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Storia di Siena
Dalla nascita della Repubblica fino alla prima metà del Duecento.
La Repubblica di Siena nacque nel 1125, anno in cui venne deposto il Vescovo,
allora a capo della città e del contado attorno ad essa. Fu nominato un governo
consolare per amministrare lo Stato nel suo primo periodo: nel 1125 la carica
di Consul Saenensis fu attribuita a Manco.
Dal 1147 in poi si hanno notizie di regolari elezioni di Consoli; nel 1179 il
Comune di Siena era compiutamente costituito.
Convenzionalmente è indicato il 1186 come l'anno del riconoscimento ufficiale
del nuovo Stato da parte del Sacro Romano Impero, anno in cui l'Imperatore
Federico Barbarossa concesse la possibilità di battere moneta e di eleggere
liberamente i consoli.
L’espansione di Siena fuori dalle mura (con la spinta verso il castello di Staggia,
le miniere d’argento di Pontieri, Poggibonsi – chiamata Poggio Bonizio – e la
Val d’Elsa) provocò il primo scontro con Firenze (1141). Nel 1197, i Senesi
aiutarono i Fiorentini nella presa di Semifonte (1202), ma per contestazioni di
confini le due città entrarono di nuovo in conflitto.
Al governo dei consoli, rappresentanti delle famiglie nobili, dal 1199 si sostituì
il podestà (il primo fu Malapresa da Lucca).
Sconfitti dai Fiorentini a Montalto della Berardenga (1207), i Senesi dovettero
rinunciare a Montepulciano e Montalcino, allargandosi però in Maremma; nel
1224 fu conquistata Grosseto.
Nel 1228 S. entrò nuovamente in guerra con Firenze, fino all’intervento di papa
Gregorio IX nel 1234.
A moderare l’autorità del podestà e delle grandi famiglie, nel 1236 fu istituito
un consiglio, detto Eccelso Concistoro, al potere fino al XV secolo.
Nel 1252 fu creato il capitano del popolo, che aveva il compito di vigilare i
nobili, amministrare la giustizia criminale e dirigere le compagnie militari dei
terzieri della città; al podestà rimasero solo l’autorità giudiziaria e il comando
degli eserciti in guerra.
Vita quotidiana a Siena nel Duecento
(testo rielaborato e adattato a partire dal libro di Lodovico Zdekauer, La vita
privata e pubblica dei senesi nel Dugento, Arnaldo Forni Editore)
INTRODUZIONE
Per descrivervi la vita d'ogni giorno di questi antichi, bisognerebbe che
disegnassi anzi tutto la cornice, in cui si incastra il quadro: le strade strette,
fiancheggiate da altissime case, qua e là torri minacciose e superbe, e fondaci
e botteghe oscure e chiese e cappelle; e intorno le mura del piccolo recinto,
merlate e fortificate; e sotto ad esse i fossati e le carbonaie. Si comprende che
i Signori feudali non volessero cambiare i loro castelli, posti in vetta alla collina,
con questa città che sorgeva, sudicia, con le strade anguste e buie, colle gore
aperte, piena di lezzo, affollata d' artigiani, di contadini; ove mancava quel che
era la loro vita: aria e luce; ove incontravano per strada il loro villano, appena
riscattato, e già prepotente. Le loro superbe cavalcate attraversavano solo di
quando in quando la città; e la loro vita non era quella di cittadini. Essi
avevano per occupazione principale i bagordi, i tornei, le feste; lor primi
pensieri gli onori, la guerra, le donne, la caccia, i grassi mangiari, i cavalli, i
cani — ecco i loro piaceri di ogni giorno.
I popolani, siano essi agiati mercanti o poveri artigiani, sono costretti a
passare tutta la loro vita dentro quelle mura cittadine, e vivono per altro scopo
ben differente che non la gloria e le apparenze: vivono per sostentar la vita,
per la loro arte, per i figli, e soprattutto per la patria, che devono difendere
contro quegli stessi signori feudali, non ancora del tutto debellati. E ciò vale
tanto per i banchieri e artigiani e mercanti ricchi — popolo grasso — quanto
per i semplici fanti e operai salariati e poveri: il popolo magro — come si è
voluto chiamarlo con un nome terribilmente espressivo.
IRA E POVERTÀ
L' ira è il grande vizio del secolo; e la ragione ne è chiara. Troppa gente si
trovava forzatamente unita in uno spazio ristrettissimo, in contatto continuo, e
cercava naturalmente di affibbiare la responsabilità dei propri guai al caro
prossimo.
Certamente non avrà contribuito alla mitezza dei costumi il vedere ogni tanto
punire per le strade qualche donna ladra, o veder bruciare in piazza qualche
eretico o falso monetario. La povertà del basso popolo contribuiva a renderlo
insensibile a queste scene, che anzi per esso erano come spettacoli. Frequenti
sono quei piccoli furti, che danno segno della miseria più grave: i furti d' un
treppiede, d' una gonnella, d' un fuso. Il rubare in grande non si usava ancora;
ma il cavare al prossimo quel tanto che fa comodo e che pareva avesse in più,
era non meno usato d'ora. I contadini entravano nei boschi e nelle culture
altrui, per fare legna o per cavarsi il gusto delle frutta padronali; in città invece
e nelle Masse i ghiotti tiravano sui piccioni e rubavano di notte i pesci dai vivai,
che pare allora non fossero rari nelle vigne e nelle culture entro le mura. Tutto
questo certo non è segno di ricchezza.
LE STRADE
I popolani soddisfacevano i loro bisogni per strada, con preferenza verso la
chiesa dei Frati Predicatori e in Piazza del Campo; abitudine questa, della quale
riferisce ancora il Constituto del 1262, condannandola anche se in maniera
poco convinta. Tutto si fa per strada. Tengono per strada il legname da
vendere; caricano per strada i muli; stendono per strada le cuoia da asciugare;
scuotono per strada le vesti e le pelli. Anche i porci girano per le strade, ma
non in Siena soltanto.
Il turpiloquio poi può dirsi una specialità del Duecento; le donne soprattutto
bestemmiano volentieri e sanno trovare certe ingiurie che pungono a sangue.
Una vera passione è quella di gettare dalla finestra i cocci ed altre immondizie.
Le fruttivendole e i pescatori del Lago vendono per strada la loro merce: frutta,
cacio, uova, polli, starne, oche, piccioni; pesci preferiti sono lasche e anguille.
LE ABITAZIONI
Sull'abitazione e sulle vesti dei popolani sono rimaste poche notizie. Noi
sappiamo quel che non avevano; ma di quel che avevano, sappiamo poco o
niente. Cosi è certo, che andassero a letto senza camicia; e che vi dormissero
in due e più.
Sappiamo anche che la mobilia, nelle case anche ricche, consisteva appunto in
un letto immenso e assai basso, con una predella e con le cortine molto
antiigieniche; mentre una tavola a tre piedi, uno scrigno, una panca e un
cassone ferrato o dipinto completavano l'interno. Ma come fossero fatte queste
poche cose, quali le particolari forme e l'arredamento, non si sa.
Molta parte delle case doveva essere di legno; di lì i frequenti incendi, e la
facilità di abbattere tettoie e ballatoi per la venuta di qualche grande
personaggio. Gli incendi sono una delle preoccupazioni maggiori del Comune. I
magistri de lignamine e lapidis formavano un vero corpo di pompieri; ed il
Comune si rendeva garante dei danni e persino della salvezza degli edifici.
Non giurerei che fosse molto diffuso l'uso delle finestre di vetro. Le finestre
erano chiuse colle impannate e colle pelli di pecora, rese trasparenti con olio di
seme di lino. Inoltre potevano serrarsi per mezzo di sportelli, fatti d'un pezzo
solo, e che difendevano non tanto dal sole, quanto dai sassi e da altri
avvertimenti amichevoli. I fornaciari ed i bicchierai, che costituivano un serio
pericolo d'incendio per la città, furono banditi fuori del recinto delle mura.
LA SATIRA E LO SCHERNO
Quel che forse maggiormente dava gaiezza all'ambiente era la satira, alla quale
la gente senese mostrò allora una particolare inclinazione. Il poeta Cecco
Angiolieri è il rappresentante più caratteristico del genere satirico popolare
del Duecento. Fu certo in vista di poeti come lui, che lo Statuto cittadino proibì
le canzoni ingiuriose sotto pena di dieci lire.
Ma la satira non si limitava alla parola; essa si serviva pure del pennello per
esprimere arditamente il suo pensiero. Nel 1264 il Capitano del popolo
condannò alla forte pena di ventocinque lire un pittore, un tale Ventura
Gualtieri, del popolo di S. Egidio, per avere dipinto una lupa (emblema del
Comune) che feriva con la zampa un leone (emblema del Popolo) nella faccia,
in modo che gli si vedeva uscire il sangue dal muso: satira politica delle più
evidenti e che disegna mirabilmente l'indole dei tempi.
LA NOTTE
Dopo l'ora terza di notte tutti si ritiravano; né era permesso di girare per le
strade (ove regnava sovrano un buio profondo), a rischio di esser presi dalla
ronda. Quando nel 1255 si riformò il servizio dei Custodi di notte, si
obbligarono i bottegai ad accendere qua e là qualche lampada a loro spese; ma
in tutto non sono più di cinque o sei. Solo in Biccherna ed innanzi al Carroccio
ardevano a spese del Comune lampade eterne. Ma anche questi Custodi di
notte, giacché nessuno custodiva loro, non facevano sempre il loro servizio con
molto zelo; e nel 1233 una bella notte si addormentarono in sette, per cui
furono condannati tutti alla multa di dodici danari a testa. Quanto si fosse
gelosi di questa custodia di notte lo prova il divieto di mettere alcun fiorentino
tra i custodi.
I privati provvidero in certo modo all'illuminazione, accendendo in strada,
innanzi alle immagini della Madonna, le piccole lampade a olio, che alzavano ed
abbassavano prudentemente dall'interno della casa, come ancora oggi si vede
fare in un certo cantone di San Pietro alle Scale. Accesa la lampada alla
Madonna, neir interno della casa tutti certo si riunivano intorno al focolare, e
mentre fuori imperversava il tramontano, al lume fioco di una candela di sego,
la nonna raccontava ai nipoti le leggende dell' origine di Siena e della strega
Diana, che gli antichi avevano adorato come una dea, e di quel San Galgano,
che fu di certo un patrono di gente forte, quando fissò la spada nella roccia
viva, come narra la sua leggenda.
Finalmente dopo Terza era permesso di gettare dalla finestra tutto ciò che
pareva e piaceva; purché si usasse la precauzione di avvertire con un «Ohe!»
LA SALUTE
Non credo poi che la salute di quelle generazioni fosse straordinariamente
buona. La mortalità era grande e le epidemie facevano strage. La grande
ignoranza in fatto di medicina e di fisica contribuiva molto a questo stato di
cose. Basta pensare che i malati, cacciati durante tutto l'anno dalla città, vi
erano riamessi appunto nei giorni della maggiore affluenza di gente: nella
Settimana santa.
Ad onore sommo di Siena però bisogna dire che assai presto si provvide a
queste necessità della vita colla fondazione dell'Ospedale e con la istituzione di
medici condotti.
Sino dal 1250 il Comune stanziava tra le uscite fisse lo stipendio di un maestro
che insegnasse allo Studio generale Arte medica; e non invano, giacché i feriti
che tornavano dalla battaglia di Montaperti furono curati a spese del Comune.
Una apposita Rubrica del Constituto provvide al caso non infrequente che il
chirurgo facesse difficoltà di ammettere il medico curante, dando ragione a
quest'ultimo, almeno riguardo al consulto.
LA FESTA
La loro allegria, rumorosa e schietta, prende tutti ad un colpo; e allora la festa
viene da sé. Una leggenda antica, che vorrebbe dare un'idea della profonda
concentrazione intellettuale di Dante, racconta che egli, passando per la
piazza di Siena, entrasse in una bottega, e lì, aperto un codice, rimanesse
talmente immerso nella lettura, da non accorgersi della festa che rumoreggiava
in piazza.
Dunque le feste senesi erano celebri per il movimento e la vivacità della folla.
Il Palio è stato descritto da molti, per cui, senza discorrerne, aggiungerò solo
che lo Statuto del 1262 disponeva che nella festa della Madonna di Agosto la
gente di città dovesse andare al Duomo, contrada per contrada, coi ceri accesi:
tutti, anche quelli di fuori, ed eccettuati solo i poveri, i malati e quelli che
avessero inimicizie mortali. E veniva concessa l'impunità per le offese e ferite
arrecate dai fantini e da altri in questi giochi.
Per tre giorni prima e tre giorni dopo si teneva anche mercato in città: ed il
Potestà era obbligato a farlo bandire il primo sabato del mese di Agosto. Il
Palio poi non era l'unico spettacolo per questa gente: il gioco della battaglia fu
proibito fino dal 1262, ma si ripristinò malgrado il Constituto.
Non avevano teatri, seppure non avessero di già (in Duomo o in Piazza) i
Misteri religiosi; ma avevano invece i giullari, ed il giuoco della pugna, e le
feste giorgiane, e ogni tanto un duello giudiziario in piazza.
IL MATRIMONIO
Seguiremo ora il percorso di due sposi novelli, che si preparano a scendere in
piazza, ove il notaro li attende per stendere il contratto matrimoniale. Giacché
anche questo, certo il più solenne atto della vita, si compiva in piazza, appunto
per dargli maggiore pubblicità.
Il corteo partiva da due punti differenti: lo sposo da casa sua, la sposa dalla
casa di suo padre o del suo tutore, accompagnati, ognuno dei due, da non più
di sette amici, più il giudice ed il notaro; in tutto quindi una ventina di per-
sone. Cosi almeno voleva lo Statuto: ma pare che spesso qualcheduno
inciampasse volentieri in una multa per aver oltrepassato quel numero sacrale
di testimoni. In capo al corteo non mancava la musica; e per straforo si
prestavano a questo servizio anche i trombettieri ed i suonatori di nacchere del
Comune, che vedeva di mal occhio questa infrazione alla sua dignità.
Si invitavano di regola anche i giullari. Essi non recitavano solo delle poesie,
ma facevan anche dei giochi e delle burle, spesso arrischiate: per cui, chi in
tale occasione avesse bastonato un giullare, andava immune da pena. Il che
del resto non impediva ai giullari di fare i loro giochi talvolta ancora in chiesa e
di sedere a tavola con i chierici.
Vediamo ora quel che succede in piazza. La sosta in piazza non è lunga, perchè
il notaro ha già preparato da giorni il contratto e lo legge in fretta, alla brigata
impaziente. Dalla Piazza i due cortei, ormai riuniti, si muovono verso la casa
dello sposo. Un pregiudizio popolare antichissimo voleva che la sposa uscisse
dalla casa dei genitori mettendo il piede destro avanti, e cosi anche entrasse in
casa dello sposo. Lì finalmente gli sposi possono ricevere gli amici ed i
congiunti e chi altro lor piaccia, senza temere che alcun venga a contare il
numero degli invitati, per denunciarli, a buon conto, ai Pretori ed al giudice del
Potestà. Qui riceveranno i doni e le felicitazioni degli amici mentre i giullari e le
giullaresse rallegreranno le brigate coi loro scherzi, in attesa dell'ora del
pranzo; e qui li lasceremo tutti, augurando loro una buona digestione del
cavolo col latte di capra, della gru e del pavone ripieno.
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La vita quotidiana a Siena nel Duecento.

  • 1. Storia di Siena Dalla nascita della Repubblica fino alla prima metà del Duecento. La Repubblica di Siena nacque nel 1125, anno in cui venne deposto il Vescovo, allora a capo della città e del contado attorno ad essa. Fu nominato un governo consolare per amministrare lo Stato nel suo primo periodo: nel 1125 la carica di Consul Saenensis fu attribuita a Manco. Dal 1147 in poi si hanno notizie di regolari elezioni di Consoli; nel 1179 il Comune di Siena era compiutamente costituito. Convenzionalmente è indicato il 1186 come l'anno del riconoscimento ufficiale del nuovo Stato da parte del Sacro Romano Impero, anno in cui l'Imperatore Federico Barbarossa concesse la possibilità di battere moneta e di eleggere liberamente i consoli. L’espansione di Siena fuori dalle mura (con la spinta verso il castello di Staggia, le miniere d’argento di Pontieri, Poggibonsi – chiamata Poggio Bonizio – e la Val d’Elsa) provocò il primo scontro con Firenze (1141). Nel 1197, i Senesi aiutarono i Fiorentini nella presa di Semifonte (1202), ma per contestazioni di confini le due città entrarono di nuovo in conflitto. Al governo dei consoli, rappresentanti delle famiglie nobili, dal 1199 si sostituì il podestà (il primo fu Malapresa da Lucca). Sconfitti dai Fiorentini a Montalto della Berardenga (1207), i Senesi dovettero rinunciare a Montepulciano e Montalcino, allargandosi però in Maremma; nel 1224 fu conquistata Grosseto. Nel 1228 S. entrò nuovamente in guerra con Firenze, fino all’intervento di papa Gregorio IX nel 1234. A moderare l’autorità del podestà e delle grandi famiglie, nel 1236 fu istituito un consiglio, detto Eccelso Concistoro, al potere fino al XV secolo. Nel 1252 fu creato il capitano del popolo, che aveva il compito di vigilare i nobili, amministrare la giustizia criminale e dirigere le compagnie militari dei terzieri della città; al podestà rimasero solo l’autorità giudiziaria e il comando degli eserciti in guerra.
  • 2. Vita quotidiana a Siena nel Duecento (testo rielaborato e adattato a partire dal libro di Lodovico Zdekauer, La vita privata e pubblica dei senesi nel Dugento, Arnaldo Forni Editore) INTRODUZIONE Per descrivervi la vita d'ogni giorno di questi antichi, bisognerebbe che disegnassi anzi tutto la cornice, in cui si incastra il quadro: le strade strette, fiancheggiate da altissime case, qua e là torri minacciose e superbe, e fondaci e botteghe oscure e chiese e cappelle; e intorno le mura del piccolo recinto, merlate e fortificate; e sotto ad esse i fossati e le carbonaie. Si comprende che i Signori feudali non volessero cambiare i loro castelli, posti in vetta alla collina, con questa città che sorgeva, sudicia, con le strade anguste e buie, colle gore aperte, piena di lezzo, affollata d' artigiani, di contadini; ove mancava quel che era la loro vita: aria e luce; ove incontravano per strada il loro villano, appena riscattato, e già prepotente. Le loro superbe cavalcate attraversavano solo di quando in quando la città; e la loro vita non era quella di cittadini. Essi avevano per occupazione principale i bagordi, i tornei, le feste; lor primi pensieri gli onori, la guerra, le donne, la caccia, i grassi mangiari, i cavalli, i cani — ecco i loro piaceri di ogni giorno. I popolani, siano essi agiati mercanti o poveri artigiani, sono costretti a passare tutta la loro vita dentro quelle mura cittadine, e vivono per altro scopo ben differente che non la gloria e le apparenze: vivono per sostentar la vita, per la loro arte, per i figli, e soprattutto per la patria, che devono difendere contro quegli stessi signori feudali, non ancora del tutto debellati. E ciò vale tanto per i banchieri e artigiani e mercanti ricchi — popolo grasso — quanto per i semplici fanti e operai salariati e poveri: il popolo magro — come si è voluto chiamarlo con un nome terribilmente espressivo. IRA E POVERTÀ L' ira è il grande vizio del secolo; e la ragione ne è chiara. Troppa gente si trovava forzatamente unita in uno spazio ristrettissimo, in contatto continuo, e cercava naturalmente di affibbiare la responsabilità dei propri guai al caro prossimo. Certamente non avrà contribuito alla mitezza dei costumi il vedere ogni tanto punire per le strade qualche donna ladra, o veder bruciare in piazza qualche eretico o falso monetario. La povertà del basso popolo contribuiva a renderlo insensibile a queste scene, che anzi per esso erano come spettacoli. Frequenti sono quei piccoli furti, che danno segno della miseria più grave: i furti d' un treppiede, d' una gonnella, d' un fuso. Il rubare in grande non si usava ancora; ma il cavare al prossimo quel tanto che fa comodo e che pareva avesse in più, era non meno usato d'ora. I contadini entravano nei boschi e nelle culture altrui, per fare legna o per cavarsi il gusto delle frutta padronali; in città invece e nelle Masse i ghiotti tiravano sui piccioni e rubavano di notte i pesci dai vivai,
  • 3. che pare allora non fossero rari nelle vigne e nelle culture entro le mura. Tutto questo certo non è segno di ricchezza. LE STRADE I popolani soddisfacevano i loro bisogni per strada, con preferenza verso la chiesa dei Frati Predicatori e in Piazza del Campo; abitudine questa, della quale riferisce ancora il Constituto del 1262, condannandola anche se in maniera poco convinta. Tutto si fa per strada. Tengono per strada il legname da vendere; caricano per strada i muli; stendono per strada le cuoia da asciugare; scuotono per strada le vesti e le pelli. Anche i porci girano per le strade, ma non in Siena soltanto. Il turpiloquio poi può dirsi una specialità del Duecento; le donne soprattutto bestemmiano volentieri e sanno trovare certe ingiurie che pungono a sangue. Una vera passione è quella di gettare dalla finestra i cocci ed altre immondizie. Le fruttivendole e i pescatori del Lago vendono per strada la loro merce: frutta, cacio, uova, polli, starne, oche, piccioni; pesci preferiti sono lasche e anguille. LE ABITAZIONI Sull'abitazione e sulle vesti dei popolani sono rimaste poche notizie. Noi sappiamo quel che non avevano; ma di quel che avevano, sappiamo poco o niente. Cosi è certo, che andassero a letto senza camicia; e che vi dormissero in due e più. Sappiamo anche che la mobilia, nelle case anche ricche, consisteva appunto in un letto immenso e assai basso, con una predella e con le cortine molto antiigieniche; mentre una tavola a tre piedi, uno scrigno, una panca e un cassone ferrato o dipinto completavano l'interno. Ma come fossero fatte queste poche cose, quali le particolari forme e l'arredamento, non si sa. Molta parte delle case doveva essere di legno; di lì i frequenti incendi, e la facilità di abbattere tettoie e ballatoi per la venuta di qualche grande personaggio. Gli incendi sono una delle preoccupazioni maggiori del Comune. I magistri de lignamine e lapidis formavano un vero corpo di pompieri; ed il Comune si rendeva garante dei danni e persino della salvezza degli edifici. Non giurerei che fosse molto diffuso l'uso delle finestre di vetro. Le finestre erano chiuse colle impannate e colle pelli di pecora, rese trasparenti con olio di seme di lino. Inoltre potevano serrarsi per mezzo di sportelli, fatti d'un pezzo solo, e che difendevano non tanto dal sole, quanto dai sassi e da altri avvertimenti amichevoli. I fornaciari ed i bicchierai, che costituivano un serio pericolo d'incendio per la città, furono banditi fuori del recinto delle mura. LA SATIRA E LO SCHERNO Quel che forse maggiormente dava gaiezza all'ambiente era la satira, alla quale la gente senese mostrò allora una particolare inclinazione. Il poeta Cecco Angiolieri è il rappresentante più caratteristico del genere satirico popolare
  • 4. del Duecento. Fu certo in vista di poeti come lui, che lo Statuto cittadino proibì le canzoni ingiuriose sotto pena di dieci lire. Ma la satira non si limitava alla parola; essa si serviva pure del pennello per esprimere arditamente il suo pensiero. Nel 1264 il Capitano del popolo condannò alla forte pena di ventocinque lire un pittore, un tale Ventura Gualtieri, del popolo di S. Egidio, per avere dipinto una lupa (emblema del Comune) che feriva con la zampa un leone (emblema del Popolo) nella faccia, in modo che gli si vedeva uscire il sangue dal muso: satira politica delle più evidenti e che disegna mirabilmente l'indole dei tempi. LA NOTTE Dopo l'ora terza di notte tutti si ritiravano; né era permesso di girare per le strade (ove regnava sovrano un buio profondo), a rischio di esser presi dalla ronda. Quando nel 1255 si riformò il servizio dei Custodi di notte, si obbligarono i bottegai ad accendere qua e là qualche lampada a loro spese; ma in tutto non sono più di cinque o sei. Solo in Biccherna ed innanzi al Carroccio ardevano a spese del Comune lampade eterne. Ma anche questi Custodi di notte, giacché nessuno custodiva loro, non facevano sempre il loro servizio con molto zelo; e nel 1233 una bella notte si addormentarono in sette, per cui furono condannati tutti alla multa di dodici danari a testa. Quanto si fosse gelosi di questa custodia di notte lo prova il divieto di mettere alcun fiorentino tra i custodi. I privati provvidero in certo modo all'illuminazione, accendendo in strada, innanzi alle immagini della Madonna, le piccole lampade a olio, che alzavano ed abbassavano prudentemente dall'interno della casa, come ancora oggi si vede fare in un certo cantone di San Pietro alle Scale. Accesa la lampada alla Madonna, neir interno della casa tutti certo si riunivano intorno al focolare, e mentre fuori imperversava il tramontano, al lume fioco di una candela di sego, la nonna raccontava ai nipoti le leggende dell' origine di Siena e della strega Diana, che gli antichi avevano adorato come una dea, e di quel San Galgano, che fu di certo un patrono di gente forte, quando fissò la spada nella roccia viva, come narra la sua leggenda. Finalmente dopo Terza era permesso di gettare dalla finestra tutto ciò che pareva e piaceva; purché si usasse la precauzione di avvertire con un «Ohe!» LA SALUTE Non credo poi che la salute di quelle generazioni fosse straordinariamente buona. La mortalità era grande e le epidemie facevano strage. La grande ignoranza in fatto di medicina e di fisica contribuiva molto a questo stato di cose. Basta pensare che i malati, cacciati durante tutto l'anno dalla città, vi erano riamessi appunto nei giorni della maggiore affluenza di gente: nella Settimana santa. Ad onore sommo di Siena però bisogna dire che assai presto si provvide a
  • 5. queste necessità della vita colla fondazione dell'Ospedale e con la istituzione di medici condotti. Sino dal 1250 il Comune stanziava tra le uscite fisse lo stipendio di un maestro che insegnasse allo Studio generale Arte medica; e non invano, giacché i feriti che tornavano dalla battaglia di Montaperti furono curati a spese del Comune. Una apposita Rubrica del Constituto provvide al caso non infrequente che il chirurgo facesse difficoltà di ammettere il medico curante, dando ragione a quest'ultimo, almeno riguardo al consulto. LA FESTA La loro allegria, rumorosa e schietta, prende tutti ad un colpo; e allora la festa viene da sé. Una leggenda antica, che vorrebbe dare un'idea della profonda concentrazione intellettuale di Dante, racconta che egli, passando per la piazza di Siena, entrasse in una bottega, e lì, aperto un codice, rimanesse talmente immerso nella lettura, da non accorgersi della festa che rumoreggiava in piazza. Dunque le feste senesi erano celebri per il movimento e la vivacità della folla. Il Palio è stato descritto da molti, per cui, senza discorrerne, aggiungerò solo che lo Statuto del 1262 disponeva che nella festa della Madonna di Agosto la gente di città dovesse andare al Duomo, contrada per contrada, coi ceri accesi: tutti, anche quelli di fuori, ed eccettuati solo i poveri, i malati e quelli che avessero inimicizie mortali. E veniva concessa l'impunità per le offese e ferite arrecate dai fantini e da altri in questi giochi. Per tre giorni prima e tre giorni dopo si teneva anche mercato in città: ed il Potestà era obbligato a farlo bandire il primo sabato del mese di Agosto. Il Palio poi non era l'unico spettacolo per questa gente: il gioco della battaglia fu proibito fino dal 1262, ma si ripristinò malgrado il Constituto. Non avevano teatri, seppure non avessero di già (in Duomo o in Piazza) i Misteri religiosi; ma avevano invece i giullari, ed il giuoco della pugna, e le feste giorgiane, e ogni tanto un duello giudiziario in piazza. IL MATRIMONIO Seguiremo ora il percorso di due sposi novelli, che si preparano a scendere in piazza, ove il notaro li attende per stendere il contratto matrimoniale. Giacché anche questo, certo il più solenne atto della vita, si compiva in piazza, appunto per dargli maggiore pubblicità. Il corteo partiva da due punti differenti: lo sposo da casa sua, la sposa dalla casa di suo padre o del suo tutore, accompagnati, ognuno dei due, da non più di sette amici, più il giudice ed il notaro; in tutto quindi una ventina di per- sone. Cosi almeno voleva lo Statuto: ma pare che spesso qualcheduno inciampasse volentieri in una multa per aver oltrepassato quel numero sacrale di testimoni. In capo al corteo non mancava la musica; e per straforo si prestavano a questo servizio anche i trombettieri ed i suonatori di nacchere del
  • 6. Comune, che vedeva di mal occhio questa infrazione alla sua dignità. Si invitavano di regola anche i giullari. Essi non recitavano solo delle poesie, ma facevan anche dei giochi e delle burle, spesso arrischiate: per cui, chi in tale occasione avesse bastonato un giullare, andava immune da pena. Il che del resto non impediva ai giullari di fare i loro giochi talvolta ancora in chiesa e di sedere a tavola con i chierici. Vediamo ora quel che succede in piazza. La sosta in piazza non è lunga, perchè il notaro ha già preparato da giorni il contratto e lo legge in fretta, alla brigata impaziente. Dalla Piazza i due cortei, ormai riuniti, si muovono verso la casa dello sposo. Un pregiudizio popolare antichissimo voleva che la sposa uscisse dalla casa dei genitori mettendo il piede destro avanti, e cosi anche entrasse in casa dello sposo. Lì finalmente gli sposi possono ricevere gli amici ed i congiunti e chi altro lor piaccia, senza temere che alcun venga a contare il numero degli invitati, per denunciarli, a buon conto, ai Pretori ed al giudice del Potestà. Qui riceveranno i doni e le felicitazioni degli amici mentre i giullari e le giullaresse rallegreranno le brigate coi loro scherzi, in attesa dell'ora del pranzo; e qui li lasceremo tutti, augurando loro una buona digestione del cavolo col latte di capra, della gru e del pavone ripieno. http://latestabenfatta.wordpress.com