 19. 19 Anche Totò Cuffaro (ex onorevole ed ex Governatore della Regione Sicilia e condannato per mafia) si era scagliato contro Falcone in una trasmissione televisiva. Nel 1990 alle elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, Falcone si candidò per la lista “Movimento per la giustizia”: l'esito fu però negativo. La sua vicinanza al socialista Claudio Martelli lo fece attaccare da molte parti del mondo politico. In particolare, l’appoggio di Martelli fa destare sospetti da parte dei partiti di centro-sinistra che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Egli in realtà profonde tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, in particolare sulla Procura Nazionale Antimafia. Alcuni magistrati, tra i quali lo stesso Paolo Borsellino, criticano poi il progetto della “super- procura”, denunciando il rischio che essa possa costituire paradossalmente un elemento strategico nell’allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al C.S.M. in seguito all’esposto presentato il mese prima (l’11 settembre) da Leoluca Orlando. L’esposto contro Falcone é il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatte ancora alle accuse definendole “eresie, insinuazioni” e “un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario”. Sempre davanti al C.S.M. Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo,
  • 20. 20 afferma che “non si può investire nella cultura del sospetto di tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”. In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 è assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell’inasprimento della strategia mafiosa. La mafia rompe gli equilibri consolidati e alza il tiro verso lo Stato, per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del Ros che analizzava l’imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare a ulteriori approfondimenti. Il ruolo di “super- procuratore” cui stava lavorando avrebbe consentito di concretizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima di essere formalmente indicato, si riaprono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell’autonomia della magistratura e una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociano per lo più in uno sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppone inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone risponde sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo presumibilmente che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua
  • 21. 21 determinazione, egli é sempre più solo all’interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà la sua fine. Il contenuto della mia lettera In questo clima, decido di scrivere a Giovanni Falcone: una lettera che mai avrei potuto immaginare cambiasse il corso della mia vita. Era il periodo natalizio, esattamente il 24 dicembre 1991 (lo ricordo nitidamente poiché è il compleanno di mia madre). Prendo carta e penna e comincio a scrivere su un foglio a quadretti piccoli per poi trasferire il tutto nel computer senza errori di sorta. La lettera è velocissima, spontanea e immediata, viene, come si suol dire, di getto: “Gentilissimo Giudice Falcone, le invio la presente missiva con scarsa speranza di ricevere risposta, e, se così fosse, la giustifico e la comprendo considerato il suo particolare momento di vita privata e professionale. Come cittadino, ma soprattutto come laureando in Giurisprudenza, con una tesi che riguarda proprio la mafia e gli appalti pubblici, mi auguro tanto possa leggere queste poche righe che seguono e che esprimono
  • 22. 22 vicinanza, stima e stati d'animo di un anonimo studente di una piccola terra quale il Molise. Leggo, vedo e ascolto che Lei è visto come “nemico” anche dai suoi colleghi, contrastato, combattuto, ritenuto quasi come un “pericolo” da fermare. Vada avanti perché l'Italia onesta è con Lei. Condivido il suo metodo di lavoro e sono certo sia un modo efficace per combattere la mafia. Ha fatto abbattere il muro del segreto bancario, introdotto il concetto di pragmaticità delle indagini e quello del coordinamento, della veduta d’insieme, delle singole indagini, tutti fattori di non poco conto. A noi giovani la sua figura insegna la propensione al proprio dovere, la lezione che ognuno deve fare la propria parte, costi quel che costi, affrontando qualsiasi sacrificio. La vedo come un eroe isolato a difendere un sistema che nessuno vuol salvare. Io credo in Lei e le sono vicino e penso che siano tanti i giovani oltre me, anche tra i suoi colleghi. Non lasci Palermo per andare a Roma sarebbe un abbandono e lascerebbe soli i suoi colleghi che credono in lei. Ho paura che la lotta alla mafia con il suo allontanamento dalla Sicilia possa subire un brusco rallentamento. Con infinita stima ed ammirazione. Vincenzo Musacchio”. La risposta di Giovanni Falcone Passò poco più di un mese, il 3 febbraio 1992 sotto il portone di casa (non avevo ancora la cassetta postale) trovo una busta bianca con intestazione blu proveniente dalla Procura della Repubblica di Palermo. Un profumo agrodolce misto all'odore di tabacco impregnava la busta. La apro, il profumo aumenta, mi tremano le mani perché immagino il suo contenuto comincio a leggere la sua lettura: “Caro dott. Musacchio, innanzitutto grazie per la bella lettera che mi ha inviato. Anche io come lei sono convinto che il mio posto sia a Palermo ma ci sono momenti in cui occorre fare
  • 23. 23 delle scelte e impiegare tutte le energie possibili per la lotta alla mafia. Mi creda il mio non è un abbandono. Continui a credere nella giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali. Cordialmente, Giovanni Falcone”. Quella lettera, il suo contenuto, il suo profumo, il sentirla tra le mie mani mi riempì il cuore e la vita intera: mi sembrò che Falcone fosse li davanti a me e che mi sorridesse e mi poggiasse il braccio sulla spalla come se volesse indicarmi il cammino da intraprendere. Mi sentii abbracciato dalle sue idee, liberato dalla malinconia, dai cattivi pensieri, dall’isolamento forzato dei miei studi. Con la sua lettera rinacque in me la voglia di lottare pensando al suo insegnamento. Quella lettera fu allora ed è ancor oggi un invito ai giovani, in qualsiasi luogo e situazione si trovino, a rinnovare l'incontro con la legalità, con Giovanni Falcone, a prendere la decisione di cercarlo ogni giorno senza sosta come esempio da seguire. È necessario essere consapevoli che per sconfiggere le illegalità, l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri e lottare insieme. Da quella lettera ho appreso come riscoprire Giovanni Falcone nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste, imparando a soffrire, come
  • 24. 24 fece lui, quando subisco aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarmi mai di scegliere la legalità e i giovani. La gioia di quella lettera era immensa ma non so per quale recondita motivazione la conservai e condivisi il segreto solo con mio padre sotto la promessa di non dire nulla in famiglia. E fu così per tanti anni.
  • 25. 25 III Come ho vissuto la Strage di Capaci Portocannone, piccolo paesino con meno di tremila anime in Molise, 23 maggio 1992 ore 18,00 circa, stavo lavorando alla mia tesi di laurea proprio sui temi della mafia quando mi sento chiamare da mio padre con un tono insolito, allarmistico. Corro e per la foga e la paura fosse successo qualcosa di grave a qualcuno della famiglia scivolo e cado a terra. Mi rialzo in fretta e arrivo in cucina, c'era un’edizione straordinaria del telegiornale. Mio padre, con un'espressione cupa, mi disse: hanno ucciso Falcone, sua moglie e la sua scorta! Fui pervaso da una grande rabbia mista alla voglia di reagire senza sapere come e contro chi. Mio padre era ammutolito e mia madre guardando le conseguenze dell'esplosione piangeva quasi fosse morto un suo familiare. Dopo qualche minuto fui pienamente consapevole di quella gravità anch’io. Era morto Giovanni Falcone. Si proprio quel giudice che pochi mesi prima aveva trovato il tempo per rispondere a una mia lettera dove peraltro lo avevo accusato di abbandonare Palermo. Mi sentii in colpa! Davanti al televisore una scena di guerra: fumo, distruzione, voragini, pezzi d’auto sparsi ovunque. Mi sembrava di sentire l'odore della polvere da sparo.
  • 26. 26 Mio padre disse che lo scenario gli ricordava un bombardamento della seconda guerra mondiale che purtroppo da bambino aveva vissuto. L’enorme rabbia di quel momento inspiegabilmente e inaspettatamente lasciò spazio al mio personale ricordo e tra me pensai: gli sarò grato per sempre perché grazie a lui nessuno più potrà mai dire che la mafia non esiste. Grazie a lui ho chiaro contro cosa lottare d’ora in poi. La sua faccia, il suo sguardo, soprattutto il suo sorriso, sono diventati parte di me come se lui fosse stato da sempre un membro della mia famiglia. Mi ricordai soprattutto quel sorriso mentre rispondeva alla domanda di Marcelle Padovani: “il vigliacco muore ogni giorno, chi non ha paura una volta sola”, Falcone risponde: “L’importante non è stabilire se uno ha paura, ma imparare a conviverci e a non farsene condizionare”. Falcone con la sua lettera mi ha insegnato che bisogna lottare per un futuro migliore, non essere apatici o peggio indifferenti e non arrendersi dinnanzi alle prime difficoltà. Falcone mi ha “obbligato” a fare la mia parte (“Adesso tocca a me!”) e che ci sono uomini giusti, che non si piegano, uomini come lui per cui io oggi resto nel mio Paese e lotto per un futuro migliore. In fondo, Falcone poteva essere mio padre! Sapeva che prima o poi sarebbe successo, sapeva che per sconfiggere il nemico avrebbe dovuto imparare a convivere con la paura, sapeva che per quella sua irrefrenabile sete di verità e di giustizia avrebbe messo in pericolo la sua vita e quella di chi gli stava accanto. E questo avrebbe comportato il sacrificio di una vita normale per una sotto scorta isolato e spesso attaccato. Una vita di rinunce, senza figli, perché dei bambini non potrebbero né dovrebbero vivere così. Lui era solito dire ai suoi colleghi e amici di non volere figli perché sarebbero stati certamente futuri orfani. Eppure non si è fermato, nel nome della giustizia, nel nome di quello Stato da cui, a un certo punto, si è sentito abbandonato. Quel giorno ho trovato il mio riferimento esistenziale, l'esempio cui ispirarmi, un uomo
  • 27. 27 senza super poteri ma in giacca e cravatta, che solamente con la forza del coraggio e lo spirito di sacrificio è riuscito a infliggere colpi mortali a nemici potenti come le mafie e abbattere retaggi sovrumani come quello dell’omertà. Grazie Giudice Falcone! I funerali a Palermo Il 25 maggio 1992 si svolsero a Palermo i funerali delle vittime. Sono passati due giorni dalla strage di Capaci e a Roma è eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Alle esequie partecipa l’intera città, assieme a colleghi, familiari e personalità come Pino Arlacchi, Giuseppe Ayala e Tano Grasso. Gli alti rappresentanti del mondo politico, presenti in chiesa, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, sono duramente contestati. Insieme con mio cugino decidiamo di partire per Palermo. Ricordo che mio padre non mi ostacolò nel mio intento, invece, mia madre, particolarmente premurosa, aveva paura che potesse succedermi qualcosa. La sua paura era talmente forte che temeva nuovi attentati il giorno dei funerali. Partimmo la mattina del 24 a bordo di una 131 Mirafiori verde con scorte di acqua e viveri (pane e frittata o in alternativa con salsiccia casereccia e frutta delle nostre campagne che avevamo raccolto la sera prima) per riuscire ad arrivare a Palermo in serata dove ci aspettavano alcuni nostri amici. Il viaggio fu triste ma al tempo stesso meraviglioso. Parlammo di mafia e di morte dello Stato, ascoltammo musica di Fabrizio De André (mio cantante preferito) e Pino Daniele (preferito di mio cugino) ammirando il meraviglioso paesaggio calabrese. L’azzurro del mare che guardavamo dalla macchina era a dir poco stupendo, i paesaggi espressivi esaltavano la purezza e la bellezza di questa terra. Ammirammo panorami unici a ogni chilometro, tesori della
  • 28. 28 natura dalla bellezza estasiante. Mi colpì la natura e l’amenità dei fiori di gelsomino ovunque. Arrivammo a Reggio Calabria all'imbrunire e ci imbarcammo subito. Dal traghetto vedevo allontanarsi le luci della città mentre prendeva forma quella parte dello stivale che tutti abbiamo visto sui libri di geografia. Intanto incominciava a intravedersi Messina: la Sicilia era ormai vicina. Appena sbarcati, ci dirigemmo immediatamente verso Palermo, dove ci aspettavano i nostri amici. Era buio e la città era particolarmente cupa e silenziosa come se avesse compreso cosa fosse accaduto due giorni prima. Andammo a casa di questi nostri amici nella zona di Mondello. Quella notte dormii pochissimo e potei ammirare l'alba sulla spiaggia vicinissima: uno spettacolo stupendo che ricordo come fosse ora. Palermo era meravigliosamente bella e ancora oggi sono innamorato di questa città e dei suoi abitanti. Il sole era appena sorto illuminava con la sua luce dorata, quasi affettuosa, l'immensità del mare: era giunta l'ora di avviarci verso la chiesa dove si sarebbero tenuti i funerali. In prossimità della zona la mia prima sensazione fu che con la morte di Falcone fosse davvero finita la lotta alla mafia. Chi come me credeva in lui e nella giustizia era stato per sempre, irrimediabilmente, sconfitto. Pensai che per avere un futuro non restasse che andarsene al più presto dall'Italia. Furono queste le mie prime riflessioni. Nella piazza antistante alla chiesa, lo scenario era da batticuore. La folla, tesa e infuriata, riempiva ogni centimetro quadrato.
  • 29. 29 Urlava continuamente la parola “giustizia”. In molti gridavano viva Giovanni Falcone, abbasso lo Stato italiano. I fischi erano continui verso tutti politici che arrivavano. Il clima era di quelli che preannunciava una sommossa popolare di manzoniana memoria. Dentro la basilica, in cui non riuscii a infilarmi, le grida lasciavano il posto al pianto, alla commozione e all’angoscia generale. Trovai posto in una specie di pilastro incavato poiché davvero ogni centimetro era occupato. Accanto a me quasi appiccicata c'era una signora che non smetteva di piangere e ripeteva sempre una frase in siciliano stretto che presumo volesse dire “non doveva succedere”. Il culmine si raggiunse quando Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, uno dei poliziotti di scorta caduti nella strage, spezzò tra i singhiozzi la lettura che le era stata affidata, rivolgendosi direttamente ai carnefici di suo marito. In quell'istante pensai: non è affatto finito tutto! La mafia non può prevalere e quelli che la pensavano come me erano tanti quel giorno! Nei giorni a venire, difatti, alla gente venne un’insolita voglia di partecipare alla vita democratica, di pretendere giustizia, di riconquistare, metro dopo metro, una delle città più belle d’Italia. La morte di Falcone non era la fine di tutto ma l'inizio di una nuova stagione di reazione dei cittadini alla mafia. Ilda Boccassini ricorda Falcone Alle innumerevoli critiche degli amici di Falcone si aggiunsero gli sfoghi di Ilda Boccassini (magistrato e allieva di Falcone), che puntò il dito contro coloro che lo avevano tradito. Riporto le sue parole, pronunciate ai colleghi nell’aula magna del tribunale di Milano, massi pesantissimi che lasciarono il segno: “Voi avete
  • 30. 30 fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali”. Nel suo sfogo il magistrato, che si farà trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci, ricorderà anche il linciaggio subito dall’amico da parte dei suoi colleghi magistrati. “Due mesi fa ero a Palermo in un’assemblea dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati). Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi l’ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la super-procura. Un’altra, come hanno fatto il Consiglio superiore della magistratura, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il Ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione”. Le parole della vedova Schifani Le parole più autentiche e toccanti che colpirono nel profondo dell'anima furono quelle di Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani: “a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non cambiano... loro non vogliono cambiare... Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue,
  • 31. 31 di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore...”. Molti anni dopo, nel 2012 Rosaria dirà che la sua idea è rimasta intatta. “Nessuno voleva morire quel giorno. Nessuno voleva fare l’eroe, il martire, il decorato dalla Patria. Loro sono stati soltanto dei poveri sfigati, che sono finiti lì, al momento sbagliato, al posto sbagliato. Ho tanti dubbi. Quante volte si è sentito parlare di talpe. Di che stupirsi? Non è appurato ormai che per l’omicidio del commissario Ninni Cassarà, nel 1985, la telefonata ai killer per avvertire che stava tornando a casa partì dalla questura? Io parlo per percezioni, non ho prove in mano. Ma sento che qualcuno si è venduto i suoi fratelli, li ha traditi”. Paolo Borsellino ricorda l'amico di sempre Borsellino arriva in chiesa a piedi da piazza Magione, insieme alla sorella Rita, la scorta e i quasi cinquantamila ragazzi, di tutta Italia, in un’imponente fiaccolata. Tra gli applausi scroscianti, che riempiono le navate, Borsellino si avvicina al pulpito, prende il microfono e di colpo cala il silenzio, un silenzio assoluto: "Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del
  • 32. 32 male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli s’imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che l’ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva porsi sulla stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (…) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava
  • 33. 33 anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza per il prezzo che la lotta alla mafia, la lotta al male, costringeva la cittadinanza a pagare. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grandi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che finì per provocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su un’ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolorosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsi. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Tentò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le condizioni ottimali per il suo lavoro. Per poter continuare a dare. Per poter continuare ad amare. Fu accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Menzogna! Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il lavoro di dieci anni. E Falcone lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come lo era sempre stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore, e tutti si accorgono di quale dimensione ha questa perdita. Anche che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato hanno perso il diritto di parlare. Nessuno tuttavia ha perso il diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne, è vivo nello spirito, come la fede ci insegna; le nostre coscienze, se non si sono svegliate, devono svegliarsi! La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal sacrificio della sua donna, dal sacrificio della sua scorta. Molti
  • 34. 34 cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia nelle indagini concernenti la morte di Falcone. Il potere politico trova, incredibilmente, il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupidi pretesti accademici. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro, occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti per tutti noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera; facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso i benefici che potremmo trarre (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia: troncando immediatamente ogni legame d’interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona portatrice d’interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito. Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.
  • 35. 35 La “vera” primavera di Palermo Dopo la morte di Falcone e di Borsellino i cittadini fecero sentire la loro voce, nacquero fondazioni intitolate ai due giudici. Ancora oggi sono infaticabili, Maria Falcone, Salvatore e Rita Borsellino, che incontrano i ragazzi, in Sicilia e nel resto d'Italia per raccontare, come diceva Giovanni Falcone, che “la mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. In via d'Amelio e in via Notarbartolo davanti a quella che fu la casa di Falcone, ci sono due alberi: hanno il tronco coperto di foglietti, disegni, pensieri, poesie, fotografie di chiunque voglia lasciare una testimonianza, per ricordare ogni giorno che la morte dei due giudici non è avvenuta invano. La stagione delle stragi continuò, così come i depistaggi nelle indagini, gli accordi segreti tra la mafia ed esponenti corrotti delle istituzioni; ma qualcosa cominciò a cambiare. Furono inviati in Sicilia ventimila soldati a proteggere sia i giudici sia i cittadini, arrivò un nuovo procuratore della Repubblica, Gian Carlo Caselli, nel 1993 fu arrestato Totò Riina, il cosiddetto "capo dei capi", e poi uno dopo l'altro gli altri capi mafiosi. Si moltiplicarono le testimonianze dei pentiti, i processi andarono avanti. Per molto tempo ci fu la Nave della Legalità: migliaia di studenti presenti ogni anno a questa manifestazione furono il simbolo della voglia di costruire un patto tra le istituzioni, le scuole e il resto della società civile contro tutte le mafie. Cambiò anche il corso della politica italiana. A cominciare dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica avvenuta quarantotto ore dopo l’eccidio, e senza l’esplosione chissà quanto si sarebbe andati avanti e con quali risultati. Le conseguenze del terremoto, quasi uno tsunami, si trascinano ancora oggi con le polemiche sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia avviata tra una bomba e l’altra, e con indagini che anziché chiarire i punti oscuri sembrano indicare ogni volta nuovi buchi neri. Gli esecutori
  • 36. 36 materiali della strage sono stati in gran parte individuati, manca ancora qualche frammento che i magistrati stanno tentando di colmare dopo le ultime dichiarazioni di due nuovi pentiti, ma i veri mandanti restano ancora oscuri. E’ bene non dimenticarlo, nelle commemorazioni che giustamente illustreranno i successi del giudice antimafia per eccellenza, e ne tesseranno le lodi. Perché è vero che è “beato quel Paese che non ha bisogno di eroi”, ma ancora più beato sarebbe quel Paese che non ha bisogno di eroi celebrati solo dopo la morte, mentre in vita erano disconosciuti e osteggiati.
  • 37. 37 IV L'incontro con Paolo Borsellino Era la seconda decade di luglio del 1991 ed ero alle prese con il mio grande amore: l'esame di diritto penale, (circa 3500 pagine, titolare della cattedra il “terribile e severissimo” prof. Vincenzo Scordamaglia), quando lessi in una locandina affissa in un famoso bar a Termoli che sarebbe venuto a Trivento Paolo Borsellino per parlare di mafia e politica. Non potevo mancare, così domandai la macchina di famiglia a mio padre sperando non gli servisse. Mi avviai da solo con la “mitica” 127 blu scolorito - odorava di terra e a volte al suo interno germogliava persino il grano (mio padre era agricoltore) nella canicola di luglio (forse 38° circa) - per arrivare puntuale a Trivento. Nelle curve ogni tanto la macchina stentava ma arrivai in tempo. L’incontro era all’aperto e l'aria era fresca, lui era già arrivato ed era seduto a un tavolo tutto bianco con accanto il suo pacchetto di MS e con la sigaretta accesa in bocca. Pochi i giovani presenti, cosa che lui evidenziò, poi cominciò subito a parlare di legalità e di rapporti tra mafia e politica. La sua cadenza era lenta
  • 38. 38 ma efficace e piena di spunti di riflessione. Ero felicissimo perché mi stava facendo scoprire cose su cui ogni italiano avrebbe dovuto riflettere. Subito fece un’affermazione che io condivido pienamente e il succo era più o meno questo: argomentò come il rapporto tra il politico e il mafioso era spesso falso e si espresse più o meno come avrebbe fatto di li a poco anche attraverso i media: “perché si dice quel politico era vicino a un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto”. Per lui questo non era un assioma, anzi era esattamente il contrario. Affermò che il ruolo della magistratura era specifico mentre la politica aveva maggiori poteri per poter espellere al suo interno i collusi e i contigui con la mafia. I politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni pubbliche dovrebbero agire con energia e trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che seppur non costituissero reato rendevano, di fatto, il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Queste esigenze non sono state mai realizzate perché ci si è nascosti dietro lo schermo della pronuncia giudiziale: “Tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto”. Per Borsellino questo discorso non reggeva in una democrazia, dove i partiti politici avrebbero dovuto e potuto fare pulizia profonda al loro interno. Chiuse il suo intervento, bersagliato da tantissime domande, con la frase poi divenuta famosa: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. Le domande erano assolutamente libere e non concordate così anch’io feci la mia: “dottor Borsellino lei teme per la sua vita?”. La sua risposta seguita quasi da un ghigno fu più o meno la seguente: “Si. Temo per la mia vita e soprattutto per quella delle persone che mi sono vicine, dai miei familiari agli uomini della mia scorta. So che la mafia vuole la mia morte come quella del mio fraterno amico Giovanni Falcone ma penso che se
  • 39. 39 moriremo non sarà solo per volere della mafia ma per una serie di concause che vanno dal nostro isolamento fino alla complicità delle istituzioni colluse e corrotte”. Vi fu un lungo silenzio, la mia fu l’ultima domanda. Mi alzai e mi diressi verso di lui come tutti i presenti, gli strinsi la mano, ricordo che la sua presa era molto forte, lui mi sorrise poi accese una nuova sigaretta e si diresse verso l'auto di Stato che lo stava aspettando. Mi rimase impresso il fatto che si fermò per stringere la mano a tutti, nessuno escluso. Notai anche che fumò durante tutto il convegno a volte accendendo la sigaretta nuova con quella appena finita. Fu una giornata memorabile che ancora oggi resta stampata nella mia mente e che mi guida e m’induce a riflettere ogni giorno soprattutto sugli attuali rapporti tra mafie e politica. La lezione di Borsellino: i rapporti mafia-politica Le idee di Borsellino di allora sono ancora attualissime oggi. La simbiosi tra mafie, politica ed economia attualmente è presente in molti settori produttivi nazionali con grande prevalenza nel settore degli appalti pubblici e delle pubbliche sovvenzioni statali ed europee. I predetti legami servono alle mafie soprattutto per condizionare le scelte degli amministratori che sovrintendono le procedure pubbliche, instaurando in tal modo un circuito per lo scambio di favori illeciti. La politica, da un lato, garantisce affari e profitti alla criminalità organizzata, dall’altro, quest’ultima assicura la disponibilità di voti necessari per essere eletti ai politici collusi. Mafia e politica, sotto questo profilo, si sostengono e si garantiscono a vicenda. Il terreno d’incontro è la corruzione e il profitto economico. Per i mafiosi, le enormi quantità di denaro a disposizione costituiscono anche il mezzo per accedere nella cabina di regia degli enti dello Stato sia a livello centrale che
  • 40. 40 periferico allo scopo di eliminare la possibile concorrenza alle loro imprese e agire in regime di monopolio. In questo contesto, molto preoccupante, occorre domandarsi cosa si può fare per arginare queste situazioni criminose? Una delle azioni da concretizzare, senza tentennamenti, è senza dubbio quella di impedire ai politici e ai burocrati di turno – attraverso una legislazione stringente e una rete di controlli effettiva ed efficace – di dare ai clan mafiosi la possibilità di gestire assunzioni, appalti e altri vantaggi che consentono loro di offrire ai cittadini possibilità di lavoro. E’ indispensabile fare in modo che per ottenere i propri diritti non si debba più ricorrere al mafioso, al politico o imprenditore colluso. Bisogna assolutamente sradicare la convinzione che la mafia garantisca lavoro. Una cosa difficile da realizzare, soprattutto nel Sud d’Italia, dove lo Stato latita da molto tempo. Dalla rottura dei legami mafie-politica-imprenditoria, a mio avviso, comincerà il vero cambiamento, ma, ciò è possibile solo a condizione che nel nostro Paese si comincino a lottare concretamente la criminalità organizzata, la corruzione, l’evasione fiscale e la mala politica. Da esperto della materia posso affermare che l’attuale legislazione è assolutamente insufficiente. La dimostrazione della nostra tesi, ad esempio, risiede nel fatto che l’Italia sia la Nazione più corrotta d’Europa e al tempo stesso quella in cui vi sono meno condanne per corruzione, concussione e abuso d’ufficio. Di certo il virus che sta uccidendo lentamente il nostro Stato in buona parte risiede nell’indebolimento delle norme di controllo, nel depotenziamento del sistema giudiziario e in una burocrazia ferma al secolo scorso priva di trasparenza e di economicità. E’ il mix tra corruzione politica, criminalità organizzata ed economia adulterata il vero cancro della nostra società e non si può continuare a parlare di onestà, di trasparenza e di efficienza in uno Stato che, di fatto, non vuole lottare questi fenomeni così aberranti. Il cittadino dovrebbe comprendere che mafiosi, politici e imprenditori perseguono il profitto fine a se stesso servendosi soprattutto di denaro pubblico,
  • 41. 41 di cui non si riesce nemmeno a tracciare il percorso perché le norme sul riciclaggio sono inefficaci e quelle sull'auto-riciclaggio inesistenti. Le confische patrimoniali, molto temute dai mafiosi, languono e anche questo è un aspetto a dir poco allarmante. In questo scenario catastrofico occorrerebbe una rivoluzione culturale che parta dai giovani sulla scorta di quanto accaduto in passato per combattere la mafia – penso alla “Primavera di Palermo” negli anni novanta – quando una moltitudine di cittadini ebbe il coraggio di scendere in piazza dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio per dire no alla mafia. Ecco occorre una nuova “Primavera di Palermo” ma questa volta senza i tanti morti ed estesa a tutta la Nazione per dire no alle mafie e alla corruzione. L’Italia si gioca una partita importantissima: o affronta i veri problemi che la attanagliano, e che ho descritto in precedenza, o sarà destinata al collasso totale. L'incontro con Antonino Caponnetto Era il 17 febbraio 1995 e grazie all'intercessione di Maria Falcone riesco a contattare e portare a Termoli come relatore sul tema "La lotta alla criminalità organizzata nello Stato di diritto: problemi e prospettive" il Giudice Antonino Caponnetto. A gennaio del 1993 assieme a magistrati, forze di polizia, avvocati e tanti esponenti della società civile avevamo fondato il Centro Nazionale di Studi e Ricerche sulla Prevenzione Criminale “Giovanni Falcone” con presidente onorario proprio Maria Falcone. Caponnetto arriva in una Termoli deserta per le imponenti misure di sicurezza: era ancora Consigliere Capo Istruttore a Palermo. Al suo arrivo gli si fanno avanti tutte le più alte cariche presenti ma lui del tutto inaspettatamente chiede del dottor Musacchio. Oltre ad essere un emerito sconosciuto, ero l'ultimo di una lunga fila oscurato da
  • 42. 42 persone istituzionalmente più importanti di me. Alzo la mano e lui scorre la fila e viene verso di me. Mi disse: “Caro Musacchio, Maria Falcone mi ha parlato molto bene di te... Vieni ... e mi porta verso il panorama marino di Piazza Sant'Antonio, circondati quasi da un esercito di poliziotti e carabinieri. Allora come vogliamo impostare quest'incontro?” E così incominciammo a parlare di come approfondire il tema del convegno. Eravamo io, lui e il vescovo di Termoli di allora. Il Cinema Sant'Antonio è stracolmo e tantissime persone purtroppo restano fuori. Il Convegno procede normalmente. Il sunto può essere dato da una sua massima: “La mafia teme la scuola più della giustizia. L'istruzione taglia l'erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. Ricordo fece una disamina del fenomeno mafioso, fornì l'orientamento necessario per comprendere i legami che essa intrattiene col mondo politico. Lo guardavo estasiato dalla sua dolcezza nell'esporre le sue tesi, poi disse: “a differenza delle organizzazioni puramente criminali, o del terrorismo, la mafia ha come sua specificità un rapporto privilegiato con le élite dominanti e le istituzioni, che le permettono una presenza stabile nella struttura stessa dello Stato”. E che “La mafia è l'estensione logica e la degenerazione ultima di un’onnicomprensiva cultura del clientelismo, del favoritismo, dell'appropriazione di risorse pubbliche per fini privati”. Terminò il suo intervento con un invito:
  • 43. 43 occorre che gli onesti si riapproprino delle istituzioni e della politica! Quest'ultima frase me la ripeté ogni volta che ci incontravamo o che ci sentivamo al telefono. La cena con Caponnetto e sua moglie Elisabetta Terminato il Convegno, era ormai buio, presi coraggio e chiesi al Giudice Caponnetto se voleva cenare con me e la mia famiglia. Mi aspettavo un secco no anche perché aveva già prenotato un albergo in loco e poi lo aspettavano molte delle autorità presenti. La sua risposta fu: perché no? Ma si deve fare carico anche di mia moglie mi disse sorridendo. Mi mise la mano sulla spalla e mi chiese dove andassimo. Li portai a casa dei miei genitori che rimasero a dir poco disorientati. Vidi lo sguardo di mia madre che se avesse potuto mi avrebbe “giustiziato” in loco senza processo. Fu una cena semplicissima (mia madre da buona pugliese in fretta e furia preparò le orecchiette con i pomodorini fatte con la farina del nostro grano e ricordo furono graditissime dalla coppia), oltre alla mia famiglia c'erano tre magistrati miei amici di lunga data. Le sorprese non finirono li. Dopo cena convinsi il dottor Caponnetto a rimanere a dormire in casa per poi ripartire la mattina presto come era in programma. Credo gli fossi particolarmente simpatico. La nostra casa fu presidiata tutto il tempo. I miei genitori cedettero il loro letto matrimoniale ed io ebbi l'enorme privilegio di passare alcune preziosissime ore con chi creò (sull'insegnamento di Chinnici) il pool antimafia di Palermo. I nostri dialoghi Parlammo tanto (onestamente non ricordo tutto) e ho memoria del
  • 44. 44 fatto che rimarcò molte volte di non smettere di ricordare che Falcone e Borsellino diventarono eroi nazionali soltanto dopo la loro morte. Prima - continuò - sono stati continuo oggetto di veleni, sospetti, maldicenze che, tutte insieme, rafforzarono l’intreccio che portò alla loro fine. Mi confermò che furono spesso accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello Stato. Quando, il 21 giugno del 1989 (attentato dell’Addaura) la polizia ritrovò l'esplosivo in un borsone lasciato nella spiaggia antistante alla villa che Falcone aveva preso in affitto, ci fu chi disse che l’attentato il magistrato se lo era organizzato da solo per farsi pubblicità. Si soffermò sugli attacchi durissimi che Falcone ricevette da Leoluca Orlando e ricordò quando Salvatore (Totò) Cuffaro inveì sempre contro Falcone sostenendo che i discorsi sulla mafia che si stavano facendo erano lesivi della dignità della Sicilia. Si ricordò persino un’intervista di Corrado Augias a Falcone nel corso della trasmissione Babele, nel 1992, pochi mesi prima della morte del magistrato. A un certo punto, una delle ospiti in studio ritiene di poter chiedere candidamente al magistrato: “Lei dice che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei è fortunatamente ancora tra noi, chi la protegge?” E Falcone, sconsolato: “Questo significa che per essere credibili bisogna essere ammazzati, in questo Paese?” Mi disse che tutti questi attacchi facevano molto male a Falcone, anche se lui non lo dava a vedere. Mi raccontò della sua mancata nomina, dopo il suo pensionamento, a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli. Il che era legittimo ma sconcertante non con il senno del poi, ma già con quello che avrebbe dovuto guardare ai risultati del maxiprocesso. Tutto il pool antimafia non riusciva a comprendere come fosse possibile sbagliarsi così tanto su Falcone e Borsellino mentre erano vivi! Su Paolo Borsellino mi raccontò che sapeva di essere nella lista della mafia e che il tritolo per lui fosse già arrivato a Palermo. Mi raccontò che Borsellino aveva chiesto già
  • 45. 45 un mese prima della strage alla Questura palermitana di voler disporre la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante all’abitazione della madre. Era affranto e incredulo su questo fatto. Gli domandai della sua frase straziante alle telecamere subito dopo la Strage di via d'Amelio: “È finito tutto!”. Mi rispose che in quel momento avrebbe voluto morire anche lui. Evidenziò il rammarico per quella frase detta in un momento di sconforto e mi disse che quelle parole da allora in poi dovevano essere un motivo in più per farsi coraggio, per riprendere le forze e la speranza, e lavorare sul cambiamento culturale e sulla lotta alla mafia. Caponnetto diventò il primo rappresentante della società civile, girò l’Italia in lungo e in largo per testimoniare nelle scuole la sua esperienza e portare avanti le idee dei magistrati uccisi dalla mafia. Ci sentimmo molte volte, ebbi il privilegio di avere il telefono di casa a Firenze dove se non ricordo male, abitava in Via Baldasseroni e partecipammo insieme ad alcuni incontri soprattutto con gli studenti. Quando ripenso a quei momenti, mi pervade un’enorme sensazione di felicità. Quando il 6 dicembre del 2002 morì in un ospedale fiorentino piansi come quando si perde un familiare. Ancora oggi mantengo la promessa che gli feci e che lui direttamente mi chiese di mantenere. Mi disse: Vincenzo mi devi promettere una cosa... Spero di onorare la mia promessa e mi auguro che da lassù lui mi possa guidare. Quando Falcone inquisì Vito Ciancimino Falcone era sulle tracce di parte del patrimonio illecito di Vito Ciancimino e il suo obiettivo era quello di confiscargli i beni. Sapeva che una delle misure più efficaci contro la mafia oltre alle indagini patrimoniali fosse anche il sequestro e la confisca dei loro beni. Caponnetto mi raccontò, quasi a mo' di favola, talmente era
  • 46. 46 lieve la sua voce, che Falcone aveva scoperto i rapporti tra Ciancimino e alcune banche finalizzati al riciclaggio del denaro sporco. Il “riciclo” consisteva spesso nell’acquisto di immobili all’estero, alcuni dei quali in Canada. Con l'aiuto di alcuni colleghi e delle forze di polizia era riuscito anche a tracciare gli spostamenti di un prestanome che Ciancimino aveva a Palermo. Falcone stava per ordinare il sequestro degli immobili ma fu tradito all’ultimo momento. Causa del tradimento fu un “corvo”, ossia una spia di Ciancimino che, saputo delle intenzioni del magistrato, riuscì ad avvertire per tempo il vero proprietario degli immobili. Questi vendette tutto in fretta e furia, in modo da non poter subire il sequestro. Falcone - sempre secondo Caponnetto - spesso, quando lui era a capo del Pool, era solito dirgli che se le indagini si fossero svolte secondo le previsioni e senza traditori anche all'interno del palazzo di Giustizia, un gran numero d’immobili non solo di Ciancimino ma anche di altri importanti mafiosi sarebbero stati sequestrati proprio a causa della loro origine illecita. Falcone, ma anche lo stesso Caponnetto, spesso parlò anche d’intrighi tra la massoneria con alcuni pezzi delle istituzioni. Questo secondo lui certificava il potere che la mafia possedeva anche in quel periodo estremamente difficile. Il rapporto tra Falcone e Buscetta Tra le tante cose di cui parlai con Antonino Caponnetto vi fu anche la figura del pentito Tommaso Buscetta e il rapporto che con lui ebbe Giovanni Falcone. Per onore di verità, mi disse Caponnetto, Falcone riteneva che Buscetta non si pentì mai, sebbene le sue confessioni furono oro colato e che grazie alle sue dichiarazioni riuscì a decifrare i codici di mafia fino a quel momento ignoti. Falcone riteneva che il primo vero pentito di mafia fosse stato un
  • 47. 47 certo Leonardo Vitale che nel lontano 1973 con gran coraggio denunciò alla polizia Totò Riina, Bernando Provenzano, Michele Greco e Vito Ciancimino. Tommaso Buscetta, invece, non si pentì rispetto ai crimini commessi, piuttosto prese le distanze dall'organizzazione mafiosa di cui faceva parte e di cui non riconosceva più il modus operandi. Prese le distanze da quello che la mafia era diventata con i Corleonesi di Riina, non dalla mafia di cui lui aveva fatto parte. Falcone lo “apprezzava” poiché la guerra tra fazioni mafiose e la vendetta trasversale attuata dai Corleonesi colpì un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Anche due dei suoi otto figli, inoltre, furono vittime della cosiddetta “lupara bianca”, cioè sparirono per non venire mai più ritrovati. Quando arrivai io – mi raccontò Caponnetto – scelsi i magistrati con la maggiore esperienza maturata in campo di processi alla mafia per metterla al servizio della lotta alla criminalità organizzata e spianai la strada a Giovanni Falcone che stimavo e apprezzavo per il suo valore e la sua dedizione al lavoro di squadra. Secondo Caponnetto, Buscetta scelse la strada della collaborazione perché vedeva in Falcone un confessore, un uomo che ispirava fermezza e autorità, un uomo che meritò e conquistò il rispetto del “pentito-non-pentito” Buscetta. Nel 1984 il giudice Falcone volò in Brasile per l'estradizione in Italia di un criminale e ne tornò con un pentito
  • 48. 48 eccellente. Le prime parole che si scambiarono Falcone e Buscetta da “collaboratori” furono queste, dirette dal pentito al giudice: “L'avverto, signor giudice. Dopo quest'interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E' sempre del parere di interrogarmi?”. Falcone non ebbe paura, andò avanti, capì e rimase del parere di interrogare Buscetta. Ascoltò per mesi le sue confessioni senza che nulla si sapesse all'esterno, questo era il patto di fiducia stretto con “don Masino” spesso lo chiamava così. Falcone pose le basi per la più proficua e onesta collaborazione mai avvenuta tra Stato e criminalità organizzata rimarcando sempre che prima di Buscetta si aveva una visione superficiale della mafia. Dopo di lui la mafia ebbe dei nomi, dei volti, delle gerarchie, delle famiglie, dei capi mandamento, dei capi famiglia, dei giuramenti, delle regole, dei simboli, dei codici. La mafia, in Sicilia, aveva un nome, quel nome era “Cosa Nostra”. Falcone disse di Buscetta che fu come un professore che gli insegnava una lingua straniera permettendogli di comunicare con le parole e non più con gesti scimmieschi. Dopo la morte di Falcone, Buscetta lo ricordò così: “Era il mio faro, ci capivamo senza parlare. Era intuito, intelligenza, onestà e voglia di lavorare. Io godevo a parlare con lui”. La morte di Ninni Cassarà Uno dei poliziotti che Falcone adorava per il suo fiuto e la sua dedizione al lavoro investigativo era Ninni Cassarà. Così mentre eravamo vicini al caminetto di casa mia che ardeva a gran forza (era un focolaio dei primi del novecento, enorme) chiesi a Caponnetto di Ninni Cassarà. Ricordò il suo corpo disteso a terra,
  • 49. 49 coperto in un lenzuolo bianco in un lago di sangue e ricordò la faccia di Giovanni Falcone. Laura, sua moglie, solo lei, accovacciata sulle scale accanto al corpo di suo marito ormai esanime. Mi disse che Ninni Cassarà, così come Beppe Montana, Calogero Zucchetto, Roberto Antiochia e molti altri, erano poliziotti in prima linea. Ragazzi di una stagione “straordinaria”, che non si ripeté mai più. Quella mafia che ammazzava e faceva affari, doveva essere contrastata e loro sapevano quello che facevano e gli piaceva farlo. La sensazione che ebbi io, ma anche Falcone e Borsellino, fu che con la morte di Cassarà si fosse alzato il tiro. Ricordò le parole famose di Beppe Montana: “A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà”. Era nella logica di Cosa Nostra ammazzare i poliziotti bravi e inavvicinabili. Antonino Cassarà, detto Ninni, commissario di Palermo, fu uno di questi.
  • 50. 50 La morte di don Pino Puglisi Dopo le stragi in cui morirono Falcone e Borsellino un altro assassinio in terra di Sicilia mi colpì molto: quello di don Puglisi. Fu la risposta e il segnale della mafia agli educatori ritenuti pericolosi: “la mafia sarà sconfitta da un esercito di maestri”. Il pentito Gaspare Spatuzza raccontò che don Pino era un uomo che poteva minare le fondamenta del controllo totale sul quartiere di Brancaccio. “Andava per conto suo a risvegliare le coscienze e ad aiutare le famiglie povere, cosa che facevamo anche noi mafiosi verso i bisognosi”. Il veleno della mafia e il suo antidoto si sfidano ma l'antidoto è molto più potente poiché è una forza semplice e convincente di chi pronuncia parole vissute e le concretizza nella vita di tutti i giorni. Aveva di che disperarsi e rattristarsi, ma sorrideva sempre. Non si trattava di un ottimismo leggero perché poco compromesso con la realtà, ma del sorriso di chi non ignora i problemi e li affronta giorno per giorno nella celebrazione della Messa. Da lì traeva la sua forza quotidiana. Raccontò il suo Vescovo che come Falcone e Borsellino anche lui fosse un lavoratore indefesso. Lavorava con pazienza e costanza, convinto che quel poco avrebbe dato frutto anche in un quartiere come Brancaccio, nel quale portava i ragazzi del liceo a fare volontariato nel Centro pastorale “Padre Nostro”,
  • 51. 51 dove faceva studiare e giocare bambini e ragazzi per “restituire la dovuta dignità a chi ne era stato privato”, perché diceva che “la Chiesa può essere edificata solo pregando e studiando, celebrando e discutendo, amando e lavorando”. Nel suo appartamento, dopo l'assassinio, trovarono più di tremila volumi e un poster che amava mettere in evidenza: un grande orologio senza lancette e la scritta “Per Cristo a tempo pieno”. Cercò di evangelizzare un quartiere ad alto tasso mafioso. Era il primo a dare il buon esempio: la mattina del suo omicidio era andato a chiedere l'ennesimo permesso - sistematicamente ignorato - al Comune per la costruzione di una scuola media. Il giorno in cui lo uccisero aveva celebrato due matrimoni, aveva preparato alcuni genitori al battesimo dei bambini e aveva incontrato degli sposi che desideravano parlargli, oltre ad aver fatto un po' di festa con alcuni amici, essendo il suo compleanno. Era un prete che faceva seriamente il prete, come Falcone e Borsellino svolgevano seriamente il ruolo di magistrati. Non accettava compromessi e vie facili. Imitare questi uomini significa imitare la loro vita ordinaria, il loro lavoro ben fatto, preparato, anche quando è noioso, la cura dei dettagli, il rifiuto della raccomandazione, della chiacchiera maligna contro gli altri, della lamentela inutile. A noi è chiesto di pagare il biglietto, di non copiare i compiti, non comprare lauree, chiedere lo scontrino, conoscere e collaborare con le istituzioni. Per ricordare questi uomini dobbiamo smetterla di sistemarli su piedistalli che li pongono tanto in alto da renderli irraggiungibili, ma dobbiamo farli scendere per le strade, nelle piazze e nei nostri cuori. Falcone e Borsellino “prigionieri” Tra le tante storie, che mi raccontò Antonino Caponnetto, ci fu anche l'esperienza al Carcere dell'Asinara. Di notte sbarcarono
  • 52. 52 sull’isola Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le proprie famiglie. Il trasferimento fu improvviso, rapido, non ci fu nemmeno tempo di fare i bagagli, d’altronde la minaccia, intercettata dai Carabinieri, era grave: un attentato contro i due giudici e i loro familiari partito dai vertici di Cosa Nostra. Come capo del Pool antimafia Caponnetto autorizzò il trasferimento. Era un’estate calda, come non se ne vedevano da tempo, e i due magistrati e le loro famiglie vissero completamente isolati, controllati a vista dalle guardie penitenziarie. Una condizione non facile da sopportare. Lucia, la figlia più grande di Borsellino, non accettò quel “martirio” e dovette essere riportata a Palermo, e Paolo, imponendosi ai suoi superiori, la accompagnò correndo un grave rischio. Quando erano fuori, sentivano spesso cantare una vecchia melodia napoletana e scoprirono poi che a cantarla era Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata. Trascorsero un mese fatto di notti insonni, di sorrisi, di scherzi, di pensieri, una lunga, inaspettata tregua in attesa di riprendere il lavoro, in attesa che il ministero fornisse le carte per continuare la stesura dell’ordinanza del maxiprocesso. Le carte arrivarono, Paolo e Giovanni ricominciarono a lavorare giorno e notte con ritmi a dir poco sovrumani. Nello stesso modo improvviso in cui erano partiti, così all’improvviso dovettero ritornare a Palermo: il maxiprocesso e la loro orribile fine li attendevano. Assurdo nell'assurdo: ai due magistrati palermitani fu notificata in ufficio una fattura da saldare: 415.800 lire a testa per le bevande
  • 53. 53 consumate durante i venticinque giorni all’Asinara. Fu il conto dell’amministrazione penitenziaria, uno dei tanti “regali” dello Stato italiano ai due giudici del pool antimafia. La morte di Paolo Borsellino Paolo Borsellino è stato ucciso un giorno prima che andasse a rendere noto alla Procura di Caltanissetta quel che sapeva sulle “confidenze” del suo amico Giovanni Falcone e quelli che potevano essere i moventi e l'ambito nel quale Falcone era stato assassinato il 23 maggio del 1992 assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della sua scorta. E' quanto emerge dall'ultimo processo in corso per la strage di Via D'Amelio e dove ha deposto la figlia del magistrato, Lucia Borsellino, la quale ha confermato l'esistenza dell'agenda rossa del padre e il fatto che non è stata mai ritrovata. Anche Antonino Caponnetto mi disse che Borsellino, dopo la morte di Giovanni Falcone, attendeva con ansia di essere interrogato dai magistrati della Procura nissena, a tal punto che una volta disse pubblicamente: “io qui non vi posso dire nulla, ciò che ho da dire lo dirò ai magistrati competenti”. Chi sapeva che Paolo Borsellino il giorno dopo sarebbe andato a raccontare la sua
  • 54. 54 verità sulla morte del collega e amico fraterno Giovanni Falcone? Una talpa che sapeva che quel 19 luglio Borsellino sarebbe andato a trovare la madre e che il giorno dopo sarebbe andato a testimoniare a Caltanissetta? Interrogativi che si aggiungono agli altri tanti interrogativi e depistaggi che ruotano attorno alla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino che la Procura di Caltanissetta cerca di risolvere con molte difficoltà. Che Borsellino avesse tante cose da dire sulla morte del suo amico Giovanni Falcone, lo aveva preannunciato il 19 giugno del 1992 quando nell'atrio della biblioteca comunale di Palermo partecipò ad un dibattito pubblico. In quell'occasione Paolo Borsellino profferì le seguenti parole: “In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone, perché avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto come suo amico tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico, anche delle opinioni e delle convinzioni che io mi sono fatto raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria (la Procura di Caltanissetta), che è l'unica in grado di valutare quando queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita”. E che Paolo Borsellino il giorno dopo la sua morte sarebbe andato a testimoniare sull'inchiesta per la strage Falcone l’ha confermato l'allora Procuratore aggiunto di Caltanissetta, Francesco Paolo Giordano, adesso Procuratore di Siracusa dichiarandolo anche a un’udienza del processo. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo
  • 55. 55 L'ultima cosa che ricordo chiesi a Caponnetto prima di andare a dormire riguardò l'amore tra Falcone e Francesca Morvillo. Mi sorrise, per un attimo fu titubante e poi mi raccontò che le ultime parole di Francesca, agonizzante in ospedale dopo l’attentato furono: “Dov’è Giovanni?”. Mi disse che loro due si conobbero e s’innamorarono subito a casa di amici e che la loro storia d’amore non è stata fra le più semplici poiché condannati dalla mafia a non poter restare mai da soli, a dover condividere ogni momento d’intimità con gli agenti della scorta, perfino quello della morte. Ma soprattutto condannati a vivere lontani, lui a Roma e lei a Palermo, insieme solo in quei fine settimana blindati, senza poter andare a cena fuori insieme, a cinema, a teatro o a passeggiare abbracciati sul lungomare siciliano. Nonostante ciò si sentivano spessissimo al telefono e passavano qualche week end insieme. Lei andava a prenderlo all’aeroporto con l’auto blindata e si ritagliavano una normalità. Talvolta uscivano in barca in mare aperto poiché Falcone era diplomato all’accademia navale e con la barca a vela si divertiva molto. A volte avevano una serata a teatro, o al cinema, o a cena fuori. Falcone a Palermo adorava mangiare il pesce. Si raccontavano ogni cosa del tempo trascorso lontani l’uno dall’altra. Insieme, fino e oltre la morte. Quando penso a loro due mi viene in mente un passo della Divina Commedia che ho sempre adorato: “Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona”. Il loro amore è di tale intensità, che anche dopo la morte resiste
  • 56. 56 ancora. L'incontro con Maria Falcone Pochi mesi dopo la morte di Giovanni Falcone, presi contatto con la sorella Maria e ci incontrammo a Roma, dove era invitata a un convegno per ricordare la memoria del fratello. Le dissi dell'associazione che avevamo creato in Molise e le chiesi la firma per diventarne ufficialmente il presidente onorario: accettò. Poi parlammo un po' e mi disse della grande paura per le prime inchieste delicate del fratello soprattutto da quando iniziò a lavorare con Rocco Chinnici che gli affidò alcune delle più complicate inchieste di mafia. Una volta glielo dissi pure: "Giovanni ma chi te lo fa fare?" E lui le rispose: "Si vive una volta sola". Così come Caponnetto anche Maria Falcone mi confermò che il fratello soffriva per i continui attacchi dei colleghi. Lo faceva stare male l'invidia che sentiva attorno a se. Ma ha sempre avuto un alto senso del dovere e per questo non ha mai esitato ad andare avanti. Amava tantissimo una frase di Kennedy, trovata scritta in un aeroporto: “Occorre compiere sino in fondo il proprio dovere, costi quel che costi, perché nel compimento del dovere sta la radice della dignità umana di ciascuno” e su questi ideali ha improntato la sua vita, pur consapevole che lo avrebbe portato alla morte. Ciò che più temeva era che con la sua morte tutto sarebbe finito e che nessuno avrebbe più portato avanti le sue idee. La sua morte, invece, ha quasi stanato le complici omertà costringendo la gente a schierarsi, o con lui e il suo senso della giustizia e delle regole, o con i mafiosi. Grazie a lei portai in Molise Caponnetto e tanti altri illustri personaggi dell'antimafia.
  • 57. 57 Il ricordo di Giuseppe Costanza Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992, era a Capaci a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria. La sua testimonianza resa agli studenti di Portocannone con la Scuola di Legalità l'8 ottobre 2016. I ragazzi gli chiedono un ricordo del “dottore” così lo chiamava lui e comincia a raccontare. Ci dice subito che una settimana prima di Capaci il dottor Falcone gli disse che sarebbe stato nominato di lì a breve procuratore nazionale antimafia. Lo disse con grande gioia e soddisfazione e con il suo solito sorriso. Ho pensato subito – continua Costanza – che se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone gli disse che all'Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli e che con questi e altri poteri che avrebbe potuto avere, la mafia poteva essere combattuta efficacemente. Ci racconta poi che Falcone gli chiese di preparare una Fiat Uno per potersi muoversi liberamente, senza scorta, nella capitale. Dopo Capaci mi sono fatto questa domanda: “se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Perché Capaci?” Lui un'idea c'è l'ha: non si tratta solo di una strage
  • 58. 58 di mafia! Ci ricorda che il 23 maggio del 1992 Falcone lo chiamò a casa, alle 7, e gli comunicò l'orario di arrivo. Lui allertò la scorta. “Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo”. Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: “Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare”. Lui rispose: “Scusi, scusi” e reinserì le chiavi. In quel momento, l’esplosione. Non ricordo altro. Dallo sconforto del racconto (commosso) ci dice: “ragazzi credetemi, era meglio morire”. Avrei fatto parte delle vittime che sono ricordate ma che non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Continua a raccontarci dei presunti “amici di Falcone” di oggi che allora non esistevano affatto e ci ribadisce che gli unici suoi veri amici erano quelli del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un chiacchiericcio. Io lo ricordo come un motore trainante, un caterpillar. Lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrello per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone. A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze. Ormai il 23 maggio mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non sono nemmeno considerato. Questa cosa mi fa ancora male.
  • 59. 59 V L'educazione alla legalità entra nella mia vita Dopo la lettera di Falcone che illuminò il mio cammino, arrivarono le prime soddisfazioni. Nel 1994 vinsi una borsa di studio per la specializzazione biennale al Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna presso l'Istituto di Ricerca sui Sistemi Giudiziari diretto dal Prof. Giuseppe Di Federico. Approfondii molti temi riguardanti l'organizzazione giudiziaria e la lotta al crimine organizzato. Un anno prima nella nascente Facoltà di Giurisprudenza del Molise avevo vinto il concorso per titoli riguardante la docenza a contratto di diritto penale. Fui il più giovane professore a contratto d'Italia per quell'anno. Non vi fu mai lezione in cui la lotta alle mafie e le figure di coloro che le lottarono pagando con la loro vita non fossero parte integrante dei nostri dialoghi e confronti in aula. Ricordo che spesso organizzavamo seminari estivi fuori dall'Università in paesini di montagna spopolati per la fuga dei giovani in terre del nord. In particolare ne ricordo uno tenuto a Pescopennataro paesino di circa trecento anime in provincia di Isernia in mezzo ad un bosco in prossimità di un ruscello con un’acqua imbevibile tanto era fredda. Eravamo una ventina di ragazzi, parlammo di legalità, di corruzione e di lotta al crimine organizzato. Ricordo che partimmo proprio da un pensiero di Giovanni Falcone: “La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. Poi, con i ragazzi quasi sbigottiti citai un certo Giorgio Gaber parlando di libertà intesa come partecipazione e di legalità
  • 60. 60 intesa come impegno personale. La legalità rimarcai ai ragazzi attenti e silenziosi è un'esigenza fondamentale della vita umana per promuovere il pieno sviluppo dell'individuo e il perseguimento del bene comune. La legalità non è un valore in quanto tale: è un percorso che parte dal singolo per arrivare alla collettività. Le regole funzionano se incontrano persone consapevoli, responsabili, capaci di distinguere, di scegliere, di essere coerenti con quelle scelte. Il rapporto con le regole non può essere solo di adeguamento, tanto meno di convenienza o paura. La regola parla a ciascuno di noi, ma non possiamo circoscrivere il suo messaggio alla sola esistenza individuale: in ballo c'è il bene comune, la vita di tutti, la società. L'educazione alla legalità si colloca allora nel più ampio orizzonte dell'educarci insieme ai rapporti umani, con tutto ciò che questo comporta: capacità di riconoscimento, di ascolto, di reciprocità, d'incontro, di accoglienza. La cultura e la conoscenza sono il cibo di cui si nutre la legalità. Ricordai loro cosa mi aveva detto Caponnetto in più occasioni. Il suo impegno per la giustizia non è finito con la carriera di magistrato. Dopo essere andato in pensione, ha iniziato a girare l'Italia per dare voce a una memoria da trasformare in impegno, e trasmettere ai giovani il senso di una legalità da costruire a partire dalle nostre scelte quotidiane, dalle piccole cose. Conclusi con una frase mia: “Se vogliamo lottare il crimine e fare della legalità la nostra ragione di vita il segreto è il nostro impegno personale”. Quel giorno resta indelebile nella mia memoria ed ebbi una grande soddisfazione alcuni anni dopo: una di quelle ragazze si laureò con me discutendo la tesi sul riciclaggio di denaro sporco e oggi è un apprezzato magistrato. Mia figlia Isabella di soli sei anni ha vissuto con me tante esperienze legate alla legalità ed è felice di avere sei nonni: quelli paterni, quelli materni e Falcone e Borsellino. Li riconosce appena li vede, dall'età di tre anni, e quest'anno per la prima volta ha potuto appendere nell'Albero Falcone, grazie alla Fondazione di Palermo, un suo disegno
  • 61. 61 raffigurante i due magistrati inseparabili. Gli scritti in memoria di Giovanni Falcone La morte di Falcone è ancora viva nel mio cuore e allora con gran forza d'animo decido di intraprendere un progetto molto ambizioso e difficile da realizzare: coordinare un insieme di scritti in memoria del giudice assassinato. Siamo nel 1996. Estendo gli inviti a tantissime persone, colleghi, amici e esperti della materia. I primi a rispondere furono Francesco Saverio Borrelli, Procuratore Capo della Repubblica di Milano (mente di Mani Pulite); Giuliano Vassalli, Presidente emerito della Corte Costituzionale e amico di Falcone in vita; Ettore Gallo, Presidente emerito della Corte Costituzionale; Pino Arlacchi, all'epoca Segretario Generale Aggiunto dell'ONU, amico e diretto collaboratore di Falcone; Gianni De Gennaro, all'epoca Capo della Polizia e diretto collaboratore di Falcone; Ferrando Mantovani, Ordinario di diritto penale a Firenze, uno dei maggiori penalisti viventi; Luigi Conti, Presidente della Corte di Appello di Torino e allievo di Antolisei. Quando chiusi il gruppo di lavoro, rilevai due fatti: il primo, la felicità nel dedicare alla memoria di Falcone alcuni scritti unici e sentiti profondamente dagli autori; il secondo, l'alto numero di rinunce con le scuse più grossolane. Ricordo ci fu una persona, che
  • 62. 62 ritenevo fosse amico di Falcone, ma poi grazie ad amici scoprii che non lo era affatto, che mi disse di non poter partecipare perché doveva aiutare il figlio a elaborare la tesi di laurea. Il lavoro vide la luce un anno dopo sia in cartaceo sia nella versione telematica. Fu un successo con oltre 5000 copie, in gran parte regalate e circa 100.000 download. Il Centro Studi e Ricerche “Giovanni Falcone” Era il 1993, io, un sacerdote, don Giuseppe de Virgilio, tre magistrati, la dr.ssa Margiolina Mastronardi, il dr. Liberato Paolitto, la dr.ssa Viranna Antonelli e un commissario di Polizia, la dr.ssa Augusta di Giorgi, fondiamo questo Centro per ricordare la memoria di Giovanni Falcone. L'associazione culturale lavorerà per quasi vent'anni. I primi dieci con grandissimi risultati. Maria Falcone sarà il Presidente onorario e grazie a lei potemmo realizzare tante iniziative di alto spessore culturale. In quasi tutte le manifestazioni ci fu sempre la presenza delle scuole. Tra i partecipanti alle nostre iniziative culturali all'insegna della legalità ci furono grandi personalità come Giuliano Vassalli che ci parlò del ruolo della pena e dell’idea di rieducazione del condannato; Ettore Gallo, che ci fece una memorabile lezione sulla Costituzione italiana; Giancarlo Caselli che ci parlò di lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata; il giudice Antonino Caponnetto, che ci incantò con le sue teorie sulla lotta alle mafie; Massimo Severo Giannini, che ci parlò del ruolo della pubblica amministrazione nello Stato di diritto e tantissime altre persone. Grazie all'impegno di tutti almeno per una decina d'anni, fino al 2002 il nostro Centro portò l'educazione alla legalità in tutta la società civile dell'epoca con particolare predilezione verso i giovani.
  • 63. 63 La mia missione: l'insegnamento Insegnare è un lavoro bellissimo, ogni volta che inizio una lezione di diritto penale mi rendo conto che non è un lavoro ma un arricchimento personale che non cambierei con nient’altro al mondo tanto che completa e realizza la mia voglia di comunicare con l'altro. Proprio quando parliamo dell'uomo, del crimine, della pena, delle regole, mi rendo conto di essere un riferimento per le giovani generazioni. Caponnetto mi rimarcava sempre quanto ci fosse bisogno d’insegnanti capaci di dare un senso alla scuola, allo studio e alla cultura, senza ridurre tutto alla sola trasmissione di conoscenze pragmatiche ma puntando a costruire una relazione con ciascuno studente, che deve sentirsi parte di un progetto culturale. Ho sempre lavorato in questa direzione insegnando non solo i contenuti di una materia, ma anche i valori della vita e della persona umana. Ho provato a far comprendere quali sono i valori che creano vivibilità nella società civile, educando alla legalità e facendo rifiutare il puzzo del compromesso. Il mio è stato ed è tuttora un impegno con il futuro di ogni studente, un impegno per la loro libertà, per la loro coscienza, per la loro formazione. Gli
  • 64. 64 ostacoli sono stati tantissimi ma ho sempre cercato di dare ai ragazzi la possibilità di scegliere consapevolmente. Sono stato spesso isolato dall'ambiente accademico ma ho sempre avuto il supporto degli studenti e dei loro genitori con cui sono riuscito non di rado a condividere il mio lavoro educativo costruendo in alcuni casi relazioni umane durature, perché i ragazzi oggi hanno bisogno di esempi, di riferimenti, di umanità. Per quanto ho potuto ho cercato di dar loro i riferimenti tra le vittime della criminalità organizzata. Ho svolto le mie lezioni, affrontando sempre i problemi che s’incontrano nel quotidiano. Ho cercato di far comprendere che la legalità chiama in causa la responsabilità individuale e quella collettiva nella miriade di azioni quotidiane e di scelte che ognuno di noi si trova a compiere. Il mio compito è stato proprio quello di sollecitare la partecipazione e la discussione. Per uscire da un circuito d’illegalità, a volte è sufficiente prendere coscienza di quanto ci ruota intorno, essere vigili su dinamiche che ci appaiono poco chiare, non tacere, interrogarsi, far sentire la propria voce, non essere passivi, la criminalità organizzata va costantemente alla ricerca del consenso tanto che ogni giorno si sente qualcuno dire che le mafie, in fondo, danno lavoro dove lavoro non c’è. Nulla di più falso. Le mafie da qualsiasi prospettiva si analizzino sono e restano il male assoluto. Scrivo di nuovo a Giovanni Falcone Dopo cinque lustri, nel mio cuore si accende una spia che segnala al cervello il seguente diktat: devi scrivere di nuovo una lettera al giudice Falcone. Non ci penso due volte e comincio: Caro Giudice Falcone, sono passati quasi ventiquattro anni dall’ultima volta che le scrissi e oggi come allora, sento la necessità e soprattutto ritrovo lo spirito per scriverle nuovamente. Purtroppo, so già che questa