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NUOVE REGOLE PER IL LAVORO CHE CAMBIA?
di Lorenzo Gaeta*

Sommario: 1. Alcuni “miti d’oggi”. Il mito della fine del (diritto del) lavoro. – 2. Il mito del
mercato globale. – 3. I miti della creatività e della partecipazione. – 4. Il mito della
professionalità. – 5. Il mito dell’autosufficienza e dell’indipendenza. – 6. Il mito della
flessibilità. – 7. Il mito del libero contratto. – 8. Il mito del rapporto a termine. – 9. Il mito del
“posto non fisso”. – 10. Il mito dell’autodeterminazione. – 11. Una soluzione alla
frammentazione sul versante individuale: le tutele modulate. – 12. Una soluzione alla
frammentazione sul versante collettivo: il web (l’ultimo mito?).



1. Alcuni “miti d’oggi”. Il mito della fine del (diritto del) lavoro

Nello scontato richiamo a Roland Barthes, questo contributo vuole passare brevemente in
rassegna alcune affermazioni, ormai acquisite, sullo sviluppo attuale e futuro del diritto del
lavoro, che però raffigurano con ogni probabilità altrettanti “miti”. Quello di partenza è,
naturalmente, il più forte, quasi definitivo.
Evidentemente, le ricorrenze millenarie sollecitano di per sé angosce, timori e
preoccupazioni; varie sette “chiliastiche” predicano la distruzione, la fine, la morte di
qualcosa. Ciò è accaduto anche nel nostro piccolo campo del lavoro e delle relazioni
giuridiche destinate a disciplinarlo. La fine del lavoro, almeno così come lo conosciamo, è
stata predetta con grande autorevolezza, e di conseguenza, sull’onda della progressiva
scomparsa del punto tradizionale di riferimento del diritto del lavoro, sono iniziate varie e
variegate riflessioni critiche sulla progressiva scomparsa della stessa disciplina che ormai
per più di un secolo si è incaricata di apprestare tutele a soggetti – si dice – ora sempre
meno presenti nell’universo delle relazioni produttive e – si continua a dire – sempre meno
bisognosi delle suddette attenzioni.
Tutte queste preoccupazioni vanno lette con un briciolo di saggezza. Anzi, a voler essere
scanzonati, potrebbe dirsi che la nostra materia pare invece attraversare una fase di
sviluppo ipertrofico, se guardiamo ai concorsi universitari degli ultimi tempi, dove
l’accademia giuslavoristica si sta riproducendo a ritmi mai visti prima, ed è quindi ben lungi
dal morire.
Ragionando più seriamente, c’è da preoccuparsi poco anche della pretesa fine del lavoro,
e perciò, di riflesso, del diritto del lavoro (ma se è per questo, è stata decretata anche la
fine della storia, quindi non è proprio il caso di nutrire timori eccessivi). In realtà, sta forse
finendo o esaurendosi (ed è tutto da discutere) “un” diritto del lavoro, quello legato per
nascita e per tradizione culturale all’industria manifatturiera. Ma di diritti del lavoro – intesi
come apparati giuridici demandati a regolare il fenomeno del lavoro – ne sono finiti tanti,
nel corso dei secoli; non ragioniamo da miopi, come se quello industriale sia l’unico diritto
del lavoro possibile. Dobbiamo solo ringraziare la sorte di averci fatto vivere in un
momento di passaggio, quindi particolarmente intenso e fecondo, nel quale declina
(probabilmente) un diritto del lavoro e (probabilmente) ne sta nascendo un altro,
postmoderno, postindustriale, o come altro lo vogliamo definire con espressioni attente
solo a far intuire che si tratta di una cosa che viene dopo un’altra. Dobbiamo, cioè, essere
noi a governare questa sfida di cambiamento della nostra materia, che deve mutare abito,
2. Il mito del mercato globale

Il postmoderno, non solo nel mondo del lavoro, è contrassegnato dalla parabola della
frammentazione. Nel nostro universo, esso si regge su alcuni slogan, vere e proprie parole
d’ordine: ad esempio, piccolo, agile, snello, flessibile, e si potrebbe continuare. La
conclusione è nel senso che davvero il mercato finisce col cambiare il lavoro, da un lato
proprio nella scia di questa diffusa spinta alla frammentazione, dall’altro sotto l’influenza
sempre più pressante e talvolta assolutamente perversa dei processi di globalizzazione:
perciò – ha detto Aris Accornero – il mercato appare “minaccioso”. Il tema meriterebbe di
essere approfondito. In realtà, lo spauracchio dell’innovazione tecnologica sembra
completamente, e finalmente, svanito: si è visto che questa, tutto sommato, non ha
distrutto posti di lavoro, spesso anzi ne ha creati. Una riedizione “elettronica” del luddismo
non c’è stata, e sarebbe risultata assolutamente ingiustificata. Ora lo spettro si riaffaccia,
sotto le vesti, appunto, del mercato flessibile e globalizzato, e stavolta contro di esso si
appuntano gli strali – ora verbali ora più contundenti – dei contestatori post-Seattle. Il
discorso, almeno questa volta, potrebbe risultare leggermente diverso, forse perché
induce cambiamenti all’interno dell’elemento umano, che sono percepiti come una
minaccia non per il fatto in sé di comportare un cambiamento, ma perché il cambiamento
non è partecipato, bensì appare imposto dall’alto, in ossequio a ragioni vaghe e
imperscrutabili. Il discorso coinvolge quello della reale volontà della persona implicata
nella trasformazione del rapporto di lavoro stabile, nonché quello della cosiddetta caduta
dell’aspirazione al posto fisso: ci si ritornerà a tempo debito.



3. I miti della creatività e della partecipazione

La nuova prestazione di lavoro di questi ennesimi “tempi moderni” sarebbe
contrassegnata – lo si è detto ripetutamente – da contenuti più creativi e partecipativi, ma
per converso più veloci e frenetici (con un’immagine molto bella e provocatoria, si è
parlato di recente di contenuti più “femminili”, che può stare a significare, appunto,
maggiore creatività e fantasia, ma che può avere anche un altro non dimenticato
significato negativo: ovvero, più precario, più “mezzo lavoro”).
 Davanti a queste affermazioni, viene però da chiedersi se, e quanto, ci sia ancora di
“alienazione”, in senso giuridico e no, in questa nuova prestazione di lavoro. La creatività,
la responsabilizzazione, la partecipazione del lavoratore continuano a collocarsi sempre
dietro una struttura, questa sì, rimasta tetragona, forse perché è quella che giustifica
davvero i rapporti tra chi detiene il capitale e chi lavora: cioè, il dipendente lavora per altri,
sotto la direzione di altri, ed il prodotto del suo lavoro è destinato ad altri. In una parola, il
rapporto datore-lavoratore non pare granché cambiato, e non c’è rivoluzione tecnologica o
ideologica che tenga. Da questo punto di vista, anzi, le strutture giuridiche (e non solo)
della subordinazione reggono benissimo senza alcun bisogno di maquillage di sorta. Da
Barassi in poi (meglio sarebbe dire da Sinzheimer in poi), esse continuano
indefettibilmente a raffigurare tecnicamente la sottoposizione ad altri. Perciò, di nuovo c’è
solo il mutamento delle modalità esterne (le strutture di potere si sono solo fatte più
raffinate, se si vuol dire “qualcosa di sinistra”): la sostanza della subordinazione è però
rimasta inalterata. La stessa sbandierata maggiore “partecipazione” del lavoratore è
D’altronde, un paese nel quale ogni giorno muoiono quattro persone a seguito di infortuni
sul lavoro pare il giusto scenario per rappresentazioni di questo tipo: e non era affatto
questo il senso dell’elogio della velocità tessuto da Italo Calvino. Dov’è, allora, quella
società dell’ozio creativo, quell’Eden delle “nuove” relazioni di lavoro promessoci da
qualche sociologo forse troppo ottimista, se i ritmi “giusto in tempo” sono più stressanti del
passato? Che guadagno c’è stato, non foss’altro in termini di tranquillità esistenziale, nel
passare dal posto pubblico (magari parassitario) al confucianesimo del lavoro a “qualità
totale” (che, tra l’altro, oblitera un valore fondamentale, quello del conflitto, tipico della
nostra mentalità kantiano-hegeliana di contrasti dialettici)?



4. Il mito della professionalità

 Da tempo si sostiene che il “nuovo” rapporto di lavoro derivante dai mutamenti delle
strutture sociali e produttive sarebbe connotato da una maggiore professionalità.
L’affermazione va molto ridimensionata, solo a riflettere sulla circostanza che l’aumentata
flessibilità, e quindi la maggiore spinta al mutamento stesso del lavoro, comportano per
forza di cose che il singolo lavoratore si fermi per sempre minor tempo in una singola
mansione, passando poi subito ad un’altra. Ciò non lascia il tempo necessario per
acquisire un “mestiere” dignitoso, e la cosa è quanto di più lontano possa esserci dalla
riappropriazione della tecnica, il cui spossessamento è stato uno dei più vistosi effetti della
rivoluzione industriale. Semplicemente, non si ha più la possibilità (o la si ha sempre
meno) di permanere in un lavoro fino ad impadronirsene “professionalmente”.
Naturalmente, quella che ci sta davanti agli occhi è una realtà nella quale ci sono molti più
lavori che in passato, là dove per converso i vecchi lavori tendono a scomparire: è fin
troppo ovvio notare che è sempre stato così (anche se la recente visione di un
ipertecnologico fuoristrada con la scritta “spazzacamino” mi ha fatto ritornare alla mente
un mestiere che pensavo ormai relegato ai ricordi di Mary Poppins). Ma proprio la tanto
sbandierata professionalità rischia di diminuire a vista d’occhio, anche nei mestieri di
punta, quelli più creativi e pieni di knowledge: il “nuovo” lavoratore saprà pure fare tante
cose, ma le saprà fare tutte così così.



5. Il mito dell’autosufficienza e dell’indipendenza

A questo punto, va però introdotto un discorso che rischia di passare per arcaico, ma che
è invece il punto centrale della nostra disciplina: quello dei diritti del lavoro. In effetti, il
tema della flessibilità rischia fortemente di far passare in secondo piano ogni
considerazione sul ruolo che nel nostro sistema normativo rivestono le tutele, facendo
scemare quella “cultura delle garanzie” di cui è innervato il diritto del lavoro industriale (su
cui, anzi, è addirittura nato lo “spirito” di questa materia). Il “nuovo” lavoratore
autosufficiente e indipendente non avrebbe, per ciò stesso, bisogno di tutele pubblicistiche
piovute dall’alto. Sul punto va fatta chiarezza: non si tratta, qui, di patrocinare la garanzia
ad oltranza di un posto di lavoro, o, peggio ancora, di privilegi acquisiti, spesso di tipo
“corporativo”: questa è, piuttosto, la parte deteriore, la degenerazione, del sistema delle
tutele. Si tratta, invece, di partire da un dato fin troppo scontato e semplice, che però
6. Il mito della flessibilità

In realtà, è forte l’impressione che sul capo della persona-cittadino-lavoratore si svolgano
vorticosi cambiamenti a vari livelli: di mercato, di concorrenza, di globalizzazione, di
strutture e articolazioni societarie, e via dicendo; cambiamenti dei quali egli non è, e non
può essere, protagonista consapevole, ma solo – quando va bene – spettatore passivo;
cambiamenti sui quali egli non può minimamente intervenire, né tanto meno che può
pensare di modificare. Perciò, ogni ricaduta dei predetti mutamenti sul rapporto di lavoro
(almeno di chi è già occupato) può dirsi molto più subita che partecipata. Se flessibilità
vuol dire libertà per l’impresa o per l’amministrazione di licenziare, ridurre l’orario o la
retribuzione, ridistribuire i tempi, trasferire, “esternalizzare” a terzi o ad “atipici”, allora ha
probabilmente ragione Luciano Gallino quando afferma che “flessibilità”, in coerenza col
dizionario della lingua italiana, indica la disponibilità a flettersi e a piegarsi, configurando
perciò “la richiesta di non opporsi alle decisioni di un’impresa anche quando esse
promettono, al caso, un peggioramento della qualità del lavoro, o del livello salariale, o
della qualità della vita di colui o colei che si flette oppur si piega”.



7. Il mito del libero contratto

 Piuttosto, la nuova strutturazione dei rapporti di lavoro nell’era postindustriale ci spinge a
proporre qualche riflessione di ordine (ancora) più generale. La ricostruzione di Maine
delle rivoluzioni borghesi come momento che segna il passaggio dallo status (di servo) al
contratto (stipulato dal libero cittadino) è notissima fino al punto di essere diventata
un’acquisizione ormai scontata. Proprio di recente, comunque, Spiros Simitis vi ritornava
con la consueta lucidità, notando come il frutto (o la causa, a seconda dei punti di vista)
principale delle rivoluzioni borghesi, ovvero l’industrializzazione, con la conseguente
giuridificazione delle relazioni di lavoro che essa ha comportato, mano a mano finisce con
l’invertire le premesse incontestabili dell’ordinamento liberale: invece di affermare la
sovranità (formale, beninteso) delle parti, restaura la supremazia di regole imposte dallo
Stato. In questo modo, si assiste ad un’inversione dei termini del ragionamento classico di
Maine: ovvero, si assiste ad un ritorno graduale dal contratto allo status. È, ovviamente, un
nuovo status, del tutto diverso da quello ancien regime, ma è pur sempre la
cristallizzazione dei rapporti (di lavoro) in un involucro, per molti versi rassicurante, di
inderogabili regole statali.
 Ora, però, pare di assistere, quasi stessimo osservando un pendolo, ad una nuova
oscillazione nella direzione del passaggio dallo status (appunto, quello “statale” e
“garantito” di lavoratore subordinato a tempo pieno e indeterminato) al contratto,
liberamente concluso da un soggetto che autonomamente si pone sul mercato. Questo
ennesimo passaggio rischia, però, di descrivere stavolta una mistificazione. Lo si
anticipava e lo si ribadirà in seguito. Per ora, è interessante far riferimento ad un esempio
paradigmatico, non a caso relativo ad uno scenario molto new economy: quello del
telelavoro. Partito come promessa di liberazione del lavoratore subordinato e salutato da
studiosi fin troppo ottimisti come panacea per i mali del lavoro di fine secolo, il telelavoro
sta miseramente fallendo come prospettiva di inquadramento giuridico di una (nuova)
fattispecie: i tentativi di disciplinarlo nel settore privato con lo strumento della
Con il risultato che fin troppo spesso tali soggetti saranno autonomi solo a parole, o
addirittura lo saranno per la presenza occasionali di indici discretivi pensati in tempi
(molto) passati, ma in effetti incarneranno in pieno la figura del soggetto dipendente; solo
che tutti, a cominciare dai lavoratori stessi, saranno convinti di essere autonomi, anche
perché la tecnologia ammanta la prestazione di un’aura di professionalità tale da far
sembrare sconveniente al soggetto stesso ogni paragone con i “classici” dipendenti. Lo
scenario è da fine secolo (XIX, naturalmente), quando i lavoratori a domicilio erano
convinti, anche solo psicologicamente, di essere autonomi per il solo fatto di lavorare a
casa propria. E la stessa riscoperta del libero contratto rischia di ripetere molto uno
scenario di cent’anni fa, quando la tutela antinfortunistica dei dipendenti veniva esclusa
perché niente del genere era stato previsto nel contratto.



8. Il mito del rapporto a termine

Un altro punto verso il quale sono rivolti gli strali dei “flessibilizzatori” è quello della
struttura potenzialmente a tempo indeterminato del rapporto di lavoro tipico, che
provocherebbe una troppo rigida stabilità del medesimo rapporto. L’indeterminatezza
temporale del contratto di lavoro costituisce – com’è noto – un’acquisizione piuttosto
recente del nostro sistema giuridico: essa, infatti, è assolutamente estranea alla mentalità
del nostro codice del 1865, che se da un lato è preindustriale (e quindi attento a
descrivere le poche realtà esistenti di poveri “giornalieri”), dall’altro lato è napoleonico, e
prima ancora giacobino (e quindi ideologicamente animato dal principio illuministico del
divieto del lavoro schiavistico). Ma in realtà, l’indeterminatezza temporale del contratto di
lavoro non significa ovviamente per ciò stesso stabilità: è, infatti, sempre possibile
recedere liberamente dal contratto (siamo, a quel punto, ancora nell’ideologia da
contratto). Il passaggio dalla indeterminatezza alla potenziale immodificabilità (o difficile
modificabilità) definitiva del vincolo lavorativo – che in questo senso è, appunto, un vero e
proprio passaggio dal contratto allo status – avviene, come si sa (e sempre per intuibili
ragioni di consenso), prima durante il giolittismo per i soli impiegati pubblici,
successivamente durante il fascismo per tutti gli impiegati, e infine per tutti: ma siamo già
negli anni ’60. Non è quindi un bersaglio serio quello della struttura astrattamente “a vita”
del rapporto di lavoro (anche perché essa poteva pure essere assicurata tacitamente, e
non necessariamente dalla legge).



9. Il mito del “posto non fisso”

Continuiamo, comunque, a procedere coi piedi di piombo, anche a rischio di sembrare
qualche volta anacronistici. In effetti, come dimostrano recenti indagini, l’erosione del
rapporto di lavoro stabile è ancora molto lontana dal cagionare la loro estinzione. Se
davvero ancora il 90% dei rapporti di lavoro è del tipo “classico”, è forse troppo presto per
parlare di mutamenti epocali, e perciò la morte annunciata del diritto del lavoro dovrà
ancora aspettare un bel po’ prima di realizzarsi. Ha quindi assolutamente ragione chi ha
notato come si tratti di una preoccupazione culturale più che reale.
Ma poi, in fondo, è davvero cosa opportuna scardinare definitivamente questa mentalità
(ovviamente, laddove non sconfini nel parassitismo), quando l’unica alternativa offerta in
luogo di un posto sicuro e intoccabile è una serie di occupazioni disparate, diversificate,
“precarie”, e sempre eterodirette, più veloci, più stressanti, più destrutturate e senza
aspettative? Non è una gran prospettiva, in fin dei conti, passare dal possibile (ma non
sempre tale) ergastolo del “lavoro a vita” al (quasi sicuro) inferno di una “vita di lavori”! E
tutto per rispondere a imperativi ancora una volta esterni alla persona del lavoratore (o
almeno sentiti come tali): oggi la risposta alla globalizzazione, come ieri l’ingresso in
Europa, o l’altro ieri la ripresa economica.



10. Il mito dell’autodeterminazione

Il nodo fondamentale è uno, ed è davvero la scoperta dell’acqua calda: verificare, cioè, se
un cambiamento è voluto veramente dal soggetto (che potrebbe aver piacere o
convenienza reale, ad esempio, a lavorare a tempo parziale) o se invece si tratta di un
mutamento indotto. Basta riandare ancora all’esempio del telelavoro, con la sua spesso
fasulla (auto)determinazione della non subordinazione del soggetto; e il paradigma è
ovviamente generalizzabile. È inutile continuare a dire che il trend va nella direzione di
prestazioni più qualificate, più responsabili, più autodeterminate: quando questo succede
davvero, allora l’ordinamento giuridico, e le persone che vi sono coinvolte (chi lo applica,
chi lo studia e chi lo “subisce”), reagiranno immediatamente espellendo questo oggetto
spurio dal proprio ambito, qualificandolo autonomo e facendo perciò cessare
l’applicazione di tutte le garanzie (quelle reali, non quelle da “portoghesi”) che vi sono
insite per storia e per cultura. Si torna appunto a realizzare un nuovo, ennesimo,
passaggio dallo status al contratto. E lo si realizza con un autentico gioco di prestigio
giuridico, grazie al quale scompare la tutela, che è corrispettivo della sottoposizione ad
altri, mentre questa (quasi sempre) resta tranquillamente.



11. Una soluzione alla frammentazione sul versante individuale: le tutele modulate

Quali possono essere i rimedi escogitabili per una situazione del genere? Come suggerito
ormai da più parti, una strada potrebbe essere quella di attribuire una base di diritti
“leggera e universale” al cittadino-lavoratore, cioè a tutti a prescindere dalla qualificazione
“tecnica” del rapporto, accordando poi caso per caso tutele differenziate, non rigide, con i
più diversi strumenti: la legge, la contrattazione collettiva, quella individuale. Cosa può fare
in proposito il diritto del lavoro, chiamato qui a dare veramente prova della sua rinnovata
vitalità? Come già detto, esso deve dare una mano, da un lato, in termini di garanzia della
libertà di scelta del “tipo”, e dall’altro, soprattutto, deve sdrammatizzare tale operazione,
predisponendo appunto quella regolamentazione a maglie larghe che è la sola a poter
superare ogni residua ingessatura. Non è anacronistico aver timore del ritorno al contratto
(d’opera) e conseguentemente è ingeneroso stigmatizzare quei (residui) giuslavoristi che
vi oppongono qualche resistenza (fermo restando, per inciso, che anche enfatizzando la
dimensione contrattuale all’interno del rapporto di lavoro subordinato si ottengono risultati
non dissimili, nel senso del depotenziamento delle garanzie). Anacronistica è, piuttosto, la
12. Una soluzione alla frammentazione sul versante collettivo: il web (l’ultimo mito?)

 Rimane da riflettere sulle fonti da cui far scaturire le tutele differenziate destinate a
completare ed affinare la base di diritti eguale per tutti. La soluzione migliore appare quella
di una interazione e di una collaborazione “leggera” tra fonti normative e fonti collettive.
Non si tratta della (forse impossibile) unificazione tra ordinamento statale e ordinamento
intersindacale, ma della semplice ricerca di un punto di incontro almeno sul punto della
garanzia delle tutele. L’“autonomia collettiva” di memoria sinzheimeriana va invece
riaffermata, sostenuta e sviluppata in tutto il suo valore antagonistico e propositivo. Ma – ci
si potrebbe chiedere ora con preoccupazione ora con speranza – c’è spazio per il
sindacato e per i prodotti “normativi” della sua attività nel futuro del lavoro?
Indubbiamente, la frammentazione rompe proprio quell’unità e quella concentrazione su
cui il sindacato si è storicamente fondato. Non dimentichiamo, però, che i collegamenti
non sono solo materiali. Il tanto decantato web, la “rete” elettronica globale, ci insegna che
possono svilupparsi nuove aggregazioni e nuove solidarietà, non più fisiche ma virtuali.
Dovremo cominciare a ragionare su queste (sempre che superiamo l’idea che il web non
rappresenti anch’esso un mito, forse il più colossale degli ultimi tempi).

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  • 1. NUOVE REGOLE PER IL LAVORO CHE CAMBIA? di Lorenzo Gaeta* Sommario: 1. Alcuni “miti d’oggi”. Il mito della fine del (diritto del) lavoro. – 2. Il mito del mercato globale. – 3. I miti della creatività e della partecipazione. – 4. Il mito della professionalità. – 5. Il mito dell’autosufficienza e dell’indipendenza. – 6. Il mito della flessibilità. – 7. Il mito del libero contratto. – 8. Il mito del rapporto a termine. – 9. Il mito del “posto non fisso”. – 10. Il mito dell’autodeterminazione. – 11. Una soluzione alla frammentazione sul versante individuale: le tutele modulate. – 12. Una soluzione alla frammentazione sul versante collettivo: il web (l’ultimo mito?). 1. Alcuni “miti d’oggi”. Il mito della fine del (diritto del) lavoro Nello scontato richiamo a Roland Barthes, questo contributo vuole passare brevemente in rassegna alcune affermazioni, ormai acquisite, sullo sviluppo attuale e futuro del diritto del lavoro, che però raffigurano con ogni probabilità altrettanti “miti”. Quello di partenza è, naturalmente, il più forte, quasi definitivo. Evidentemente, le ricorrenze millenarie sollecitano di per sé angosce, timori e preoccupazioni; varie sette “chiliastiche” predicano la distruzione, la fine, la morte di qualcosa. Ciò è accaduto anche nel nostro piccolo campo del lavoro e delle relazioni giuridiche destinate a disciplinarlo. La fine del lavoro, almeno così come lo conosciamo, è stata predetta con grande autorevolezza, e di conseguenza, sull’onda della progressiva scomparsa del punto tradizionale di riferimento del diritto del lavoro, sono iniziate varie e variegate riflessioni critiche sulla progressiva scomparsa della stessa disciplina che ormai per più di un secolo si è incaricata di apprestare tutele a soggetti – si dice – ora sempre meno presenti nell’universo delle relazioni produttive e – si continua a dire – sempre meno bisognosi delle suddette attenzioni. Tutte queste preoccupazioni vanno lette con un briciolo di saggezza. Anzi, a voler essere scanzonati, potrebbe dirsi che la nostra materia pare invece attraversare una fase di sviluppo ipertrofico, se guardiamo ai concorsi universitari degli ultimi tempi, dove l’accademia giuslavoristica si sta riproducendo a ritmi mai visti prima, ed è quindi ben lungi dal morire. Ragionando più seriamente, c’è da preoccuparsi poco anche della pretesa fine del lavoro, e perciò, di riflesso, del diritto del lavoro (ma se è per questo, è stata decretata anche la fine della storia, quindi non è proprio il caso di nutrire timori eccessivi). In realtà, sta forse finendo o esaurendosi (ed è tutto da discutere) “un” diritto del lavoro, quello legato per nascita e per tradizione culturale all’industria manifatturiera. Ma di diritti del lavoro – intesi come apparati giuridici demandati a regolare il fenomeno del lavoro – ne sono finiti tanti, nel corso dei secoli; non ragioniamo da miopi, come se quello industriale sia l’unico diritto del lavoro possibile. Dobbiamo solo ringraziare la sorte di averci fatto vivere in un momento di passaggio, quindi particolarmente intenso e fecondo, nel quale declina (probabilmente) un diritto del lavoro e (probabilmente) ne sta nascendo un altro, postmoderno, postindustriale, o come altro lo vogliamo definire con espressioni attente solo a far intuire che si tratta di una cosa che viene dopo un’altra. Dobbiamo, cioè, essere noi a governare questa sfida di cambiamento della nostra materia, che deve mutare abito,
  • 2. 2. Il mito del mercato globale Il postmoderno, non solo nel mondo del lavoro, è contrassegnato dalla parabola della frammentazione. Nel nostro universo, esso si regge su alcuni slogan, vere e proprie parole d’ordine: ad esempio, piccolo, agile, snello, flessibile, e si potrebbe continuare. La conclusione è nel senso che davvero il mercato finisce col cambiare il lavoro, da un lato proprio nella scia di questa diffusa spinta alla frammentazione, dall’altro sotto l’influenza sempre più pressante e talvolta assolutamente perversa dei processi di globalizzazione: perciò – ha detto Aris Accornero – il mercato appare “minaccioso”. Il tema meriterebbe di essere approfondito. In realtà, lo spauracchio dell’innovazione tecnologica sembra completamente, e finalmente, svanito: si è visto che questa, tutto sommato, non ha distrutto posti di lavoro, spesso anzi ne ha creati. Una riedizione “elettronica” del luddismo non c’è stata, e sarebbe risultata assolutamente ingiustificata. Ora lo spettro si riaffaccia, sotto le vesti, appunto, del mercato flessibile e globalizzato, e stavolta contro di esso si appuntano gli strali – ora verbali ora più contundenti – dei contestatori post-Seattle. Il discorso, almeno questa volta, potrebbe risultare leggermente diverso, forse perché induce cambiamenti all’interno dell’elemento umano, che sono percepiti come una minaccia non per il fatto in sé di comportare un cambiamento, ma perché il cambiamento non è partecipato, bensì appare imposto dall’alto, in ossequio a ragioni vaghe e imperscrutabili. Il discorso coinvolge quello della reale volontà della persona implicata nella trasformazione del rapporto di lavoro stabile, nonché quello della cosiddetta caduta dell’aspirazione al posto fisso: ci si ritornerà a tempo debito. 3. I miti della creatività e della partecipazione La nuova prestazione di lavoro di questi ennesimi “tempi moderni” sarebbe contrassegnata – lo si è detto ripetutamente – da contenuti più creativi e partecipativi, ma per converso più veloci e frenetici (con un’immagine molto bella e provocatoria, si è parlato di recente di contenuti più “femminili”, che può stare a significare, appunto, maggiore creatività e fantasia, ma che può avere anche un altro non dimenticato significato negativo: ovvero, più precario, più “mezzo lavoro”). Davanti a queste affermazioni, viene però da chiedersi se, e quanto, ci sia ancora di “alienazione”, in senso giuridico e no, in questa nuova prestazione di lavoro. La creatività, la responsabilizzazione, la partecipazione del lavoratore continuano a collocarsi sempre dietro una struttura, questa sì, rimasta tetragona, forse perché è quella che giustifica davvero i rapporti tra chi detiene il capitale e chi lavora: cioè, il dipendente lavora per altri, sotto la direzione di altri, ed il prodotto del suo lavoro è destinato ad altri. In una parola, il rapporto datore-lavoratore non pare granché cambiato, e non c’è rivoluzione tecnologica o ideologica che tenga. Da questo punto di vista, anzi, le strutture giuridiche (e non solo) della subordinazione reggono benissimo senza alcun bisogno di maquillage di sorta. Da Barassi in poi (meglio sarebbe dire da Sinzheimer in poi), esse continuano indefettibilmente a raffigurare tecnicamente la sottoposizione ad altri. Perciò, di nuovo c’è solo il mutamento delle modalità esterne (le strutture di potere si sono solo fatte più raffinate, se si vuol dire “qualcosa di sinistra”): la sostanza della subordinazione è però rimasta inalterata. La stessa sbandierata maggiore “partecipazione” del lavoratore è
  • 3. D’altronde, un paese nel quale ogni giorno muoiono quattro persone a seguito di infortuni sul lavoro pare il giusto scenario per rappresentazioni di questo tipo: e non era affatto questo il senso dell’elogio della velocità tessuto da Italo Calvino. Dov’è, allora, quella società dell’ozio creativo, quell’Eden delle “nuove” relazioni di lavoro promessoci da qualche sociologo forse troppo ottimista, se i ritmi “giusto in tempo” sono più stressanti del passato? Che guadagno c’è stato, non foss’altro in termini di tranquillità esistenziale, nel passare dal posto pubblico (magari parassitario) al confucianesimo del lavoro a “qualità totale” (che, tra l’altro, oblitera un valore fondamentale, quello del conflitto, tipico della nostra mentalità kantiano-hegeliana di contrasti dialettici)? 4. Il mito della professionalità Da tempo si sostiene che il “nuovo” rapporto di lavoro derivante dai mutamenti delle strutture sociali e produttive sarebbe connotato da una maggiore professionalità. L’affermazione va molto ridimensionata, solo a riflettere sulla circostanza che l’aumentata flessibilità, e quindi la maggiore spinta al mutamento stesso del lavoro, comportano per forza di cose che il singolo lavoratore si fermi per sempre minor tempo in una singola mansione, passando poi subito ad un’altra. Ciò non lascia il tempo necessario per acquisire un “mestiere” dignitoso, e la cosa è quanto di più lontano possa esserci dalla riappropriazione della tecnica, il cui spossessamento è stato uno dei più vistosi effetti della rivoluzione industriale. Semplicemente, non si ha più la possibilità (o la si ha sempre meno) di permanere in un lavoro fino ad impadronirsene “professionalmente”. Naturalmente, quella che ci sta davanti agli occhi è una realtà nella quale ci sono molti più lavori che in passato, là dove per converso i vecchi lavori tendono a scomparire: è fin troppo ovvio notare che è sempre stato così (anche se la recente visione di un ipertecnologico fuoristrada con la scritta “spazzacamino” mi ha fatto ritornare alla mente un mestiere che pensavo ormai relegato ai ricordi di Mary Poppins). Ma proprio la tanto sbandierata professionalità rischia di diminuire a vista d’occhio, anche nei mestieri di punta, quelli più creativi e pieni di knowledge: il “nuovo” lavoratore saprà pure fare tante cose, ma le saprà fare tutte così così. 5. Il mito dell’autosufficienza e dell’indipendenza A questo punto, va però introdotto un discorso che rischia di passare per arcaico, ma che è invece il punto centrale della nostra disciplina: quello dei diritti del lavoro. In effetti, il tema della flessibilità rischia fortemente di far passare in secondo piano ogni considerazione sul ruolo che nel nostro sistema normativo rivestono le tutele, facendo scemare quella “cultura delle garanzie” di cui è innervato il diritto del lavoro industriale (su cui, anzi, è addirittura nato lo “spirito” di questa materia). Il “nuovo” lavoratore autosufficiente e indipendente non avrebbe, per ciò stesso, bisogno di tutele pubblicistiche piovute dall’alto. Sul punto va fatta chiarezza: non si tratta, qui, di patrocinare la garanzia ad oltranza di un posto di lavoro, o, peggio ancora, di privilegi acquisiti, spesso di tipo “corporativo”: questa è, piuttosto, la parte deteriore, la degenerazione, del sistema delle tutele. Si tratta, invece, di partire da un dato fin troppo scontato e semplice, che però
  • 4. 6. Il mito della flessibilità In realtà, è forte l’impressione che sul capo della persona-cittadino-lavoratore si svolgano vorticosi cambiamenti a vari livelli: di mercato, di concorrenza, di globalizzazione, di strutture e articolazioni societarie, e via dicendo; cambiamenti dei quali egli non è, e non può essere, protagonista consapevole, ma solo – quando va bene – spettatore passivo; cambiamenti sui quali egli non può minimamente intervenire, né tanto meno che può pensare di modificare. Perciò, ogni ricaduta dei predetti mutamenti sul rapporto di lavoro (almeno di chi è già occupato) può dirsi molto più subita che partecipata. Se flessibilità vuol dire libertà per l’impresa o per l’amministrazione di licenziare, ridurre l’orario o la retribuzione, ridistribuire i tempi, trasferire, “esternalizzare” a terzi o ad “atipici”, allora ha probabilmente ragione Luciano Gallino quando afferma che “flessibilità”, in coerenza col dizionario della lingua italiana, indica la disponibilità a flettersi e a piegarsi, configurando perciò “la richiesta di non opporsi alle decisioni di un’impresa anche quando esse promettono, al caso, un peggioramento della qualità del lavoro, o del livello salariale, o della qualità della vita di colui o colei che si flette oppur si piega”. 7. Il mito del libero contratto Piuttosto, la nuova strutturazione dei rapporti di lavoro nell’era postindustriale ci spinge a proporre qualche riflessione di ordine (ancora) più generale. La ricostruzione di Maine delle rivoluzioni borghesi come momento che segna il passaggio dallo status (di servo) al contratto (stipulato dal libero cittadino) è notissima fino al punto di essere diventata un’acquisizione ormai scontata. Proprio di recente, comunque, Spiros Simitis vi ritornava con la consueta lucidità, notando come il frutto (o la causa, a seconda dei punti di vista) principale delle rivoluzioni borghesi, ovvero l’industrializzazione, con la conseguente giuridificazione delle relazioni di lavoro che essa ha comportato, mano a mano finisce con l’invertire le premesse incontestabili dell’ordinamento liberale: invece di affermare la sovranità (formale, beninteso) delle parti, restaura la supremazia di regole imposte dallo Stato. In questo modo, si assiste ad un’inversione dei termini del ragionamento classico di Maine: ovvero, si assiste ad un ritorno graduale dal contratto allo status. È, ovviamente, un nuovo status, del tutto diverso da quello ancien regime, ma è pur sempre la cristallizzazione dei rapporti (di lavoro) in un involucro, per molti versi rassicurante, di inderogabili regole statali. Ora, però, pare di assistere, quasi stessimo osservando un pendolo, ad una nuova oscillazione nella direzione del passaggio dallo status (appunto, quello “statale” e “garantito” di lavoratore subordinato a tempo pieno e indeterminato) al contratto, liberamente concluso da un soggetto che autonomamente si pone sul mercato. Questo ennesimo passaggio rischia, però, di descrivere stavolta una mistificazione. Lo si anticipava e lo si ribadirà in seguito. Per ora, è interessante far riferimento ad un esempio paradigmatico, non a caso relativo ad uno scenario molto new economy: quello del telelavoro. Partito come promessa di liberazione del lavoratore subordinato e salutato da studiosi fin troppo ottimisti come panacea per i mali del lavoro di fine secolo, il telelavoro sta miseramente fallendo come prospettiva di inquadramento giuridico di una (nuova) fattispecie: i tentativi di disciplinarlo nel settore privato con lo strumento della
  • 5. Con il risultato che fin troppo spesso tali soggetti saranno autonomi solo a parole, o addirittura lo saranno per la presenza occasionali di indici discretivi pensati in tempi (molto) passati, ma in effetti incarneranno in pieno la figura del soggetto dipendente; solo che tutti, a cominciare dai lavoratori stessi, saranno convinti di essere autonomi, anche perché la tecnologia ammanta la prestazione di un’aura di professionalità tale da far sembrare sconveniente al soggetto stesso ogni paragone con i “classici” dipendenti. Lo scenario è da fine secolo (XIX, naturalmente), quando i lavoratori a domicilio erano convinti, anche solo psicologicamente, di essere autonomi per il solo fatto di lavorare a casa propria. E la stessa riscoperta del libero contratto rischia di ripetere molto uno scenario di cent’anni fa, quando la tutela antinfortunistica dei dipendenti veniva esclusa perché niente del genere era stato previsto nel contratto. 8. Il mito del rapporto a termine Un altro punto verso il quale sono rivolti gli strali dei “flessibilizzatori” è quello della struttura potenzialmente a tempo indeterminato del rapporto di lavoro tipico, che provocherebbe una troppo rigida stabilità del medesimo rapporto. L’indeterminatezza temporale del contratto di lavoro costituisce – com’è noto – un’acquisizione piuttosto recente del nostro sistema giuridico: essa, infatti, è assolutamente estranea alla mentalità del nostro codice del 1865, che se da un lato è preindustriale (e quindi attento a descrivere le poche realtà esistenti di poveri “giornalieri”), dall’altro lato è napoleonico, e prima ancora giacobino (e quindi ideologicamente animato dal principio illuministico del divieto del lavoro schiavistico). Ma in realtà, l’indeterminatezza temporale del contratto di lavoro non significa ovviamente per ciò stesso stabilità: è, infatti, sempre possibile recedere liberamente dal contratto (siamo, a quel punto, ancora nell’ideologia da contratto). Il passaggio dalla indeterminatezza alla potenziale immodificabilità (o difficile modificabilità) definitiva del vincolo lavorativo – che in questo senso è, appunto, un vero e proprio passaggio dal contratto allo status – avviene, come si sa (e sempre per intuibili ragioni di consenso), prima durante il giolittismo per i soli impiegati pubblici, successivamente durante il fascismo per tutti gli impiegati, e infine per tutti: ma siamo già negli anni ’60. Non è quindi un bersaglio serio quello della struttura astrattamente “a vita” del rapporto di lavoro (anche perché essa poteva pure essere assicurata tacitamente, e non necessariamente dalla legge). 9. Il mito del “posto non fisso” Continuiamo, comunque, a procedere coi piedi di piombo, anche a rischio di sembrare qualche volta anacronistici. In effetti, come dimostrano recenti indagini, l’erosione del rapporto di lavoro stabile è ancora molto lontana dal cagionare la loro estinzione. Se davvero ancora il 90% dei rapporti di lavoro è del tipo “classico”, è forse troppo presto per parlare di mutamenti epocali, e perciò la morte annunciata del diritto del lavoro dovrà ancora aspettare un bel po’ prima di realizzarsi. Ha quindi assolutamente ragione chi ha notato come si tratti di una preoccupazione culturale più che reale.
  • 6. Ma poi, in fondo, è davvero cosa opportuna scardinare definitivamente questa mentalità (ovviamente, laddove non sconfini nel parassitismo), quando l’unica alternativa offerta in luogo di un posto sicuro e intoccabile è una serie di occupazioni disparate, diversificate, “precarie”, e sempre eterodirette, più veloci, più stressanti, più destrutturate e senza aspettative? Non è una gran prospettiva, in fin dei conti, passare dal possibile (ma non sempre tale) ergastolo del “lavoro a vita” al (quasi sicuro) inferno di una “vita di lavori”! E tutto per rispondere a imperativi ancora una volta esterni alla persona del lavoratore (o almeno sentiti come tali): oggi la risposta alla globalizzazione, come ieri l’ingresso in Europa, o l’altro ieri la ripresa economica. 10. Il mito dell’autodeterminazione Il nodo fondamentale è uno, ed è davvero la scoperta dell’acqua calda: verificare, cioè, se un cambiamento è voluto veramente dal soggetto (che potrebbe aver piacere o convenienza reale, ad esempio, a lavorare a tempo parziale) o se invece si tratta di un mutamento indotto. Basta riandare ancora all’esempio del telelavoro, con la sua spesso fasulla (auto)determinazione della non subordinazione del soggetto; e il paradigma è ovviamente generalizzabile. È inutile continuare a dire che il trend va nella direzione di prestazioni più qualificate, più responsabili, più autodeterminate: quando questo succede davvero, allora l’ordinamento giuridico, e le persone che vi sono coinvolte (chi lo applica, chi lo studia e chi lo “subisce”), reagiranno immediatamente espellendo questo oggetto spurio dal proprio ambito, qualificandolo autonomo e facendo perciò cessare l’applicazione di tutte le garanzie (quelle reali, non quelle da “portoghesi”) che vi sono insite per storia e per cultura. Si torna appunto a realizzare un nuovo, ennesimo, passaggio dallo status al contratto. E lo si realizza con un autentico gioco di prestigio giuridico, grazie al quale scompare la tutela, che è corrispettivo della sottoposizione ad altri, mentre questa (quasi sempre) resta tranquillamente. 11. Una soluzione alla frammentazione sul versante individuale: le tutele modulate Quali possono essere i rimedi escogitabili per una situazione del genere? Come suggerito ormai da più parti, una strada potrebbe essere quella di attribuire una base di diritti “leggera e universale” al cittadino-lavoratore, cioè a tutti a prescindere dalla qualificazione “tecnica” del rapporto, accordando poi caso per caso tutele differenziate, non rigide, con i più diversi strumenti: la legge, la contrattazione collettiva, quella individuale. Cosa può fare in proposito il diritto del lavoro, chiamato qui a dare veramente prova della sua rinnovata vitalità? Come già detto, esso deve dare una mano, da un lato, in termini di garanzia della libertà di scelta del “tipo”, e dall’altro, soprattutto, deve sdrammatizzare tale operazione, predisponendo appunto quella regolamentazione a maglie larghe che è la sola a poter superare ogni residua ingessatura. Non è anacronistico aver timore del ritorno al contratto (d’opera) e conseguentemente è ingeneroso stigmatizzare quei (residui) giuslavoristi che vi oppongono qualche resistenza (fermo restando, per inciso, che anche enfatizzando la dimensione contrattuale all’interno del rapporto di lavoro subordinato si ottengono risultati non dissimili, nel senso del depotenziamento delle garanzie). Anacronistica è, piuttosto, la
  • 7. 12. Una soluzione alla frammentazione sul versante collettivo: il web (l’ultimo mito?) Rimane da riflettere sulle fonti da cui far scaturire le tutele differenziate destinate a completare ed affinare la base di diritti eguale per tutti. La soluzione migliore appare quella di una interazione e di una collaborazione “leggera” tra fonti normative e fonti collettive. Non si tratta della (forse impossibile) unificazione tra ordinamento statale e ordinamento intersindacale, ma della semplice ricerca di un punto di incontro almeno sul punto della garanzia delle tutele. L’“autonomia collettiva” di memoria sinzheimeriana va invece riaffermata, sostenuta e sviluppata in tutto il suo valore antagonistico e propositivo. Ma – ci si potrebbe chiedere ora con preoccupazione ora con speranza – c’è spazio per il sindacato e per i prodotti “normativi” della sua attività nel futuro del lavoro? Indubbiamente, la frammentazione rompe proprio quell’unità e quella concentrazione su cui il sindacato si è storicamente fondato. Non dimentichiamo, però, che i collegamenti non sono solo materiali. Il tanto decantato web, la “rete” elettronica globale, ci insegna che possono svilupparsi nuove aggregazioni e nuove solidarietà, non più fisiche ma virtuali. Dovremo cominciare a ragionare su queste (sempre che superiamo l’idea che il web non rappresenti anch’esso un mito, forse il più colossale degli ultimi tempi).