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QUINTA STAZIONE

213
I

n occasioni delle festività erano invitati
Giorgio e sua madre, cognata di zia Renata.
Alcune volte Giorgio si presentava con la sua
innamorata che, però, non era più Lidia, la
brunetta con cui l'avevo visto sulla rotonda.
La prima volta quell'invito mi scombussolò non
214
tanto per la vista di Giorgio, ma perché temevo
che succedesse un altro quarantotto come il
giorno del battesimo.
Io impallidivo e arrossivo per l'ansia e quei
segni furono notati cosicché le zie si convinsero
che ero sempre innamorata di Giorgio.
Benché ciò mi seccasse, preferivo attirare la
loro attenzione su di me, purché non ti
schernissero per via del viaggio in Germania.
Ma erano passati dieci anni e nessuno mostrò
di ricordare più le minacce e le promesse
apocalittiche di quel pomeriggio.
Anzi fu proprio Giorgio ad interessarsi alle
novità della viabilità, del doppio binario,
dell'orario e tu potesti avere una volta tanto un
interlocutore giacché le zie non intervenivano in
quei discorsi da uomini.
Tra le altre cose Giorgio disse:
"Per me, con tutte le macchine che ci saranno
in giro, le ferrovie scompariranno.
Sai, zia Renata, ho in progetto proprio l'acquisto
di un'automobile."
L'annuncio suscitò scalpore e ammirazione tra
le zie che si sbracciarono ad esaltare quella
testa quadrata di Giorgino.
Giorgio acquistò la macchina e venne a farsela
benedire da don Antonio sotto casa.
Volle chiamare l'auto Fernanda come la sua
nuova ragazza.
Zia Renata osservò:
"Si vede che è una cosa seria: io dico che
215
questa se la sposa."
E mi guardò con un sorrisetto.
Io arrossii per il dispetto che mi procurava l'idea
che i miei familiari fossero convinti di sapere
tutto della mia vita sentimentale; il mio rossore,
però, non fece che confermarli in quella idea.
L 'acquisto dell'automobile da parte di Giorgio
suscitò anche nelle zie il bisogno di averne una:
Zia Renata:
"Oggi come oggi una famiglia non può farne a
meno."
Zia Estrella:
"Smetteremmo di tornare dalla spesa cariche
come muli."
E ti guardavano:
"Tu, Palmiro, non prenderesti la patente? Ad
acquistare l'automobile provvediamo noi..."
"Io? Con i miei orari non posso promettere
niente... e poi grazie al mio lavoro giro tanto in
lungo e in largo tutta la provincia che dopo ho
bisogno di starmene tranquillo."
La faccenda restò sospesa tra i sospiri delle
zie.
Io ti guardavo andare via inforcando con grande
energia la tua vecchia bicicletta e pedalavi,
pedalavi come volando libero.
Di lì a poco riportasti un tuo trionfo, grazie ad
una vincita che ti permise di acquistare un
televisore.
Tutti i locali di elettrodomestici ne esponevano
ed io facevo in modo di uscire con Miranda per
216
fermarmi a guardare la tv dei ragazzi attraverso
la vetrina.
Nei locali, come bar e sale cinematografiche, si
raccoglieva la gente di fronte all'apparecchio
televisivo.
Con quell’acquisto noi anticipammo e
sorprendemmo gli amici.
Ora nella casa delle zie arrivavano parenti e
conoscenti per assistere agli spettacoli
televisivi.
A te interessava poter seguire solo gli
avvenimenti sportivi e ti mostravi generoso
lasciando l'apparecchio per il resto del tempo
agli altri.
Zia Renata dovette ammettere che, almeno, la
televisione
non
presentava
i
rischi
dell'automobile e fece mille raccomandazioni a
Giorgino.
Comunque toccò proprio a lei la malasorte:
ebbe un "colpo" che le lasciò la parte sinistra un
po' offesa.
Gli impegni di mia madre divennero ancora più
gravosi perché dovette assisterla.
Zia Estrella era andata in pensione dal suo
lavoro di modista, ma non si sentiva portata ai
sacrifici familiari e decise che a lei sarebbe
toccato il compito di portare Miranda in giro
nelle varie stazioni termali per curare la sua
asma.
Ogni estate zia Estrella partiva con Miranda e ci
mandavano delle bellissime cartoline.
217
Il mese di ferie per te divenne una vera tortura
anche perché coincideva con la sospensione
del campionato di calcio.
Avrei voluto che la nostra scacchiera
rispuntasse: io avrei finto di non saper giocare a
dama e tu mi avresti insegnato.
Io continuavo a rinserrarmi tra le mie letture
mentre tu eri alle prese con le parole crociate.
Per via di quel nuovo passatempo la casa
riecheggiava delle domande che mi rivolgevi:
"Uno orizzontale, Cosetta: l'eroe della saga dei
Nibelunghi."
"Sigfrido."
"Otto verticale, Cosetta ascolta: il volatile
oggetto di ricerca di un famoso romanzo."
"L'uccello azzurro."
"Il paladino celebrato per la sua pazzia."
"Orlando."
"Ehi sei proprio brava! Le hai imparate a scuola
tutte queste cose?"
"Ho letto tanti libri da quando ho iniziato a
leggere, non solo quelli di scuola.
Non ti ricordi che in prima elementare mi
regalasti tutte le serie della Scala d'oro?"
"Senti questa: cittadina italiana la cui cattedrale
è celebre per il mosaico.
A questa sappiamo rispondere tutti e due."
- Otranto- dicemmo all’unisono.
E subito il pensiero corse a padre Pantaleo, alla
sua conversazione dotta e pia; al consiglio che
ti aveva dato.
218
Io mi ero avvicinata alle tue spalle per sbirciare
l'enigmistica e vidi ancora una volta linee nere
che si incrociavano come tanti anni prima sulla
scacchiera e dopo sui tuoi quaderni del lotto.
"Senti quest'altra e, se rispondi esattamente, ci
andiamo a comprare un gelato: famoso scultore
del neoclassicismo nato a Possagno. Be'? "
"Canova."
Ti accorgesti che ti ero alle spalle:
"Allora andiamo a comprare il gelato. Tu leggi di
meno, però, e divertiti di più.
Uscimmo alla ricerca di un bar aperto o del
carrettino dei gelati.
Erano le primissime ore del pomeriggio
d'agosto e tutta la calura spadroneggiava nella
città deserta incalzando ogni sbavatura
d'ombra: non c'erano locali aperti né il gelataio
ambulante.
La pietra ocra, in cui erano stati costruiti chiese
e palazzi barocchi, esalava un fiato arroventato
come fosse stato il respiro stesso di quegli
esseri grifagni che reggevano le colonne tortili.
Cosicché
mi
sembrò
che
la
città,
nell'abbandono estivo, fosse più minacciosa
che in piena notte.
Ma tu allontanasti le mie fantasie dicendomi
con un’espressione furba :
"Non immagini dove andiamo."
L'emporio di donna Rirì aveva la saracinesca
abbassata a metà e sapevamo che la nostra
amica d’estate si limitava a ritirarsi nel
219
retrobottega dove aveva una brandina.
Tu insistesti a bussare finché la signora del
citrato non venne ad aprirci.
"Tarde non furono mai grazie divine!"
Ci accolse così con una di quelle citazioni dotte
che chissà da dove attingeva.
"E' questo il momento di venire a fare visita,
finalmente, ad una vecchia vicina? Ne avete
avuto di faccia tosta!"
Tu non parlavi ed eri un po' imbarazzato, così ti
venni in soccorso:
"Anche voi, donna Rirì, non vi siete fatta viva e
avevate promesso..."
"Ma figlia mia, non vedi come mi sono fatta
vecchia e succhiata come un confetto? Magra
fino alla vita e gonfia dalla vita in giù.
Cosa sarà poi? Non mi pare un buon segno.
Ma ditemi, ditemi di voi e delle altre. "
"Donna Rirì, se aspettiamo ancora un po'
Cosetta dimenticherà il sapore delle vostre
grattate.
Ce ne volete preparare due, per favore?"
"Ah le mie grattate sono fuori moda oramai, ma
ho del ghiaccio e il vecchio arnese: farò in un
momento."
Tirò fuori dalla ghiacciaia un grosso blocco di
ghiaccio e lo grattò con un utensile finché non
si formarono dei bioccoli bianchi.
Ne mise in tre bicchieri e versò lo sciroppo di
amarene.
Tutti e tre ci accomodammo dove potemmo e
220
gustammo in silenzio per un tempo lunghissimo
quel refrigerio.
La padrona del citrato, però, non poteva tacere
a lungo:
"Che peccato! -disse rivolta a te- Che peccato!
Mi stringe il cuore vedere la vostra casa
sprangata; mi sembra che l'anima di tua
mamma Cosetta ci sospiri anche lei."
Mio padre si strinse nelle spalle.
"Lo so -continuò la commerciante- che ci
vorrebbe una bella somma per rimetterla a
nuovo: innanzi tutto occorrerebbe una
disinfestazione per via dei topi; e poi
l'allacciamento alla fognatura per non utilizzare
più il pozzo nero; e poi le tubature e il
pavimento completamente rifatto.
Tanti soldi sì, ma ne verrebbe fuori un
quartierino come si deve.
Ci pensate: il cortiletto esterno con tutta una
cimasa di ibisco e buganvillea.
Quello interno dissodato e tenuto ad aranci e
limoni."
Noi due, alle parole della nostra amica,
vedevamo i fiori e sentivamo il profumo degli
agrumi.
Tu ti difendesti dicendo:
"Ma c'è la parietaria che procura allergia alla
piccola.
"Eh cosa sarà mai? Non se ne sono mai
strappate erbacce a questo mondo!
Ci sono preparati chimici che farebbero
221
scomparire la parietaria."
"E l'umido?" Insistesti facendo la parte
dell'avvocato del diavolo.
"Per l’umido si mettono i termosifoni e si fanno
asciugare gli ambienti come un bucato al sole."
Donna Rirì non si arrese al punto che
nell'andare via ci sentimmo colpevoli di fronte
alla
porta sprangata della nostra vecchia
abitazione, tanto più che la donna aggiunse alle
nostre spalle:
"Le case, se non sono abitate, marciscono!"
Prendemmo la strada del ritorno e per un po' ce
ne rimanemmo in silenzio; poi dicesti:
"Donna Rirì ha ragione: non si lasciano marcire
così le case dei genitori.
Ti fermasti come colpito da un'idea:
"Cosetta, ti ricordi cosa mi ha detto padre
Pantaleo?"
"Ti ha parlato di debiti...mi pare..."
"Ma io non ho capito cosa fossero questi debiti.
E' vero che in passato ho avuto delle sommette
da restituire alle mie cognate, ma da quando
abitiamo insieme e i conti vengono divisi
meticolosamente da tua madre, debiti non ne
ho contratto.
E così mi lambiccavo il cervello per capire a
che cosa don Pantaleo si riferisse.
Adesso è chiaro che il debito di cui parlava il
prete di Otranto era proprio quello che ho nei
confronti dei miei genitori che mi lasciarono la
casa e io ho permesso che andasse in rovina."
222
Apparivi sollevato come quando risolvevi i
giochi di enigmistica.
"E' un debito che ho con loro e con voi! Vedrai
come ci farà bene tornare a vivere noi quattro
soli in una casa nostra, rimessa a nuovo!
Non potranno trovare niente da ridire, né
appellarsi alla salute di Miranda.
Mi dispiaceva proprio che tua sorella crescesse
senza conoscere donna Rirì e la sua bottega!
Basta con le vincite meschine: occorre un colpo
grosso!"
"Papà ti prego, impegnati di più con il sistema:
vedrai che ce la farai."
Dovesti rimuginare su questo nuovo progetto
per tutta la strada perché come altre volte mi
camminavi davanti come se io non ci fossi,
fumando una sigaretta dopo l'altra.
Io, intanto, sognavo la nostra casa restaurata
proprio secondo i suggerimenti di donna Rirì.
Ma riflettevo anche sull'aspetto della mia amica
che non era affatto sano.
Pensai malinconicamente al citrato con cui
aveva curato per anni noi bambini, ma, oramai,
ero troppo grande per credere che il citrato
fosse sufficiente a guarire anche il suo
malanno.
Tu ti rimettesti con più foga a giocare per il
nuovo scopo.
Con il passare dei mesi ci giungevano spesso
notizie preoccupanti riguardo alla salute di
donna Rirì.
223
Tu avesti una nuova tornata di fortuna che ti
confermava che avevi visto chiaro individuando
il debito che avevi da saldare; mettevi via le
somme delle vincite che sarebbero servite per il
restauro della casa.
Avesti proprio un buon tempo: da una parte un
lavoro che ti piaceva perché ti consentiva di
stare tanto fuori dalla casa in cui ti sentivi
ospite; dall'altra la gratificazione delle vincite;
anche se quella straordinaria che cambiava la
vita, da così a così, si faceva aspettare.
Ma tu eri soddisfatto perché si era fatto chiaro
in te e mi dicevi che eri stato uno sciocco a non
capirlo prima e che padre Pantaleo era un
grand’ uomo e che un giorno o l'altro saremmo
tornati ad Otranto per fargli visita e per
ringraziarlo.
Non ci fu tempo né modo di tornarvi.
Nel giro di un anno la malattia di donna Rirì si
manifestò in tutta la sua gravità.
Infine la nostra amica fu ricoverata in ospedale:
mamma andò a trovarla più volte e al suo
ritorno scoteva la testa senza dire niente.
Mi baciava quasi per consolarmi già della
perdita imminente.
Io ripensavo con rimorso a quanto era accaduto
al povero Porfirio.
Ti guardavo per parlartene, ma poi ricordavo
che quello era l'unico segreto che non
condividevo con te, ma con mamma.
Mi ritornava in mente la passeggiata di quel
224
pomeriggio, il motivo per cui scacciavo di casa
il pappagallo e la sua fine violenta.
Quando donna Rirì morì tu volesti mandare dei
fiori e partecipare al suo funerale e, benché
fossero atti di normale gentilezza, essi
provocarono un putiferio in famiglia.
Il caso volle, infatti, che il giorno del funerale
della signora del citrato coincidesse con quello
del matrimonio di Giorgino.
Il funerale avrebbe preceduto solo di un'oretta,
se pure in un'altra chiesa, il matrimonio.
Eh sì: il mio innamorato di un pomeriggio
metteva su famiglia.
Era stato anche molto compito mandando due
partecipazioni: una per le zie ed una indirizzata
a te.
La sera precedente si discusse a lungo,
giacché zia Estrella e Zia Renata, che al
matrimonio non voleva rinunciare benché
trascinasse oramai tutta una metà del corpo e
usasse come bastone mia madre, erano quasi
isteriche per via della nostra decisione.
Tu, invece, una volta tanto non ti facesti guidare
dalla rabbia: la bontà della causa che difendevi
ti rendeva fermo e pacato.
Poche parole che disorientavano le zie.
Io tentai una mediazione:
"Verremo appena finito." Ma l'idea sembrò
pessima.
Zia Renata:
"No, non sta bene. Mi sembra di cattivo augurio
225
per Giorgino."
Zia Estrella:
"Con il tanfo della morte ancora addosso!"
Tu ribattesti:
"Guarda che ci cambieremo d'abito."
Zia Estrella si sentì presa in giro e alzò la voce:
"Chi volete che se ne accorga se non andate al
funerale: per quei quattro parenti che aveva la
vecchia."
Tu solennemente:
"Lo saprà donna Rirì, in ogni caso."
Zia Estrella esasperata:
"Ma che donna Rirì e donna Rirì: Amalia Turrini
si chiamava e non era un gran personaggio. Vi
ha forse fatto del bene? Vi ha prestato denaro o
altro?"
Di nuovo presi la parola io:
"Per noi era una grande amica, più grande di
certe persone che prestano denaro."
"Ha parlato tuttasuopadre!"
"Donna Rirì- disse timidamente Prisca- capirà
certamente che abbiamo dei buoni motivi per
non andare al suo funerale."
"Sono sicuro che lo capirà - intervenisti tu
tranquillo come non mai- perché era una donna
intelligente e piena di umanità.
E per questo dobbiamo renderle omaggio.
Tanti anni fa, fu grazie a lei che potesti goderti
la vita per un po'. "
Mamma arrossì al tuo rimprovero che aveva
tante valenze.
226
Le sue sorelle non capirono e andarono avanti
a discutere.
Tu fosti irremovibile e diventasti addirittura
sfacciato abbozzando una ribellione ironica:
"Ascoltate, per farvi contente non vi
raggiungeremo nemmeno quando il funerale
sarà finito. Va bene?
Così non potrete dire che abbiamo arrecato
qualche ombra di tristezza sulla gioia di Giorgio.
Avete ragione voi: sarebbe fuori luogo far
seguire ad un funerale un matrimonio."
Zia Estrella vedendoti irremovibile si prese la
rivincita con una malignità:
"Sai, Palmiro, Giorgio e la sposa andranno in
viaggio di nozze a Capri."
Tu la guardasti per quella strana uscita e lei
continuò:
"Veramente la sposa insisteva a voler visitare i
castelli sul Reno, ma Giorgio le ha detto che in
Germania, prima o poi, ce li porterai tu."
Facesti una smorfia e per un attimo ti piegasti
su te stesso come se avessi ricevuto un pugno.
Tuttavia ti riprendesti presto; andasti in camera
e ne uscisti vestito come il giorno del funerale di
zia Estrella.
Così ancora una volta la famiglia era divisa: da
una parte noi con il cuore acciaccato per via
della perdita della nostra amica; dall'altra
mamma che, dopo essersi presa cura di zia
Renata, indossava il suo bell'abito blu a pois
bianchi.
227
Zia Estrella, a muso duro, faceva vestire
Miranda elegantemente e poi sceglieva uno dei
suoi famosi cappelli.
Noi due ce ne andammo verso la chiesa del
nostro rione per il funerale di Amalia Turrini.
Alla cerimonia parteciparono molte più persone
di quello che pensassimo.
Feci un esame di coscienza e ammisi che vi
erano altri motivi che ci spingeva lì, oltre il
rendere omaggio alla defunta padrona del
citrato; per te non condividere una giornata di
gala con le tue cognate e per me, forse, un
attimo di rimpianto dovendo liquidare il mio
amore di un pomeriggio, un pomeriggio di dieci
anni prima oramai.
Dopo il funerale e i saluti ai parenti della morta
in quello scartare, chi a destra chi a sinistra, e
un rimandarsi ad occasioni più liete, ci
ritrovammo soli.
Mi ripetevo che mi ero recata al funerale di
Amalia Turrini e che donna Rirì era ancora nel
suo emporio a fare grattate.
La giornata non era né carne né pesce: ora
sembrava che le folate di vento fossero in
grado di spazzare via il grigiore e, ora certe
nuvole sottili si allungavano da scirocco fino a
velare il cielo.
Noi due provavamo un certo imbarazzo a
ritornarcene a casa, la casa delle zie a cui
avevamo osato disobbedire, e decidemmo,
tacitamente, che oramai che c'eravamo
228
potevamo andare fino in fondo.
Mi portasti un po' fuori città dove aveva sede la
società di bocciofili che frequentavi.
Anche questo era una cosa che non avevi mai
detto in famiglia.
Al campo da bocce erano annessi dei locali e
una piccola trattoria per gli iscritti.
I ristoratori curavano un numero limitato di piatti
e rigorosamente tradizionali.
Così mangiammo un baccalà gustoso con un
contorno di cavoli fritti in pastella.
Ogni giocatore che arrivava, man mano che il
pomeriggio avanzava, ti faceva festa: tutti ti
mostravano una cordialità che ti dava una
piacevole disinvoltura come mai ti accadeva in
famiglia.
Dopo il pranzo e le chiacchiere ti mettesti a
giocare.
Io un po' seguivo, ammirando la tua bravura, un
po' pensavo ai fatti miei: per esempio all'esame
di maturità, che mi attendeva a breve, e al mio
futuro.
Molti dei miei compagni di classe parlavano già,
con qualche supponenza, delle università
lontane che avrebbero frequentato e delle città
in cui si sarebbero trasferiti: Roma, Torino,
Padova, Pisa, Bologna.
Alcuni si sarebbero iscritti a Bari. Io sarei stata
l'unica a rimanere in sede.
E anche così cominciavo a pensare che i costi
sarebbero stati alti per te e avremmo dovuto
229
dare l'addio alla ristrutturazione della nostra
casa.
Fu quel giorno che decisi che all'università non
ci sarei andata.
Pensavo tra me:
"Il prossimo anno mi diplomerò maestra
presentandomi da privatista.
Appena sarà bandito il concorso magistrale
parteciperò.
Lo vincerò e comincerò a lavorare.
In poco tempo avremo i soldi per risistemare la
vecchia casa e tornarcene lì."
Ero molto contenta del mio progetto come la
donnetta che va al mercato a vendere la sua
ricottina.
Passai bene gli esami di maturità classica e
lasciai che trascorressimo un'estate tranquilla
prima di rivelare le mie intenzioni.
Quando lo dissi, una domenica a pranzo -ed
era sempre a tavola che avvenivano le grande
spiegazioni e le grande litigate- ci fu silenzio.
Solo Miranda chiese:
"Che cos'è l'università?"
Mia madre spiegò con un sospiro:
"E' una scuola per ragazzi grandi."
Estrella:
"E' una scuola molto difficile dove va solo chi è
veramente intelligente."
Miranda:
"E Cosetta non è veramente intelligente?"
Mamma:
230
"Chiedilo a lei, cocca mia."
Estrella:
"E' una scuola per gente che vuole studiare
sodo. E le signorine, si sa, sono distratte da
qualche innamorato segreto."
Miranda:
"E Cosetta ha un innamorato segreto?"
"No."
Mi precipitai a rispondere in modo che tutte mi
guardarono con mezzi sorrisetti pensando a
Giorgio.
Solo mamma mi guardò e pensò a qualcun
altro.
Finalmente parlasti tu:
"Insomma si sa che dal liceo classico è
obbligatorio andare all'Università.
Che novità ti salta in mente? Quando facciamo
insieme le parole crociate sei sempre pronta a
rispondere!
Non ho mai visto una ragazza della tua età che
ama leggere e studiare più che andare a
spasso."
Io, benché mi sentissi mortificata, ostentavo
sicurezza e non rispondevo a tutte quelle
obiezioni.
Insistesti:
"E si può sapere il motivo?"
Io parlai un po' a casaccio adducendo che non
c'era nessuna facoltà, tra quelle che potevo
frequentare a Lecce, che mi interessasse
veramente; che ero stanca di stare sempre con
231
la testa sui libri, che volevo godermela un po',
che avrei continuato ad approfondire per conto
mio.
In effetti l'anno dopo conseguii il diploma
magistrale.
A casa non ci furono congratulazioni per questo
successo, anzi mamma, un momento che zia
Renata era assopita e che zia Estrella era in
bagno, cogliendo quell'attimo di intimità di cui
da anni eravamo state private, espresse
chiaramente la proprio opinione:
"Mi sembra che vuoi camminare come i
gamberi, d’altra parte lo hai appreso da tuo
padre.”
E quasi stava per piangere.
Che cattiva ispirazione ti ha preso?"
Io non le risposi anche perché era sopragiunta
zia Estrella.
Mi misi ad attendere che venisse bandito il
concorso magistrale da un momento all'altro.
Intanto certi pomeriggi ci mettevamo insieme a
disegnare la nostra casa: ricavavamo corridoi,
modificavamo la cucina; decidevamo di
aggiungere un altro servizio.
Anzi su questo andammo avanti per un po' a
discutere incerti se preferire il doppio servizio o
una veranda coperta che potevamo usare come
piccola serra.
Rimandammo la decisione: tanto, per il
momento, si trattava solo di fantasie.
Ma erano fantasie che ci entusiasmavano e
232
riempivano la nostra vita.
Un giorno incontrai casualmente Erminia, una
nipote di donna Rirì, che mi propose di andare
a darle una mano nell'emporio che conoscevo
bene.
L'esercizio non aveva perduto in clientela,
aveva solo aggiornato un po' i vari prodotti che
vendeva: per dirne una, invece del citrato, le
gomme da masticare e poi patatine e sfiziosità
varie di cui i ragazzini del rione si riempivano la
pancia cosicché all'ora dei pasti non avevano
più appetito.
E poi si vendevano detersivi, biancheria intima
e aguglieria.
La signora Erminia mi propose di prendere la
patente per poter sbrigarle più rapidamente i
suoi affari, utilizzando la sua vecchia
giardinetta.
Io accettai e divenni patentata suscitando molta
ammirazione in Miranda, raccomandazioni di
prudenza da parte tua e di mamma e qualche
complimento condiscendente dalle zie.
Tu continuavi a pizzicare, ma mai abbastanza
per iniziare i lavori di restauro.
Venivi a trovarmi in negozio e chiacchieravi con
me e con la nipote di dona Rirì che cominciò a
chiamarti don Palmiro.
Tu ti schernisti, semplice com'eri, ma io
compresi che era il don di rispetto che si dà a
chi comincia ad essere avanti con gli anni.
Ci restai male e mi accorsi di colpo che, a furia
233
di fare il capofamiglia solo a tavola, eri
ingrassato, che i capelli si andavano diradando
ed ingrigendo, che la tua vista non era più
buona.
A quella scoperta, dovetti andare nel
retrobottega per calmarmi.
La notte feci un sogno in cui litigavo con te; ti
rimproveravo, risentita:
"Caro papà, come ti permetti di invecchiare!
Come puoi farmi questo?"
Tu mi guardavi con un viso ironico e ribattevi:
"Ma che vecchio e vecchio... sto per partire per
la Germania."
E ti davi da fare attorno alla tua bicicletta come
se la stessi preparando per il viaggio.
Ti incamminavi, ma, invece di montarvi, te la
caricavi sulle spalle.
Lavoravo nell'emporio da un paio di anni
quando anche zia Renata morì.
Mia mamma, disfatta dopo tutta l’assistenza
che aveva prodigato con lei, era diventata un
po' bolsa e aveva ceduto le armi su tutto a zia
Estrella.
I bastoni della zia Renata li conservammo
accanto al telaio di zia Naida.
Ma non sentivo lo spirito di zia Renata
aleggiare nella casa come invece avevo
percepito quello di zia Naida attorno al telaio.
Ci fu una nuova ondata di visite di condoglianze
e Giorgio con sua moglie e la figlioletta venne a
portarsi via qualche cosarella che zia Renata gli
234
aveva lasciato: un lume, una consolle
dell'ottocento, un anello da uomo appartenuto
al marito.

Un giorno donna Rirì ti venne in sogno e ti
diede tre numeri dicendo:
"Questi sono per le grattate."
Tu ci raccontasti il sogno e giocasti i numeri,
ma il terno non venne fuori.
"Si sa.- disse mamma -Sono cose che non si
devono raccontare. Si vede che di lotto non
235
t'intendi, Palmiro."
E zia Estrella:
"Donna Rirì avrà voluto prenderti in giro."
Ma alla prima vincita che tu facesti al totocalcio
ti ricordasti delle parole del sogno e acquistasti
un frigorifero nuovo perché quello precedente
cadeva a pezzi. E l'estate era torrida.
Zia Estrella, che nonostante il lutto recente si
preparava ad andare in villeggiatura per il bene
di Miranda, disse che c'erano cose più serie
come la malattia di Miranda che si mangiava
tanti soldi per via delle visite agli specialisti e le
medicine e la villeggiatura, ogni anno in luoghi
salubri.
Tu impallidisti come sempre, quando una
rabbia impotente ti toglieva le parole e lei
incalzava:
"Non lo dico per la piccina -Miranda aveva
compiuto quindici anni- ma per il principio.
Se tu smetti di giocare e di buttare via i soldi in
cose inutili, quello che faccio per Miranda è un
regalo, ma se continui a sperperare il tuo
denaro tanto vale che lo usi per lei..."
La sua logica non faceva una grinza e vi
fronteggiaste dimostrando tutta la reciproca
antipatia.
Mia mamma apparecchiava con l'aiuto mio e di
mia sorella e tutte e tre tacevamo.
Finalmente trovasti il fiato:
"Va bene- dicesti calmissimo- dimmi subito a
quanto ammonta quello che hai speso per la
236
salute e le villeggiature di mia figlia."
Zia Estrella sparò una cifra esorbitante e tu
senza batter ciglio rispondesti:
"Ti restituirò tutto."
Pranzammo in silenzio e io ti facevo l'eco
dentro di me:
"Sì, le restituiremo tutto papà."
E di nuovo mi persi nel sogno della donnetta
della ricottina.
Al compenso che percepivo per il mio lavoro
mattutino potevo aggiungere qualche lezione
privata: nel rione ce n'erano di bambini le cui
mamme, le donne ora lavoravano anche loro,
mi avevano chiesto di dare una mano a
svolgere le lezioni!
Una stanza dell'appartamento annesso al
negozio sarebbe stata adatta.
Come sempre mi associavo ad ogni tua
impresa e specialmente ammiravo quel tuo
modo caparbio di ribadire la tua paternità su
Miranda e la dignità orgogliosa nel non dover
niente a zia Estrella.
Mi accompagnasti mentre mi recavo a lavoro:
"Mi ero sbagliato.- dicesti senza guardarmi in
faccia- I debiti di cui parlava padre Pantaleo
non sono soltanto quelli che ho creduto, ma
anche quelli che io non pensavo di avere con
tua zia Estrella.
D'altra parte non mi hanno mai messo al
corrente, nemmeno tua madre, di tutte queste
visite di specialisti, né di medicine.
237
Quanto poi alla villeggiatura mi sembrava che
Estrella portasse con sé Miranda per avere una
compagnia.
Ho sbagliato e chiedo scusa, ma non sono
certo uno scroccone, un approfittatore, un
mangiapane a tradimento.
Ma a te cosa pare della salute di Miranda? Mi
sembra che sia tanto bella e sana."
"Certo papà, da quando è sviluppata, come
aveva detto il medico, l'asma è scomparsa e ai
cambiamenti di stagione ha solo un piccolo
raffreddore allergico.
Sarà senz'altro merito delle cure che le sono
state fatte. Per quel che riguarda i debiti ho una
buona notizia: la signora Erminia mi cederà una
stanza dell'appartamento per dare lezioni ai
ragazzini del rione: in due faremmo prima a
pagare."
"E tu riuscirai a conciliare il lavoro con lo studio
per la preparazione al concorso magistrale?"
La tua voce era speranzosa:
"Certo che sì: anche le lezioni che do ai
ragazzini
servono
a
mantenermi
in
allenamento."
Sospirasti sollevato e mi stringesti la mano:
"Meno male che posso contare su di te."
Inforcasti la bicicletta sveltamente e te ne
andasti via a lavoro.
Certo che così la ristrutturazione della nostra
vecchia casa avrebbe dovuto aspettare e
avremmo dovuto rimandare ancora il nostro
238
ritorno lì.
L'anno dopo comperai la vecchia cinquecento
da Giorgino che cambiava macchina.
Persino zia Estrella fu contenta e quando ero
libera si faceva accompagnare da me in
cimitero, o a fare spese e visite.
Insisteva a pagare la benzina.
"Perchè- disse- debiti, io, non ne ho mai avuti;
anzi ho crediti!”
Avrei voluto rifarle il discorso di padre Pantaleo
su debiti e crediti, ma non ero sicura di averlo
capito fino in fondo.
Accompagnavo e andavo a prendere Miranda
dalle lezioni di pianoforte, di danza, e su e giù
dalle festicciole che frequentava.
Avevo ventiquattro anni e la mia vita era divisa
tra il lavoro nell'emporio al mattino, i pomeriggi
a fare lezione a qualche ragazzino e il mio ruolo
di autista di famiglia.
C'erano i momenti di libertà in cui tornavamo a
progettare la nostra casa.
Tuttavia ce ne dovemmo distogliere: forse fu un
colpo d'aria preso mentre giocavi a bocce a
procurarti la paresi facciale.
Così,
grazie
alla
macchina,
potei
accompagnarti in ospedale per fare le
applicazioni che occorrevano e, man mano, il
tuo aspetto tornò quasi normale a parte per
l'occhio destro leggermente più chiuso.
Ridendo, dicevi, che era segno che eri
cresciuto e che avevi imparato a chiudere,
239
almeno un po’, un occhio sulle cose che non
digerivi.
Anche io risi, ma intanto ricordavo il sogno che
avevo fatto e mi veniva di dirti chiaro e tondo:
"Caro papà, come ti permetti di invecchiare?
Che non ti venga in mente anche la bella idea
di morire."
D'altra parte era vero che stavi imparando a
prendertela di meno e forse in ciò eri aiutato dal
gioco delle bocce.
Oltre il lavoro nella sud-est c’erano anche i
tornei a cui partecipavi -giacché come in tutti i
giochi eri diventato bravo- che appagavano il
tuo bisogno di andare per il mondo.
Io, intanto, guardavo con curiosità i giovani
degli anni settanta diventare sempre più
scapestrati e irridenti.
Mi scandalizzavo come un'adulta, giacché mi
pareva che la giovinezza fosse qualcosa che
riguardava gli altri.
Nei primi anni dalla fine del liceo qualcuno dei
compagni mi aveva cercato e ogni anno in
luglio avevamo preso l'abitudine di incontrarci
per festeggiare l'anniversario del diploma.
I miei amici avevano tanto da raccontare sulle
città in cui vivevano, sugli esami universitari, su
quello che avrebbero fatto dopo la laurea.
Ascoltavo e domandavo, ma finivo con il trovare
noiosa la loro vita tutta ancora impregnata di
aspettativa.
Io, con le responsabilità che mi ero accollate,
240
mi sentivo tanto più adulta e trovavo i loro
argomenti di conversazione stucchevoli.
Così finii per rifiutare l'invito annuale e man
mano amicizie e relazioni si allentarono
riducendosi a poche telefonate e qualche
bigliettino di auguri a Natale.
Ero così presa dalle mie attività, mi sentivo così
indipendente per il fatto che guadagnavo e
guidavo la macchina che non presentai
nemmeno la domanda per il concorso
magistrale.
Ancora una volta fu a tavola che mamma se ne
uscì come folgorata:
"Cosetta, oggi abbiamo incontrato una cugina di
Giorgio e ci ha raccontato di quanto studia per
prepararsi al concorso magistrale. Va
addirittura a lezione da un professore: gli scritti
saranno tra un mese.
E' mai possibile?
E tu quando studi?"
Io arrossii e gli occhi di tutti furono su di me:
quelli addolorati di mamma, quelli sorpresi di
Miranda, quelli pungenti di zia Estrella.
Ma soprattutto i tuoi.
"La domanda è scaduta da un pezzo. Non mi
interessava...ho deciso che mi va benissimo il
mio lavoro.
Il concorso, poi, si tiene ogni due anni.
Studierò per il prossimo."
"Evviva la sincerità, Cosetta, -dicesti- fai e disfi
di testa tua!
241
Non chiedi mai il nostro consiglio.
Eri così brava negli studi. I tuoi professori ti
vedevano già con la toga..."
Estrella:
"Altro che toga: era il camice da bottegaia!"
"Non è una tragedia: lavoro."
Mamma aveva gli occhi rossi e zia Estrella
intervenne:
"Se dovevi fare la bottegaia era inutile
frequentare il liceo classico.
Miranda non farà certo la tua fine."
Anche mia sorella disse la sua:
"Ma Etti, è un lavoro senza futuro: in un
negozietto preistorico che prima o poi chiuderà
e tu ti ritroverai senza niente in mano."
Di nuovo zia Estrella.
"Me l'ero immaginato: quella Erminia è
taccagna come sua zia Amalia.
I proprietari della modisteria in cui lavoravo io,
invece, erano persone oneste!
Terminato di essere piccinina, l'apprendistato
insomma, mi hanno messo subito in regola e
con il tempo ho potuto rilevare il negozio.
Ed oggi ho una buona pensione. Tu, invece,
lavori in nero."
Io non risposi perché in effetti avevo cominciato
senza impegno reciproco e la signora Erminia
non aveva mai proposto di mettermi in regola:
avevamo pensato tutte e due che era una
soluzione provvisoria.
Intanto erano passati alcuni anni.
242
Lo scoramento dei miei familiari era palpabile:
"Ti sei messa in una trappola.”- dicesti tu“Prima quella sciocchezza di non iscriverti
all'università ed ora quest'altra ragazzata. Asina
testarda!"
Ti mettesti a fumare a tavola cosa che non ti eri
mai permesso di fare.
Estrella sospirò compunta e prese la parola:
"Forse posso fare qualcosa io: quando ero
modista ne ho conosciute di vere signore
perché, allora, una vera signora fuori di casa
indossava sempre il cappello.
Io, poi, sapevo stare al mio posto e tutte
chiedevano che fossi io a portare il cappello,
una volta confezionato, a domicilio.
Quante case signorili ho visto, quante persone
influenti ho conosciuto...
Mi viene in mente che ora il figlio di una delle
mie clienti, che si è fatto lui pure la sua età, è il
direttore di una scuola privata parificata.
Io parlerò con la signora che era sempre gentile
e disponibile, lei parlerà con il figlio direttore e
per il prossimo anno scolastico potrebbe
assumerti.
Andiamo da loro e vedrai che qualcosa salterà
fuori."
Accondiscesi: un po' perché non sostenevo il
dispiacere dei miei genitori, un po' perché tutto
sommato non mi ci vedevo per sempre
nell'emporio.

243
Qualche pomeriggio dopo Il direttore mi
ricevette.
Spinsi il grande portale socchiuso che
immetteva nella corte interna e salì la scalinata
che in cima si divideva in due rampe: da un lato
quella che portava agli appartamenti; dall’altro
quella su cui si apriva la scuola privata
244
parificata.
C’ ero già stata assieme ad Estrella per parlare
con la madre del direttore, la signora che aveva
frequentato la modisteria.
La signora ci aveva messo subito a nostro agio
ricevendoci in cucina che ferveva di lavori
domestici.
Ci aveva ascoltato mentre continuava ad
impartire ordini alle due donne impegnate a
preparare il pranzo e mettendosi lei stessa a
spennare una gallina e a sgranare piselli.
Di tanto in tanto mi guardava e infine sospirò:
"Che dispiacere all'idea di queste giovani forze
condannate alla disoccupazione!
Ce ne sono di giovani a spasso!
Il direttore- parlò sempre del figlio con quel
titolo- il direttore è molto sensibile e fa quello
che può.
Abbiamo sacrificato l'altro nostro appartamento,
qui di fronte per adibirlo a scuola.
Si tengono soprattutto corsi di recupero per
lavoratori.
Il direttore vuole personale serio e preparato e
per questo la nostra scuola ha un buon nome.
Le domande di insegnamento sono tante, ma
parlerò io al direttore e vedrete che vi arriverà
una risposta quanto prima.”
Io le lasciai il curriculum che altro non era che il
mio diploma di maturità classica
Quindi si salutarono con grande effusione e la
signora aggiunse:
245
“Che figuroni che ho fatto con i tuoi cappelli,
cara Estrella! Certo allora eravamo giovani!
Anche se te li facevi pagare…”
“Vi ho sempre trattato d’amica, con un occhio di
riguardo.”
Ora, quindi, sapevo che dovevo salire l’altra
rampa di scale.
Il direttore mi ricevette in uno studio pieno di
busti.
Indossava un doppio petto di un verdone scuro
che sottolineava la sua carnagione olivastra.
Mi salutò cortesemente e mi chiese il permesso
di continuare a mangiare:
"Sa, con i miei impegni, non ho orari e oggi mi
capita di dover mangiare alle undici."
Il direttore si prese il mio permesso sottinteso e
si ingolfò in un piatto di polpo che odorava di
aglio e che gli imbandiva sulla monumentale
scrivania una delle donne che avevo visto nella
cucina della madre.
Intanto io prestavo orecchio ai rumori della
scuola che era dislocata nell'appartamento
dagli altissimi soffitti.
Qualche studente venne anche a bussare per
andare nel bagno a cui si accedeva passando
attraverso lo studio del direttore.
Questi mi spiegò che in tal modo poteva tenere
meglio tutta la situazione sotto controllo e
continuò a mangiare di gusto.
Quando ebbe terminato scorse il mio
curriculum:
246
"Vedo che ha conseguito la maturità classica.
Addirittura sei anni fa! Ed in questi anni non
avete mai fatto esperienza di insegnamento?”
“Privatamente sì.”
“Immagino che si riferisca a qualche
doposcuola: in verità a me occorrerebbe un
insegnante elementare che tenga un corso
serale per adulti che non hanno la licenza, titolo
che ora è indispensabile per tutti i lavori.
L'insegnante che c'era prima è passata in una
scuola statale e sono sfornito.
Sapete, gli emolumenti qui non sono che un
"pour boir", ma il punteggio è assicurato.
Se la sente di tenere una specie di pluriclasse
nelle ore serali?
Le do un segno di fiducia scegliendo lei, che
non ha esperienza; le do la preferenza di fronte
a tanti altri che mi implorano, padri di famiglia!
Ma mammà ci tiene tanto! E facciamo contenta
mammà.
La risposta la voglio subito."
Io accettai anche perché considerai che
l'impegno, essendo serale, mi avrebbe
consentito di continuare il mio lavoro
nell'emporio.
Al ritorno a casa tu mi chiedesti con ansia:
"Sei contenta? Ti è piaciuto il posto, i colleghi, il
direttore?"
Io risposi di sì a tutto con grande soddisfazione
di zia Estrella.
Poiché mi era stata assegnata la pluriclasse del
247
corso serale non vedevo colleghi, ma soltanto i
miei "allievi", tutti più adulti di me.
Alcuni erano pieni di buona volontà, altri
venivano soltanto per fare presenza ed avere
l'attestato di frequenza. Appresi molto sui loro
lavori.
Dopo una settimana il direttore mi mandò a
chiamare e mi parlò alzandosi spesso dalla
poltrona e guardando fuori dalla finestra.
"Giacché lei è l'ultima a lasciare la scuola ho
pensato di poterle chiedere di dare una
riassettata alle aule e al bagno al termine delle
lezioni.
Sa, in genere se ne occupa una delle nostre
serve, ma attualmente è ammalata e non è il
caso di assumere un bidello.
Si tratterà di poco tempo.
Siamo intesi? Metterai a posto le aule e il
bagno e... anche questa stanza.
Si tratterà, ti ripeto, di pochissimo tempo."
Di questo, e dell’improvviso passaggi al tu, non
riferii niente a casa; dissi solo che mi era stato
allungato l'orario di servizio e zia Estrella fu
ancora più soddisfatta dei suoi meriti.
Fortunatamente al mattino continuavo ad
andare in bottega che mi sembrava un vero
lavoro, decoroso e remunerato, ma neanche
con Erminia mi lasciai scappare una parola
sulle mie incombenze di donna di pulizie che
continuarono per tutto il resto dell'anno.
Gli "emolumenti" erano veramente miserabili e
248
quindi continuavo a dare lezione nel primo
pomeriggio.
Avevo stabilito che nessun ostacolo si
frapponesse al nostro progetto di far restaurare
la casa.
Per questo tolleravo il direttore, il mio lavoro
ufficiale e quello di nettacessi.
Pensavo che era proprio il castigo che meritavo
per non aver presentato la domanda di
concorso.
Sospiravo e contavo i mesi che mi separavano
dalla fine dell'anno scolastico; di certo non avrei
ceduto allo sconforto purché tu fossi rimasto
all'oscuro di tutto.
Invece non fu così: riuscisti a trovare una sera
in cui non eri di turno per venire a guardarmi
nella mia veste di insegnante.
Nella tua intenzione c'era solo un moto
d'orgoglio di godersi la figlia docente.
D’altra parte il portale del palazzo gentilizio era
lasciato sempre accostato fino a quando io non
andavo via tirando il battente con energia sia
perché essa era pesante, sia perché il fragore
che produceva mi dava una qualche
soddisfazione come se avessi preso a calci la
scuola ed il direttore.
E qualcuno degli allievi aveva dimenticato
aperto anche l’uscio dell’appartamento adibito a
scuola.
Io ero troppo presa dalle pulizie, dal rumore
dello straccio che grondava acqua, dallo
249
strepito dello sciacquone: fosti un’apparizione
che mi fece trasalire.
Eri seduto nello studio del direttore e da lì
potevi vedere benissimo i bagni e chi li puliva…
Te ne stavi con il corpo abbandonato sulla
poltrona del direttore, le mani incrociate tra le
ginocchia, una faccia impietrita di rabbia e di
dolore.
Ti vidi con la coda dell'occhio; ma feci finta di
niente; anzi mi accanii nelle pulizie pur di tenere
la testa piegata e non incontrare di nuovo quel
tuo terribile sguardo.
Rispetto a tanti anni prima, quando ero venuta
a strapparti dal cral, le parti si erano invertite.
Io continuai nel mio lavoro ignorandoti, tu
continuasti a stare seduto.
Infine rimisi stracci, arnesi e detersivi al loro
posto passandoti davanti come se tu non ci
fossi.
Infilai il cappotto, feci un giro per le aule a
controllare che non rimanessero luci accese: il
direttore era pronto ad andare su tutte le furie
davanti agli sprechi!
Soltanto al momento di spegnere il lampadario
dello studio in cui tu ancora te ne stavi seduto,
ti rivolsi un cenno della testa:
"Andiamo."
Mi chiusi alle spalle la porta dell'appartamento e
tirai il portale con lo stemma gentilizio.
Fuori ci mettemmo a camminare l'una accanto
all'altro senza parlare.
250
Era una giornata di marzo umida e ventosa ed
io ti dissi:
"Non ti fa bene prendere tutto questo vento,
giacché sei appena guarito dalla paresi.
Entriamo in un bar e tu mi aspetterai mentre
andrò a prendere la macchina.
Sono venuta via da casa a piedi perché non
sembrava che si preparasse un tempo così."
Mi avviai verso la pasticceria, ma quando entrai
vidi che tu rimanevi fuori e così tornai fuori
anch'io e non insistetti più.
Facemmo la strada più lunga per ritornare a
casa.
Camminammo in silenzio fino a quando mi feci
coraggio e ti rivolsi la parola:
"Andiamo al cinema? -Tentai di scherzare
prendendoti sotto braccio- Come quando ero
bambina, vuoi papà?"
Mi guardasti e sotto le luci del Politeama vidi
che il tuo viso era segnato da un’espressione di
ostilità e di amarezza.
Nonostante ciò camminavamo sempre sotto
braccio.
"Perché non mi hai detto niente?"
"Di cosa?"
Fingevo di non capire.
"Che hai accettato… non so nemmeno come
dirlo… di fare la schiava. Devi smettere subito!
"Non posso, ho firmato un contratto."
"Vuoi dire che hai firmato sapendo di che razza
di lavoro si trattava?"
251
"E' così che vanno le cose in certe scuole
private."
"Chi l'avrebbe mai detto, chi l'avrebbe mai detto
che ti rassegnassi così! "
Scuotevi la testa incredulo, poi divenisti
sarcastico:
"E che bella esperienza didattica ti stai
procurando!
Il punteggio che avrai alla fine dell’anno non
riguarderà la tua capacità di insegnare, ma
attesterà che sei brava a pulire il cesso!"
Avevi alzato il tono della voce e ti fermasti con
un po’ di affanno.
"E' tutta una conseguenza di quel colpo di testa
di non proseguire con gli studi universitari."
Prevenisti le mie obiezioni e tirasti avanti:
"Tanto i debiti non finiscono mai: qualche
milione in più o in meno che differenza vuoi che
faccia?
Io...tu devi liberarti!"
“Per insegnare, insegno: questo… è una
cortesia in più…”
Cercai di sorriderti, di sorridere, ma la faccia mi
si increspava a sproposito.
Quella notte né tu, né io dormimmo.
Mentre ascoltavo il respiro tranquillo di mia
sorella dal lettino gemello accanto al mio,
percepii suoni.
Nonostante le porte chiuse, sentii che scendevi
dal letto, che andavi in bagno, che ti avviavi
verso il tuo studiolo, ma poi cambiavi idea e
252
venivi verso la camera mia e di Miranda.
Hai socchiusa e, sicuro che io fossi sveglia, mi
hai chiamata in un bisbiglio:
"Cosetta!"
"Che c'è papà?"
"Adesso so chi è quel qualcuno con cui ho
contratto un debito."
Io non risposi.
"Mi hai sentito?
Le parole di padre Pantaleo volevano dire cose
più complicate di quelle che avevo inteso in un
primo momento."
"Vai a dormire, papà."
"Vorrei cantare perché adesso ho tutto chiaro."
"Vai o sveglierai Miranda."
"Meglio, così parlerò anche per lei."
"Sveglierai mamma."
"Benissimo: è tempo!"
Non vidi altro mezzo affinché tornassi in
camera che lo spauracchio di zia Estrella.
"Sveglierai zia Estrella."
"Vado, vado: ma sarebbe bello andarcene via
tutti e quattro subito, anche in pigiama.
Amalia Turrini ci approverebbe."
Il mattino dopo facesti in modo di uscire da
casa assieme a me.
Mentre inforcavi la bicicletta mi dicesti deciso:
"Questa sera, all'uscita da quel posto, ti aspetto
al bar."
Per nulla al mondo avresti chiamato scuola il
luogo in cui lavoravo.
253
A sera, quando c’incontrammo nella pasticceria
dove c’eravamo dati appuntamento, senza
preamboli apristi la discussione.
Eri esaltato e rosso in volto tanta era
l’agitazione interna e l'indignazione che ti
eccitava:
“Al
termine
dell'anno
scolastico
dirai
chiaramente al signor direttore- e calcasti sui
titoli- che può tenerselo il suo bel posto di
lavoro: negriero!"
Io sorridevo, ma non promettevo, cercavo di
prendere tempo; ti trattai come se facessi i
capricci.
"Esageri: tutte le gavette sono dure."
"Non discuto questo: ma è lo sfruttamento, la
mancanza di dignità, la prevaricazione che non
devi accettare.
Se incontrassi uno dei tuoi compagni, dimmi la
verità, o un tuo professore glielo diresti cosa ti
tocca fare, oltre che insegnare, in quel tipo di
scuola?"
Io arrossii e sbuffai.
"Rispondimi ti dico."
"Ai miei compagni non glielo direi soltanto
perché sono tutti ragazzetti che non conoscono
la realtà, che si adagiano sugli allori: figli di
papà, insomma."
"E tu di chi sei figlia?"
Mi ero messa in trappola con le mie stesse
parole:
"Io sono una persona realistica."
254
"Un conto è il realismo, un altro il cinismo.
Insomma, Cosetta, perché devi tradire te
stessa?
Non ti accorgi che l’umiliazione che ricevi mi fa
sentire l’inutilità di quegli anni e di quei
patimenti?
Gli orrori della guerra, del lager erano
sopportabili soltanto per la speranza che
nutrivamo di costruire un’Italia giusta: forse non
tutti ne eravamo consapevoli, ma in tutti c’era,
se pure alla cieca, la fermezza istintiva di
rifiutare ogni oppressione.
Se non vuoi pensare a me, pensa agli altri, tutti
giovani e giovanissimi, che non sono tornati
più!"
Non erano parole, ma pietre monumentali che
sollecitarono la mia memoria tanto che io
risposi:
“Dei morti alle Termopili bella è la sorte,
glorioso il destino.”
Tacemmo e quel silenzio voleva essere un
omaggio alle vittime del più stupido degli sport
umani: la guerra!
Ritornati alla realtà, addussi altre ragioni
ragionevoli:
"Zia Estrella si offenderà; povera! Si è data
tanto da fare per il mio bene ed è così
orgogliosa di se stessa per il lavoro che mi ha
procurato!"
"Lascia che si offenda, ma sono sicuro che
persino lei, se ti avesse visto pulire i cessi, non
255
troverebbe da ridire se tu tornassi a lavorare
all'emporio: meglio "bottegaia", come dice lei."
Sospirai un po' scoraggiata: ed io che credevo
di aver dato prova di saggezza e di maturità!
E pensai ad alta voce:
"La verità è che, a volte, quando si cerca di
accontentare gli altri si scontenta tutti."
"Brava che l'hai capito: allora tu, d’ora in poi,
accontenta te stessa."
Il mio tè poteva essere alla rosa canina o al
bergamotto: non ne sentivo il gusto sotto il tuo
sguardo severo ed esaltato.
Era come se ti fossi risvegliato percepissi le
omissioni che avevi compiuto e volessi
assumerti le responsabilità di padre.
"Ti ricordi quello che ti ho detto la notte
scorsa?"
"Hai parlato tanto che stavi per svegliare tutti..."
"Le parole di padre Pantaleo erano misteriose
come il suo mosaico ed io ogni volta trovo un
significato diverso e sempre più profondo.
Lui parlò dei miei debiti e dei miei crediti. Mi
sono un po' perso sulla faccenda dei debiti.
Prima le parole di donna Rirì mi hanno convinto
che si trattasse della casa dei miei genitori.
Forse era quello che volevo capire io... credevo
che tornare a vivere noi quattro da soli era
molto importante, più importante del viaggio in
Germania.
E da quel momento ho messo via le mie vincite
per rimettere in sesto la casa.
256
Poi è saltato fuori i debiti che ho con Estrella.
Quando tua zia mi ha rinfacciato le spese
sostenute da lei per Miranda; allora ho creduto
che onorare quel debito, che non sapevo di
avere, era altrettanto fondamentale per la mia
dignità e per l'unità della famiglia.
E così ho deciso tra me e me di dividere le mie
economie su quelle due voci.
Ed ecco che scopro che il debito vero l’ ho nei
tuoi confronti: la tua devozione mi ha accecato
al punto da non distinguere più la mia vita dalla
tua!”
Mi osservavi, ma io sentivo chiaramente che il
tuo sguardo mi oltrepassava.
Cercai di scuoterti:
“Scommetto che padre Pantaleo diceva le
stesse cose a tutti quelli che entravano nella
cattedrale: parole che vanno bene per ogni
circostanza.”
Mi guardasti con ironia:
“Non mi fai nemmeno il solletico con le tue
parole da studiata! Nello specchio del mosaicoricordo bene le parole del prete- ognuno vede
se stesso.
Per me ha funzionato così e lascio a te, che sei
studiata, le ragioni della tua ragionevolezza.”
Tacemmo di nuovo: ti vedevo per la prima volta
sicuro, tanto sicuro da non sprecare tempo a
convincermi.
Quel tuo darmi della “studiata”, come già aveva
fatto la padrona del citrato, mi rivelavano che
257
avevi fatto passi da gigante, a mia insaputa;
anche quella che tu avevi chiamato la “tua
ragionevolezza” in bocca si era trasformata da
qualità a calcolo meschino.
Procedevi, oramai, con le tue gambe, dopo che
per tutta la mia vita ti avevo prestato le mie.
“Quando penso a quanto sono stato cieco ed
egoista!"
Vederti così mortificato mi era insostenibile e,
accarezzandoti la mano, ti dissi:
"Non è vero, papà: ci siamo cresciuti a vicenda.
Si sa che tocca ai primogeniti far esercitare i
genitori nel mestiere."
Tu, però, rifiutavi ogni attenuante tanto salde ti
apparivano le certezze che avevi raggiunto:
"I debiti sono questi tre.”
Prendesti il posacenere, la tua tazzina, il
pacchetto di sigarette e desti un nome a
ciascuno:
“Questa è la casa dei miei genitori e capisco
quanto sarebbe indispensabile tornare lì per
ricomporci come famiglia; questi sono i soldi
che devo ad Estrella per Miranda; e questo è il
debito che ho con te.
Si tratta solo di stabilire in quale ordine pagarli."
Ti eri immerso nelle tue riflessioni, mentre io
pensavo, forse per via della ragionevolezza,
che, nonostante ti amassi, nel mio intimo
dubitavo che saresti mai riuscito ad onorare le
tue pendenze.
"Non pensarci più, papà."
258
Tu continuavi a cambiare di posto i tre oggetti.
Ti salutai ed uscii dal locale.
Ti sbirciai dalle vetrate del bar: mi sembravi
velleitario come un fanciullo generoso su cui gli
anni erano passati inutilmente, tranne che per
la pinguedine, i capelli radi, la dentiera...
Mentre andavo verso l'emporio continuai a
voltarmi per guardarti come se volessi
imprimermi bene la tua immagine cara, come
se sfogliassi un album di fotografie animate,
come se la parte di me che, come in tutti,
conosce il futuro, si preparasse al nostro lungo
addio.

L'addio iniziò la mattina d'aprile in cui mi dicesti:
"Oggi non sono di turno, liberati anche tu, una
volta tanto, e andiamocene a fare una gita
verso il mare.
In questa stagione, in giorno settimanale
specialmente, non ci sarà quasi nessuno."
Avvisai Erminia che non sarei andata
259
all'emporio e ti feci da chauffeur come quell'
altro di tanti anni prima.
La mattina era tiepida e calma, senza il vento
turbolento che soffia così spesso dall'Adriatico.
Lasciammo l'auto e camminammo sul lungo
mare.
"E' un mese con la -r- e i ricci saranno pieni di
uova."
Le
tue
parole
mi
rassicuravano:
in
quell'improvvisa gita non c'erano secondi fini,
ma soltanto la voglia di bighellonare e
assaggiare i primi ricci.
Non dovevo aspettarmi di sentirti nuovamente
accusare te stesso e voltare e rivoltare il
discorso dei debiti.
Quindi ci avvicinammo ad un pescatore che
stava sistemando i frutti di mare sulla panca di
marmo del mercatino e intanto decantava la
sua pesca.
I ricci erano neri e luccicanti: ancora vivi si
muovevano tra le alghe.
"Guardate -ci invitò il venditore- guardate come
sono pieni."
E per dimostrazione ne aprì uno con una
forbicetta, lo sciacquò in un secchio pieno di
acqua di mare, ce lo offrì.
Tu mangiasti le uova del riccio con la punta del
coltellino con gli occhi socchiusi per il piacere.
Il pescatore continuava:
"Non ho ragione a dire che sono speciali? Ci
vuole il pane, però, ci vuole il pane! La
260
signorina lo può comprare a quel chiosco.
E' pane di casa che se è vecchio di un giorno,
è più buono."
Io andai verso il chiosco e tornai con una
pagnotta.
Il marinaio ci preparava i ricci che noi
svuotavamo con tocchi di pane e non smetteva
di commentare:
"Sentite?
Altro che aragoste, altro che triglie! Che sapore
eh?
Il mare in bocca avete!
Il sapore del mare dopo che dentro si sono
tuffati tutti i soli e tutte le lune di un intero mese.
E le uova si sono nutrite, gonfiate, maturate al
fuoco di quei due astri."
Noi facevamo di sì, seduti sul parapetto del
lungomare con il pescatore-poeta che
descriveva i sapori come se li gustasse
assieme a noi.
Quando ci sembrò che quel sapore meritava il
rispetto di una breve degustazione, pagammo
le poche lire che il poeta ci chiese ed egli restò
ad esaltare da innamorato, solo per se stesso, il
mare e i suoi frutti.
Riprendemmo a passeggiare sottobraccio, un
po' insonnoliti dal tepore, dal sole, dal frangersi
mite delle onde.
In lontananza vedevo il faro da cui avevamo
guardato la striscia lontana-vicina dell'Albania.
Tu tossivi la tua tosse di fumatore, poi mi
261
conducesti verso la rotonda.
Al posto di ristoro evitammo il caffè per
conservare più a lungo il sapore di mare e
ordinammo semplicemente acqua.
Mentre tutto era così armonioso, tirasti fuori tre
pezzi di carta stretti e lunghi.
Abituata dal mio lavoro di commerciante, li
riconobbi subito: tre assegni.
Li lisciasti sorridendo prima tra te e te e poi
alzando il viso a guardarmi.
"Sono tre assegni da cinque milioni l'uno."
Gustasti le tue parole e la mia aria sorpresa.
"Hai vinto al totocalcio, Papà?!"
Scuotesti la testa, ma continuavi ancora a
sorridere:
"No."
"E allora, da dove vengono? Il prestito di una
banca? E poi perché tre assegni?"
Sorridevi sempre con un’espressione furba
come quella di padre Pantaleo.
Parlavi senza alcuna esaltazione:
"Ho concluso un affare, una vendita."
Procedevi con il contagocce e ti interrompesti di
nuovo per osservare i tre pezzi di carta.
Poi ne spingesti uno verso di me:
"Questo è il tuo!"
"Come mio? Insomma da dove vengono questi
soldi?"
Cominciavo a spazientirmi e a sentirmi in ansia
perché tu avevi la stessa aria sorniona e beata
delle volte in cui eri tornato a casa
262
annunciandoci di aver cambiato lavoro.
La tua contentezza era, quindi, sospetta.
"Ehi ragazzina, non starai pensando che tuo
padre è capace di fare qualcosa di disonesto?"
"Ma dimmi..."
"E’ semplice: io possedevo una casa vecchia e
così mal messa che per rimetterla a posto avrei
dovuto spendere la mia vita e la tua.
Qualcuno mi ha cercato per acquistarla giacché
sventrandola, se ne ricaverà l’area da adibire a
garage a pagamento.
Nel rione, infatti, ora che tutti hanno la
macchina e le vecchie abitazioni sono prive di
garage, è un bel problema lasciare le auto, di
notte, per strada.
Mi hanno fatto la proposta e ho capito subito
che era l’occasione che avevo cercato con il
gioco.
Quindici milioni! Che ho voluti così, divisi in tre
assegni: il tuo; l’altro è di Miranda, e questo è
un anticipo del debito che ho con Estrella; il
resto dei miei debiti con lei lo estinguerò
quando andrò in pensione, con la buona
uscita."
Ti appoggiasti soddisfatto alla spalliera della
sedia.
"Ma papà, e la nostra casa? Dovevamo tornarci
tutti e quattro."
Neanche questo ti scosse:
"E a fare che? Tornare a fare che? Tornare chi?
Miranda ci è vissuta troppo poco per amarla,
263
tua madre, oramai, non lascerebbe più sua
sorella che va invecchiando; io e te allora?
Mammalucca! Sei matta se credi di poter
fermare il tempo."
Ti esprimevi in modo sentenzioso, convertito al
tuo nuovo ruolo di uomo saggio.
Mi porgesti l’ assegno e mettesti via
accuratamente gli altri due.
Ma non era finita.
Sfilasti dalla tasca un giornale e lo apristi,
lisciandolo, sul tavolino sotto i miei occhi:
"Vedi, ragazza, l'affare lo avevo concluso già da
quindici giorni e aspettavo il momento
opportuno per dare l’annuncio. Proprio ieri ho
visto qualcosa in edicola: un giornale dei
concorsi con il bando di quello magistrale.
Datti da fare!
Questi soldi ti serviranno ad andartene via per
sostenere l'esame in una provincia in cui ci
sono più posti di lavoro.
Lo sapevi che il numero dei posti messo a
concorso varia da una provincia all'altra? Be'
c'è tutto scritto sul giornale. Guarda tu stessa."
Ascoltavo incredula, mentre tu mi leggevi i nomi
delle province e ora me ne proponevi una, ora,
un'altra.
Io insistevo nel far finta che fosse tutto uno
scherzo o una forma di esaltazione da parte tua
che pian piano sarebbe sfumata, riportando te e
me all'equilibrio precedente.
Ma tu continuavi:
264
"Che te ne pare di Bologna? Ho amici nelle
ferrovie di Stato e tutti hanno parenti sparsi per
l'Italia: ti daranno le indicazioni per una
pensione o un affittacamere.
E studia. Mi raccomando!"
"Ma papà: Bologna! Così lontano? Mi scacci?"
"Se proprio vuoi saperlo sono stanco di dovermi
preoccupare ancora per te!
Fatti il tuo avvenire così come è giusto. A te
devi pensarci tu!”
Tornammo indietro: tu canticchiavi per i fatti
tuoi, evitavi persino di sfiorarmi.
"Pensa al tuo avvenire."
Diventò una sorta di ritornello: quando cercavo
di tornare sull'argomento, sollevavi lo sguardo,
ma subito scrollavi la testa come se la mia
fosse testardaggine puerile e ripetevi la tua
sentenza prima di tornare ad ingolfarti nei dati
del sistema.
Il gioco non era più un assillo, ma rimaneva un
esercizio matematico che ti appassionava.
Sempre piena di perplessità, assistei, qualche
giorno dopo, alla cerimonia un po' solenne con
cui consegnasti gli altri due assegni:
"Questo è per te, Miranda, ma vale anche per
quando compirai diciott'anni e per quando
conseguirai il diploma .
Cosetta ha già avuto il suo.
E questo è per te, Estrella, con tanti
ringraziamenti e scuse per il ritardo.
Certo è solo un acconto, il resto lo avrai quando
265
andrò in pensione."
Miranda fece il giro del tavolo per abbracciarti e
baciarti.
Zia Estrella arrossì, non so bene perché,
mentre prendeva l'assegno.
Eri contento e anche mamma pareva fiera di te.
Non chiese niente e quindi capii che la
faccenda della vendita della casa doveva
esserle già nota come pure ad Estrella giacché
non fece domande; tuttavia non si trattenne dal
dire:
"In tutti i modi, Palmiro non ti intendi di affari:
quindici milioni per tutta quell'area... ti sei fatto
fare fesso..."
Temetti una tua reazione: al contrario fosti
molto conciliante:
"Non importa, non importa: io avevo urgenza di
avere questi soldi e l'acquirente me li ha dati
subito; va bene così."
Ero indispettita da quel terremoto che mi
scombussolava la vita, anche se tra me
ammettevo che non potevo tollerare un altro
anno in quella specie di scuola.
Ma
d’altro
canto
cercavo
scappatoie
all’emigrazione: immaginavo per me un'altra
scelta e sfogliavo i modelli femminili che avevo
frequentato: sarei diventata moglie come
Prisca?
Ma come avrei potuto essere moglie giacché
non ero signora di una qualche prelibatezza
come il limoncello?
266
Escludevo zia Renata e zia Estrella.
Mi sarebbe piaciuto essere un’altra Amalia
Turrini, ma anche per quello era oramai tardi
perchè il citrato, le mignatte, i chiodi di garofano
avevano da tempo rivelato la loro natura
effimera.
Per essere una vera bottegaia avrei dovuto
avere il monopolio di qualche misteriosa
sostanza, altrimenti sarei stata soltanto una
commerciante tra tante.
Ecco che zia Naida faceva capolino: mi
sarebbe piaciuto essere un’altra zia Naida:
famosa come lei per la bellezza tanto che tutti
sarebbero venuti per vedermi; avrei avuto
proposte di matrimonio che i miei genitori
avrebbero vagliato con attenzione; ci sarebbe
stato un altro barone Francesco che mi avrebbe
inanellato per poi morire?
E poi un altro giovane d’avvocato che sarebbe
caduto in guerra per una causa in cui credeva?
Infine avrei conteso a Miranda il suo
spasimante?
No!
Questo non era il mio romanzo: io non
possedevo una bellezza speciale in un mondo
in cui ormai tutte le ragazze erano belle ed
imbronciate.
A me era toccato essere la studiata della
famiglia e a Miranda, la bella.
Mi passò per la testa l’idea che potevo
accordarmi con mia sorella: avrei accudito i
267
bambini di lei che avrebbe sposato certamente
un partito che l’avrebbe obbligata ad una vita di
rappresentanza e a trascurare i figli.
Sapevo che nessuno di questi era il mio ruolo,
ma fantasticarci su mi permetteva di abbozzare
una qualche forma di opposizione alla strada
che tu volevi impormi e che io vivevo come un
esilio.

Mentre io mi consolavo con le fantasie, tu
procedevi nel disegnarmi il futuro.
Una sera, mentre mamma e zia Estrella erano
appisolate di fronte al televisore, mi dicesti:
“Indovina!”
“Cosa?”
“Non indovineresti mai!”
“Allora spiegami!”
268
“Ho scoperto che Piazza Sant’Oronzo si
chiamava un tempo Piazza dei mercanti!
Mercanti veneziani!
Addirittura esisteva nel millecinquecento una
fiorente colonia veneziana!
Quello che chiamiamo il Sedile era il loro
palazzo del governo e la borsa delle merci! .
Fu fatto costruire dal sindaco veneziano Pietro
Mocenigo nel 1592.
Che te ne pare?”
“Ma dove le hai pescate tutte queste
leggende?”
“Sono stato in biblioteca perché tutti quei nomi
veneziani che ci sono da noi, Palazzo
Foscarini, Palazzo Morosini, Corte dei
Mocenigo, mi frullavano nella mente.
Sono andato in biblioteca per cercare un libro di
storia, non sapevo bene se di Venezia o di
Lecce.
L’addetto, che era più colto di Salomone, mi ha
raccontato a voce tutto per filo e per segno ed
io poi mi sono segnato date e nomi. Fatti storici,
non leggende!”
Sbandierasti un foglietto!
“Pensa Piazza Sant’Oronzo altro non è che una
piazza di Venezia.”
“Abbassa la voce: sveglierai mamma e zia
Estrella.”
“Dimmi tu se questo non è un segno! Annessa
al sedile c’è una chiesetta, ora in disuso,
intitolata a San Marco voluta appunto dai
269
mercanti veneziani.
Dimmi tu- ti ripeto- se questo non è un altro
segno.”
“Dove vuoi arrivare?”
“Che per il concorso non devi scegliere
Bologna, ma la provincia di Venezia! E’
chiarissimo! Vai in piazza e vedrai con i tuoi
occhi!”
Ero irritata con te:
“E’ possibile che ultimamente non fai altro che
andare in cerca di segni fatidici? Per scegliere
al posto mio, per giunta! E’ il colmo!”
Tu sorridevi:
“Credo che, segni o meno, sia un’ottima scelta:
mare Adriatico di là come qua!
E se io mi impiccio è perché tu non ti decidi a
fare qualcosa di concreto per la tua futura
professione.”
Lasciai perdere e per farti un dispetto la mattina
dopo non andai in piazza Sant’Oronzo, ma ci
andai dopo qualche giorno…
Sedetti al bar più centrale ed ordinai:
-Mi porti qualcosa- al cameriere che restò
perplesso.
D’altra parte ero lì soltanto per osservare
piazza Sant’Oronzo per verificare se era
possibile che un tempo avesse preso il nome
dai mercanti veneziani; che il Sedile fosse stato
la loro sede di governo fatto costruire da un
Pietro Mocenigo, e che non era un caso se la
chiesetta vicina aveva stesso nome della
270
celebre basilica: San Marco.
Non so quale prova cercassi al di là di ciò che
dicevano gli storici locali.
Il leone di San Marco era lì, sul portale della
chiesa; scolpito nel tufo leccese vibrava le ali.
Ma sì: Bologna o Venezia che importanza
aveva? Entrambe lontane ed estranee.
“Che sia Venezia!”
Mi lasciai, quindi, sospingere dalla tua
determinazione.
Quasi per farti dispetto presentai, oltre la
domanda per il concorso, anche quella di
supplenza, per l'anno successivo, nella
provincia di Venezia.
Con quelle carte firmate da me mettevo un
picchetto irrevocabile sulla mia vita.
Ora non fantasticavo più seguendo le orme
delle donne della famiglia, ma mi esercitavo ad
immaginare me stessa destreggiarmi a
Venezia.
Fino ad allora il suo nome era collegato a
conoscenze scolastiche o immagini di
documentari: le sue origini, i ponti, lo sposalizio
con il mare, le gondole, i dogi, la regina del
commercio delle spezie.
Formule, stereotipi, concetti scontati che non
dicevano nulla, anzi erano poco più di un
paravento su una vertigine ignota.
Avrei voluto anch’io specchiarmi nel mosaico di
Otranto per riconoscermi e conoscere se la mia
essenza fosse conciliabile con l’anima e
271
l’animus di Venezia che nessun libro o
documentario potevano far percepire.
Durante uno di quegli esercizi si mescolò
l’immagine di Otranto.
Sentivo che le due città avevano qualcosa in
comune: il mare, l’Adriatico, certo; le lotte
contro i Turchi, verissimo, ma non soltanto.
Mi convincevo che ciò che le accumunava
intimamente fosse la doppia vita a cui entrambe
erano condannate.
Quella che si offriva rassegnata e prezzolata ai
turisti durante la stagione e l’altra con le sue
peculiarità che soltanto nel silenzio e alla
presenza di rari intenditori si lasciano cogliere.
Avevo forse bisogno di quel gemellaggio per
ritrovare qualcosa di noto e non sentirmi
smarrita?
Con il nuovo autunno ero tornata ad abbinare al
lavoro nell'emporio, e alle lezioni private.
Il direttore della scuola cadde dalle nuvole
quando io mi licenziai e sua madre inviò una
lettera, un vero e proprio trattato sulla mia
ingratitudine; a zia Estrella che mi tenne il
broncio per un po’.
La mia firma sui documenti che credevo smarriti
tra tanti nelle graduatorie del provveditorato di
Venezia, si animò come un amo che mi
attrasse verso di sé: a metà ottobre giunse una
comunicazione che mi assegnava una
supplenza annuale.
Non ebbi o non volli avere il tempo di pensare:
272
spedii il telegramma di accettazione, preparai
una valigia piena, soprattutto, di libri e mamma
mise altri miei effetti in un pacco che mi
avrebbero fatto pervenire non appena avessi
trovato una sistemazione.
La sera stessa partii.
"Pensa al tuo avvenire."
Me lo ripetesti mentre salivo sul diretto LecceTrieste e mentre me ne stavo schiacciata
contro il vetro con un atteggiamento da orfana.
Era proprio a me che tutto ciò stava
accadendo?
Fortuna che il viaggio durava dodici ore: avrei
cercato di dormire per tutto il tempo oppure
sarei scesa alla prima stazione?
Mi ripetevo il nome del paese, in provincia di
Venezia, dove avrei dovuto insegnare: Treporti;
e il nome della persona che sarebbe venuta alla
stazione di Mestre a prelevarmi.
Era un conoscente anche lui trasferito nel nord;
lo ricordavo vagamente, lo stretto necessario,
almeno speravo, per riconoscerlo.
E quando il treno si mosse, dovetti controllare
l'impulso di tirare il freno.
Volevo scendere e dirti:
"Abbiamo scherzato, papà: facciamo che tutto
torni come prima."
Invece tutto cambiò vorticosamente: innanzi
tutto, all'arrivo a Mestre, venne a prelevarmi il
conoscente che se n'era incaricato.
Si grattò la testa quando gli dissi la mia
273
destinazione.
"Se ti facessi vedere la località sulla cartina, ti
sembrerebbe vicinissima in linea d'aria, ma con
la laguna di mezzo tutto è un po' complicato.
Ma vieni, vieni, non spaventarti. Non facciamo
nemmeno in tempo per una brioche...."
Riprendemmo il treno e dopo una ventina di
minuti eravamo a Venezia.
La laguna di novembre con una infreddolita e
affamata popolazione di colombi ci aspettava,
mi sembrò, all'uscita dalla stazione.
I procacciatori dei vari hotels, con il loro
sguardo esperto, non ci presero in
considerazione.
Intanto il mio ospite mi sospingeva verso
l'imbarcadero.
Nella nebbiolina leggera che rimaneva a
mezz'aria vidi caracollare un vaporetto, seguii le
manovre dei marinai, la gente ravvolta che
scendeva e l'altra che si imbarcava e tra questi
io e la mia guida che portava una delle mie
valigie.
Il vaporetto solcò tutto il Canal Grande: io
guardavo l'acqua sotto, la nebbia sopra, lo
zoccolo nero dei palazzi, le rare gondole con
qualche turista giapponese, i ponti.
Percepivo lo schiudersi dell’anima di Venezia e,
subito dopo, la sua guardinga ritrosia.
Ci misuravamo a vicenda.
La città voleva decidere se poteva fidarsi di me,
ennesima forestiera; io quanto lei fosse vicina e
274
quanto lontana dalle mie fantasticherie.
Attraccammo in piazza San Marco, ma ebbi
soltanto il tempo per una sbirciatina perché già
dovevamo salire sulla motonave per Treporti.
L’incontro a tu per tu con la città che aveva
avuto una piazza a Lecce era rimandato per via
di tutto quel susseguirsi di sali e scendi da
mezzi di trasporto.
I campanili delle isole della laguna sembravano
beccheggiare sulle onde, mentre in verità ero io
che beccheggiavo assecondando il movimento
della motonave: come quando da bambina
dondolavo su me stessa per consolarmi.
A Treporti, la mia guida mi sistemò in una
trattoria con alloggi, ma mi consigliò di cercare
una soluzione più economica; per esempio una
stanza in famiglia con l'uso di cucina.
Scappò via ed io lo immaginai mentre
ripercorreva all'incontrario quella serpentina che
fugacemente avevo intravisto.
Presi servizio a scuola e, quasi subito, la bidella
mi trovò una sistemazione in famiglia: si
trattava di una gentile famigliola formata da
padre, madre e tre ragazzetti di età assortita.
I ragazzi mi accolsero come una bella novità
interrogandomi su Lecce, sulle spiagge ed il
mare del Salento, sul cibo fino a quando la
signora Antonella, la loro madre, non li scacciò
rimproverandoli per la loro indiscrezione.
"Vieni con me- disse- Non te la prendi a male
se ti do il tu, vero?
275
Sembri più giovane della tua età e spersa. La
camera è in mansarda, ma è bella grande e
ariosa ed ha il servizio.
Ci metteremo d'accordo per gli orari in cui ti
occorrerà la cucina: sappi che a me non
costerebbe niente preparare per una persona in
più, se vuoi..."
Io non sapevo cosa dire: avevo voglia di
piangere e non vedevo l'ora di restare da sola;
quindi risposi un po' vagamente:
"Grazie, ma preferisco fare da me."
Quasi ogni sera andavo al posto pubblico per
telefonare a casa anche se, più che parlare,
piangevo come una bambina, ma tu,
inesorabile, mi ripetevi la stessa frase:
"Pensa al tuo futuro."
Mi sentivo così incompresa e ti giudicavo così
insensibile che a volte saltavo le telefonate e
per mettere un freno alle nostalgie mi tuffai
anima e corpo nella preparazione per il
concorso.
Per l'uso della cucina feci in modo di disturbare
il meno possibile: a pranzo me la cavavo con
una bistecca, a cena con un panino.
La signora Antonella veniva spesso ad
invitarmi, ma io ringraziavo e declinavo l'invito
adducendo lo studio.
Dovetti sembrare a quelle brave persone un
essere scostante e misantropo.
Quando ero proprio stanca di studiare alzavo lo
sguardo fuori dalla finestra.
276
Dopo il tramonto mi sembrava che le anatre
mute, le folaghe, le poiane, gli aironi si
affannassero a trapuntare con i loro becchi la
coltre impalpabile di goccioline: più in fretta
possibile prima che la foschia precipitassero in
nebbia; questa si addensava al punto che, a
volte, la motonave da e per Venezia non
partiva.
Io pensavo con un brivido alla distanza
incommensurabile che mi divideva da Lecce,
da te, dal telaio di zia Naida, dalla gabbia di
Porfirio, dal citrato di Amalia Turrini.
Pensavo a Venezia che, nonostante fosse
vicinissima, era intangibile per quella cortina di
bruma che si infittiva.
Forse che Venezia aveva messo le gramaglie
per rispetto al mio stato d’animo?
Quando proprio non ne potevo più, ti scrivevo
lettere compromettenti:
"Treporti, 26 novembre 1970
Carissimo, papà
Sono qui solo da due settimane e ancora mi è
difficile rendermi conto di dove mi trovo e di
cosa faccio. Qualche volta dubito anche di chi
io sia.
Conto i giorni che mi separano dal ponte
dell'Immacolata. Partirò giovedì sera e arriverò
giusto per l'otto dicembre. Avremo tutto il
venerdì, il sabato e la domenica fino alla
partenza del Lecce-Trieste. Quasi tre giorni
interi!
277
Venerdì lo trascorrerò con tutti voi e mi dispiace
un po' che ci sia anche il nuovo ragazzo di
Miranda perché non saremo proprio in famiglia,
ma non posso negare a mia sorella il piacere di
presentarmi il suo nuovo amore.
Sabato andrò a trovare la signora Erminia e a
rivedere l'emporio.
Voglio proprio guardare se c'è ancora il segno
della gabbia del pappagallo: questa volta
racconterò a te e a lei tutta la verità sulla fine
del povero Porfirio.
Potremmo anche fare una delle nostre gite al
mare fuori stagione; sempre che non ci sia
troppo freddo per te.
Che ne dici di salire di nuovo sul faro: hai
ancora la vista buona per indicarmi l'Albania ed
io, ora che sono adulta, ascolterò tutta la storia
della tua prigionia con un'attenzione maggiore
di quando ero bambina.
E potremo progettare per la prossima estate
quel viaggio in Germania.
Non preoccuparti per i soldi: te lo offrirò io se tu,
nel frattempo, non avrai vinto al totocalcio la
somma adeguata.
Mi dite che il tempo da voi è splendido e
assolato: qui c'è quasi sempre una nebbia fitta
e desolante.
Chi ci è abituato non ci fa caso, ma io metto il
naso fuori soltanto per andare a scuola.
E dopo l'otto di dicembre alle vacanze di Natale
mancheranno soltanto quindici giorni.
278
Questo mi dà coraggio, ma non voglio pensare
a dopo: l'undici febbraio, per i Patti Lateranensi,
forse potrò di nuovo venire.
Mi sento sola, anzi isolata, fuori dal mio mondo,
non faccio che piangere e rimproverarti di
avermi mandata tanto lontana per via di quel
maledetto debito che ti sei messo in testa di
avere nei miei confronti.
Andremo insieme a veder dare la prima
picconata alla nostra vecchia casa e spero che
tu ti renderai conto che hai interpretato male le
parole di padre Pantaleo: era la casa e non io il
tuo vero debito.
Ti abbraccio forte mentre piango fino ad essere
sfinita. Quando vai a giocare a bocce evita gli
angoli troppo ventilati.
E, a proposito di giochi, che fine ha fatto la
scacchiera? Ti abbraccio di nuovo
Cosetta."

Che fortuna, papà, che lettere come questa,
che avrebbero sconvolto te e tutta la famiglia,
non le abbia mai spedite!
Mi addormentavo leggendole e rileggendole
fino a quando non le avevo imparate a memoria
e immaginavo la tua faccia e i commenti di zia
Estrella, i pianti di mamma, il turbamento di
Miranda di fronte a lettere del genere.
279
Veder mescolarsi sullo stesso foglio una
sequela di precisissime date ad un
guazzabuglio di ricordi e confessioni incoerenti
vi avrebbe fatto temere per me.
In realtà quelle lettere non erano scritte da
un'adulta, ma da quella parte infantile di me
che, non essendosi fatta viva al momento
giusto, faceva capolino fuori tempo e fuori
luogo.
Al mattino successivo era abbastanza rinsavita
da strapparle.
Vi scrivevo lettere più normali e meno lagnose
che bilanciavano, almeno in parte, le lacrime
che per telefono non sempre riuscivo a
trattenere.
Durante quell'anno di supplenza mi preparai al
concorso magistrale, lo sostenni e lo vinsi.
Ogni passo che mi faceva progredire, mi
allontanava da te e dalla mia vita di prima,
anche se tornavo "a casa" ad ogni occasione:
Natale, Pasqua, le vacanze estive.
Ma, pur non volendo, mi estraniavo: riprendere
il filo interrotto quando non si condivide la
quotidianità è un'impresa impervia.
Ero insofferente verso tutti e non mi
raccapezzavo: amavo Lecce e voi; spasimavo
per tornare e, tuttavia, al mio arrivo mi sentivo
fuori posto.
Cercavo di essere di buon umore e, per
riallacciare le fila dei nostri discorsi, raccontavo
le mie esperienze, le mie sensazioni, il
280
paesaggio lagunare, i vaporetti e Venezia.
Una volta venne anche Giorgio con la moglie e
le due figlie a guardarmi come un fenomeno da
baraccone per quell'ardimento insospettato che
avevo dimostrato andandomene e commentò:
"Certo che sei fortunata: tanta gente va lontano
in Svizzera, in Germania, in Belgio.
Tu, almeno, sei qui in Italia.
E gli altri, poi, vanno a fare gli operai, i
minatori, i camerieri: tu hai un lavoro che ti dà
prestigio."
"Ma lontano chilometri- diceva Fernanda
lisciando le sue piccole- Io morirei."
"Se avesse voluto- si intromise zia Estrellaavrebbe potuto rimanere qua.
E' stata una ragazzata; vuol farci morire dal
dispiacere.
Le avevo trovato un posto in una scuola...ma lei
niente...è scappata.
E chissà che vita, che pericoli..."
E tu placido:
"Cara Estrella quella scuola tienila presente per
le ragazze di Giorgino, se mai ne avranno
bisogno.”
Fortuna che Giorgio e la sua famiglia non
potevano cogliere il senso di quella
osservazione.
Inoltre Miranda aveva un moroso ricco e questo
rallegrava la zia e mamma e tutti dirigemmo su
di lei l'attenzione.
Zia Estrella affermò con sicurezza, rivolgendosi
281
a mia sorella:
"Tu no, non farai l'emigrante."
"Ci mancherebbe anche questo." Le diede man
forte l'innamorato di mia sorella.
Alla fine dell'estate ero impaziente di tornare a
Treporti.
Così smisi di remare contro corrente.
Con il nuovo anno scolastico, che mi vedeva di
ruolo in quella sede in cui ero stata supplente,
decisi di non rincantucciarmi più in me stessa.
Cominciai a stringere amicizia con i colleghi
che, nella maggior parte dei casi, abitavano a
Venezia.
In principio accettai gli inviti dei più anziani
come se continuassi a cercare un nido.
Per questo fui spesso ospite della mia collega
Wally e di suo marito Alvise, una coppia sui
cinquant'anni che non aveva figli.
Erano due squisiti veneziani: romantici, ma non
sentimentali e con un sale di ironia che mi
insegnava l'equilibrio che era mancato alla mia
educazione permeata da quella venatura di
tragedia greca, sempre incombente.
Credo che mi abbiano capita: non mi hanno
giudicata una primitiva un po' zotica, ma solo
una provinciale appena, appena inselvatichita.
Mi fecero conoscere Venezia grandiosa e
minimalista con i suoi locali pieni di "cicchetti" e
di "ombre".
E mi convinsero ad abbonarmi assieme a loro
agli spettacoli pomeridiani della Fenice, alla
282
stagione teatrale del Goldoni.
E così divenni espertissima di orari di motonavi
e mentre facevo su e giù da Venezia mi
sorprendevo e mi chiedevo chi fossi ed
imparavo a riconoscere, anche se lentamente,
quello che volevo io per me stessa.
Fu proprio sulla motonave per Venezia che un
giorno conobbi Aldo.
Aldo era da Pesaro, aveva vinto un concorso
alle poste e lavorava sulla terra ferma, come
dicono i Veneziani.
Era entrato in una comitiva di giovani tra i quali
c'era un compaesano che abitava a Treporti e
per questo Aldo frequentava, in certi orari, la
motonave.
A furia di incontrarci cominciammo a sorriderci
e a salutarci con quella disinvoltura propria dei
giovani che in me non era istintiva, ma un
atteggiamento a cui mi andavo conformando.
Un giorno Aldo prese la motonave senza
ragione o meglio non per le solite ragioni, ma
per stare con me.
Me lo disse semplicemente con le sue maniere
pacate e dolci, facendomi arrossire.
Trascorremmo tutta la serata nella pizzeria
vicina all'imbarcadero e mi parlò di se stesso e
della sua città senza quella nostalgia ossessiva
che a me stringeva il cuore.
Andava verso la vita e le esperienze nuove
come una scoperta allegra, senza prevenzioni,
timori, rimpianti puerili.
283
Si meravigliò quando sentì che i miei migliori
amici, quelli con cui condividevo i passatempi,
era una coppia di cinquant'anni.
"Potresti unirti a noi -mi propose- siamo una
comitiva di ragazzi e ragazze in parte forestieri,
in parte veneziani."
Io sorrisi:
"Non vorrei disturbare."
"Disturbare? Ma come parli? Tra giovani quanti
più si è meglio è.
Anche noi andiamo ad assistere a concerti e
spettacoli intelligenti; certo non sempre
facciamo cose impegnate, se no che giovani
saremmo.
Domani, ad esempio, andiamo alle zattere a
prendere il primo sole e a mangiare un gelato
buonissimo.
Vieni con noi, naturalmente."
Io pensavo che Aldo era il secondo uomo nella
mia vita ad offrirmi la pizza, mi perdevo nel
ricordo del Bar Lux e non rispondevo.
Aldo capì che ero un po' particolare, che i miei
tempi non erano quelli degli altri giovani, che
ero insicura nei rapporti con i coetanei.
Quella sera dissi di no che non sarei andata
alle zattere.
"Ma perché?"
"Così."
"Ma ci sarà un motivo?"
"Non decido mai su due piedi."
"Ma dammi una buona ragione?"
284
Insomma facemmo tiro e molla per un po' e ci
lasciammo con un no.
La notte mi girai nel letto pentita per quel rifiuto
e fui molto felice quando il giorno dopo, all'ora
di pranzo, Aldo mi chiamò al telefono:
"Non rispondermi nemmeno: arrivo con la
motonave delle sedici e trenta e andiamo alle
zattere."
Così cominciai a tralasciare un po' la
compagnia
di
Wally
-che
mi
prese
affettuosamente in giro- ed entrai, finalmente, in
un gruppo di coetanei.
Ero sempre un po' stonata e fuori posto perché,
caro papà, non avendo mai fatto capricci in vita
mia e non essendomi mai permessa di pensare
a cose futili, non avevo l'allenamento,
l'esercizio, l'abitudine- non so come chiamarli- a
farlo.
Ero diventata saggia senza mai essere stata
giovane.
E tuttavia questa condizione interiore, che
costituiva la mia essenza e trasudava dai miei
gesti, attirò Aldo.
Si innamorò di me ed io di lui che mi sapeva
ascoltare e capire così bene.
Capiva tutto Aldo e con lui fin dal primo
momento potei parlare di te e della scacchiera,
della tua vita, della tua guerra, della tua fragilità
e della tua grandezza con i giochi e del sistema
del totocalcio.
Stavo quasi per parlargli anche del viaggio in
285
Germania, ma non lo feci.
Restai così colpita dalla sua capacità di
comprendere cose che erano lontane e fuori
dalla sua esperienza che pensai che sarebbe
stato un ottimo compagno.
Forse pensai anche che sarebbe stato un
ottimo genero per te.
Sì Aldo aveva tutto quello che occorreva al mio
equilibrio e al tuo quando, dopo che avessimo
cumulato un certo punteggio, fossi tornata a
Lecce.
Da quel momento la vita si avventò su di me.
Aldo mi chiese quale pietra preferissi per anello
di fidanzamento.
“Né zaffiri, né rubini, né brillanti!”
Risposi come se fossi ancora in quel
pomeriggio della spartizione degli anelli di zia
Naida.
Ero stata così decisa che Aldo restò un po’
interdetto, poi rise pensando che mi riferissi alle
nostre convinzioni alternative.
“Né zaffiri, né rubini, né brillanti! – ripeté lui
“Che sollievo! Perché dovete sapere, cara
principessa, che il vostro innamorato dovrebbe
vendere gli occhi per ricoprirvi delle gemme che
meritate!”
E la sua dolce, dolce bocca si congiunse con la
mia.
Proseguimmo abbracciati e complici:
“Veramente mia madre, a cui sei piaciuta
subito, sarebbe pronta a sobbarcarsi perché286
dice- sei una ragazza che merita.”
“Bontà sua, ma non occorre. Comunque sono
contenta di piacerle.”
“E’ perché non ti conosce quanto me… non sa
quanto puoi essere sorprendente e arcaica
nello stesso tempo!”
“Grazie! Facciamo così: andiamo in giro in certi
fondaci di Venezia e vedrai che riconoscerò il
mio anello.”
Fu così che scelsi una fede sarda di seconda
mano.
Il matrimonio, poi, che si tenne a Lecce, con i
miei suoceri e i miei cognati giunti da Pesaro, fu
una grande baraonda.
Io e te, papà, continuammo a dirci addio
quando mi portasti all'altare.
Anche quel breve cammino che percorremmo
insieme sulla guida rossa dalla soglia della
chiesa, dedicata alla Madonna del Rosario,
all'altare maggiore ci allontanava.
Anche se tu avevi un aspetto fierissimo ed io
pensavo ad Aldo così bello nel suo vestito da
sposo che mi sbirciava dall'altare.
Si sa che il senso di certi momenti nodali siamo
destinati a capirlo solo con il tempo.
E tutto andò di conseguenza:
Aldo, come avevo intuito, era il genero che ti ci
voleva: aveva un'istintiva delicatezza verso tutti,
il rispetto degli anziani, l'umanità.
Queste doti conquistarono anche te e non
avesti alcuna vergogna a metterlo a parte del
287
tuo sistema, della vincita grandiosa che prima o
poi sarebbe venuta.
Mio marito ti guardava in modo penetrante.
Aldo ascoltava le basi matematiche del tuo
sistema e ti dava ragione, non come si dà
ragione ad un vecchio stolido, ma perché
provava dell'affetto per te e lo stesso affetto gli
permetteva di comprendere anche quella
specie di pellegrinaggio che volevi compiere.
Ci dividevamo tra Spoleto, dai miei suoceri, e
Lecce perché le nostre venute ti rendevano
felice.
Anche mamma lo era e Miranda, che aveva un
nuovo innamorato e frequentava la facoltà di
giurisprudenza a Bari.
Persino zia Estrella era quasi amabile con Aldo
e con me eccetto che quando, con un sospiro,
dopo un paio di anni dal matrimonio, cominciò a
dire:
"E bambini, niente?"
Anche nel tuo sguardo vidi brillare quella
domanda.
D'altra parte io stessa cominciavo a
preoccuparmi per il bambino che non veniva e
divenni suscettibile sull'argomento al punto da
evitare per qualche tempo di tornare a Lecce.
Poi ci furono le mie gravidanze andate a monte.
Dopo ciascuna mi dovevo rimettere fisicamente
e più ancora moralmente.
Così per un po' di anni il nostro rapporto si
ridusse alle telefonate e alle lettere.
288
Miranda si laureò, proprio mentre io ero
costretta a starmene a letto per non perdere il
bambino e mi dovetti limitare agli auguri per
telefono e all'invio di un mazzo di rose.
Avevo trentacinque anni quando nacque
Giuseppe.
Tu e mamma veniste per il battesimo.
Arrivaste con tutte le leccornie che potevate
portare tanto che io, sapendo che solo tu
avresti capito, scherzando dissi:
"E i ricci, papà? Li hai dimenticati?"
Mia madre che era all'oscuro, cadde dalle
nuvole:
"I ricci! Quali ricci?"
E tu rimettesti le cose a posto con il tuo
intervento:
"Altro che ricci! Ho portato schei
-come dicono qua- Ho fatto un dodici..."
"Eh il tredici- intervenne mamma- non lo ha
pizzicato nemmeno questa volta."
"Ma è ugualmente una bella sommetta e un bel
regalo per mio nipote."
"Aprigli un libretto di risparmio."
Suggerì mamma.
A distanza di anni mi sembrasti invecchiato,
mentre mamma era solo diventata un po'
muscolosa.
Il tuo spirito sembrava vivificarsi alla vista del
nipote, del figlio maschio che non avevi avuto.
Ancora una volta sentii che ero stata all'altezza
del compito che tanto tempo prima mi ero
289
assunto: farti felice.
Gli anni successivi alla nascita di Giuseppe
sono stati tutto un dialogo tra te e mio figlio.
La sua vista ti riempiva di fierezza e di
tenerezza: il bambino che era in te lo coccolavi
e lo viziavi attraverso lui.
Dialogavate per telefono come vecchi amici.
Ogni sua parolina o monelleria ti inteneriva.
Non c'era mese che non chiedessi sue
fotografie per seguirne la crescita.
Oramai eri andato in pensione e fui più volte
tentata di chiederti se avevi liquidato i tuoi debiti
con zia Estrella.
Ma non lo feci e mi meravigliai nel rendermi
conto che non c'era tra noi la confidenza di un
tempo.
Miranda era sempre fidanzata, anche se i suoi
legami affettivi andavano inevitabilmente a
monte.
Questo
mi
faceva
comprendere
più
chiaramente quanto fosse importante per te il
mio ritorno a Lecce.
Cominciasti ad accennare timidamente alla
nostra domanda di trasferimento.
Io ne parlavo con Aldo che non lo escludeva,
anzi, come per mettermi alla prova, mi diceva
sorridendo con tenerezza:
"Decidi tu, io sto bene ovunque: qui, a Pesaro,
a Lecce.
Tutti i luoghi vanno ugualmente bene per me.
Devi scegliere tu il posto in cui ti trovi meglio."
290
Giudicai Aldo un marito comprensivo, ma poi
cominciai a sentire il peso di quella decisione
che dovevo affrontare da sola.
Quando tu riprendevi il discorso per telefono o
quando ci si vedeva di persona ti rispondevo
come un ritornello che richiamava nella mia
memoria quello tuo degli anni addietro: "Pensa
a farti un avvenire" .
Ti rispondevo:
"Appena avremo accumulato un buon
punteggio"
In principio ci credevo e facevo conteggi dei
punti per ogni anno di insegnamento, quelli per
il marito e per Giuseppe e concludevo che
dovevamo aspettare ancora un po'.
La tua domanda non cambiò con il passare
degli anni, soltanto era la mia risposta che si
adattava alle circostanze.
Sapevo che erano scuse evasive che mutavano
quel tanto che corrispondeva alla crescita di
mio figlio.
Ti dicevo:
"Quando Giuseppe terminerà la scuola
materna."
E dopo:
"Aspettiamo che Giuseppe termini il ciclo della
scuola elementare: non possiamo sradicarlo."
Poi hai smesso di chiederlo e di crederci.
Imparasti ad accontentarti delle nostre venute
anche se anche quelle si andavano diradando.
Ora che eravamo in tre, tornare per le vacanze
291
estive era motivo di disagio perché la casa era
comunque la casa di zia Estrella che era
diventata tanto anziana, non amava la vivacità
di Giuseppe, ed era addolorata per i
fidanzamenti che Miranda mandava a monte.
Così affrontavamo quel viaggio lunghissimo per
trattenerci solo pochi giorni in punta di piedi,
quasi, e rimanevamo entrambi con l'amaro in
bocca come di fronte a qualcosa di incompiuto
e, durante il viaggio di ritorno, a momenti
provavo la voglia di tornare indietro per portarti
via con noi; a momenti giuravo a me stessa che
non sarei tornata mai più.
Fu Aldo che con il suo buon senso e il suo
amore trovò la soluzione: per trascorrere il
mese d'agosto a Lecce, affittammo un
appartamento che d'inverno era occupato da
universitari.
Così nessuno era disturbato dalla nostra
presenza e ci potevamo godere quel lungo
periodo.
Quell’ agosto, al mostro arrivo a Lecce, era
appena stata emessa la sentenza su Priebke.
Ero ansiosa di vedere se tutta quella faccenda
aveva riaperto le tue vecchie ferite, se i ricordi
visti nella scacchiera erano tornati a tormentarti.
Ma tu, invece, eri tutto preso da Giuseppe sui
pattini.
Le spericolatezze del ragazzino ti divertivano e
ti inorgoglivano.
Non ti nascondevi dietro solitari o parole
292
crociate, eri diventato capace di farti piccino
come mai eri riuscito a fare con me o con
Miranda.
Non ti saresti distolto da lui se non fossimo stati
noi ad interpellarti sul processo Priebke.
Seguisti un po' le immagini per televisione e
dicesti:
"Che la giustizia umana debba fare il suo corso
è vero.
Ma mi sembra un povero vecchio come me...
potrei persino fare una partita a carte con lui
con quel po' di tedesco che ricordo ancora, o
giocare a bocce.
E se fossi ancora in servizio lo porterei in giro a
fargli vedere mare e cielo: forse non li ha mai
guardati."
Ridesti:
"Ti ricordi, Cosetta, di quando ero giovane che
mi ero messo in testa di tornare a visitare il
lager?"
"Sì papà: ne parlavi spesso.”
"Avrai pensato, che ero proprio un vecchio
pazzo."
Non attendesti la mia risposta, ti facesti un po'
pensieroso e riprendesti abbassando la voce:
"Sai, Cosetta, ora ho capito tutto di quello che
mi disse padre Pantaleo.
Parlò dei debiti, ma anche dei crediti che- disse
proprio così- “credevo di avere”.
Mentre mi davo da fare per pagare i debiti mi
sono dimenticato dei cosiddetti crediti e quindi
293
dei miei aguzzini, del mio rancore verso di loro
e del famoso viaggio.
Solo così ho cominciato a vivere veramente.
Che perdita di tempo c'è nel rancore!."
E ti rimettesti a giocare con Giuseppe.
Eri pacificato.
E lo fosti per tutto il mese e così ancora mi
apparisti il giorno della nostra partenza alla fine
d'agosto.
Il tuo sorriso era furbo e dolce nel saluto che ti
ricambiammo dal finestrino dell'automobile,
mentre Giuseppe si sbracciava.
Anch'io ero appagata nel vederti sereno e
sollevata perché mi eri apparso finalmente
libero.
Durante il viaggio, quando Giuseppe si assopì e
imboccammo l'autostrada, potei abbandonarmi
alle mie fantasticherie. Tornavano tanti fantasmi
ed echi del passato, tanti volti come quello di
zia Naida e di donna Rirì.
E di nuovo mi chiesi quale fine avesse fatto la
scacchiera.
Forse era rimasta tra le fondamenta della
nuova costruzione dopo che la nostra vecchia
abitazione era stata sventrata.
Cominciai a sognare ad occhi aperti e nel
sogno ti vedevo salire le scale diroccate del
faro, tirare fuori da sotto la camicia il cartoncino
e farlo in mille pezzi che sarebbero volati via,
volteggiando assieme ai gabbiani.
Prima o poi avrei avuto la faccia tosta di
294
chiedertelo, magari per telefono o per lettera o,
meglio ancora, di persona: la prossima volta.
Non c'è stata più la prossima volta.
Il 12 settembre ero nuovamente a Lecce
davanti alla tua bara.
Avevi avuto un infarto e dopo poche ore di
coma eri spirato.
E ripensando all'ultimo mese, alle tue parole su
Priebke, alla tua pace capivo che doveva
essere così, che Dio ti aveva preso quando
avevi percorso tutto il cammino fino al perdono
non solo nel tuo intimo, ma anche
testimoniandolo con le parole a me, ad Aldo, a
mio figlio.
Ed ero contenta di averti tenuto per mano lungo
il tuo lento maturare.
C'è un luogo -lo credo- pervaso di Lucenarrano - e la Luce- immagino- prima di
condurci Oltre ci lascerà giocare una partita
sulla nostra scacchiera.
Arrivederci, papà.

295
FINE
296
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  • 2. I n occasioni delle festività erano invitati Giorgio e sua madre, cognata di zia Renata. Alcune volte Giorgio si presentava con la sua innamorata che, però, non era più Lidia, la brunetta con cui l'avevo visto sulla rotonda. La prima volta quell'invito mi scombussolò non 214
  • 3. tanto per la vista di Giorgio, ma perché temevo che succedesse un altro quarantotto come il giorno del battesimo. Io impallidivo e arrossivo per l'ansia e quei segni furono notati cosicché le zie si convinsero che ero sempre innamorata di Giorgio. Benché ciò mi seccasse, preferivo attirare la loro attenzione su di me, purché non ti schernissero per via del viaggio in Germania. Ma erano passati dieci anni e nessuno mostrò di ricordare più le minacce e le promesse apocalittiche di quel pomeriggio. Anzi fu proprio Giorgio ad interessarsi alle novità della viabilità, del doppio binario, dell'orario e tu potesti avere una volta tanto un interlocutore giacché le zie non intervenivano in quei discorsi da uomini. Tra le altre cose Giorgio disse: "Per me, con tutte le macchine che ci saranno in giro, le ferrovie scompariranno. Sai, zia Renata, ho in progetto proprio l'acquisto di un'automobile." L'annuncio suscitò scalpore e ammirazione tra le zie che si sbracciarono ad esaltare quella testa quadrata di Giorgino. Giorgio acquistò la macchina e venne a farsela benedire da don Antonio sotto casa. Volle chiamare l'auto Fernanda come la sua nuova ragazza. Zia Renata osservò: "Si vede che è una cosa seria: io dico che 215
  • 4. questa se la sposa." E mi guardò con un sorrisetto. Io arrossii per il dispetto che mi procurava l'idea che i miei familiari fossero convinti di sapere tutto della mia vita sentimentale; il mio rossore, però, non fece che confermarli in quella idea. L 'acquisto dell'automobile da parte di Giorgio suscitò anche nelle zie il bisogno di averne una: Zia Renata: "Oggi come oggi una famiglia non può farne a meno." Zia Estrella: "Smetteremmo di tornare dalla spesa cariche come muli." E ti guardavano: "Tu, Palmiro, non prenderesti la patente? Ad acquistare l'automobile provvediamo noi..." "Io? Con i miei orari non posso promettere niente... e poi grazie al mio lavoro giro tanto in lungo e in largo tutta la provincia che dopo ho bisogno di starmene tranquillo." La faccenda restò sospesa tra i sospiri delle zie. Io ti guardavo andare via inforcando con grande energia la tua vecchia bicicletta e pedalavi, pedalavi come volando libero. Di lì a poco riportasti un tuo trionfo, grazie ad una vincita che ti permise di acquistare un televisore. Tutti i locali di elettrodomestici ne esponevano ed io facevo in modo di uscire con Miranda per 216
  • 5. fermarmi a guardare la tv dei ragazzi attraverso la vetrina. Nei locali, come bar e sale cinematografiche, si raccoglieva la gente di fronte all'apparecchio televisivo. Con quell’acquisto noi anticipammo e sorprendemmo gli amici. Ora nella casa delle zie arrivavano parenti e conoscenti per assistere agli spettacoli televisivi. A te interessava poter seguire solo gli avvenimenti sportivi e ti mostravi generoso lasciando l'apparecchio per il resto del tempo agli altri. Zia Renata dovette ammettere che, almeno, la televisione non presentava i rischi dell'automobile e fece mille raccomandazioni a Giorgino. Comunque toccò proprio a lei la malasorte: ebbe un "colpo" che le lasciò la parte sinistra un po' offesa. Gli impegni di mia madre divennero ancora più gravosi perché dovette assisterla. Zia Estrella era andata in pensione dal suo lavoro di modista, ma non si sentiva portata ai sacrifici familiari e decise che a lei sarebbe toccato il compito di portare Miranda in giro nelle varie stazioni termali per curare la sua asma. Ogni estate zia Estrella partiva con Miranda e ci mandavano delle bellissime cartoline. 217
  • 6. Il mese di ferie per te divenne una vera tortura anche perché coincideva con la sospensione del campionato di calcio. Avrei voluto che la nostra scacchiera rispuntasse: io avrei finto di non saper giocare a dama e tu mi avresti insegnato. Io continuavo a rinserrarmi tra le mie letture mentre tu eri alle prese con le parole crociate. Per via di quel nuovo passatempo la casa riecheggiava delle domande che mi rivolgevi: "Uno orizzontale, Cosetta: l'eroe della saga dei Nibelunghi." "Sigfrido." "Otto verticale, Cosetta ascolta: il volatile oggetto di ricerca di un famoso romanzo." "L'uccello azzurro." "Il paladino celebrato per la sua pazzia." "Orlando." "Ehi sei proprio brava! Le hai imparate a scuola tutte queste cose?" "Ho letto tanti libri da quando ho iniziato a leggere, non solo quelli di scuola. Non ti ricordi che in prima elementare mi regalasti tutte le serie della Scala d'oro?" "Senti questa: cittadina italiana la cui cattedrale è celebre per il mosaico. A questa sappiamo rispondere tutti e due." - Otranto- dicemmo all’unisono. E subito il pensiero corse a padre Pantaleo, alla sua conversazione dotta e pia; al consiglio che ti aveva dato. 218
  • 7. Io mi ero avvicinata alle tue spalle per sbirciare l'enigmistica e vidi ancora una volta linee nere che si incrociavano come tanti anni prima sulla scacchiera e dopo sui tuoi quaderni del lotto. "Senti quest'altra e, se rispondi esattamente, ci andiamo a comprare un gelato: famoso scultore del neoclassicismo nato a Possagno. Be'? " "Canova." Ti accorgesti che ti ero alle spalle: "Allora andiamo a comprare il gelato. Tu leggi di meno, però, e divertiti di più. Uscimmo alla ricerca di un bar aperto o del carrettino dei gelati. Erano le primissime ore del pomeriggio d'agosto e tutta la calura spadroneggiava nella città deserta incalzando ogni sbavatura d'ombra: non c'erano locali aperti né il gelataio ambulante. La pietra ocra, in cui erano stati costruiti chiese e palazzi barocchi, esalava un fiato arroventato come fosse stato il respiro stesso di quegli esseri grifagni che reggevano le colonne tortili. Cosicché mi sembrò che la città, nell'abbandono estivo, fosse più minacciosa che in piena notte. Ma tu allontanasti le mie fantasie dicendomi con un’espressione furba : "Non immagini dove andiamo." L'emporio di donna Rirì aveva la saracinesca abbassata a metà e sapevamo che la nostra amica d’estate si limitava a ritirarsi nel 219
  • 8. retrobottega dove aveva una brandina. Tu insistesti a bussare finché la signora del citrato non venne ad aprirci. "Tarde non furono mai grazie divine!" Ci accolse così con una di quelle citazioni dotte che chissà da dove attingeva. "E' questo il momento di venire a fare visita, finalmente, ad una vecchia vicina? Ne avete avuto di faccia tosta!" Tu non parlavi ed eri un po' imbarazzato, così ti venni in soccorso: "Anche voi, donna Rirì, non vi siete fatta viva e avevate promesso..." "Ma figlia mia, non vedi come mi sono fatta vecchia e succhiata come un confetto? Magra fino alla vita e gonfia dalla vita in giù. Cosa sarà poi? Non mi pare un buon segno. Ma ditemi, ditemi di voi e delle altre. " "Donna Rirì, se aspettiamo ancora un po' Cosetta dimenticherà il sapore delle vostre grattate. Ce ne volete preparare due, per favore?" "Ah le mie grattate sono fuori moda oramai, ma ho del ghiaccio e il vecchio arnese: farò in un momento." Tirò fuori dalla ghiacciaia un grosso blocco di ghiaccio e lo grattò con un utensile finché non si formarono dei bioccoli bianchi. Ne mise in tre bicchieri e versò lo sciroppo di amarene. Tutti e tre ci accomodammo dove potemmo e 220
  • 9. gustammo in silenzio per un tempo lunghissimo quel refrigerio. La padrona del citrato, però, non poteva tacere a lungo: "Che peccato! -disse rivolta a te- Che peccato! Mi stringe il cuore vedere la vostra casa sprangata; mi sembra che l'anima di tua mamma Cosetta ci sospiri anche lei." Mio padre si strinse nelle spalle. "Lo so -continuò la commerciante- che ci vorrebbe una bella somma per rimetterla a nuovo: innanzi tutto occorrerebbe una disinfestazione per via dei topi; e poi l'allacciamento alla fognatura per non utilizzare più il pozzo nero; e poi le tubature e il pavimento completamente rifatto. Tanti soldi sì, ma ne verrebbe fuori un quartierino come si deve. Ci pensate: il cortiletto esterno con tutta una cimasa di ibisco e buganvillea. Quello interno dissodato e tenuto ad aranci e limoni." Noi due, alle parole della nostra amica, vedevamo i fiori e sentivamo il profumo degli agrumi. Tu ti difendesti dicendo: "Ma c'è la parietaria che procura allergia alla piccola. "Eh cosa sarà mai? Non se ne sono mai strappate erbacce a questo mondo! Ci sono preparati chimici che farebbero 221
  • 10. scomparire la parietaria." "E l'umido?" Insistesti facendo la parte dell'avvocato del diavolo. "Per l’umido si mettono i termosifoni e si fanno asciugare gli ambienti come un bucato al sole." Donna Rirì non si arrese al punto che nell'andare via ci sentimmo colpevoli di fronte alla porta sprangata della nostra vecchia abitazione, tanto più che la donna aggiunse alle nostre spalle: "Le case, se non sono abitate, marciscono!" Prendemmo la strada del ritorno e per un po' ce ne rimanemmo in silenzio; poi dicesti: "Donna Rirì ha ragione: non si lasciano marcire così le case dei genitori. Ti fermasti come colpito da un'idea: "Cosetta, ti ricordi cosa mi ha detto padre Pantaleo?" "Ti ha parlato di debiti...mi pare..." "Ma io non ho capito cosa fossero questi debiti. E' vero che in passato ho avuto delle sommette da restituire alle mie cognate, ma da quando abitiamo insieme e i conti vengono divisi meticolosamente da tua madre, debiti non ne ho contratto. E così mi lambiccavo il cervello per capire a che cosa don Pantaleo si riferisse. Adesso è chiaro che il debito di cui parlava il prete di Otranto era proprio quello che ho nei confronti dei miei genitori che mi lasciarono la casa e io ho permesso che andasse in rovina." 222
  • 11. Apparivi sollevato come quando risolvevi i giochi di enigmistica. "E' un debito che ho con loro e con voi! Vedrai come ci farà bene tornare a vivere noi quattro soli in una casa nostra, rimessa a nuovo! Non potranno trovare niente da ridire, né appellarsi alla salute di Miranda. Mi dispiaceva proprio che tua sorella crescesse senza conoscere donna Rirì e la sua bottega! Basta con le vincite meschine: occorre un colpo grosso!" "Papà ti prego, impegnati di più con il sistema: vedrai che ce la farai." Dovesti rimuginare su questo nuovo progetto per tutta la strada perché come altre volte mi camminavi davanti come se io non ci fossi, fumando una sigaretta dopo l'altra. Io, intanto, sognavo la nostra casa restaurata proprio secondo i suggerimenti di donna Rirì. Ma riflettevo anche sull'aspetto della mia amica che non era affatto sano. Pensai malinconicamente al citrato con cui aveva curato per anni noi bambini, ma, oramai, ero troppo grande per credere che il citrato fosse sufficiente a guarire anche il suo malanno. Tu ti rimettesti con più foga a giocare per il nuovo scopo. Con il passare dei mesi ci giungevano spesso notizie preoccupanti riguardo alla salute di donna Rirì. 223
  • 12. Tu avesti una nuova tornata di fortuna che ti confermava che avevi visto chiaro individuando il debito che avevi da saldare; mettevi via le somme delle vincite che sarebbero servite per il restauro della casa. Avesti proprio un buon tempo: da una parte un lavoro che ti piaceva perché ti consentiva di stare tanto fuori dalla casa in cui ti sentivi ospite; dall'altra la gratificazione delle vincite; anche se quella straordinaria che cambiava la vita, da così a così, si faceva aspettare. Ma tu eri soddisfatto perché si era fatto chiaro in te e mi dicevi che eri stato uno sciocco a non capirlo prima e che padre Pantaleo era un grand’ uomo e che un giorno o l'altro saremmo tornati ad Otranto per fargli visita e per ringraziarlo. Non ci fu tempo né modo di tornarvi. Nel giro di un anno la malattia di donna Rirì si manifestò in tutta la sua gravità. Infine la nostra amica fu ricoverata in ospedale: mamma andò a trovarla più volte e al suo ritorno scoteva la testa senza dire niente. Mi baciava quasi per consolarmi già della perdita imminente. Io ripensavo con rimorso a quanto era accaduto al povero Porfirio. Ti guardavo per parlartene, ma poi ricordavo che quello era l'unico segreto che non condividevo con te, ma con mamma. Mi ritornava in mente la passeggiata di quel 224
  • 13. pomeriggio, il motivo per cui scacciavo di casa il pappagallo e la sua fine violenta. Quando donna Rirì morì tu volesti mandare dei fiori e partecipare al suo funerale e, benché fossero atti di normale gentilezza, essi provocarono un putiferio in famiglia. Il caso volle, infatti, che il giorno del funerale della signora del citrato coincidesse con quello del matrimonio di Giorgino. Il funerale avrebbe preceduto solo di un'oretta, se pure in un'altra chiesa, il matrimonio. Eh sì: il mio innamorato di un pomeriggio metteva su famiglia. Era stato anche molto compito mandando due partecipazioni: una per le zie ed una indirizzata a te. La sera precedente si discusse a lungo, giacché zia Estrella e Zia Renata, che al matrimonio non voleva rinunciare benché trascinasse oramai tutta una metà del corpo e usasse come bastone mia madre, erano quasi isteriche per via della nostra decisione. Tu, invece, una volta tanto non ti facesti guidare dalla rabbia: la bontà della causa che difendevi ti rendeva fermo e pacato. Poche parole che disorientavano le zie. Io tentai una mediazione: "Verremo appena finito." Ma l'idea sembrò pessima. Zia Renata: "No, non sta bene. Mi sembra di cattivo augurio 225
  • 14. per Giorgino." Zia Estrella: "Con il tanfo della morte ancora addosso!" Tu ribattesti: "Guarda che ci cambieremo d'abito." Zia Estrella si sentì presa in giro e alzò la voce: "Chi volete che se ne accorga se non andate al funerale: per quei quattro parenti che aveva la vecchia." Tu solennemente: "Lo saprà donna Rirì, in ogni caso." Zia Estrella esasperata: "Ma che donna Rirì e donna Rirì: Amalia Turrini si chiamava e non era un gran personaggio. Vi ha forse fatto del bene? Vi ha prestato denaro o altro?" Di nuovo presi la parola io: "Per noi era una grande amica, più grande di certe persone che prestano denaro." "Ha parlato tuttasuopadre!" "Donna Rirì- disse timidamente Prisca- capirà certamente che abbiamo dei buoni motivi per non andare al suo funerale." "Sono sicuro che lo capirà - intervenisti tu tranquillo come non mai- perché era una donna intelligente e piena di umanità. E per questo dobbiamo renderle omaggio. Tanti anni fa, fu grazie a lei che potesti goderti la vita per un po'. " Mamma arrossì al tuo rimprovero che aveva tante valenze. 226
  • 15. Le sue sorelle non capirono e andarono avanti a discutere. Tu fosti irremovibile e diventasti addirittura sfacciato abbozzando una ribellione ironica: "Ascoltate, per farvi contente non vi raggiungeremo nemmeno quando il funerale sarà finito. Va bene? Così non potrete dire che abbiamo arrecato qualche ombra di tristezza sulla gioia di Giorgio. Avete ragione voi: sarebbe fuori luogo far seguire ad un funerale un matrimonio." Zia Estrella vedendoti irremovibile si prese la rivincita con una malignità: "Sai, Palmiro, Giorgio e la sposa andranno in viaggio di nozze a Capri." Tu la guardasti per quella strana uscita e lei continuò: "Veramente la sposa insisteva a voler visitare i castelli sul Reno, ma Giorgio le ha detto che in Germania, prima o poi, ce li porterai tu." Facesti una smorfia e per un attimo ti piegasti su te stesso come se avessi ricevuto un pugno. Tuttavia ti riprendesti presto; andasti in camera e ne uscisti vestito come il giorno del funerale di zia Estrella. Così ancora una volta la famiglia era divisa: da una parte noi con il cuore acciaccato per via della perdita della nostra amica; dall'altra mamma che, dopo essersi presa cura di zia Renata, indossava il suo bell'abito blu a pois bianchi. 227
  • 16. Zia Estrella, a muso duro, faceva vestire Miranda elegantemente e poi sceglieva uno dei suoi famosi cappelli. Noi due ce ne andammo verso la chiesa del nostro rione per il funerale di Amalia Turrini. Alla cerimonia parteciparono molte più persone di quello che pensassimo. Feci un esame di coscienza e ammisi che vi erano altri motivi che ci spingeva lì, oltre il rendere omaggio alla defunta padrona del citrato; per te non condividere una giornata di gala con le tue cognate e per me, forse, un attimo di rimpianto dovendo liquidare il mio amore di un pomeriggio, un pomeriggio di dieci anni prima oramai. Dopo il funerale e i saluti ai parenti della morta in quello scartare, chi a destra chi a sinistra, e un rimandarsi ad occasioni più liete, ci ritrovammo soli. Mi ripetevo che mi ero recata al funerale di Amalia Turrini e che donna Rirì era ancora nel suo emporio a fare grattate. La giornata non era né carne né pesce: ora sembrava che le folate di vento fossero in grado di spazzare via il grigiore e, ora certe nuvole sottili si allungavano da scirocco fino a velare il cielo. Noi due provavamo un certo imbarazzo a ritornarcene a casa, la casa delle zie a cui avevamo osato disobbedire, e decidemmo, tacitamente, che oramai che c'eravamo 228
  • 17. potevamo andare fino in fondo. Mi portasti un po' fuori città dove aveva sede la società di bocciofili che frequentavi. Anche questo era una cosa che non avevi mai detto in famiglia. Al campo da bocce erano annessi dei locali e una piccola trattoria per gli iscritti. I ristoratori curavano un numero limitato di piatti e rigorosamente tradizionali. Così mangiammo un baccalà gustoso con un contorno di cavoli fritti in pastella. Ogni giocatore che arrivava, man mano che il pomeriggio avanzava, ti faceva festa: tutti ti mostravano una cordialità che ti dava una piacevole disinvoltura come mai ti accadeva in famiglia. Dopo il pranzo e le chiacchiere ti mettesti a giocare. Io un po' seguivo, ammirando la tua bravura, un po' pensavo ai fatti miei: per esempio all'esame di maturità, che mi attendeva a breve, e al mio futuro. Molti dei miei compagni di classe parlavano già, con qualche supponenza, delle università lontane che avrebbero frequentato e delle città in cui si sarebbero trasferiti: Roma, Torino, Padova, Pisa, Bologna. Alcuni si sarebbero iscritti a Bari. Io sarei stata l'unica a rimanere in sede. E anche così cominciavo a pensare che i costi sarebbero stati alti per te e avremmo dovuto 229
  • 18. dare l'addio alla ristrutturazione della nostra casa. Fu quel giorno che decisi che all'università non ci sarei andata. Pensavo tra me: "Il prossimo anno mi diplomerò maestra presentandomi da privatista. Appena sarà bandito il concorso magistrale parteciperò. Lo vincerò e comincerò a lavorare. In poco tempo avremo i soldi per risistemare la vecchia casa e tornarcene lì." Ero molto contenta del mio progetto come la donnetta che va al mercato a vendere la sua ricottina. Passai bene gli esami di maturità classica e lasciai che trascorressimo un'estate tranquilla prima di rivelare le mie intenzioni. Quando lo dissi, una domenica a pranzo -ed era sempre a tavola che avvenivano le grande spiegazioni e le grande litigate- ci fu silenzio. Solo Miranda chiese: "Che cos'è l'università?" Mia madre spiegò con un sospiro: "E' una scuola per ragazzi grandi." Estrella: "E' una scuola molto difficile dove va solo chi è veramente intelligente." Miranda: "E Cosetta non è veramente intelligente?" Mamma: 230
  • 19. "Chiedilo a lei, cocca mia." Estrella: "E' una scuola per gente che vuole studiare sodo. E le signorine, si sa, sono distratte da qualche innamorato segreto." Miranda: "E Cosetta ha un innamorato segreto?" "No." Mi precipitai a rispondere in modo che tutte mi guardarono con mezzi sorrisetti pensando a Giorgio. Solo mamma mi guardò e pensò a qualcun altro. Finalmente parlasti tu: "Insomma si sa che dal liceo classico è obbligatorio andare all'Università. Che novità ti salta in mente? Quando facciamo insieme le parole crociate sei sempre pronta a rispondere! Non ho mai visto una ragazza della tua età che ama leggere e studiare più che andare a spasso." Io, benché mi sentissi mortificata, ostentavo sicurezza e non rispondevo a tutte quelle obiezioni. Insistesti: "E si può sapere il motivo?" Io parlai un po' a casaccio adducendo che non c'era nessuna facoltà, tra quelle che potevo frequentare a Lecce, che mi interessasse veramente; che ero stanca di stare sempre con 231
  • 20. la testa sui libri, che volevo godermela un po', che avrei continuato ad approfondire per conto mio. In effetti l'anno dopo conseguii il diploma magistrale. A casa non ci furono congratulazioni per questo successo, anzi mamma, un momento che zia Renata era assopita e che zia Estrella era in bagno, cogliendo quell'attimo di intimità di cui da anni eravamo state private, espresse chiaramente la proprio opinione: "Mi sembra che vuoi camminare come i gamberi, d’altra parte lo hai appreso da tuo padre.” E quasi stava per piangere. Che cattiva ispirazione ti ha preso?" Io non le risposi anche perché era sopragiunta zia Estrella. Mi misi ad attendere che venisse bandito il concorso magistrale da un momento all'altro. Intanto certi pomeriggi ci mettevamo insieme a disegnare la nostra casa: ricavavamo corridoi, modificavamo la cucina; decidevamo di aggiungere un altro servizio. Anzi su questo andammo avanti per un po' a discutere incerti se preferire il doppio servizio o una veranda coperta che potevamo usare come piccola serra. Rimandammo la decisione: tanto, per il momento, si trattava solo di fantasie. Ma erano fantasie che ci entusiasmavano e 232
  • 21. riempivano la nostra vita. Un giorno incontrai casualmente Erminia, una nipote di donna Rirì, che mi propose di andare a darle una mano nell'emporio che conoscevo bene. L'esercizio non aveva perduto in clientela, aveva solo aggiornato un po' i vari prodotti che vendeva: per dirne una, invece del citrato, le gomme da masticare e poi patatine e sfiziosità varie di cui i ragazzini del rione si riempivano la pancia cosicché all'ora dei pasti non avevano più appetito. E poi si vendevano detersivi, biancheria intima e aguglieria. La signora Erminia mi propose di prendere la patente per poter sbrigarle più rapidamente i suoi affari, utilizzando la sua vecchia giardinetta. Io accettai e divenni patentata suscitando molta ammirazione in Miranda, raccomandazioni di prudenza da parte tua e di mamma e qualche complimento condiscendente dalle zie. Tu continuavi a pizzicare, ma mai abbastanza per iniziare i lavori di restauro. Venivi a trovarmi in negozio e chiacchieravi con me e con la nipote di dona Rirì che cominciò a chiamarti don Palmiro. Tu ti schernisti, semplice com'eri, ma io compresi che era il don di rispetto che si dà a chi comincia ad essere avanti con gli anni. Ci restai male e mi accorsi di colpo che, a furia 233
  • 22. di fare il capofamiglia solo a tavola, eri ingrassato, che i capelli si andavano diradando ed ingrigendo, che la tua vista non era più buona. A quella scoperta, dovetti andare nel retrobottega per calmarmi. La notte feci un sogno in cui litigavo con te; ti rimproveravo, risentita: "Caro papà, come ti permetti di invecchiare! Come puoi farmi questo?" Tu mi guardavi con un viso ironico e ribattevi: "Ma che vecchio e vecchio... sto per partire per la Germania." E ti davi da fare attorno alla tua bicicletta come se la stessi preparando per il viaggio. Ti incamminavi, ma, invece di montarvi, te la caricavi sulle spalle. Lavoravo nell'emporio da un paio di anni quando anche zia Renata morì. Mia mamma, disfatta dopo tutta l’assistenza che aveva prodigato con lei, era diventata un po' bolsa e aveva ceduto le armi su tutto a zia Estrella. I bastoni della zia Renata li conservammo accanto al telaio di zia Naida. Ma non sentivo lo spirito di zia Renata aleggiare nella casa come invece avevo percepito quello di zia Naida attorno al telaio. Ci fu una nuova ondata di visite di condoglianze e Giorgio con sua moglie e la figlioletta venne a portarsi via qualche cosarella che zia Renata gli 234
  • 23. aveva lasciato: un lume, una consolle dell'ottocento, un anello da uomo appartenuto al marito. Un giorno donna Rirì ti venne in sogno e ti diede tre numeri dicendo: "Questi sono per le grattate." Tu ci raccontasti il sogno e giocasti i numeri, ma il terno non venne fuori. "Si sa.- disse mamma -Sono cose che non si devono raccontare. Si vede che di lotto non 235
  • 24. t'intendi, Palmiro." E zia Estrella: "Donna Rirì avrà voluto prenderti in giro." Ma alla prima vincita che tu facesti al totocalcio ti ricordasti delle parole del sogno e acquistasti un frigorifero nuovo perché quello precedente cadeva a pezzi. E l'estate era torrida. Zia Estrella, che nonostante il lutto recente si preparava ad andare in villeggiatura per il bene di Miranda, disse che c'erano cose più serie come la malattia di Miranda che si mangiava tanti soldi per via delle visite agli specialisti e le medicine e la villeggiatura, ogni anno in luoghi salubri. Tu impallidisti come sempre, quando una rabbia impotente ti toglieva le parole e lei incalzava: "Non lo dico per la piccina -Miranda aveva compiuto quindici anni- ma per il principio. Se tu smetti di giocare e di buttare via i soldi in cose inutili, quello che faccio per Miranda è un regalo, ma se continui a sperperare il tuo denaro tanto vale che lo usi per lei..." La sua logica non faceva una grinza e vi fronteggiaste dimostrando tutta la reciproca antipatia. Mia mamma apparecchiava con l'aiuto mio e di mia sorella e tutte e tre tacevamo. Finalmente trovasti il fiato: "Va bene- dicesti calmissimo- dimmi subito a quanto ammonta quello che hai speso per la 236
  • 25. salute e le villeggiature di mia figlia." Zia Estrella sparò una cifra esorbitante e tu senza batter ciglio rispondesti: "Ti restituirò tutto." Pranzammo in silenzio e io ti facevo l'eco dentro di me: "Sì, le restituiremo tutto papà." E di nuovo mi persi nel sogno della donnetta della ricottina. Al compenso che percepivo per il mio lavoro mattutino potevo aggiungere qualche lezione privata: nel rione ce n'erano di bambini le cui mamme, le donne ora lavoravano anche loro, mi avevano chiesto di dare una mano a svolgere le lezioni! Una stanza dell'appartamento annesso al negozio sarebbe stata adatta. Come sempre mi associavo ad ogni tua impresa e specialmente ammiravo quel tuo modo caparbio di ribadire la tua paternità su Miranda e la dignità orgogliosa nel non dover niente a zia Estrella. Mi accompagnasti mentre mi recavo a lavoro: "Mi ero sbagliato.- dicesti senza guardarmi in faccia- I debiti di cui parlava padre Pantaleo non sono soltanto quelli che ho creduto, ma anche quelli che io non pensavo di avere con tua zia Estrella. D'altra parte non mi hanno mai messo al corrente, nemmeno tua madre, di tutte queste visite di specialisti, né di medicine. 237
  • 26. Quanto poi alla villeggiatura mi sembrava che Estrella portasse con sé Miranda per avere una compagnia. Ho sbagliato e chiedo scusa, ma non sono certo uno scroccone, un approfittatore, un mangiapane a tradimento. Ma a te cosa pare della salute di Miranda? Mi sembra che sia tanto bella e sana." "Certo papà, da quando è sviluppata, come aveva detto il medico, l'asma è scomparsa e ai cambiamenti di stagione ha solo un piccolo raffreddore allergico. Sarà senz'altro merito delle cure che le sono state fatte. Per quel che riguarda i debiti ho una buona notizia: la signora Erminia mi cederà una stanza dell'appartamento per dare lezioni ai ragazzini del rione: in due faremmo prima a pagare." "E tu riuscirai a conciliare il lavoro con lo studio per la preparazione al concorso magistrale?" La tua voce era speranzosa: "Certo che sì: anche le lezioni che do ai ragazzini servono a mantenermi in allenamento." Sospirasti sollevato e mi stringesti la mano: "Meno male che posso contare su di te." Inforcasti la bicicletta sveltamente e te ne andasti via a lavoro. Certo che così la ristrutturazione della nostra vecchia casa avrebbe dovuto aspettare e avremmo dovuto rimandare ancora il nostro 238
  • 27. ritorno lì. L'anno dopo comperai la vecchia cinquecento da Giorgino che cambiava macchina. Persino zia Estrella fu contenta e quando ero libera si faceva accompagnare da me in cimitero, o a fare spese e visite. Insisteva a pagare la benzina. "Perchè- disse- debiti, io, non ne ho mai avuti; anzi ho crediti!” Avrei voluto rifarle il discorso di padre Pantaleo su debiti e crediti, ma non ero sicura di averlo capito fino in fondo. Accompagnavo e andavo a prendere Miranda dalle lezioni di pianoforte, di danza, e su e giù dalle festicciole che frequentava. Avevo ventiquattro anni e la mia vita era divisa tra il lavoro nell'emporio al mattino, i pomeriggi a fare lezione a qualche ragazzino e il mio ruolo di autista di famiglia. C'erano i momenti di libertà in cui tornavamo a progettare la nostra casa. Tuttavia ce ne dovemmo distogliere: forse fu un colpo d'aria preso mentre giocavi a bocce a procurarti la paresi facciale. Così, grazie alla macchina, potei accompagnarti in ospedale per fare le applicazioni che occorrevano e, man mano, il tuo aspetto tornò quasi normale a parte per l'occhio destro leggermente più chiuso. Ridendo, dicevi, che era segno che eri cresciuto e che avevi imparato a chiudere, 239
  • 28. almeno un po’, un occhio sulle cose che non digerivi. Anche io risi, ma intanto ricordavo il sogno che avevo fatto e mi veniva di dirti chiaro e tondo: "Caro papà, come ti permetti di invecchiare? Che non ti venga in mente anche la bella idea di morire." D'altra parte era vero che stavi imparando a prendertela di meno e forse in ciò eri aiutato dal gioco delle bocce. Oltre il lavoro nella sud-est c’erano anche i tornei a cui partecipavi -giacché come in tutti i giochi eri diventato bravo- che appagavano il tuo bisogno di andare per il mondo. Io, intanto, guardavo con curiosità i giovani degli anni settanta diventare sempre più scapestrati e irridenti. Mi scandalizzavo come un'adulta, giacché mi pareva che la giovinezza fosse qualcosa che riguardava gli altri. Nei primi anni dalla fine del liceo qualcuno dei compagni mi aveva cercato e ogni anno in luglio avevamo preso l'abitudine di incontrarci per festeggiare l'anniversario del diploma. I miei amici avevano tanto da raccontare sulle città in cui vivevano, sugli esami universitari, su quello che avrebbero fatto dopo la laurea. Ascoltavo e domandavo, ma finivo con il trovare noiosa la loro vita tutta ancora impregnata di aspettativa. Io, con le responsabilità che mi ero accollate, 240
  • 29. mi sentivo tanto più adulta e trovavo i loro argomenti di conversazione stucchevoli. Così finii per rifiutare l'invito annuale e man mano amicizie e relazioni si allentarono riducendosi a poche telefonate e qualche bigliettino di auguri a Natale. Ero così presa dalle mie attività, mi sentivo così indipendente per il fatto che guadagnavo e guidavo la macchina che non presentai nemmeno la domanda per il concorso magistrale. Ancora una volta fu a tavola che mamma se ne uscì come folgorata: "Cosetta, oggi abbiamo incontrato una cugina di Giorgio e ci ha raccontato di quanto studia per prepararsi al concorso magistrale. Va addirittura a lezione da un professore: gli scritti saranno tra un mese. E' mai possibile? E tu quando studi?" Io arrossii e gli occhi di tutti furono su di me: quelli addolorati di mamma, quelli sorpresi di Miranda, quelli pungenti di zia Estrella. Ma soprattutto i tuoi. "La domanda è scaduta da un pezzo. Non mi interessava...ho deciso che mi va benissimo il mio lavoro. Il concorso, poi, si tiene ogni due anni. Studierò per il prossimo." "Evviva la sincerità, Cosetta, -dicesti- fai e disfi di testa tua! 241
  • 30. Non chiedi mai il nostro consiglio. Eri così brava negli studi. I tuoi professori ti vedevano già con la toga..." Estrella: "Altro che toga: era il camice da bottegaia!" "Non è una tragedia: lavoro." Mamma aveva gli occhi rossi e zia Estrella intervenne: "Se dovevi fare la bottegaia era inutile frequentare il liceo classico. Miranda non farà certo la tua fine." Anche mia sorella disse la sua: "Ma Etti, è un lavoro senza futuro: in un negozietto preistorico che prima o poi chiuderà e tu ti ritroverai senza niente in mano." Di nuovo zia Estrella. "Me l'ero immaginato: quella Erminia è taccagna come sua zia Amalia. I proprietari della modisteria in cui lavoravo io, invece, erano persone oneste! Terminato di essere piccinina, l'apprendistato insomma, mi hanno messo subito in regola e con il tempo ho potuto rilevare il negozio. Ed oggi ho una buona pensione. Tu, invece, lavori in nero." Io non risposi perché in effetti avevo cominciato senza impegno reciproco e la signora Erminia non aveva mai proposto di mettermi in regola: avevamo pensato tutte e due che era una soluzione provvisoria. Intanto erano passati alcuni anni. 242
  • 31. Lo scoramento dei miei familiari era palpabile: "Ti sei messa in una trappola.”- dicesti tu“Prima quella sciocchezza di non iscriverti all'università ed ora quest'altra ragazzata. Asina testarda!" Ti mettesti a fumare a tavola cosa che non ti eri mai permesso di fare. Estrella sospirò compunta e prese la parola: "Forse posso fare qualcosa io: quando ero modista ne ho conosciute di vere signore perché, allora, una vera signora fuori di casa indossava sempre il cappello. Io, poi, sapevo stare al mio posto e tutte chiedevano che fossi io a portare il cappello, una volta confezionato, a domicilio. Quante case signorili ho visto, quante persone influenti ho conosciuto... Mi viene in mente che ora il figlio di una delle mie clienti, che si è fatto lui pure la sua età, è il direttore di una scuola privata parificata. Io parlerò con la signora che era sempre gentile e disponibile, lei parlerà con il figlio direttore e per il prossimo anno scolastico potrebbe assumerti. Andiamo da loro e vedrai che qualcosa salterà fuori." Accondiscesi: un po' perché non sostenevo il dispiacere dei miei genitori, un po' perché tutto sommato non mi ci vedevo per sempre nell'emporio. 243
  • 32. Qualche pomeriggio dopo Il direttore mi ricevette. Spinsi il grande portale socchiuso che immetteva nella corte interna e salì la scalinata che in cima si divideva in due rampe: da un lato quella che portava agli appartamenti; dall’altro quella su cui si apriva la scuola privata 244
  • 33. parificata. C’ ero già stata assieme ad Estrella per parlare con la madre del direttore, la signora che aveva frequentato la modisteria. La signora ci aveva messo subito a nostro agio ricevendoci in cucina che ferveva di lavori domestici. Ci aveva ascoltato mentre continuava ad impartire ordini alle due donne impegnate a preparare il pranzo e mettendosi lei stessa a spennare una gallina e a sgranare piselli. Di tanto in tanto mi guardava e infine sospirò: "Che dispiacere all'idea di queste giovani forze condannate alla disoccupazione! Ce ne sono di giovani a spasso! Il direttore- parlò sempre del figlio con quel titolo- il direttore è molto sensibile e fa quello che può. Abbiamo sacrificato l'altro nostro appartamento, qui di fronte per adibirlo a scuola. Si tengono soprattutto corsi di recupero per lavoratori. Il direttore vuole personale serio e preparato e per questo la nostra scuola ha un buon nome. Le domande di insegnamento sono tante, ma parlerò io al direttore e vedrete che vi arriverà una risposta quanto prima.” Io le lasciai il curriculum che altro non era che il mio diploma di maturità classica Quindi si salutarono con grande effusione e la signora aggiunse: 245
  • 34. “Che figuroni che ho fatto con i tuoi cappelli, cara Estrella! Certo allora eravamo giovani! Anche se te li facevi pagare…” “Vi ho sempre trattato d’amica, con un occhio di riguardo.” Ora, quindi, sapevo che dovevo salire l’altra rampa di scale. Il direttore mi ricevette in uno studio pieno di busti. Indossava un doppio petto di un verdone scuro che sottolineava la sua carnagione olivastra. Mi salutò cortesemente e mi chiese il permesso di continuare a mangiare: "Sa, con i miei impegni, non ho orari e oggi mi capita di dover mangiare alle undici." Il direttore si prese il mio permesso sottinteso e si ingolfò in un piatto di polpo che odorava di aglio e che gli imbandiva sulla monumentale scrivania una delle donne che avevo visto nella cucina della madre. Intanto io prestavo orecchio ai rumori della scuola che era dislocata nell'appartamento dagli altissimi soffitti. Qualche studente venne anche a bussare per andare nel bagno a cui si accedeva passando attraverso lo studio del direttore. Questi mi spiegò che in tal modo poteva tenere meglio tutta la situazione sotto controllo e continuò a mangiare di gusto. Quando ebbe terminato scorse il mio curriculum: 246
  • 35. "Vedo che ha conseguito la maturità classica. Addirittura sei anni fa! Ed in questi anni non avete mai fatto esperienza di insegnamento?” “Privatamente sì.” “Immagino che si riferisca a qualche doposcuola: in verità a me occorrerebbe un insegnante elementare che tenga un corso serale per adulti che non hanno la licenza, titolo che ora è indispensabile per tutti i lavori. L'insegnante che c'era prima è passata in una scuola statale e sono sfornito. Sapete, gli emolumenti qui non sono che un "pour boir", ma il punteggio è assicurato. Se la sente di tenere una specie di pluriclasse nelle ore serali? Le do un segno di fiducia scegliendo lei, che non ha esperienza; le do la preferenza di fronte a tanti altri che mi implorano, padri di famiglia! Ma mammà ci tiene tanto! E facciamo contenta mammà. La risposta la voglio subito." Io accettai anche perché considerai che l'impegno, essendo serale, mi avrebbe consentito di continuare il mio lavoro nell'emporio. Al ritorno a casa tu mi chiedesti con ansia: "Sei contenta? Ti è piaciuto il posto, i colleghi, il direttore?" Io risposi di sì a tutto con grande soddisfazione di zia Estrella. Poiché mi era stata assegnata la pluriclasse del 247
  • 36. corso serale non vedevo colleghi, ma soltanto i miei "allievi", tutti più adulti di me. Alcuni erano pieni di buona volontà, altri venivano soltanto per fare presenza ed avere l'attestato di frequenza. Appresi molto sui loro lavori. Dopo una settimana il direttore mi mandò a chiamare e mi parlò alzandosi spesso dalla poltrona e guardando fuori dalla finestra. "Giacché lei è l'ultima a lasciare la scuola ho pensato di poterle chiedere di dare una riassettata alle aule e al bagno al termine delle lezioni. Sa, in genere se ne occupa una delle nostre serve, ma attualmente è ammalata e non è il caso di assumere un bidello. Si tratterà di poco tempo. Siamo intesi? Metterai a posto le aule e il bagno e... anche questa stanza. Si tratterà, ti ripeto, di pochissimo tempo." Di questo, e dell’improvviso passaggi al tu, non riferii niente a casa; dissi solo che mi era stato allungato l'orario di servizio e zia Estrella fu ancora più soddisfatta dei suoi meriti. Fortunatamente al mattino continuavo ad andare in bottega che mi sembrava un vero lavoro, decoroso e remunerato, ma neanche con Erminia mi lasciai scappare una parola sulle mie incombenze di donna di pulizie che continuarono per tutto il resto dell'anno. Gli "emolumenti" erano veramente miserabili e 248
  • 37. quindi continuavo a dare lezione nel primo pomeriggio. Avevo stabilito che nessun ostacolo si frapponesse al nostro progetto di far restaurare la casa. Per questo tolleravo il direttore, il mio lavoro ufficiale e quello di nettacessi. Pensavo che era proprio il castigo che meritavo per non aver presentato la domanda di concorso. Sospiravo e contavo i mesi che mi separavano dalla fine dell'anno scolastico; di certo non avrei ceduto allo sconforto purché tu fossi rimasto all'oscuro di tutto. Invece non fu così: riuscisti a trovare una sera in cui non eri di turno per venire a guardarmi nella mia veste di insegnante. Nella tua intenzione c'era solo un moto d'orgoglio di godersi la figlia docente. D’altra parte il portale del palazzo gentilizio era lasciato sempre accostato fino a quando io non andavo via tirando il battente con energia sia perché essa era pesante, sia perché il fragore che produceva mi dava una qualche soddisfazione come se avessi preso a calci la scuola ed il direttore. E qualcuno degli allievi aveva dimenticato aperto anche l’uscio dell’appartamento adibito a scuola. Io ero troppo presa dalle pulizie, dal rumore dello straccio che grondava acqua, dallo 249
  • 38. strepito dello sciacquone: fosti un’apparizione che mi fece trasalire. Eri seduto nello studio del direttore e da lì potevi vedere benissimo i bagni e chi li puliva… Te ne stavi con il corpo abbandonato sulla poltrona del direttore, le mani incrociate tra le ginocchia, una faccia impietrita di rabbia e di dolore. Ti vidi con la coda dell'occhio; ma feci finta di niente; anzi mi accanii nelle pulizie pur di tenere la testa piegata e non incontrare di nuovo quel tuo terribile sguardo. Rispetto a tanti anni prima, quando ero venuta a strapparti dal cral, le parti si erano invertite. Io continuai nel mio lavoro ignorandoti, tu continuasti a stare seduto. Infine rimisi stracci, arnesi e detersivi al loro posto passandoti davanti come se tu non ci fossi. Infilai il cappotto, feci un giro per le aule a controllare che non rimanessero luci accese: il direttore era pronto ad andare su tutte le furie davanti agli sprechi! Soltanto al momento di spegnere il lampadario dello studio in cui tu ancora te ne stavi seduto, ti rivolsi un cenno della testa: "Andiamo." Mi chiusi alle spalle la porta dell'appartamento e tirai il portale con lo stemma gentilizio. Fuori ci mettemmo a camminare l'una accanto all'altro senza parlare. 250
  • 39. Era una giornata di marzo umida e ventosa ed io ti dissi: "Non ti fa bene prendere tutto questo vento, giacché sei appena guarito dalla paresi. Entriamo in un bar e tu mi aspetterai mentre andrò a prendere la macchina. Sono venuta via da casa a piedi perché non sembrava che si preparasse un tempo così." Mi avviai verso la pasticceria, ma quando entrai vidi che tu rimanevi fuori e così tornai fuori anch'io e non insistetti più. Facemmo la strada più lunga per ritornare a casa. Camminammo in silenzio fino a quando mi feci coraggio e ti rivolsi la parola: "Andiamo al cinema? -Tentai di scherzare prendendoti sotto braccio- Come quando ero bambina, vuoi papà?" Mi guardasti e sotto le luci del Politeama vidi che il tuo viso era segnato da un’espressione di ostilità e di amarezza. Nonostante ciò camminavamo sempre sotto braccio. "Perché non mi hai detto niente?" "Di cosa?" Fingevo di non capire. "Che hai accettato… non so nemmeno come dirlo… di fare la schiava. Devi smettere subito! "Non posso, ho firmato un contratto." "Vuoi dire che hai firmato sapendo di che razza di lavoro si trattava?" 251
  • 40. "E' così che vanno le cose in certe scuole private." "Chi l'avrebbe mai detto, chi l'avrebbe mai detto che ti rassegnassi così! " Scuotevi la testa incredulo, poi divenisti sarcastico: "E che bella esperienza didattica ti stai procurando! Il punteggio che avrai alla fine dell’anno non riguarderà la tua capacità di insegnare, ma attesterà che sei brava a pulire il cesso!" Avevi alzato il tono della voce e ti fermasti con un po’ di affanno. "E' tutta una conseguenza di quel colpo di testa di non proseguire con gli studi universitari." Prevenisti le mie obiezioni e tirasti avanti: "Tanto i debiti non finiscono mai: qualche milione in più o in meno che differenza vuoi che faccia? Io...tu devi liberarti!" “Per insegnare, insegno: questo… è una cortesia in più…” Cercai di sorriderti, di sorridere, ma la faccia mi si increspava a sproposito. Quella notte né tu, né io dormimmo. Mentre ascoltavo il respiro tranquillo di mia sorella dal lettino gemello accanto al mio, percepii suoni. Nonostante le porte chiuse, sentii che scendevi dal letto, che andavi in bagno, che ti avviavi verso il tuo studiolo, ma poi cambiavi idea e 252
  • 41. venivi verso la camera mia e di Miranda. Hai socchiusa e, sicuro che io fossi sveglia, mi hai chiamata in un bisbiglio: "Cosetta!" "Che c'è papà?" "Adesso so chi è quel qualcuno con cui ho contratto un debito." Io non risposi. "Mi hai sentito? Le parole di padre Pantaleo volevano dire cose più complicate di quelle che avevo inteso in un primo momento." "Vai a dormire, papà." "Vorrei cantare perché adesso ho tutto chiaro." "Vai o sveglierai Miranda." "Meglio, così parlerò anche per lei." "Sveglierai mamma." "Benissimo: è tempo!" Non vidi altro mezzo affinché tornassi in camera che lo spauracchio di zia Estrella. "Sveglierai zia Estrella." "Vado, vado: ma sarebbe bello andarcene via tutti e quattro subito, anche in pigiama. Amalia Turrini ci approverebbe." Il mattino dopo facesti in modo di uscire da casa assieme a me. Mentre inforcavi la bicicletta mi dicesti deciso: "Questa sera, all'uscita da quel posto, ti aspetto al bar." Per nulla al mondo avresti chiamato scuola il luogo in cui lavoravo. 253
  • 42. A sera, quando c’incontrammo nella pasticceria dove c’eravamo dati appuntamento, senza preamboli apristi la discussione. Eri esaltato e rosso in volto tanta era l’agitazione interna e l'indignazione che ti eccitava: “Al termine dell'anno scolastico dirai chiaramente al signor direttore- e calcasti sui titoli- che può tenerselo il suo bel posto di lavoro: negriero!" Io sorridevo, ma non promettevo, cercavo di prendere tempo; ti trattai come se facessi i capricci. "Esageri: tutte le gavette sono dure." "Non discuto questo: ma è lo sfruttamento, la mancanza di dignità, la prevaricazione che non devi accettare. Se incontrassi uno dei tuoi compagni, dimmi la verità, o un tuo professore glielo diresti cosa ti tocca fare, oltre che insegnare, in quel tipo di scuola?" Io arrossii e sbuffai. "Rispondimi ti dico." "Ai miei compagni non glielo direi soltanto perché sono tutti ragazzetti che non conoscono la realtà, che si adagiano sugli allori: figli di papà, insomma." "E tu di chi sei figlia?" Mi ero messa in trappola con le mie stesse parole: "Io sono una persona realistica." 254
  • 43. "Un conto è il realismo, un altro il cinismo. Insomma, Cosetta, perché devi tradire te stessa? Non ti accorgi che l’umiliazione che ricevi mi fa sentire l’inutilità di quegli anni e di quei patimenti? Gli orrori della guerra, del lager erano sopportabili soltanto per la speranza che nutrivamo di costruire un’Italia giusta: forse non tutti ne eravamo consapevoli, ma in tutti c’era, se pure alla cieca, la fermezza istintiva di rifiutare ogni oppressione. Se non vuoi pensare a me, pensa agli altri, tutti giovani e giovanissimi, che non sono tornati più!" Non erano parole, ma pietre monumentali che sollecitarono la mia memoria tanto che io risposi: “Dei morti alle Termopili bella è la sorte, glorioso il destino.” Tacemmo e quel silenzio voleva essere un omaggio alle vittime del più stupido degli sport umani: la guerra! Ritornati alla realtà, addussi altre ragioni ragionevoli: "Zia Estrella si offenderà; povera! Si è data tanto da fare per il mio bene ed è così orgogliosa di se stessa per il lavoro che mi ha procurato!" "Lascia che si offenda, ma sono sicuro che persino lei, se ti avesse visto pulire i cessi, non 255
  • 44. troverebbe da ridire se tu tornassi a lavorare all'emporio: meglio "bottegaia", come dice lei." Sospirai un po' scoraggiata: ed io che credevo di aver dato prova di saggezza e di maturità! E pensai ad alta voce: "La verità è che, a volte, quando si cerca di accontentare gli altri si scontenta tutti." "Brava che l'hai capito: allora tu, d’ora in poi, accontenta te stessa." Il mio tè poteva essere alla rosa canina o al bergamotto: non ne sentivo il gusto sotto il tuo sguardo severo ed esaltato. Era come se ti fossi risvegliato percepissi le omissioni che avevi compiuto e volessi assumerti le responsabilità di padre. "Ti ricordi quello che ti ho detto la notte scorsa?" "Hai parlato tanto che stavi per svegliare tutti..." "Le parole di padre Pantaleo erano misteriose come il suo mosaico ed io ogni volta trovo un significato diverso e sempre più profondo. Lui parlò dei miei debiti e dei miei crediti. Mi sono un po' perso sulla faccenda dei debiti. Prima le parole di donna Rirì mi hanno convinto che si trattasse della casa dei miei genitori. Forse era quello che volevo capire io... credevo che tornare a vivere noi quattro da soli era molto importante, più importante del viaggio in Germania. E da quel momento ho messo via le mie vincite per rimettere in sesto la casa. 256
  • 45. Poi è saltato fuori i debiti che ho con Estrella. Quando tua zia mi ha rinfacciato le spese sostenute da lei per Miranda; allora ho creduto che onorare quel debito, che non sapevo di avere, era altrettanto fondamentale per la mia dignità e per l'unità della famiglia. E così ho deciso tra me e me di dividere le mie economie su quelle due voci. Ed ecco che scopro che il debito vero l’ ho nei tuoi confronti: la tua devozione mi ha accecato al punto da non distinguere più la mia vita dalla tua!” Mi osservavi, ma io sentivo chiaramente che il tuo sguardo mi oltrepassava. Cercai di scuoterti: “Scommetto che padre Pantaleo diceva le stesse cose a tutti quelli che entravano nella cattedrale: parole che vanno bene per ogni circostanza.” Mi guardasti con ironia: “Non mi fai nemmeno il solletico con le tue parole da studiata! Nello specchio del mosaicoricordo bene le parole del prete- ognuno vede se stesso. Per me ha funzionato così e lascio a te, che sei studiata, le ragioni della tua ragionevolezza.” Tacemmo di nuovo: ti vedevo per la prima volta sicuro, tanto sicuro da non sprecare tempo a convincermi. Quel tuo darmi della “studiata”, come già aveva fatto la padrona del citrato, mi rivelavano che 257
  • 46. avevi fatto passi da gigante, a mia insaputa; anche quella che tu avevi chiamato la “tua ragionevolezza” in bocca si era trasformata da qualità a calcolo meschino. Procedevi, oramai, con le tue gambe, dopo che per tutta la mia vita ti avevo prestato le mie. “Quando penso a quanto sono stato cieco ed egoista!" Vederti così mortificato mi era insostenibile e, accarezzandoti la mano, ti dissi: "Non è vero, papà: ci siamo cresciuti a vicenda. Si sa che tocca ai primogeniti far esercitare i genitori nel mestiere." Tu, però, rifiutavi ogni attenuante tanto salde ti apparivano le certezze che avevi raggiunto: "I debiti sono questi tre.” Prendesti il posacenere, la tua tazzina, il pacchetto di sigarette e desti un nome a ciascuno: “Questa è la casa dei miei genitori e capisco quanto sarebbe indispensabile tornare lì per ricomporci come famiglia; questi sono i soldi che devo ad Estrella per Miranda; e questo è il debito che ho con te. Si tratta solo di stabilire in quale ordine pagarli." Ti eri immerso nelle tue riflessioni, mentre io pensavo, forse per via della ragionevolezza, che, nonostante ti amassi, nel mio intimo dubitavo che saresti mai riuscito ad onorare le tue pendenze. "Non pensarci più, papà." 258
  • 47. Tu continuavi a cambiare di posto i tre oggetti. Ti salutai ed uscii dal locale. Ti sbirciai dalle vetrate del bar: mi sembravi velleitario come un fanciullo generoso su cui gli anni erano passati inutilmente, tranne che per la pinguedine, i capelli radi, la dentiera... Mentre andavo verso l'emporio continuai a voltarmi per guardarti come se volessi imprimermi bene la tua immagine cara, come se sfogliassi un album di fotografie animate, come se la parte di me che, come in tutti, conosce il futuro, si preparasse al nostro lungo addio. L'addio iniziò la mattina d'aprile in cui mi dicesti: "Oggi non sono di turno, liberati anche tu, una volta tanto, e andiamocene a fare una gita verso il mare. In questa stagione, in giorno settimanale specialmente, non ci sarà quasi nessuno." Avvisai Erminia che non sarei andata 259
  • 48. all'emporio e ti feci da chauffeur come quell' altro di tanti anni prima. La mattina era tiepida e calma, senza il vento turbolento che soffia così spesso dall'Adriatico. Lasciammo l'auto e camminammo sul lungo mare. "E' un mese con la -r- e i ricci saranno pieni di uova." Le tue parole mi rassicuravano: in quell'improvvisa gita non c'erano secondi fini, ma soltanto la voglia di bighellonare e assaggiare i primi ricci. Non dovevo aspettarmi di sentirti nuovamente accusare te stesso e voltare e rivoltare il discorso dei debiti. Quindi ci avvicinammo ad un pescatore che stava sistemando i frutti di mare sulla panca di marmo del mercatino e intanto decantava la sua pesca. I ricci erano neri e luccicanti: ancora vivi si muovevano tra le alghe. "Guardate -ci invitò il venditore- guardate come sono pieni." E per dimostrazione ne aprì uno con una forbicetta, lo sciacquò in un secchio pieno di acqua di mare, ce lo offrì. Tu mangiasti le uova del riccio con la punta del coltellino con gli occhi socchiusi per il piacere. Il pescatore continuava: "Non ho ragione a dire che sono speciali? Ci vuole il pane, però, ci vuole il pane! La 260
  • 49. signorina lo può comprare a quel chiosco. E' pane di casa che se è vecchio di un giorno, è più buono." Io andai verso il chiosco e tornai con una pagnotta. Il marinaio ci preparava i ricci che noi svuotavamo con tocchi di pane e non smetteva di commentare: "Sentite? Altro che aragoste, altro che triglie! Che sapore eh? Il mare in bocca avete! Il sapore del mare dopo che dentro si sono tuffati tutti i soli e tutte le lune di un intero mese. E le uova si sono nutrite, gonfiate, maturate al fuoco di quei due astri." Noi facevamo di sì, seduti sul parapetto del lungomare con il pescatore-poeta che descriveva i sapori come se li gustasse assieme a noi. Quando ci sembrò che quel sapore meritava il rispetto di una breve degustazione, pagammo le poche lire che il poeta ci chiese ed egli restò ad esaltare da innamorato, solo per se stesso, il mare e i suoi frutti. Riprendemmo a passeggiare sottobraccio, un po' insonnoliti dal tepore, dal sole, dal frangersi mite delle onde. In lontananza vedevo il faro da cui avevamo guardato la striscia lontana-vicina dell'Albania. Tu tossivi la tua tosse di fumatore, poi mi 261
  • 50. conducesti verso la rotonda. Al posto di ristoro evitammo il caffè per conservare più a lungo il sapore di mare e ordinammo semplicemente acqua. Mentre tutto era così armonioso, tirasti fuori tre pezzi di carta stretti e lunghi. Abituata dal mio lavoro di commerciante, li riconobbi subito: tre assegni. Li lisciasti sorridendo prima tra te e te e poi alzando il viso a guardarmi. "Sono tre assegni da cinque milioni l'uno." Gustasti le tue parole e la mia aria sorpresa. "Hai vinto al totocalcio, Papà?!" Scuotesti la testa, ma continuavi ancora a sorridere: "No." "E allora, da dove vengono? Il prestito di una banca? E poi perché tre assegni?" Sorridevi sempre con un’espressione furba come quella di padre Pantaleo. Parlavi senza alcuna esaltazione: "Ho concluso un affare, una vendita." Procedevi con il contagocce e ti interrompesti di nuovo per osservare i tre pezzi di carta. Poi ne spingesti uno verso di me: "Questo è il tuo!" "Come mio? Insomma da dove vengono questi soldi?" Cominciavo a spazientirmi e a sentirmi in ansia perché tu avevi la stessa aria sorniona e beata delle volte in cui eri tornato a casa 262
  • 51. annunciandoci di aver cambiato lavoro. La tua contentezza era, quindi, sospetta. "Ehi ragazzina, non starai pensando che tuo padre è capace di fare qualcosa di disonesto?" "Ma dimmi..." "E’ semplice: io possedevo una casa vecchia e così mal messa che per rimetterla a posto avrei dovuto spendere la mia vita e la tua. Qualcuno mi ha cercato per acquistarla giacché sventrandola, se ne ricaverà l’area da adibire a garage a pagamento. Nel rione, infatti, ora che tutti hanno la macchina e le vecchie abitazioni sono prive di garage, è un bel problema lasciare le auto, di notte, per strada. Mi hanno fatto la proposta e ho capito subito che era l’occasione che avevo cercato con il gioco. Quindici milioni! Che ho voluti così, divisi in tre assegni: il tuo; l’altro è di Miranda, e questo è un anticipo del debito che ho con Estrella; il resto dei miei debiti con lei lo estinguerò quando andrò in pensione, con la buona uscita." Ti appoggiasti soddisfatto alla spalliera della sedia. "Ma papà, e la nostra casa? Dovevamo tornarci tutti e quattro." Neanche questo ti scosse: "E a fare che? Tornare a fare che? Tornare chi? Miranda ci è vissuta troppo poco per amarla, 263
  • 52. tua madre, oramai, non lascerebbe più sua sorella che va invecchiando; io e te allora? Mammalucca! Sei matta se credi di poter fermare il tempo." Ti esprimevi in modo sentenzioso, convertito al tuo nuovo ruolo di uomo saggio. Mi porgesti l’ assegno e mettesti via accuratamente gli altri due. Ma non era finita. Sfilasti dalla tasca un giornale e lo apristi, lisciandolo, sul tavolino sotto i miei occhi: "Vedi, ragazza, l'affare lo avevo concluso già da quindici giorni e aspettavo il momento opportuno per dare l’annuncio. Proprio ieri ho visto qualcosa in edicola: un giornale dei concorsi con il bando di quello magistrale. Datti da fare! Questi soldi ti serviranno ad andartene via per sostenere l'esame in una provincia in cui ci sono più posti di lavoro. Lo sapevi che il numero dei posti messo a concorso varia da una provincia all'altra? Be' c'è tutto scritto sul giornale. Guarda tu stessa." Ascoltavo incredula, mentre tu mi leggevi i nomi delle province e ora me ne proponevi una, ora, un'altra. Io insistevo nel far finta che fosse tutto uno scherzo o una forma di esaltazione da parte tua che pian piano sarebbe sfumata, riportando te e me all'equilibrio precedente. Ma tu continuavi: 264
  • 53. "Che te ne pare di Bologna? Ho amici nelle ferrovie di Stato e tutti hanno parenti sparsi per l'Italia: ti daranno le indicazioni per una pensione o un affittacamere. E studia. Mi raccomando!" "Ma papà: Bologna! Così lontano? Mi scacci?" "Se proprio vuoi saperlo sono stanco di dovermi preoccupare ancora per te! Fatti il tuo avvenire così come è giusto. A te devi pensarci tu!” Tornammo indietro: tu canticchiavi per i fatti tuoi, evitavi persino di sfiorarmi. "Pensa al tuo avvenire." Diventò una sorta di ritornello: quando cercavo di tornare sull'argomento, sollevavi lo sguardo, ma subito scrollavi la testa come se la mia fosse testardaggine puerile e ripetevi la tua sentenza prima di tornare ad ingolfarti nei dati del sistema. Il gioco non era più un assillo, ma rimaneva un esercizio matematico che ti appassionava. Sempre piena di perplessità, assistei, qualche giorno dopo, alla cerimonia un po' solenne con cui consegnasti gli altri due assegni: "Questo è per te, Miranda, ma vale anche per quando compirai diciott'anni e per quando conseguirai il diploma . Cosetta ha già avuto il suo. E questo è per te, Estrella, con tanti ringraziamenti e scuse per il ritardo. Certo è solo un acconto, il resto lo avrai quando 265
  • 54. andrò in pensione." Miranda fece il giro del tavolo per abbracciarti e baciarti. Zia Estrella arrossì, non so bene perché, mentre prendeva l'assegno. Eri contento e anche mamma pareva fiera di te. Non chiese niente e quindi capii che la faccenda della vendita della casa doveva esserle già nota come pure ad Estrella giacché non fece domande; tuttavia non si trattenne dal dire: "In tutti i modi, Palmiro non ti intendi di affari: quindici milioni per tutta quell'area... ti sei fatto fare fesso..." Temetti una tua reazione: al contrario fosti molto conciliante: "Non importa, non importa: io avevo urgenza di avere questi soldi e l'acquirente me li ha dati subito; va bene così." Ero indispettita da quel terremoto che mi scombussolava la vita, anche se tra me ammettevo che non potevo tollerare un altro anno in quella specie di scuola. Ma d’altro canto cercavo scappatoie all’emigrazione: immaginavo per me un'altra scelta e sfogliavo i modelli femminili che avevo frequentato: sarei diventata moglie come Prisca? Ma come avrei potuto essere moglie giacché non ero signora di una qualche prelibatezza come il limoncello? 266
  • 55. Escludevo zia Renata e zia Estrella. Mi sarebbe piaciuto essere un’altra Amalia Turrini, ma anche per quello era oramai tardi perchè il citrato, le mignatte, i chiodi di garofano avevano da tempo rivelato la loro natura effimera. Per essere una vera bottegaia avrei dovuto avere il monopolio di qualche misteriosa sostanza, altrimenti sarei stata soltanto una commerciante tra tante. Ecco che zia Naida faceva capolino: mi sarebbe piaciuto essere un’altra zia Naida: famosa come lei per la bellezza tanto che tutti sarebbero venuti per vedermi; avrei avuto proposte di matrimonio che i miei genitori avrebbero vagliato con attenzione; ci sarebbe stato un altro barone Francesco che mi avrebbe inanellato per poi morire? E poi un altro giovane d’avvocato che sarebbe caduto in guerra per una causa in cui credeva? Infine avrei conteso a Miranda il suo spasimante? No! Questo non era il mio romanzo: io non possedevo una bellezza speciale in un mondo in cui ormai tutte le ragazze erano belle ed imbronciate. A me era toccato essere la studiata della famiglia e a Miranda, la bella. Mi passò per la testa l’idea che potevo accordarmi con mia sorella: avrei accudito i 267
  • 56. bambini di lei che avrebbe sposato certamente un partito che l’avrebbe obbligata ad una vita di rappresentanza e a trascurare i figli. Sapevo che nessuno di questi era il mio ruolo, ma fantasticarci su mi permetteva di abbozzare una qualche forma di opposizione alla strada che tu volevi impormi e che io vivevo come un esilio. Mentre io mi consolavo con le fantasie, tu procedevi nel disegnarmi il futuro. Una sera, mentre mamma e zia Estrella erano appisolate di fronte al televisore, mi dicesti: “Indovina!” “Cosa?” “Non indovineresti mai!” “Allora spiegami!” 268
  • 57. “Ho scoperto che Piazza Sant’Oronzo si chiamava un tempo Piazza dei mercanti! Mercanti veneziani! Addirittura esisteva nel millecinquecento una fiorente colonia veneziana! Quello che chiamiamo il Sedile era il loro palazzo del governo e la borsa delle merci! . Fu fatto costruire dal sindaco veneziano Pietro Mocenigo nel 1592. Che te ne pare?” “Ma dove le hai pescate tutte queste leggende?” “Sono stato in biblioteca perché tutti quei nomi veneziani che ci sono da noi, Palazzo Foscarini, Palazzo Morosini, Corte dei Mocenigo, mi frullavano nella mente. Sono andato in biblioteca per cercare un libro di storia, non sapevo bene se di Venezia o di Lecce. L’addetto, che era più colto di Salomone, mi ha raccontato a voce tutto per filo e per segno ed io poi mi sono segnato date e nomi. Fatti storici, non leggende!” Sbandierasti un foglietto! “Pensa Piazza Sant’Oronzo altro non è che una piazza di Venezia.” “Abbassa la voce: sveglierai mamma e zia Estrella.” “Dimmi tu se questo non è un segno! Annessa al sedile c’è una chiesetta, ora in disuso, intitolata a San Marco voluta appunto dai 269
  • 58. mercanti veneziani. Dimmi tu- ti ripeto- se questo non è un altro segno.” “Dove vuoi arrivare?” “Che per il concorso non devi scegliere Bologna, ma la provincia di Venezia! E’ chiarissimo! Vai in piazza e vedrai con i tuoi occhi!” Ero irritata con te: “E’ possibile che ultimamente non fai altro che andare in cerca di segni fatidici? Per scegliere al posto mio, per giunta! E’ il colmo!” Tu sorridevi: “Credo che, segni o meno, sia un’ottima scelta: mare Adriatico di là come qua! E se io mi impiccio è perché tu non ti decidi a fare qualcosa di concreto per la tua futura professione.” Lasciai perdere e per farti un dispetto la mattina dopo non andai in piazza Sant’Oronzo, ma ci andai dopo qualche giorno… Sedetti al bar più centrale ed ordinai: -Mi porti qualcosa- al cameriere che restò perplesso. D’altra parte ero lì soltanto per osservare piazza Sant’Oronzo per verificare se era possibile che un tempo avesse preso il nome dai mercanti veneziani; che il Sedile fosse stato la loro sede di governo fatto costruire da un Pietro Mocenigo, e che non era un caso se la chiesetta vicina aveva stesso nome della 270
  • 59. celebre basilica: San Marco. Non so quale prova cercassi al di là di ciò che dicevano gli storici locali. Il leone di San Marco era lì, sul portale della chiesa; scolpito nel tufo leccese vibrava le ali. Ma sì: Bologna o Venezia che importanza aveva? Entrambe lontane ed estranee. “Che sia Venezia!” Mi lasciai, quindi, sospingere dalla tua determinazione. Quasi per farti dispetto presentai, oltre la domanda per il concorso, anche quella di supplenza, per l'anno successivo, nella provincia di Venezia. Con quelle carte firmate da me mettevo un picchetto irrevocabile sulla mia vita. Ora non fantasticavo più seguendo le orme delle donne della famiglia, ma mi esercitavo ad immaginare me stessa destreggiarmi a Venezia. Fino ad allora il suo nome era collegato a conoscenze scolastiche o immagini di documentari: le sue origini, i ponti, lo sposalizio con il mare, le gondole, i dogi, la regina del commercio delle spezie. Formule, stereotipi, concetti scontati che non dicevano nulla, anzi erano poco più di un paravento su una vertigine ignota. Avrei voluto anch’io specchiarmi nel mosaico di Otranto per riconoscermi e conoscere se la mia essenza fosse conciliabile con l’anima e 271
  • 60. l’animus di Venezia che nessun libro o documentario potevano far percepire. Durante uno di quegli esercizi si mescolò l’immagine di Otranto. Sentivo che le due città avevano qualcosa in comune: il mare, l’Adriatico, certo; le lotte contro i Turchi, verissimo, ma non soltanto. Mi convincevo che ciò che le accumunava intimamente fosse la doppia vita a cui entrambe erano condannate. Quella che si offriva rassegnata e prezzolata ai turisti durante la stagione e l’altra con le sue peculiarità che soltanto nel silenzio e alla presenza di rari intenditori si lasciano cogliere. Avevo forse bisogno di quel gemellaggio per ritrovare qualcosa di noto e non sentirmi smarrita? Con il nuovo autunno ero tornata ad abbinare al lavoro nell'emporio, e alle lezioni private. Il direttore della scuola cadde dalle nuvole quando io mi licenziai e sua madre inviò una lettera, un vero e proprio trattato sulla mia ingratitudine; a zia Estrella che mi tenne il broncio per un po’. La mia firma sui documenti che credevo smarriti tra tanti nelle graduatorie del provveditorato di Venezia, si animò come un amo che mi attrasse verso di sé: a metà ottobre giunse una comunicazione che mi assegnava una supplenza annuale. Non ebbi o non volli avere il tempo di pensare: 272
  • 61. spedii il telegramma di accettazione, preparai una valigia piena, soprattutto, di libri e mamma mise altri miei effetti in un pacco che mi avrebbero fatto pervenire non appena avessi trovato una sistemazione. La sera stessa partii. "Pensa al tuo avvenire." Me lo ripetesti mentre salivo sul diretto LecceTrieste e mentre me ne stavo schiacciata contro il vetro con un atteggiamento da orfana. Era proprio a me che tutto ciò stava accadendo? Fortuna che il viaggio durava dodici ore: avrei cercato di dormire per tutto il tempo oppure sarei scesa alla prima stazione? Mi ripetevo il nome del paese, in provincia di Venezia, dove avrei dovuto insegnare: Treporti; e il nome della persona che sarebbe venuta alla stazione di Mestre a prelevarmi. Era un conoscente anche lui trasferito nel nord; lo ricordavo vagamente, lo stretto necessario, almeno speravo, per riconoscerlo. E quando il treno si mosse, dovetti controllare l'impulso di tirare il freno. Volevo scendere e dirti: "Abbiamo scherzato, papà: facciamo che tutto torni come prima." Invece tutto cambiò vorticosamente: innanzi tutto, all'arrivo a Mestre, venne a prelevarmi il conoscente che se n'era incaricato. Si grattò la testa quando gli dissi la mia 273
  • 62. destinazione. "Se ti facessi vedere la località sulla cartina, ti sembrerebbe vicinissima in linea d'aria, ma con la laguna di mezzo tutto è un po' complicato. Ma vieni, vieni, non spaventarti. Non facciamo nemmeno in tempo per una brioche...." Riprendemmo il treno e dopo una ventina di minuti eravamo a Venezia. La laguna di novembre con una infreddolita e affamata popolazione di colombi ci aspettava, mi sembrò, all'uscita dalla stazione. I procacciatori dei vari hotels, con il loro sguardo esperto, non ci presero in considerazione. Intanto il mio ospite mi sospingeva verso l'imbarcadero. Nella nebbiolina leggera che rimaneva a mezz'aria vidi caracollare un vaporetto, seguii le manovre dei marinai, la gente ravvolta che scendeva e l'altra che si imbarcava e tra questi io e la mia guida che portava una delle mie valigie. Il vaporetto solcò tutto il Canal Grande: io guardavo l'acqua sotto, la nebbia sopra, lo zoccolo nero dei palazzi, le rare gondole con qualche turista giapponese, i ponti. Percepivo lo schiudersi dell’anima di Venezia e, subito dopo, la sua guardinga ritrosia. Ci misuravamo a vicenda. La città voleva decidere se poteva fidarsi di me, ennesima forestiera; io quanto lei fosse vicina e 274
  • 63. quanto lontana dalle mie fantasticherie. Attraccammo in piazza San Marco, ma ebbi soltanto il tempo per una sbirciatina perché già dovevamo salire sulla motonave per Treporti. L’incontro a tu per tu con la città che aveva avuto una piazza a Lecce era rimandato per via di tutto quel susseguirsi di sali e scendi da mezzi di trasporto. I campanili delle isole della laguna sembravano beccheggiare sulle onde, mentre in verità ero io che beccheggiavo assecondando il movimento della motonave: come quando da bambina dondolavo su me stessa per consolarmi. A Treporti, la mia guida mi sistemò in una trattoria con alloggi, ma mi consigliò di cercare una soluzione più economica; per esempio una stanza in famiglia con l'uso di cucina. Scappò via ed io lo immaginai mentre ripercorreva all'incontrario quella serpentina che fugacemente avevo intravisto. Presi servizio a scuola e, quasi subito, la bidella mi trovò una sistemazione in famiglia: si trattava di una gentile famigliola formata da padre, madre e tre ragazzetti di età assortita. I ragazzi mi accolsero come una bella novità interrogandomi su Lecce, sulle spiagge ed il mare del Salento, sul cibo fino a quando la signora Antonella, la loro madre, non li scacciò rimproverandoli per la loro indiscrezione. "Vieni con me- disse- Non te la prendi a male se ti do il tu, vero? 275
  • 64. Sembri più giovane della tua età e spersa. La camera è in mansarda, ma è bella grande e ariosa ed ha il servizio. Ci metteremo d'accordo per gli orari in cui ti occorrerà la cucina: sappi che a me non costerebbe niente preparare per una persona in più, se vuoi..." Io non sapevo cosa dire: avevo voglia di piangere e non vedevo l'ora di restare da sola; quindi risposi un po' vagamente: "Grazie, ma preferisco fare da me." Quasi ogni sera andavo al posto pubblico per telefonare a casa anche se, più che parlare, piangevo come una bambina, ma tu, inesorabile, mi ripetevi la stessa frase: "Pensa al tuo futuro." Mi sentivo così incompresa e ti giudicavo così insensibile che a volte saltavo le telefonate e per mettere un freno alle nostalgie mi tuffai anima e corpo nella preparazione per il concorso. Per l'uso della cucina feci in modo di disturbare il meno possibile: a pranzo me la cavavo con una bistecca, a cena con un panino. La signora Antonella veniva spesso ad invitarmi, ma io ringraziavo e declinavo l'invito adducendo lo studio. Dovetti sembrare a quelle brave persone un essere scostante e misantropo. Quando ero proprio stanca di studiare alzavo lo sguardo fuori dalla finestra. 276
  • 65. Dopo il tramonto mi sembrava che le anatre mute, le folaghe, le poiane, gli aironi si affannassero a trapuntare con i loro becchi la coltre impalpabile di goccioline: più in fretta possibile prima che la foschia precipitassero in nebbia; questa si addensava al punto che, a volte, la motonave da e per Venezia non partiva. Io pensavo con un brivido alla distanza incommensurabile che mi divideva da Lecce, da te, dal telaio di zia Naida, dalla gabbia di Porfirio, dal citrato di Amalia Turrini. Pensavo a Venezia che, nonostante fosse vicinissima, era intangibile per quella cortina di bruma che si infittiva. Forse che Venezia aveva messo le gramaglie per rispetto al mio stato d’animo? Quando proprio non ne potevo più, ti scrivevo lettere compromettenti: "Treporti, 26 novembre 1970 Carissimo, papà Sono qui solo da due settimane e ancora mi è difficile rendermi conto di dove mi trovo e di cosa faccio. Qualche volta dubito anche di chi io sia. Conto i giorni che mi separano dal ponte dell'Immacolata. Partirò giovedì sera e arriverò giusto per l'otto dicembre. Avremo tutto il venerdì, il sabato e la domenica fino alla partenza del Lecce-Trieste. Quasi tre giorni interi! 277
  • 66. Venerdì lo trascorrerò con tutti voi e mi dispiace un po' che ci sia anche il nuovo ragazzo di Miranda perché non saremo proprio in famiglia, ma non posso negare a mia sorella il piacere di presentarmi il suo nuovo amore. Sabato andrò a trovare la signora Erminia e a rivedere l'emporio. Voglio proprio guardare se c'è ancora il segno della gabbia del pappagallo: questa volta racconterò a te e a lei tutta la verità sulla fine del povero Porfirio. Potremmo anche fare una delle nostre gite al mare fuori stagione; sempre che non ci sia troppo freddo per te. Che ne dici di salire di nuovo sul faro: hai ancora la vista buona per indicarmi l'Albania ed io, ora che sono adulta, ascolterò tutta la storia della tua prigionia con un'attenzione maggiore di quando ero bambina. E potremo progettare per la prossima estate quel viaggio in Germania. Non preoccuparti per i soldi: te lo offrirò io se tu, nel frattempo, non avrai vinto al totocalcio la somma adeguata. Mi dite che il tempo da voi è splendido e assolato: qui c'è quasi sempre una nebbia fitta e desolante. Chi ci è abituato non ci fa caso, ma io metto il naso fuori soltanto per andare a scuola. E dopo l'otto di dicembre alle vacanze di Natale mancheranno soltanto quindici giorni. 278
  • 67. Questo mi dà coraggio, ma non voglio pensare a dopo: l'undici febbraio, per i Patti Lateranensi, forse potrò di nuovo venire. Mi sento sola, anzi isolata, fuori dal mio mondo, non faccio che piangere e rimproverarti di avermi mandata tanto lontana per via di quel maledetto debito che ti sei messo in testa di avere nei miei confronti. Andremo insieme a veder dare la prima picconata alla nostra vecchia casa e spero che tu ti renderai conto che hai interpretato male le parole di padre Pantaleo: era la casa e non io il tuo vero debito. Ti abbraccio forte mentre piango fino ad essere sfinita. Quando vai a giocare a bocce evita gli angoli troppo ventilati. E, a proposito di giochi, che fine ha fatto la scacchiera? Ti abbraccio di nuovo Cosetta." Che fortuna, papà, che lettere come questa, che avrebbero sconvolto te e tutta la famiglia, non le abbia mai spedite! Mi addormentavo leggendole e rileggendole fino a quando non le avevo imparate a memoria e immaginavo la tua faccia e i commenti di zia Estrella, i pianti di mamma, il turbamento di Miranda di fronte a lettere del genere. 279
  • 68. Veder mescolarsi sullo stesso foglio una sequela di precisissime date ad un guazzabuglio di ricordi e confessioni incoerenti vi avrebbe fatto temere per me. In realtà quelle lettere non erano scritte da un'adulta, ma da quella parte infantile di me che, non essendosi fatta viva al momento giusto, faceva capolino fuori tempo e fuori luogo. Al mattino successivo era abbastanza rinsavita da strapparle. Vi scrivevo lettere più normali e meno lagnose che bilanciavano, almeno in parte, le lacrime che per telefono non sempre riuscivo a trattenere. Durante quell'anno di supplenza mi preparai al concorso magistrale, lo sostenni e lo vinsi. Ogni passo che mi faceva progredire, mi allontanava da te e dalla mia vita di prima, anche se tornavo "a casa" ad ogni occasione: Natale, Pasqua, le vacanze estive. Ma, pur non volendo, mi estraniavo: riprendere il filo interrotto quando non si condivide la quotidianità è un'impresa impervia. Ero insofferente verso tutti e non mi raccapezzavo: amavo Lecce e voi; spasimavo per tornare e, tuttavia, al mio arrivo mi sentivo fuori posto. Cercavo di essere di buon umore e, per riallacciare le fila dei nostri discorsi, raccontavo le mie esperienze, le mie sensazioni, il 280
  • 69. paesaggio lagunare, i vaporetti e Venezia. Una volta venne anche Giorgio con la moglie e le due figlie a guardarmi come un fenomeno da baraccone per quell'ardimento insospettato che avevo dimostrato andandomene e commentò: "Certo che sei fortunata: tanta gente va lontano in Svizzera, in Germania, in Belgio. Tu, almeno, sei qui in Italia. E gli altri, poi, vanno a fare gli operai, i minatori, i camerieri: tu hai un lavoro che ti dà prestigio." "Ma lontano chilometri- diceva Fernanda lisciando le sue piccole- Io morirei." "Se avesse voluto- si intromise zia Estrellaavrebbe potuto rimanere qua. E' stata una ragazzata; vuol farci morire dal dispiacere. Le avevo trovato un posto in una scuola...ma lei niente...è scappata. E chissà che vita, che pericoli..." E tu placido: "Cara Estrella quella scuola tienila presente per le ragazze di Giorgino, se mai ne avranno bisogno.” Fortuna che Giorgio e la sua famiglia non potevano cogliere il senso di quella osservazione. Inoltre Miranda aveva un moroso ricco e questo rallegrava la zia e mamma e tutti dirigemmo su di lei l'attenzione. Zia Estrella affermò con sicurezza, rivolgendosi 281
  • 70. a mia sorella: "Tu no, non farai l'emigrante." "Ci mancherebbe anche questo." Le diede man forte l'innamorato di mia sorella. Alla fine dell'estate ero impaziente di tornare a Treporti. Così smisi di remare contro corrente. Con il nuovo anno scolastico, che mi vedeva di ruolo in quella sede in cui ero stata supplente, decisi di non rincantucciarmi più in me stessa. Cominciai a stringere amicizia con i colleghi che, nella maggior parte dei casi, abitavano a Venezia. In principio accettai gli inviti dei più anziani come se continuassi a cercare un nido. Per questo fui spesso ospite della mia collega Wally e di suo marito Alvise, una coppia sui cinquant'anni che non aveva figli. Erano due squisiti veneziani: romantici, ma non sentimentali e con un sale di ironia che mi insegnava l'equilibrio che era mancato alla mia educazione permeata da quella venatura di tragedia greca, sempre incombente. Credo che mi abbiano capita: non mi hanno giudicata una primitiva un po' zotica, ma solo una provinciale appena, appena inselvatichita. Mi fecero conoscere Venezia grandiosa e minimalista con i suoi locali pieni di "cicchetti" e di "ombre". E mi convinsero ad abbonarmi assieme a loro agli spettacoli pomeridiani della Fenice, alla 282
  • 71. stagione teatrale del Goldoni. E così divenni espertissima di orari di motonavi e mentre facevo su e giù da Venezia mi sorprendevo e mi chiedevo chi fossi ed imparavo a riconoscere, anche se lentamente, quello che volevo io per me stessa. Fu proprio sulla motonave per Venezia che un giorno conobbi Aldo. Aldo era da Pesaro, aveva vinto un concorso alle poste e lavorava sulla terra ferma, come dicono i Veneziani. Era entrato in una comitiva di giovani tra i quali c'era un compaesano che abitava a Treporti e per questo Aldo frequentava, in certi orari, la motonave. A furia di incontrarci cominciammo a sorriderci e a salutarci con quella disinvoltura propria dei giovani che in me non era istintiva, ma un atteggiamento a cui mi andavo conformando. Un giorno Aldo prese la motonave senza ragione o meglio non per le solite ragioni, ma per stare con me. Me lo disse semplicemente con le sue maniere pacate e dolci, facendomi arrossire. Trascorremmo tutta la serata nella pizzeria vicina all'imbarcadero e mi parlò di se stesso e della sua città senza quella nostalgia ossessiva che a me stringeva il cuore. Andava verso la vita e le esperienze nuove come una scoperta allegra, senza prevenzioni, timori, rimpianti puerili. 283
  • 72. Si meravigliò quando sentì che i miei migliori amici, quelli con cui condividevo i passatempi, era una coppia di cinquant'anni. "Potresti unirti a noi -mi propose- siamo una comitiva di ragazzi e ragazze in parte forestieri, in parte veneziani." Io sorrisi: "Non vorrei disturbare." "Disturbare? Ma come parli? Tra giovani quanti più si è meglio è. Anche noi andiamo ad assistere a concerti e spettacoli intelligenti; certo non sempre facciamo cose impegnate, se no che giovani saremmo. Domani, ad esempio, andiamo alle zattere a prendere il primo sole e a mangiare un gelato buonissimo. Vieni con noi, naturalmente." Io pensavo che Aldo era il secondo uomo nella mia vita ad offrirmi la pizza, mi perdevo nel ricordo del Bar Lux e non rispondevo. Aldo capì che ero un po' particolare, che i miei tempi non erano quelli degli altri giovani, che ero insicura nei rapporti con i coetanei. Quella sera dissi di no che non sarei andata alle zattere. "Ma perché?" "Così." "Ma ci sarà un motivo?" "Non decido mai su due piedi." "Ma dammi una buona ragione?" 284
  • 73. Insomma facemmo tiro e molla per un po' e ci lasciammo con un no. La notte mi girai nel letto pentita per quel rifiuto e fui molto felice quando il giorno dopo, all'ora di pranzo, Aldo mi chiamò al telefono: "Non rispondermi nemmeno: arrivo con la motonave delle sedici e trenta e andiamo alle zattere." Così cominciai a tralasciare un po' la compagnia di Wally -che mi prese affettuosamente in giro- ed entrai, finalmente, in un gruppo di coetanei. Ero sempre un po' stonata e fuori posto perché, caro papà, non avendo mai fatto capricci in vita mia e non essendomi mai permessa di pensare a cose futili, non avevo l'allenamento, l'esercizio, l'abitudine- non so come chiamarli- a farlo. Ero diventata saggia senza mai essere stata giovane. E tuttavia questa condizione interiore, che costituiva la mia essenza e trasudava dai miei gesti, attirò Aldo. Si innamorò di me ed io di lui che mi sapeva ascoltare e capire così bene. Capiva tutto Aldo e con lui fin dal primo momento potei parlare di te e della scacchiera, della tua vita, della tua guerra, della tua fragilità e della tua grandezza con i giochi e del sistema del totocalcio. Stavo quasi per parlargli anche del viaggio in 285
  • 74. Germania, ma non lo feci. Restai così colpita dalla sua capacità di comprendere cose che erano lontane e fuori dalla sua esperienza che pensai che sarebbe stato un ottimo compagno. Forse pensai anche che sarebbe stato un ottimo genero per te. Sì Aldo aveva tutto quello che occorreva al mio equilibrio e al tuo quando, dopo che avessimo cumulato un certo punteggio, fossi tornata a Lecce. Da quel momento la vita si avventò su di me. Aldo mi chiese quale pietra preferissi per anello di fidanzamento. “Né zaffiri, né rubini, né brillanti!” Risposi come se fossi ancora in quel pomeriggio della spartizione degli anelli di zia Naida. Ero stata così decisa che Aldo restò un po’ interdetto, poi rise pensando che mi riferissi alle nostre convinzioni alternative. “Né zaffiri, né rubini, né brillanti! – ripeté lui “Che sollievo! Perché dovete sapere, cara principessa, che il vostro innamorato dovrebbe vendere gli occhi per ricoprirvi delle gemme che meritate!” E la sua dolce, dolce bocca si congiunse con la mia. Proseguimmo abbracciati e complici: “Veramente mia madre, a cui sei piaciuta subito, sarebbe pronta a sobbarcarsi perché286
  • 75. dice- sei una ragazza che merita.” “Bontà sua, ma non occorre. Comunque sono contenta di piacerle.” “E’ perché non ti conosce quanto me… non sa quanto puoi essere sorprendente e arcaica nello stesso tempo!” “Grazie! Facciamo così: andiamo in giro in certi fondaci di Venezia e vedrai che riconoscerò il mio anello.” Fu così che scelsi una fede sarda di seconda mano. Il matrimonio, poi, che si tenne a Lecce, con i miei suoceri e i miei cognati giunti da Pesaro, fu una grande baraonda. Io e te, papà, continuammo a dirci addio quando mi portasti all'altare. Anche quel breve cammino che percorremmo insieme sulla guida rossa dalla soglia della chiesa, dedicata alla Madonna del Rosario, all'altare maggiore ci allontanava. Anche se tu avevi un aspetto fierissimo ed io pensavo ad Aldo così bello nel suo vestito da sposo che mi sbirciava dall'altare. Si sa che il senso di certi momenti nodali siamo destinati a capirlo solo con il tempo. E tutto andò di conseguenza: Aldo, come avevo intuito, era il genero che ti ci voleva: aveva un'istintiva delicatezza verso tutti, il rispetto degli anziani, l'umanità. Queste doti conquistarono anche te e non avesti alcuna vergogna a metterlo a parte del 287
  • 76. tuo sistema, della vincita grandiosa che prima o poi sarebbe venuta. Mio marito ti guardava in modo penetrante. Aldo ascoltava le basi matematiche del tuo sistema e ti dava ragione, non come si dà ragione ad un vecchio stolido, ma perché provava dell'affetto per te e lo stesso affetto gli permetteva di comprendere anche quella specie di pellegrinaggio che volevi compiere. Ci dividevamo tra Spoleto, dai miei suoceri, e Lecce perché le nostre venute ti rendevano felice. Anche mamma lo era e Miranda, che aveva un nuovo innamorato e frequentava la facoltà di giurisprudenza a Bari. Persino zia Estrella era quasi amabile con Aldo e con me eccetto che quando, con un sospiro, dopo un paio di anni dal matrimonio, cominciò a dire: "E bambini, niente?" Anche nel tuo sguardo vidi brillare quella domanda. D'altra parte io stessa cominciavo a preoccuparmi per il bambino che non veniva e divenni suscettibile sull'argomento al punto da evitare per qualche tempo di tornare a Lecce. Poi ci furono le mie gravidanze andate a monte. Dopo ciascuna mi dovevo rimettere fisicamente e più ancora moralmente. Così per un po' di anni il nostro rapporto si ridusse alle telefonate e alle lettere. 288
  • 77. Miranda si laureò, proprio mentre io ero costretta a starmene a letto per non perdere il bambino e mi dovetti limitare agli auguri per telefono e all'invio di un mazzo di rose. Avevo trentacinque anni quando nacque Giuseppe. Tu e mamma veniste per il battesimo. Arrivaste con tutte le leccornie che potevate portare tanto che io, sapendo che solo tu avresti capito, scherzando dissi: "E i ricci, papà? Li hai dimenticati?" Mia madre che era all'oscuro, cadde dalle nuvole: "I ricci! Quali ricci?" E tu rimettesti le cose a posto con il tuo intervento: "Altro che ricci! Ho portato schei -come dicono qua- Ho fatto un dodici..." "Eh il tredici- intervenne mamma- non lo ha pizzicato nemmeno questa volta." "Ma è ugualmente una bella sommetta e un bel regalo per mio nipote." "Aprigli un libretto di risparmio." Suggerì mamma. A distanza di anni mi sembrasti invecchiato, mentre mamma era solo diventata un po' muscolosa. Il tuo spirito sembrava vivificarsi alla vista del nipote, del figlio maschio che non avevi avuto. Ancora una volta sentii che ero stata all'altezza del compito che tanto tempo prima mi ero 289
  • 78. assunto: farti felice. Gli anni successivi alla nascita di Giuseppe sono stati tutto un dialogo tra te e mio figlio. La sua vista ti riempiva di fierezza e di tenerezza: il bambino che era in te lo coccolavi e lo viziavi attraverso lui. Dialogavate per telefono come vecchi amici. Ogni sua parolina o monelleria ti inteneriva. Non c'era mese che non chiedessi sue fotografie per seguirne la crescita. Oramai eri andato in pensione e fui più volte tentata di chiederti se avevi liquidato i tuoi debiti con zia Estrella. Ma non lo feci e mi meravigliai nel rendermi conto che non c'era tra noi la confidenza di un tempo. Miranda era sempre fidanzata, anche se i suoi legami affettivi andavano inevitabilmente a monte. Questo mi faceva comprendere più chiaramente quanto fosse importante per te il mio ritorno a Lecce. Cominciasti ad accennare timidamente alla nostra domanda di trasferimento. Io ne parlavo con Aldo che non lo escludeva, anzi, come per mettermi alla prova, mi diceva sorridendo con tenerezza: "Decidi tu, io sto bene ovunque: qui, a Pesaro, a Lecce. Tutti i luoghi vanno ugualmente bene per me. Devi scegliere tu il posto in cui ti trovi meglio." 290
  • 79. Giudicai Aldo un marito comprensivo, ma poi cominciai a sentire il peso di quella decisione che dovevo affrontare da sola. Quando tu riprendevi il discorso per telefono o quando ci si vedeva di persona ti rispondevo come un ritornello che richiamava nella mia memoria quello tuo degli anni addietro: "Pensa a farti un avvenire" . Ti rispondevo: "Appena avremo accumulato un buon punteggio" In principio ci credevo e facevo conteggi dei punti per ogni anno di insegnamento, quelli per il marito e per Giuseppe e concludevo che dovevamo aspettare ancora un po'. La tua domanda non cambiò con il passare degli anni, soltanto era la mia risposta che si adattava alle circostanze. Sapevo che erano scuse evasive che mutavano quel tanto che corrispondeva alla crescita di mio figlio. Ti dicevo: "Quando Giuseppe terminerà la scuola materna." E dopo: "Aspettiamo che Giuseppe termini il ciclo della scuola elementare: non possiamo sradicarlo." Poi hai smesso di chiederlo e di crederci. Imparasti ad accontentarti delle nostre venute anche se anche quelle si andavano diradando. Ora che eravamo in tre, tornare per le vacanze 291
  • 80. estive era motivo di disagio perché la casa era comunque la casa di zia Estrella che era diventata tanto anziana, non amava la vivacità di Giuseppe, ed era addolorata per i fidanzamenti che Miranda mandava a monte. Così affrontavamo quel viaggio lunghissimo per trattenerci solo pochi giorni in punta di piedi, quasi, e rimanevamo entrambi con l'amaro in bocca come di fronte a qualcosa di incompiuto e, durante il viaggio di ritorno, a momenti provavo la voglia di tornare indietro per portarti via con noi; a momenti giuravo a me stessa che non sarei tornata mai più. Fu Aldo che con il suo buon senso e il suo amore trovò la soluzione: per trascorrere il mese d'agosto a Lecce, affittammo un appartamento che d'inverno era occupato da universitari. Così nessuno era disturbato dalla nostra presenza e ci potevamo godere quel lungo periodo. Quell’ agosto, al mostro arrivo a Lecce, era appena stata emessa la sentenza su Priebke. Ero ansiosa di vedere se tutta quella faccenda aveva riaperto le tue vecchie ferite, se i ricordi visti nella scacchiera erano tornati a tormentarti. Ma tu, invece, eri tutto preso da Giuseppe sui pattini. Le spericolatezze del ragazzino ti divertivano e ti inorgoglivano. Non ti nascondevi dietro solitari o parole 292
  • 81. crociate, eri diventato capace di farti piccino come mai eri riuscito a fare con me o con Miranda. Non ti saresti distolto da lui se non fossimo stati noi ad interpellarti sul processo Priebke. Seguisti un po' le immagini per televisione e dicesti: "Che la giustizia umana debba fare il suo corso è vero. Ma mi sembra un povero vecchio come me... potrei persino fare una partita a carte con lui con quel po' di tedesco che ricordo ancora, o giocare a bocce. E se fossi ancora in servizio lo porterei in giro a fargli vedere mare e cielo: forse non li ha mai guardati." Ridesti: "Ti ricordi, Cosetta, di quando ero giovane che mi ero messo in testa di tornare a visitare il lager?" "Sì papà: ne parlavi spesso.” "Avrai pensato, che ero proprio un vecchio pazzo." Non attendesti la mia risposta, ti facesti un po' pensieroso e riprendesti abbassando la voce: "Sai, Cosetta, ora ho capito tutto di quello che mi disse padre Pantaleo. Parlò dei debiti, ma anche dei crediti che- disse proprio così- “credevo di avere”. Mentre mi davo da fare per pagare i debiti mi sono dimenticato dei cosiddetti crediti e quindi 293
  • 82. dei miei aguzzini, del mio rancore verso di loro e del famoso viaggio. Solo così ho cominciato a vivere veramente. Che perdita di tempo c'è nel rancore!." E ti rimettesti a giocare con Giuseppe. Eri pacificato. E lo fosti per tutto il mese e così ancora mi apparisti il giorno della nostra partenza alla fine d'agosto. Il tuo sorriso era furbo e dolce nel saluto che ti ricambiammo dal finestrino dell'automobile, mentre Giuseppe si sbracciava. Anch'io ero appagata nel vederti sereno e sollevata perché mi eri apparso finalmente libero. Durante il viaggio, quando Giuseppe si assopì e imboccammo l'autostrada, potei abbandonarmi alle mie fantasticherie. Tornavano tanti fantasmi ed echi del passato, tanti volti come quello di zia Naida e di donna Rirì. E di nuovo mi chiesi quale fine avesse fatto la scacchiera. Forse era rimasta tra le fondamenta della nuova costruzione dopo che la nostra vecchia abitazione era stata sventrata. Cominciai a sognare ad occhi aperti e nel sogno ti vedevo salire le scale diroccate del faro, tirare fuori da sotto la camicia il cartoncino e farlo in mille pezzi che sarebbero volati via, volteggiando assieme ai gabbiani. Prima o poi avrei avuto la faccia tosta di 294
  • 83. chiedertelo, magari per telefono o per lettera o, meglio ancora, di persona: la prossima volta. Non c'è stata più la prossima volta. Il 12 settembre ero nuovamente a Lecce davanti alla tua bara. Avevi avuto un infarto e dopo poche ore di coma eri spirato. E ripensando all'ultimo mese, alle tue parole su Priebke, alla tua pace capivo che doveva essere così, che Dio ti aveva preso quando avevi percorso tutto il cammino fino al perdono non solo nel tuo intimo, ma anche testimoniandolo con le parole a me, ad Aldo, a mio figlio. Ed ero contenta di averti tenuto per mano lungo il tuo lento maturare. C'è un luogo -lo credo- pervaso di Lucenarrano - e la Luce- immagino- prima di condurci Oltre ci lascerà giocare una partita sulla nostra scacchiera. Arrivederci, papà. 295
  • 85. 297