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LA RIFORMA DEI SERVIZI
SOCIALI NELLE MARCHE
Emendamenti per migliorare la proposta di legge regionale n.
280/2013 sui servizi sociali
13/03/2013
Franco Pesaresi
Direttore ASP “Ambito 9”, Coordinatore ambito sociale di Jesi
2
Introduzione
La Giunta regionale delle Marche il 14 dicembre 2012 ha presentato la proposta di legge regionale
di riordino del settore dei servizi sociali.
La proposta di legge regionale che ha avuto il n. 280/2013 ha come oggetto il “Sistema regionale
dei servizi sociali a tutela della persona e della famiglia”.
La proposta di legge n. 280/2013 si propone di recepire la legge n. 328/2000 di riforma nazionale di
tutto il settore assistenziale e di sostituire la Legge regionale n. 43 del 1988, abbondantemente
superata.
Il presente documento si propone di migliorare i contenuti della proposta di legge n. 280/2013,
legge che va comunque approvata, con 5 emendamenti che vanno a intervenire sui nodi strategici
del settore assistenziale.
Gli emendamenti proposti si occupano di:
1. Gestione associata (pag. 3);
2. Affidamento dei servizi (pag. 10);
3. Voucher sociali (pag. 13);
4. Compartecipazione alla spesa degli assistiti (pag. 15);
5. Professioni sociali (pag. 19).
3
LA GESTIONE ASSOCIATA
Proposta di emendamento alla PDL 280/2013 sul “Sistema integrato dei servizi sociali….”
Sostituire il comma 3 dell’art. 6 con la seguente formulazione:
Art. 6
3. La regione promuove la gestione associata dei servizi sociali. I comuni ricompresi negli ATS di
cui all’art.7, nel rispetto anche delle disposizioni di cui all’articolo 9, comma 1 bis del decreto legge
95/2012 convertito con modificazioni nella legge 135/2012, provvedono alla gestione associata dei
servizi sociali mediante:
a) Convenzione;
b) Unione dei comuni;
c) Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP);
d) Azienda speciale consortile;
e) Consorzi tra comuni;
f) …………………………
4
RELAZIONE DI ACCOMPAGNAMENTO ALL’EMENDAMENTO.
Il comma 3 dell’art.6 è molto arretrato ed invece di favorire la gestione associata addirittura la
comprime rendendola più difficile di adesso. Il comma va pertanto riscritto con l’obiettivo di
promuovere la gestione associata dei servizi sociali.
Vediamo gli errori più significativi del comma:
1) Il comma 3 dell’art.6 comincia così: “Ferma restando quanto previsto nella normativa vigente in materia
di esercizio associato delle funzioni fondamentali….” Dando quindi per scontato che esistano delle norme
nazionali su questo. Quali sono? Purtroppo non è così. La competenza legislativa esclusiva in materia
sociale è della regione. Ma non basta. Le varie forme di gestione (aziende speciali, società di capitale, ecc.)
per i servizi privi di rilevanza economica erano regolati dall’art. 113 bis del testo unico degli enti locali ma
l’articolo è stato poi abrogato dalla Corte Costituzionale con l’importante argomento che la norma è materia
di competenza delle regioni. Per cui – e su questo la dottrina è assolutamente concorde – la materia non è
regolata a livello nazionale né potrebbe esserlo. Deve essere la regione a farlo. Per cui se qualcuno fa
riferimento a norme nazionali sbaglia perché non conosce il quadro normativo, crea equivoci, crea percorsi
fuorvianti. In sostanza, non esistono norme di riferimento nazionali e se la regione rinuncia a precisare le sue
disposizioni crea confusione. Ancora peggio, naturalmente, se i suoi orientamenti sono sbagliati.
2) Nella seconda parte del comma 3 dell’art.6 la pdl regionale propone quali forme di gestione associata
solamente la convenzione e l’unione dei comuni. La norma prevede le possibilità che sono state indicate per i
piccoli comuni fino a 5.000 abitanti. In realtà per gli altri comuni più grandi che complessivamente
rappresentino la popolazione maggioritaria delle Marche ci sono anche altre possibilità come le aziende, i
consorzi, ecc. . Pensate che il comune di Macerata o di Ancona possa fare una unione dei comuni con i
comuni più piccoli? Perché limitare le possibilità dei comuni? Mi pare un grave errore dettato dalla pigrizia
di chi ha scritto questa parte della legge. Ha copiato un pezzo del D.L. 95/2012 pensando di risolvere la
questione. In questo modo, si vincoleranno negativamente gli sviluppi futuri e le gestioni associate a livello
di intero ambito non si potranno realizzare più; questo è sicuro perché è tecnicamente impossibile realizzarla
(non ci potrà essere nessun ambito i cui comuni sceglieranno tutti la convenzione perché alcuni di quelli più
piccoli saranno costretti a scegliere l’unione così come nessuna unione dei comuni potrà evidentemente
riguardare l’intero ambito). Questa parte della legge va assolutamente cambiata per non condannare tutti
all’immobilismo.
3) La gestione associata a livello di ambito o a livello ampio si realizzerà solo se la regione indicherà in
modo chiaro le possibili strade (più ampie di quelle attuali) altrimenti ognuno gestirà il suo. Faccio un
esempio molto chiaro che vale per la ASP di Jesi ma che vale per ogni territorio che sta pensando ad una
gestione associata a livello di ambito. Adesso i comuni con meno di 5.000 abitanti devono decidere entro
fine anno a chi passare la gestione associata di almeno tre funzioni fondamentali e i comuni ci stanno
chiedendo se conferendo la gestione dei servizi sociali all’ASP adempiono al D.L. 95/2012 altrimenti
conferiranno i servizi alle unioni dei comuni. Se la pdl regionale non dice nulla sulla possibilità di conferire
anche all’ASP conferiranno i servizi alle unioni di comuni ed il percorso di modernizzazione si fermerà.
Questo accadrà immediatamente a Jesi ma in futuro anche negli altri territori che stanno pensando ad una
ipotesi di gestione associata. Diventa pertanto indispensabile stabilire le varie possibilità (dirlo
esplicitamente: ASP, aziende speciali, unioni ecc.) che anche i piccoli comuni hanno nella gestione associata
dei servizi. La competenza in questa materia è della regione e questa supera – per espressa previsione
costituzionale e solo per i servizi sociali – qualunque disposizione del D.L. 95/2012.
Tutto questo è spiegato con qualche parola in più nelle pagine che seguono.
1. La distinzione tra servizi pubblici a rilevanza economica e servizi pubblici
privi di rilevanza economica.
5
Il D.L. 30 settembre 2003, n. 269, (convertito nella Legge 24 dicembre 2003 n. 350), ha distinto i
servizi pubblici “a rilevanza economica” dai servizi pubblici “privi di rilevanza economica”.
Le due tipologie di servizi pubblici, però, non sono state definite dalla legge. In assenza di una
disposizione legislativa che ne fornisca la definizione, al fine di delineare i tratti distintivi delle due
diverse tipologie di servizi, in soccorso è intervenuta la giurisprudenza nazionale e comunitaria con
l’enucleazione di “indici” della rilevanza economica dei servizi pubblici locali.
In particolare, muovendo dalla costante giurisprudenza comunitaria, spetta al legislatore nazionale
valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare, per i
i servizi pubblici privi di rilevanza economica, dell’assenza di uno scopo precipuamente lucrativo,
della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed anche all’eventuale finanziamento
pubblico dell’attività in questione (Corte di giustizia CE, sentenza 22 maggio 2003, causa 18/2001;
Corte Cost. n°272/2004).
Il riferimento ai principi comunitari che informano la materia impone di individuare i servizi a
rilevanza economica o privi di rilevanza economica, tenendo conto, oltre che del profilo teleologico
del servizio -ossia della natura degli interessi o bisogni collettivi che si intendono soddisfare -e oltre
che dell’aspetto organizzativo -cioè delle modalità di erogazione dello stesso -, anche del profilo
strettamente economico del servizio, cioè dell’impatto che l'attività può avere sul mercato della
concorrenza e sui suoi caratteri di redditività.
Invero, ciò che qualifica un’attività come economica non è solo il fine produttivo cui essa è
indirizzata, ma anche il metodo con cui è svolta. L’attività produttiva può dirsi condotta con
metodo economico quando le entrate percepite per l’attività sono tese a rimunerare i fattori
produttivi utilizzati, consentendo nel lungo periodo la copertura dei costi con i ricavi.
Un tale contenuto della nozione di attività economica sembra essere stata recepita sul piano
legislativo per gli enti pubblici, per i quali la produzione di beni o servizi è qualificabile come
“imprenditoriale” in quanto essi sono tenuti per legge ad operare secondo “criteri di economicità”,
criteri di autosufficienza economica da valutarsi peraltro oggettivamente con riferimento all’attività
nel suo complesso e non ai singoli atti di impresa.
“Non può invece” – afferma la Corte dei Conti in un parere reso nel 2009 – “qualificarsi come
“attività economica” la produzione, sia da parte di un soggetto pubblico che di un soggetto
privato, di beni o servizi erogati gratuitamente o a prezzo politico, ciò che fa oggettivamente
escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi. Non è pertanto l’oggetto dell’attività ma la
modalità di gestione che determina l’indice della sua economicità” (Parere Corte dei Conti n.
195/2009).
In sintesi, sembra potersi affermare che il discrimine tra il carattere della rilevanza economica o
meno del servizio pubblico non è dato né dalla natura dell’attività né dal suo oggetto e ciò
indipendentemente anche dalla segnalata inesistenza di una precisa nozione di servizio pubblico. Il
servizio pubblico a carattere commerciale si caratterizza per i suoi requisiti di economicità,
dovendosi assicurare, ex art. 2082 del c.c., almeno l’equilibrio fra costi e ricavi del servizio.
Nel servizio pubblico privo del requisito dell’economicità il costo è, invece, essenzialmente
assicurato dalla fiscalità generale dell’ente e comunque dagli ordinari mezzi di bilancio.
“Gli effetti si dislocano in una duplice prospettiva: il primo è che risolvendosi il servizio pubblico a
carattere commerciale in una attività economicamente rilevante per il mercato della produzione e
distribuzione di beni e servizi va assicurato il rispetto dei principi comunitari della concorrenza (al
di fuori delle ipotesi di autoproduzione del servizio da parte dell’ente), mentre a dette regole non è
6
assoggettato, rispondendo ad altre esigenze, il servizio pubblico non economico” (Parere Corte dei
Conti n. 195/2009).
Le due discipline sono sempre state ispirate a due differenti fili conduttori, perché mentre per i
servizi aventi rilevanza economica l’elemento ispiratore è costituito dalla tutela della concorrenza
nell’erogazione, nel caso invece dei servizi privi di rilevanza economica le esigenze della
concorrenza appaiono sensibilmente temperate dall’esigenza di dare massima espressione alla
dimensione sociale, che in questi servizi assume grande rilievo.
Sotto altro profilo va affermato che mentre la gestione di tutti i servizi pubblici, in quanto
comportano l’uso di risorse pubbliche, debbono rispondere ai criteri di buon andamento desunti
dall’art. 97 Cost., solo i servizi pubblici a carattere economico debbono essere assicurati attraverso
un prezzo che assicuri almeno l’equilibrio tra costi e ricavi.
In quest’ottica deve ritenersi di rilevanza economica il servizio che si innesta in un settore per il
quale esiste, quantomeno in potenza, una redditività, e quindi una competizione sul mercato e ciò
ancorché siano previste forme di intervento finanziario pubblico dell'attività in questione; può
invece considerarsi privo di rilevanza quello che, per sua natura o per le modalità con cui viene
svolta la relativa gestione, non dà luogo ad alcuna competizione e quindi appare irrilevante ai fini
della concorrenza (cfr., in tal senso, TAR Puglia n. 1318/2006; T.A.R. Sardegna 2 agosto 2005, n.
1729; T.A.R. Liguria, Sez. II, 28 aprile 2005, n. 527; T.A.R. Campania 7 novembre 2003, n. 13382;
T.A.R. Umbria 24 ottobre 2003, n. 821).
Da quanto precede ne consegue che qualunque azienda pubblica o altro soggetto pubblico gestica
servizi sociali, non avendo uno scopo lucrativo, erogando servizi gratuitamente o a prezzo politico,
e con ciò escludendo oggettivamente la possibilità di coprire i costi con i ricavi degli utenti, non
assumendo il rischio d’impresa in quanto il finanziamento delle attività deriva dalla contribuzione
pubblica, gestisce servizi pubblici privi di rilevanza economica.
2. La disciplina applicabile ai servizi privi di rilevanza economica.
Il testo dell’art. 113 bis del d.lgs. n. 267/2000 prevedeva, (prima di essere abrogato dalla Corte
Costituzionale) la gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica mediante
affidamento diretto a istituzioni, aziende speciali, anche consortili, società a capitale interamente
pubblico controllate dagli enti locali, ovvero, in caso di modeste dimensioni del servizio o
caratteristiche che lo rendessero opportuno, in economia. L’art. 113 bis costituiva, infatti, norma
derogatoria e di carattere eccezionale consentendo di affidare in concessione pubblici servizi ad
uno specifico soggetto economico (la società a capitale interamente pubblico) senza dover ricorrere
alle procedure di evidenza pubblica che, altrimenti, dovrebbero necessariamente connotare
l’affidamento in concessione di un pubblico servizio, indipendentemente anche dall’operatività o
meno, nel settore specifico di cui si tratta, delle norme o dei principi di fonte comunitaria.
Mentre nel caso dei servizi locali di rilevanza economica l’art. 113 prevede sostanzialmente
l’affidamento mediante gara, l’art. 113 bis, per l’appunto, per i servizi privi di rilevanza economica
disponeva la gestione mediante affidamento diretto senza gara.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 272/2004, (Cfr. All. 1 e All.2) ha dichiarato
l’incostituzionalità del citato art. 113bis del TUEL in materia di servizi privi di rilevanza
7
economica, in quanto, nella valutazione della Corte, questi servizi non attengono alla tutela della
concorrenza (come invece i servizi di rilevanza economica) e perciò la relativa disciplina non
spetta alla competenza statale ex art. 117 Cost. ma alle regioni.
Poiché, quindi, come osservato dalla sentenza, nell’ambito dei servizi di rilevanza non economica
non si pone un problema di tutela della concorrenza, l’intervento legislativo censurato esula
certamente da tale materia, determinando così un’evidente invasione da parte dello Stato della
competenza legislativa spettante all’autonomia regionale.
A tale proposito la Corte ha opportunamente richiamato il “Libro Verde sui servizi di interesse
generale” del 21 maggio 2003, in cui la stessa Commissione Europea ha affermato che le norme
sulla concorrenza si applicano soltanto alle attività economiche, dopo aver precisato che la
distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo, cosicché
non sarebbe possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura
“non economica”.
A seguito dell’intervento della Consulta sopra esposto, si è di fatto determinata una sorta di “vuoto
di disciplina dei servizi privi di rilevanza economica, che non è stato colmato neppure dall’art.
23bis del D.L n. 112/2008, il quale si riferisce espressamente ai servizi a rilevanza economica”
(Parere Corte dei Conti 195/2009).
In particolare, rimane senza una specifica norma di riferimento la possibilità di gestire servizi privi
di rilievo economico a mezzo di società di capitali ovvero a mezzo di associazioni o fondazioni,
così come l’affidamento a terzi e la gestione in economia.
Al fine della individuazione della disciplina applicabile ai servizi in questione, occorre certamente
escludere la possibilità di ricorso, in via analogica, alle previsioni dettate dall’art. 113 TUEL o a
quelle di cui all’art. 23 bis, d.l. n. 112 del 25 giugno 2008 convertito, con modifiche, nella legge n.
133 del 6 agosto 2008 a proposito dei servizi a rilevanza economica.
Il quadro sopra descritto è confermato dalla giurisprudenza secondo cui “La caducazione ad opera
della Corte costituzionale con la sentenza n. 272 del 27 luglio 2004 della disposizione di cui all'art.
113 bis del TUEL, che dettava, con elencazione ritenuta tassativa, le modalità di gestione dei servizi
pubblici locali privi di rilevanza economica e prevedeva l'obbligo di disciplinare i rapporti tra Ente
locale e soggetto erogatore dei servizi tramite contratto di servizio, ha determinato, al di là
dell'ampliamento della potestà normativa regionale e locale, il venir meno del principio di tipicità
delle formule organizzative gestionali e la possibilità, per gli Enti locali, di ricorrere, anche in
analogia con soluzioni già introdotte nell'ordinamento dalla normativa relativa a settori specifici
(cfr. art. 112 e 115 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, come modificati dal d.lgs. 256 del
2006), a svariate possibili formule gestionali.
Alla luce di quanto detto emerge come l’ordinamento lasci all’autonomia delle singole
amministrazioni l’individuazione di interessi pubblici da soddisfare per assurgere a servizi pubblici
e prevede la gestione delle attività così individuate attraverso una serie vastissima di organismi, la
cui varietà è estrema nell’attuale panorama legislativo quanto a configurazione giuridica e a metodi
organizzativi, ovvero anche mediante l’affidamento, sotto forma di concessione o anche di contratti
con privati. L’ente locale ben potrà quindi continuare a gestire i servizi privi di rilievo economico,
che il consiglio comunale intendesse assumere, a mezzo di società di capitali, ovvero costituendo
allo scopo Aziende di servizi alla persona, fondazioni e/o associazioni, ciò nell’ambito della propria
capacità di diritto privato, che seppure funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico,
ogni amministrazione pubblica possiede.
Con riguardo alle forme organizzative, va, in particolare, ricordato che sono presenti
nell’ordinamento numerose normative settoriali come quella che istituisce le Aziende pubbliche di
8
servizi alla persona; per tutti gli altri servizi (non contemplati da normative specifiche) in dottrina si
ritiene che le scelte gestionali possano essere ricondotte alla prassi consolidata nel tempo.
Il quadro può mutare qualora la Regione - avendone per espressa affermazione della Corte
Costituzionale, facoltà - approvi, nell’ambito della competenza legislativa residuale generale
riconosciutale dall’art. 117 Cost., una legge di riordino dell’intera materia dei servizi pubblici locali
privi di rilevanza economica, definendo in tal modo gli strumenti a disposizione dei comuni, singoli
o associati, per la relativa gestione.
In merito alla competenza, la dottrina1
e la giurisprudenza sono pressoché pacifiche nel
riconoscere che, a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, la disciplina dei servizi in
questione e le forme di gestione degli stessi non possa essere contenuta in una legge dello Stato ma
essere lasciate all’autonomia regionale (potestà legislativa esclusiva regionale) e, per il principio
costituzionale del decentramento amministrativo, a quella degli enti territoriali minori.
Deve, dunque, ritenersi che, nel silenzio della legge regionale, la base normativa di riferimento
possa oggi essere rinvenuta negli statuti degli Enti Locali, in virtù sia dell’espresso riconoscimento,
da parte della sentenza in commento, del ruolo dell’“autonomia locale2
” nella disciplina di tali
servizi, sia, a maggior ragione, della dignità conferita a tali atti nel sistema delle fonti dalla
riforma del titolo V della Costituzione.
3. Cosa prevede il D.L. 95/2012 (Spending Review)?
Il D.l. 95/2012 non può prevedere nulla per i servizi pubblici privi di rilevanza economica in quanto
la competenza legislativa esclusiva è delle regioni. Non a caso, dopo il comma 1 dell’art. 9 del D.L.
95/2012, che stabilisce che province e “comuni sopprimono o accorpano o, in ogni caso, assicurano
la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20 per cento, enti, agenzie e
organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica precisa” aggiunge al comma 1-bis,
inserito in sede di conversione in legge del decreto che “Le disposizioni di cui al comma 1 non si
applicano alle aziende speciali, agli enti ed alle istituzioni che gestiscono servizi
socio‐‐‐‐assistenziali, educativi e culturali.”
Per cui anche se non ce n’era bisogno sono stati fugati tutti i dubbi interpretativi. Nel caso
specifico le ASP ed altri enti ed aziende che gestiscono i servizi socio-assistenziali non sono
soggette alle disposizioni dell’art. 9 del D.L. 95/2012.
1
Prof. Cuocolo, Università Bocconi; Castellani-Cesarini-Picchiotti.
2
Al riguardo significativo è il passaggio al nuovo ordinamento delle autonomie locali che ha segnato l’espansione del potere degli
enti di enucleare servizi pubblici, ampliandone anche le modalità di gestione, secondo cui “Gli enti locali, nell'ambito delle rispettive
competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare
fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali” (art. 112 TUEL che riprende l’art. 22 della Legge n.
142/1990).
9
4. La regione Marche ha approvato una disciplina dei servizi pubblici privi di
rilevanza economica?
La regione Marche non ha una disciplina organica sui servizi pubblici privi di rilevanza economica ma ha una
normativa settoriale relativa alla materia. Per esempio con l’art.10 della L.R. 5/2008 è intervenuta nella
materia stabilendo che “i Comuni possono istituire, anche in forma associata con altri Enti locali e con
soggetti pubblici e privati, nuove Aziende” pubbliche di servizi alla persona (ASP) “che abbiano la finalità di
gestire in maniera integrata i servizi socio-assistenziali e socio-sanitari”. Questa pertanto è una delle forme
gestionali che i comuni possono utilizzare per la gestione associata dei servizi socio-assistenziali e socio-
sanitari. Sempre la regione Marche recentemente ha stabilito con il Piano socio-sanitario delle
Marche 2012-2014 (D.C.R. n.38/2011) di privilegiare tre forme di gestione associata dei servizi
sociali: le convenzioni per l’istituzione degli uffici comuni, le comunità montane e le Aziende di
servizi alla persona (ASP). Nel caso specifico la regione Marche ha già esercitato la sua
competenza con il Piano sociosanitario 2012-2014 e con la LR 5/2008 individuando alcune
modalità di gestione associata dei servizi sociali che andrebbero confermate con al legge sui servizi
sociali e, se possibile, ampliate.
E’ facoltà della regione – prevista esplicitamente dalla Corte Costituzionale - approvare,
nell’ambito della competenza legislativa residuale generale riconosciutale dall’art. 117 Cost., una
normativa più ampia sulla modalità di gestione associata dei servizi sociali, definendo in tal modo
tutti gli strumenti a disposizione dei comuni per la relativa gestione, anche alla luce della recente
normativa che obbliga i comuni con meno di 5.000 abitanti alla gestione associata dei loro servizi.
E’ auspicabile che tale opportunità venga colta dalla regione Marche con la prossima presentazione
della proposta di legge regionale ad iniziativa della Giunta sulla riforma dei servizi sociali.
Anche altre regioni stanno andando in questa direzione. Ci sono due esempi
recentissimi. La regione Piemonte ha appena approvato la L.R. n.11 del 28/9/2012 “Disposizioni
organiche in materia di enti locali” per recepire il D.L. 95/2012 con particolare riferimento alle
norme sulla gestione associata dei piccoli comuni. Ebbene, tale legge prevede che la gestione
associata dei piccoli comuni si possa fare con le convenzioni, con le unioni e, per i servizi socio-
assistenziali, con i consorzi (art.3 comma 2) che non sono previsti dal D.L. 95/2012 ma che sono
già presenti e diffusi in tutto il territorio proprio per la gestione dei servizi sociali. Al posto dei
consorzi, dunque, avrebbero potuto starci le ASP o altre aziende le cose non sarebbero cambiate.
Più recentemente la Regione Puglia con la L. R. 6 febbraio 2013, n. 7 ha stabilito all’art. 2 che “I
Comuni appartenenti allo stesso ambito territoriale di cui all’art. 5 determinano autonomamente la
forma di gestione associata, scegliendola tra le forme previste dagli articoli 30 e seguenti del testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, emanato con decreto legislativo 18 agosto 2000,
n. 267. I comuni, inoltre, possono attribuire la gestione di alcuni o tutti i servizi del Piano sociale di
zona (PSZ) a una delle aziende pubbliche di servizi alla persona … che abbia sede legale nel
territorio dell’ambito stesso…”
Quello che conta è l’esempio di una strada percorribile. Il Governo non ha ovviamente impugnato
le leggi del Piemonte e della Puglia perché la competenza a definire le modalità di gestione dei
servizi sociali è della regione. La stessa cosa deve fare la regione Marche .
10
L’AFFIDAMENTO DEI SERVIZI
Proposta di Emendamento:
sostituire l’art.16 con la seguente formulazione:
Art. 16
(Affidamento dei servizi sociali)
1. I servizi sociali possono essere progettati, organizzati e gestiti sia da enti pubblici che da soggetti
privati.
2. Gli enti pubblici affidano i servizi previsti dalla presente legge con procedure di evidenza
pubblica secondo modalità tali da permettere il confronto tra più soggetti e più offerte. La
Giunta regionale, previo parere del CAL, disciplina le modalità e i criteri per l’affidamento dei
servizi da parte degli enti locali e degli altri enti pubblici, in conformità alle disposizioni statali in
materia. L'affidamento dei servizi avviene altresì nel rispetto delle clausole dei contratti
collettivi nazionali e degli accordi decentrati , poste a garanzia del mantenimento del
trattamento giuridico ed economico dei lavoratori interessati, nonché nel rispetto della
normativa vigente in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.
3. Negli affidamenti relativi ai servizi alla persona, gli enti pubblici procedono all’aggiudicazione
secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, attribuendo al fattore prezzo un
punteggio non superiore al 40 per cento del punteggio complessivo. E' esclusa l'aggiudicazione
basata esclusivamente sul criterio del prezzo più basso.
4. Gli enti locali indicono istruttorie pubbliche nei casi in cui riconoscono l'utilità di co-
progettare iniziative innovative o sperimentali per rispondere in modo adeguato a determinati
bisogni sociali. La co-progettazione ha per oggetto la definizione progettuale di iniziative,
interventi e attività complesse, da realizzare in collaborazione fra il soggetto pubblico e
soggetti del terzo settore individuati in conformità a una procedura di selezione pubblica.
L’istruttoria pubblica ha lo scopo di identificare il soggetto o i soggetti del terzo settore che si
possa qualificare come partner dell’ente pubblico. Con l’atto di cui al comma 2, la Giunta
regionale definisce i criteri in base a cui i Comuni valutano il ricorso all’istruttoria pubblica,
le modalità di esperimento di tale istruttoria, i criteri di valutazione dei soggetti che
partecipano alla progettazione e delle proposte progettuali.
Art. 16 bis
(clausole sociali)
1. In attuazione di quanto previsto dagli articoli 2 e 69 del D. Lgs. 163/2006 e successive
modificazioni ed integrazioni, la regione e gli enti locali possono inserire negli affidamenti, di
qualunque importo, delle forniture di beni e di servizi e della realizzazione di opere e lavori
pubblici, clausole sociali quali modalità di esecuzione dei contratti, anche al fine della
promozione dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. I disciplinari di gara
prevedono, al fine della scelta del soggetto aggiudicatario, una congrua valutazione delle
proposte di clausole sociali.
11
2. I capitolati prevedono idonee modalità di verifica della corretta attuazione delle clausole
sociali in sede di esecuzione del contratto.
Art. 16 ter
(Affidamenti per la fornitura di beni e servizi a cooperative sociali di tipo “B”)
1.La regione Marche e gli enti locali destinano, ai sensi dell’art. 5 della L. 381/1991 e
successive modificazioni ed integrazioni, alle cooperative sociali di tipo “B” una quota pari ad
almeno il 5% delle forniture di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria.
2.A tal fine possono individuare specifiche categorie merceologiche e di servizi ritenute
particolarmente adatte allo scopo, da riservare interamente agli affidamenti di cui al comma
1.
12
RELAZIONE ESPLICATIVA
L’emendamento all’art.16 è giustificato dalla necessità di arricchire il contenuto della proposta di
legge regionale soprattutto nella fase attuale di grave crisi economica che incide nei comportamenti
dei soggetti economici. L’intento dell’emendamento è quello di:
• Porre una più grande attenzione per tutta la strategica fase dell’affidamento dei servizi
sociali;
• Ribadire, in una fase in cui taluni operatori economici sono indotti a presentare ribassi
elevati, la necessità del rispetto dei CCNL e delle norme sulla sicurezza;
• Ribadire, in una fase in cui taluni operatori economici sono indotti a presentare ribassi
elevati, che il fattore prezzo non può superare il 40% del punteggio complessivo e che
comunque è esclusa l’aggiudicazione basata esclusivamente sul prezzo più basso;
• Definire un percorso per le co-progettazioni di cui si parla da anni ma che non decollano
anche a causa della mancata definizione delle procedure amministrative;
• Mantenere viva l’attenzione e creare nuove occasioni per l’occupazione dei soggetti
svantaggiati che sono i primi soggetti ad essere colpiti dalla fase economica attuale.
13
I VOUCHER SOCIALI
Proposta di Emendamento:
Eliminare il secondo comma dell’art.17.
14
RELAZIONE ESPLICATIVA
L’art. 17 della pdl regionale n. 280/2013 si occupa dei “Titoli per l’acquisizione di servizi” (o
voucher sociali).
Con il 1° comma dell’articolo si stabilisce che i comuni possono assicurare le prestazioni sociali
mediante l’assegnazione di titoli validi per l’acquisizione di servizi presso le strutture e i servizi
sociali accreditati.
Con il 2° comma l’art. 17 testualmente stabilisce che “Il Piano socio-sanitario regionale determina i
criteri e le modalità per l’adozione dei titoli di cui al comma 1”.
Con l’introduzione di questo secondo comma l’uso dei voucher non è più libero ma condizionato
dai criteri e dalle modalità stabilite dal nuovo Piano socio-sanitario che peraltro non arriverà che fra
qualche anno dato che l’attuale scadrà alla fine del 2014 (se non verrà prorogato).
Come è noto, il voucher sociale è uno degli strumenti ordinari della pratica sociale. Viene utilizzato
da molti comuni per la gestione di alcuni servizi. Sono diversi i comuni che li utilizzano per fornire
i pacchi viveri alle famiglie in difficoltà. Altri comuni li utilizzano per i buoni spesa da assegnare
alle famiglie indigenti. Il comune di Ancona, per esempio, li utilizza per gestire le ore di recupero
scolastico da assegnare alle famiglie con figli problematici. I titoli per l’acquisizione di servizi, per
esempio, si sono usati moltissimo nei progetti della provincia di Ascoli Piceno e di Ancona per la
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. In questi progetti sono stati coinvolti molti ambiti sociali
per erogare voucher sociali a donne per l’acquisto di prestazioni negli asili nido, nei centri estivi ed
in altri servizi socio-educativi per minori. Gli esempi potrebbero continuare.
Si tratta in sostanza di un banale strumento di lavoro. Rinviarne l’uso ai criteri e alle modalità
stabilite dal Piano socio-sanitario appare sinceramente privo di ogni giustificazione ed
indubbiamente comprime l’operatività degli ambiti sociali e dei comuni mettendo infine in
difficoltà i tanti comuni che usano i voucher sociali. Chi li usa per i pacchi viveri che dovrebbe
fare? Dovrebbe interrompere l’erogazione in attesa che nel 2015 arrivi una inutile
regolamentazione?
La cosa migliore è pertanto quella di eliminare il secondo comma dell’art.17. La sua permanenza
crea oggettivamente dei danni e delle limitazioni senza alcuna giustificazione.
Nulla impedisce alla Giunta Regionale, qualora abbia delle idee sull’uso dei voucher sociali, di
esplicitarle con delle norme di indirizzo ai comuni e agli ambiti sociali.
15
LA COMPARTECIPAZIONE ALLA
SPESA DEGLI ASSISTITI
Proposta di emendamento all’art. 18 della PDLR n. 280/2013 sul “Sistema integrato dei
servizi sociali….”
Sostituire l’art. 18 con il seguente articolo
Art. 18
1. Gli utenti dei servizi sociali, socio-educativi e socio-sanitari partecipano, mediante il
pagamento di rette, alla copertura del costo delle prestazioni.
2. La Giunta regionale, con propria direttiva, acquisito il parere del Consiglio delle Autonomie
locali, definisce gli indirizzi generali per il concorso da parte degli utenti al costo dei servizi
sociali, socio-educativi e socio-sanitari, sulla base del principio di progressività in ragione
della capacità economica dei soggetti. Con la stessa direttiva la Giunta regionale, per i
servizi finanziati in tutto o in parte dalla Regione, fissa la soglia minima per l’esenzione
totale dalla compartecipazione, parametrandola ai tipi di servizio e determinandone i criteri
di applicazione, al di sotto della quale il comune di residenza dell’assistito assume
interamente gli oneri per le prestazioni sociali.
3. La quota di compartecipazione al costo delle prestazioni sociali, socio-educative e socio-
sanitarie nonché la soglia minima di esclusione dalla partecipazione al costo sono stabilite
dagli Ambiti territoriali sociali, dagli enti gestori o dai comuni, nel rispetto dei principi della
normativa statale in materia di indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) e
tenendo conto della direttiva di cui al 2° comma del presente articolo.
4. Ai fini della determinazione della retta delle prestazioni residenziali, semiresidenziali e
domiciliari, gli ambiti territoriali sociali, gli enti gestori e i comuni tengono conto di tutte le
prestazioni economiche previdenziali o assistenziali a qualsiasi titolo percepite dagli utenti.
5. Agli assistiti è garantito il mantenimento di una quota del proprio reddito per il
soddisfacimento delle esigenze di vita secondo le disposizioni stabilite dalla Giunta
regionale.
6. I servizi di tipo residenziale sono a carico del comune in cui la persona assistita risiede al
momento del ricovero, essendo irrilevante l’eventuale cambiamento di residenza o di dimora
16
dovuto al ricovero stesso. Nel caso di minori in cui la tutela è esercitata, ai sensi dell’art.3
della legge 4 maggio 1983, n.184 (Diritto del minore ad una famiglia) da un amministratore
della struttura residenziale presso il quale il minore è ricoverato, gli oneri sono a carico del
comune in cui risiedono i genitori, che sono comunque tenuti a contribuire, o, in mancanza,
del comune di residenza del tutore. Nel caso di minori stranieri non accompagnati la retta è a
carico del comune in cui i minori sono stati ritrovati dalle forze dell’ordine. In caso di
affidamento familiare di un minore, gli oneri relativi alle relative prestazioni sociali sono a
carico del comune di residenza della famiglia del minore.
7. Per la determinazione della retta dei disabili adulti collocati in strutture residenziali, i redditi
a cui fare riferimento sono quelli del disabile, del suo coniuge e dei suoi figli. Nel caso
questi non siano presenti si conteggia il reddito del solo beneficiario dell’assistenza.
8. Per gli interventi economici di contrasto della povertà, gli enti gestori sono autorizzati, fino
all’approvazione della norma statale che preveda il calcolo dell’ISEE corrente, a valutare le
condizioni economiche dei beneficiari senza l’ausilio dell’ISEE.
9. Il livello di reddito e patrimonio dell’assistito non può costituire motivo di esclusione ai fini
dell’accesso ai servizi sociali.
10. E’ fatto salvo il rimborso del costo delle prestazioni anticipate in via d’urgenza dal comune
di temporaneo soggiorno dell’assistito nei confronti del comune di residenza.
17
RELAZIONE DI ACCOMPAGNAMENTO ALL’EMENDAMENTO.
La recente sentenza n.296/2012 della Corte Costituzionale e la mancata approvazione da parte del
Governo Monti del nuovo decreto sull’ISEE rende necessario rivedere il testo dell’articolo almeno
fino a quando non verrà rivista l’attuale normativa sull’ISEE.
L’attuale formulazione dell’art. 18 sulla compartecipazione degli assistiti non affronta i principali
problemi che sono relativi:
a) al coinvolgimento o meno dei familiari nel pagamento delle rette;
b) alla valorizzazione o meno dei redditi (previdenziali ed assistenziali) percepiti dagli utenti
ma non rilevanti ai fini Irpef;
c) all’uso o meno dell’ISEE nella valutazione della situazione economica dei poveri che
chiedono contributi economici per superare gravi momenti di difficoltà.
In questa ipotesi di emendamento, il reddito di riferimento, a seguito della sentenza della Corte
Costituzionale n.296/2012, è quello del nucleo familiare fatta eccezione del disabile adulto
collocato in struttura residenziale (in questo caso reddito del coniuge del disabile, dei figli del
disabile o, in mancanza, del solo disabile che è l’ipotesi del nuovo decreto non approvato
sull’ISEE).
Per quel che riguarda, invece, la determinazione della retta delle prestazioni residenziali,
semiresidenziali e domiciliari, la scelta è quella di tener conto di tutte le prestazioni economiche
previdenziali o assistenziali a qualsiasi titolo percepite dagli utenti.
Occorre risolvere il problema degli interventi economici che i comuni erogano ai poveri. Tali
interventi non possono basarsi sull’ISEE che in qualche caso fa riferimento a due anni prima.
Questo sistema non tiene conto di situazioni improvvise come la perdita del lavoro. Finché non
verrà approvato un nuovo decreto che preveda il calcolo dell’ISEE corrente per questo tipo di
interventi i comuni e gli altri enti gestori non possono tener conto dell’ISEE in tutte le situazioni
che sono improvvisamente peggiorate.
Ci sono poi altri problemi minori che forse vanno affrontati con maggior precisione, e si tratta:
• Nel comma 1 della proposta regionale, il riferimento alla normativa statale a che cosa si
riferisce tenuto conto che la competenza in materia è delle regioni? Non creerà qualche
equivoco quell’inciso? Per questo nel testo dell’emendamento quella frase è stata eliminata.
• Il comma 6 della proposta regionale, assolutamente condivisibile nel contenuto, forse va
scritto meglio tenuto conto che in base alle leggi sull’anagrafe si presta a qualche equivoco
(secondo le leggi sull’anagrafe la nuova residenza, qualunque sia il giorno di concessione
decorre dal giorno di richiesta del cittadino). Per questo è stato riscritto nella prima frase del
comma 6 dell’emendamento.
18
• Occorre definire, per evitare equivoci, la responsabilità relativa al pagamento di oneri, come
nel caso dell’affidamento familiare, che può veder coinvolti comuni diversi. La nuova
formulazione è contenuta nel comma 6 dell’emendamento.
Rimane infine la scelta regionale, legittima, di definire regionalmente le soglie di esenzione i cui
costi dovranno poi essere sostenuti dai comuni. Si tratta di una scelta di equità che si inserisce in
territori la cui ricchezza (e povertà) varia molto per cui non è detto che gli effetti nel territorio siano
del tutto equi e positivi. Ma l’aspetto più importante è che se le spese ricadranno sui comuni è bene
che queste scelte vengano discusse e condivise con le organizzazioni di rappresentanza dei comuni
per cui è bene che anche questo aspetto sia sottoposto al CAL.
19
LE PROFESSIONI SOCIALI
Proposta di emendamento:
Inserire il seguente nuovo articolo prima del titolo II della proposta di legge
Art. 18 bis
(Repertorio regionale delle professioni sociali)
1. La formazione degli operatori costituisce strumento per la promozione della qualità ed efficacia
degli interventi e dei servizi della rete integrata, per lo sviluppo dell’approccio multidisciplinare,
nonché per il sostegno alla innovazione organizzativa e gestionale.
2. La Regione, con apposito atto regionale, da adottare entro un anno dalla data di entrata in vigore
della presente legge, sentiti le organizzazioni sindacali, gli ordini e le associazioni professionali, i
rappresentanti dei soggetti privati e del privato sociale gestori dei servizi, istituisce il Repertorio
regionale delle professioni sociali, quale strumento di identificazione e di certificazione dei profili
professionali richiesti dalla programmazione regionale ed occorrenti all’erogazione dei servizi
della rete regionale integrata. Il Repertorio regionale delle professioni sociali riconosce le figure e le
professioni sociali formate dal sistema regionale della formazione professionale da ritenersi
comunque aggiuntive rispetto a quelle già definite a livello nazionale e nelle more
dell’individuazione a livello nazionale dei nuovi profili professionali sociali, come previsti
dall’articolo 12 della l. n. 328/2000.
3. Il Repertorio individua le funzioni e le qualifiche delle diverse categorie di operatori dei servizi
sociali la cui formazione è di competenza regionale, le suddivide per area di attività e definisce per
ciascuna di esse compiti e attribuzioni, titoli di studio, curricoli e percorsi di formazione,
riqualificazione e aggiornamento professionale.
20
RELAZIONE ESPLICATIVA
Gli occupati nei servizi sociali delle Marche
Gli occupati nei servizi sociali delle Marche sono circa 13.000 unità, per due terzi donne. Due terzi
degli occupati lavorano in organizzazioni di terzo settore (6.200 nelle sole cooperative sociali),
mentre i dipendenti pubblici hanno un peso limitato, con 3.500 addetti; le imprese private
mantengono un ruolo marginale (circa 900 addetti).
Nella Regione Marche i 13.000 occupati rilevati rappresentano un valore di 0,9 addetti ai servizi
sociali ogni cento abitanti della Regione, un dato in linea – appena lievemente inferiore – a quello
nazionale.
Sulla qualità dell'occupazione nei servizi sociali non sono disponibili informazioni sistematiche. Le
figure professionali più frequenti sono gli educatori (oltre 3.000), gli addetti all'assistenza alla
persona (2.400), gli operatori socio-sanitari (1.300, in aumento) concentrati questi ultimi nelle
strutture gestite dall'ASUR. Gli assistenti sociali (460) sono presenti soprattutto nell'impiego
pubblico e, insieme ad alcune altre professioni (ad esempio gli psicologi), rappresentano le figure
con maggiore qualificazione.
L'area di intervento prevalente in cui sono impegnati gli addetti al settore è quella dell'assistenza
sociale non residenziale (due terzi degli addetti complessivi). In termini di contratti di lavoro, un
elemento positivo è che, all'interno delle cooperative sociali, la quota di personale con contratti di
collaborazione o interinali è relativamente bassa (meno del 10% del totale), anche se compensata da
un vasto ricorso al lavoro part-time.
Gli aspetti problematici
Non mancano gli aspetti problematici sul versante delle professioni sociali. Come abbiamo appena
visto con i dati quali-quantitativi, solo una piccola parte degli operatori del sociale appartiene a
professioni riconosciute a livello nazionale, molti lavorano con titoli e qualifiche regionali che
sembra opportuno valorizzare e riqualificare.
Proprio a questo riguardo, numerosi segnali evidenziano uno stato di diffuso disagio all’interno del
lavoro sociale, sempre più caratterizzato da un’estrema domanda di flessibilità e di elevate
competenze tecnico-professionali cui non corrisponde un’adeguata valorizzazione degli operatori né
sul piano retributivo né sul piano della visibilità e del riconoscimento sociale. Anche in questi
termini si ritiene importante sottolineare l’esigenza di avviare percorsi di riordino e definizione dei
profili professionali di rilievo regionale in grado di costituire un “quadro delle certezze” per gli
operatori e per gli utenti finali dei servizi e degli interventi sociali. Ci sarebbe bisogno, per la verità,
anche di un intervento sulle professioni di rilievo nazionale ma queste spettano al governo italiano.
Le comunità professionali degli operatori e dei professionisti del welfare, d’altro canto, evidenziano
una diffusa esigenza di formazione continua, di aggiornamento professionale e sostegno alle
funzioni svolte, unitamente alla segnalazione di specifici fattori di sofferenza riguardanti le
retribuzioni, l’inquadramento contrattuale, le possibilità di sviluppo professionale. Sul fronte delle
qualifiche formative per il comparto sociale, le ricerche svolte convergono nel segnalare
un’accentuata parcellizzazione, con percorsi che mostrano differenti standard formativi in ogni
contesto regionale.
Le Figure professionali sociali nella L. 328/200
L’art. 12 della L. 328/2000 a proposito delle professioni sociali ha stabilito quanto segue:
“1. Con decreto del Ministro per la solidarietà sociale, da emanare entro centottanta giorni dalla
data di entrata in vigore della presente legge, di concerto con i Ministri della sanità, del lavoro e
della previdenza sociale, della pubblica istruzione e dell'università e della ricerca scientifica e
tecnologica, sulla base dei criteri e dei parametri individuati dalla Conferenza unificata di cui
all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ai sensi dell'articolo 129, comma 2, del
21
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, sono definiti i profili professionali delle figure
professionali sociali.
2. Con regolamento del Ministro per la solidarietà sociale, da emanare di concerto con i Ministri
della sanità e dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica e d'intesa con la Conferenza
unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti:
a) le figure professionali di cui al comma 1 da formare con i corsi di laurea di cui all'articolo 6 del
regolamento recante norme concernenti l'autonomia didattica degli atenei, adottato con decreto del
Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509;
b) le figure professionali di cui al comma 1 da formare in corsi di formazione organizzati dalle
regioni, nonché i criteri generali riguardanti i requisiti per l'accesso, la durata e
l'ordinamento didattico dei medesimi corsi di formazione;
c) i criteri per il riconoscimento e la equiparazione dei profili professionali esistenti alla data di
entrata in vigore della presente legge.
3. Gli ordinamenti didattici dei corsi di laurea di cui al comma 2, lettera a), sono definiti
dall'università ai sensi dell'articolo 11 del citato regolamento adottato con decreto del Ministro
dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509.
4. Restano ferme le disposizioni di cui all'articolo 3-octies del decreto legislativo 30 dicembre 1992,
n. 502, introdotto dall'articolo 3 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, relative ai profili
professionali dell'area socio-sanitaria ad elevata integrazione socio-sanitaria.
5. Ai sensi del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con decreto
dei Ministri per la solidarietà sociale, del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e
per la funzione pubblica, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, sono individuate, per le figure professionali sociali, le modalità di accesso alla
dirigenza, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.”
La norma relativa al comma 2 lettera b) dell’art. 12 della 328/2000 contrastando con norme
precedenti e successive ha creato qualche problema di interpretazione nello stabilire l’effettiva
competenza normativa fra Stato e Regioni relativamente alla definizione delle figure professionali
del settore sociali formate dal sistema della formazione professionale regionale. La legge n.
845/1978 che affida alla competenza regionale la formazione professionale e la successiva
emanazione della Legge Costituzionale n. 3/2001 sembrano aver sciolto molti dubbi individuando
in via diretta ed indiretta le regioni quali soggetti competenti a definire i profili professionali degli
operatori formati da corsi di formazione professionale regionale.
Ciononostante qualche perplessità logica (non interpretativa) rimane perché non vi è dubbio che
solo con l’individuazione con legge o con D.P.R. di un profilo professionale questo ne sancisce il
riconoscimento giuridico e la “spendibilità generalizzata” del titolo sia in Italia che nell’Unione
Europea.
Il riordino dei profili professionali: lo stato dell’arte nelle diverse regioni
In realtà il regolamento del Ministro per la solidarietà sociale (oggi Ministro del lavoro) non ha mai
definito le figure professionali da formare in corsi di formazione organizzati dalle regioni, nonché i
criteri generali riguardanti i requisiti per l'accesso, la durata e l'ordinamento didattico dei medesimi
corsi di formazione. Probabilmente anche a causa dei problemi di competenza a cui abbiamo
appena accennato.
In assenza di una regolamentazione quadro a livello nazionale delle professioni sociali, i sistemi di
welfare regionali hanno avvertito l’esigenza di qualificare i servizi e gli interventi sociali
assicurando standard operativi, funzionali e professionali in grado di garantire livelli uniformi delle
prestazioni.
22
Alcune Regioni, tra cui Campania, Umbria e Puglia hanno avviato proposte per il riordino delle
professioni sociali, progettando alcuni profili professionali, a cui ricondurre le qualifiche formate
negli ultimi decenni.
La Campania ha approvato con la DGR 2843/2003 il nuovo quadro regionale delle professioni
sociali prevedendo 11 figure professionali/profili: Assistente Familiare (certificazione di
competenze e percorso formativo), OSA e OSS (qualifiche tecniche di base), Tecnico
dell’Accoglienza Sociale, Mediatore Culturale, Operatore d’infanzia, Animatore Sociale e Tecnico
dell’Inserimento lavorativo (qualifiche tecniche), Assistente Sociale ed Educatore Professionale
(profili regolamentati a livello nazionale per i quali è previsto il diploma di laurea) e il Mediatore
familiare (alta specializzazione).
In Umbria con la delibera 216/00 è stato approvato un documento che individua una “lista minima”
di figure professionali prevedendone un’articolazione in quattro livello (qualifiche di base,
qualifiche tecniche, quadri e alta qualificazione) ciascuno articolato in specializzazioni di contesto e
gestionali.
Nella Regione Marche è stato fatto un significativo lavoro preparatorio per arrivare alla definizione
del Repertorio regionale delle professioni sociali, lavoro che non ha ancora avuto seguito. Tale
proposta individuava 5 figure cardine: operatore dell’infanzia, animatore sociale, tecnico
dell’inserimento lavorativo, mediatore culturale, operatore professionale per il comparto sanitario,
sociale, penitenziario e di comunità educativa/terapeutica. Prevedeva inoltre l’inserimento di due
profili di gestione: Tecnico dell’organizzazione e gestione dell’impresa sociale e Tecnico di rete
territoriale dei servizi. Venivano inoltre previste delle “specializzazioni di contesto” legate alle
differenti aree di intervento sociale (infanzia-adolescenza; anziani non autosufficienti e
problematiche psichiatriche; dipendenze patologiche; orientamento e problematiche del lavoro;
interculturalità; marginalità) e “specializzazioni di gestione” articolate in 4 livelli (responsabile
unità di lavoro, responsabile di un servizio semplice, responsabile di un servizio complesso,
responsabile di sviluppo sociale). Il Piano 2008-2010 si proponeva di dar seguito al percorso
intrapreso con l’obiettivo di approvare un atto deliberativo che riordinasse i percorsi formativi e
avviasse un tavolo congiunto tra Servizio Politiche sociali, Servizio Salute e Servizio Formazione
professionale, università marchigiane e gli istituti di istruzione superiore per la stesura del repertorio
delle professioni sociali e la definizione delle priorità formative in base alle politiche di welfare
regionale. Un percorso che sembra essersi interrotto.
Altre regioni, invece, hanno regolamentato singole figure professionali; è il caso dell’Abruzzo, che
ha approvato la qualifica professionale e i relativi standard formativi del mediatore culturale e della
Lombardia che ha deliberato le linee guida per la formazione dell’Assistente familiare e
dell’Ausiliario socio-assistenziale (ASA).
Emilia Romagna, Lazio, Toscana e Piemonte, nell’ambito del percorso di riordino del sistema della
formazione e di definizione di un sistema di certificazione delle competenze professionali in linea
con gli indirizzi dell’Unione Europea, hanno definito il sistema regionale delle qualifiche e adottato
un proprio repertorio.
Il repertorio dell’Emilia Romagna è stato approvato in attuazione della Legge Regionale n. 12/2003,
“Norme per l’uguaglianza delle opportunità di accesso al sapere, per ognuno e per tutto l’arco della
vita, attraverso il rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale, anche in
integrazione tra loro”. Nell’Area professionale “Assistenza sociale, sanitaria e socio-sanitaria”
ricomprende 4 qualifiche/figure professionali: Animatore Sociale, Interprete in Lingua Italiana dei
Segni, Mediatore Interculturale e Operatore Socio-Sanitario OSS.
Nel Repertorio della Toscana ciascun profilo professionale viene descritto in termini di
caratteristiche della professionalità da conseguire in uscita da un percorso formativo, di cui vengono
individuati gli standard minimi. Ai sensi di quanto previsto dalla DGR 903 del 200 5 il repertorio è
articolato in 3 sezioni: la prima raccoglie tutti i profili professionali propriamente detti, ovvero
quelli cui corrispondono qualifiche professionali conseguibili al termine di percorsi formativi ad
esse finalizzati; la seconda raccoglie l’elenco delle figure professionali individuate a livello
23
nazionale nell’ambito del canale formativo dell’Istruzione e Formazione tecnico Superiore; la terza
sezione raccoglie le descrizioni di quei profili professionali (o di componenti di professionalità)
definite e regolamentate da specifiche normative nazionali/regionali di settore per lo svolgimento di
determinate funzioni e/o attività lavorative; a tali profili generalmente non corrispondono vere e
proprie qualifiche professionali, ma piuttosto dei titoli di abilitazione all’esercizio della funzione e/o
delle attività lavorative previste.
Nella Regione Lazio con la DGR n. 128 del 2006 è stata approvata l’istituzione del Repertorio
regionale dei profili professionali e formativi nell’ottica della creazione di un sistema finalizzato
alla certificazione delle competenze possedute nella direzione dell’integrazione dei sistemi
dell’istruzione, formazione professionale e lavoro; per ciò che concerne il settore sociale, sono stati
approvati ai fini dell’inserimento nel Repertorio i profili professionali e formativi dell’Assistente
familiare e del Mediatore Interculturale.
Un percorso analogo è stato avviato anche nella Regione Piemonte che si è inoltre dotata di un
sistema informativo integrato che supporta l’intero processo di descrizione e certificazione delle
competenze (DGR n. 152/3672 del 2006). Il sistema denominato “COLLEGAMENTI” gestisce il
repertorio dei profili professionali e formativi descritti per competenze e il loro raccordo con i
codici ISTAT e ISCO. Nel comparto di riferimento per i servizi socio-assistenziali vengono inseriti
9 “profili di competenze tecnico-professionali”: Operatore socio-sanitario, Animatore Servizi
all’Infanzia, Educatore prima infanzia, Mediatore interculturale, Direttore di Comunità socio-
sanitaria, Assistente educativo, l’animatore professionale socio-educativo.
La proposta
Occorre adesso trasferire questo lavoro già prodotto avviato in altre regioni anche nelle Marche. Si
tratterà quindi di avviare un proficuo lavoro a livello regionale finalizzato alla definizione di un
“quadro di certezze” per le professioni sociali di rilievo regionale nel quale trovi posto la
definizione dei profili professionali, l’indicazione di standard formativi omogenei per il
conseguimento di qualifiche regionali e la tendenziale convergenza delle professioni di base ed
intermedie formate attraverso percorsi regionali.
La proposta è di istituire anche nelle Marche il Repertorio regionale delle professioni sociali, quale
strumento di identificazione e di certificazione dei profili professionali richiesti dalla
programmazione regionale degli interventi ed occorrenti all’erogazione dei servizi della rete
regionale integrata, individuando le funzioni e le qualifiche delle diverse categorie di operatori dei
servizi sociali, le area di attività, compiti e attribuzioni, titoli di studio, curricoli e percorsi di
formazione, riqualificazione e aggiornamento professionale.

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La riforma dei servizi sociali nelle Marche

  • 1. LA RIFORMA DEI SERVIZI SOCIALI NELLE MARCHE Emendamenti per migliorare la proposta di legge regionale n. 280/2013 sui servizi sociali 13/03/2013 Franco Pesaresi Direttore ASP “Ambito 9”, Coordinatore ambito sociale di Jesi
  • 2. 2 Introduzione La Giunta regionale delle Marche il 14 dicembre 2012 ha presentato la proposta di legge regionale di riordino del settore dei servizi sociali. La proposta di legge regionale che ha avuto il n. 280/2013 ha come oggetto il “Sistema regionale dei servizi sociali a tutela della persona e della famiglia”. La proposta di legge n. 280/2013 si propone di recepire la legge n. 328/2000 di riforma nazionale di tutto il settore assistenziale e di sostituire la Legge regionale n. 43 del 1988, abbondantemente superata. Il presente documento si propone di migliorare i contenuti della proposta di legge n. 280/2013, legge che va comunque approvata, con 5 emendamenti che vanno a intervenire sui nodi strategici del settore assistenziale. Gli emendamenti proposti si occupano di: 1. Gestione associata (pag. 3); 2. Affidamento dei servizi (pag. 10); 3. Voucher sociali (pag. 13); 4. Compartecipazione alla spesa degli assistiti (pag. 15); 5. Professioni sociali (pag. 19).
  • 3. 3 LA GESTIONE ASSOCIATA Proposta di emendamento alla PDL 280/2013 sul “Sistema integrato dei servizi sociali….” Sostituire il comma 3 dell’art. 6 con la seguente formulazione: Art. 6 3. La regione promuove la gestione associata dei servizi sociali. I comuni ricompresi negli ATS di cui all’art.7, nel rispetto anche delle disposizioni di cui all’articolo 9, comma 1 bis del decreto legge 95/2012 convertito con modificazioni nella legge 135/2012, provvedono alla gestione associata dei servizi sociali mediante: a) Convenzione; b) Unione dei comuni; c) Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP); d) Azienda speciale consortile; e) Consorzi tra comuni; f) …………………………
  • 4. 4 RELAZIONE DI ACCOMPAGNAMENTO ALL’EMENDAMENTO. Il comma 3 dell’art.6 è molto arretrato ed invece di favorire la gestione associata addirittura la comprime rendendola più difficile di adesso. Il comma va pertanto riscritto con l’obiettivo di promuovere la gestione associata dei servizi sociali. Vediamo gli errori più significativi del comma: 1) Il comma 3 dell’art.6 comincia così: “Ferma restando quanto previsto nella normativa vigente in materia di esercizio associato delle funzioni fondamentali….” Dando quindi per scontato che esistano delle norme nazionali su questo. Quali sono? Purtroppo non è così. La competenza legislativa esclusiva in materia sociale è della regione. Ma non basta. Le varie forme di gestione (aziende speciali, società di capitale, ecc.) per i servizi privi di rilevanza economica erano regolati dall’art. 113 bis del testo unico degli enti locali ma l’articolo è stato poi abrogato dalla Corte Costituzionale con l’importante argomento che la norma è materia di competenza delle regioni. Per cui – e su questo la dottrina è assolutamente concorde – la materia non è regolata a livello nazionale né potrebbe esserlo. Deve essere la regione a farlo. Per cui se qualcuno fa riferimento a norme nazionali sbaglia perché non conosce il quadro normativo, crea equivoci, crea percorsi fuorvianti. In sostanza, non esistono norme di riferimento nazionali e se la regione rinuncia a precisare le sue disposizioni crea confusione. Ancora peggio, naturalmente, se i suoi orientamenti sono sbagliati. 2) Nella seconda parte del comma 3 dell’art.6 la pdl regionale propone quali forme di gestione associata solamente la convenzione e l’unione dei comuni. La norma prevede le possibilità che sono state indicate per i piccoli comuni fino a 5.000 abitanti. In realtà per gli altri comuni più grandi che complessivamente rappresentino la popolazione maggioritaria delle Marche ci sono anche altre possibilità come le aziende, i consorzi, ecc. . Pensate che il comune di Macerata o di Ancona possa fare una unione dei comuni con i comuni più piccoli? Perché limitare le possibilità dei comuni? Mi pare un grave errore dettato dalla pigrizia di chi ha scritto questa parte della legge. Ha copiato un pezzo del D.L. 95/2012 pensando di risolvere la questione. In questo modo, si vincoleranno negativamente gli sviluppi futuri e le gestioni associate a livello di intero ambito non si potranno realizzare più; questo è sicuro perché è tecnicamente impossibile realizzarla (non ci potrà essere nessun ambito i cui comuni sceglieranno tutti la convenzione perché alcuni di quelli più piccoli saranno costretti a scegliere l’unione così come nessuna unione dei comuni potrà evidentemente riguardare l’intero ambito). Questa parte della legge va assolutamente cambiata per non condannare tutti all’immobilismo. 3) La gestione associata a livello di ambito o a livello ampio si realizzerà solo se la regione indicherà in modo chiaro le possibili strade (più ampie di quelle attuali) altrimenti ognuno gestirà il suo. Faccio un esempio molto chiaro che vale per la ASP di Jesi ma che vale per ogni territorio che sta pensando ad una gestione associata a livello di ambito. Adesso i comuni con meno di 5.000 abitanti devono decidere entro fine anno a chi passare la gestione associata di almeno tre funzioni fondamentali e i comuni ci stanno chiedendo se conferendo la gestione dei servizi sociali all’ASP adempiono al D.L. 95/2012 altrimenti conferiranno i servizi alle unioni dei comuni. Se la pdl regionale non dice nulla sulla possibilità di conferire anche all’ASP conferiranno i servizi alle unioni di comuni ed il percorso di modernizzazione si fermerà. Questo accadrà immediatamente a Jesi ma in futuro anche negli altri territori che stanno pensando ad una ipotesi di gestione associata. Diventa pertanto indispensabile stabilire le varie possibilità (dirlo esplicitamente: ASP, aziende speciali, unioni ecc.) che anche i piccoli comuni hanno nella gestione associata dei servizi. La competenza in questa materia è della regione e questa supera – per espressa previsione costituzionale e solo per i servizi sociali – qualunque disposizione del D.L. 95/2012. Tutto questo è spiegato con qualche parola in più nelle pagine che seguono. 1. La distinzione tra servizi pubblici a rilevanza economica e servizi pubblici privi di rilevanza economica.
  • 5. 5 Il D.L. 30 settembre 2003, n. 269, (convertito nella Legge 24 dicembre 2003 n. 350), ha distinto i servizi pubblici “a rilevanza economica” dai servizi pubblici “privi di rilevanza economica”. Le due tipologie di servizi pubblici, però, non sono state definite dalla legge. In assenza di una disposizione legislativa che ne fornisca la definizione, al fine di delineare i tratti distintivi delle due diverse tipologie di servizi, in soccorso è intervenuta la giurisprudenza nazionale e comunitaria con l’enucleazione di “indici” della rilevanza economica dei servizi pubblici locali. In particolare, muovendo dalla costante giurisprudenza comunitaria, spetta al legislatore nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare, per i i servizi pubblici privi di rilevanza economica, dell’assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed anche all’eventuale finanziamento pubblico dell’attività in questione (Corte di giustizia CE, sentenza 22 maggio 2003, causa 18/2001; Corte Cost. n°272/2004). Il riferimento ai principi comunitari che informano la materia impone di individuare i servizi a rilevanza economica o privi di rilevanza economica, tenendo conto, oltre che del profilo teleologico del servizio -ossia della natura degli interessi o bisogni collettivi che si intendono soddisfare -e oltre che dell’aspetto organizzativo -cioè delle modalità di erogazione dello stesso -, anche del profilo strettamente economico del servizio, cioè dell’impatto che l'attività può avere sul mercato della concorrenza e sui suoi caratteri di redditività. Invero, ciò che qualifica un’attività come economica non è solo il fine produttivo cui essa è indirizzata, ma anche il metodo con cui è svolta. L’attività produttiva può dirsi condotta con metodo economico quando le entrate percepite per l’attività sono tese a rimunerare i fattori produttivi utilizzati, consentendo nel lungo periodo la copertura dei costi con i ricavi. Un tale contenuto della nozione di attività economica sembra essere stata recepita sul piano legislativo per gli enti pubblici, per i quali la produzione di beni o servizi è qualificabile come “imprenditoriale” in quanto essi sono tenuti per legge ad operare secondo “criteri di economicità”, criteri di autosufficienza economica da valutarsi peraltro oggettivamente con riferimento all’attività nel suo complesso e non ai singoli atti di impresa. “Non può invece” – afferma la Corte dei Conti in un parere reso nel 2009 – “qualificarsi come “attività economica” la produzione, sia da parte di un soggetto pubblico che di un soggetto privato, di beni o servizi erogati gratuitamente o a prezzo politico, ciò che fa oggettivamente escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi. Non è pertanto l’oggetto dell’attività ma la modalità di gestione che determina l’indice della sua economicità” (Parere Corte dei Conti n. 195/2009). In sintesi, sembra potersi affermare che il discrimine tra il carattere della rilevanza economica o meno del servizio pubblico non è dato né dalla natura dell’attività né dal suo oggetto e ciò indipendentemente anche dalla segnalata inesistenza di una precisa nozione di servizio pubblico. Il servizio pubblico a carattere commerciale si caratterizza per i suoi requisiti di economicità, dovendosi assicurare, ex art. 2082 del c.c., almeno l’equilibrio fra costi e ricavi del servizio. Nel servizio pubblico privo del requisito dell’economicità il costo è, invece, essenzialmente assicurato dalla fiscalità generale dell’ente e comunque dagli ordinari mezzi di bilancio. “Gli effetti si dislocano in una duplice prospettiva: il primo è che risolvendosi il servizio pubblico a carattere commerciale in una attività economicamente rilevante per il mercato della produzione e distribuzione di beni e servizi va assicurato il rispetto dei principi comunitari della concorrenza (al di fuori delle ipotesi di autoproduzione del servizio da parte dell’ente), mentre a dette regole non è
  • 6. 6 assoggettato, rispondendo ad altre esigenze, il servizio pubblico non economico” (Parere Corte dei Conti n. 195/2009). Le due discipline sono sempre state ispirate a due differenti fili conduttori, perché mentre per i servizi aventi rilevanza economica l’elemento ispiratore è costituito dalla tutela della concorrenza nell’erogazione, nel caso invece dei servizi privi di rilevanza economica le esigenze della concorrenza appaiono sensibilmente temperate dall’esigenza di dare massima espressione alla dimensione sociale, che in questi servizi assume grande rilievo. Sotto altro profilo va affermato che mentre la gestione di tutti i servizi pubblici, in quanto comportano l’uso di risorse pubbliche, debbono rispondere ai criteri di buon andamento desunti dall’art. 97 Cost., solo i servizi pubblici a carattere economico debbono essere assicurati attraverso un prezzo che assicuri almeno l’equilibrio tra costi e ricavi. In quest’ottica deve ritenersi di rilevanza economica il servizio che si innesta in un settore per il quale esiste, quantomeno in potenza, una redditività, e quindi una competizione sul mercato e ciò ancorché siano previste forme di intervento finanziario pubblico dell'attività in questione; può invece considerarsi privo di rilevanza quello che, per sua natura o per le modalità con cui viene svolta la relativa gestione, non dà luogo ad alcuna competizione e quindi appare irrilevante ai fini della concorrenza (cfr., in tal senso, TAR Puglia n. 1318/2006; T.A.R. Sardegna 2 agosto 2005, n. 1729; T.A.R. Liguria, Sez. II, 28 aprile 2005, n. 527; T.A.R. Campania 7 novembre 2003, n. 13382; T.A.R. Umbria 24 ottobre 2003, n. 821). Da quanto precede ne consegue che qualunque azienda pubblica o altro soggetto pubblico gestica servizi sociali, non avendo uno scopo lucrativo, erogando servizi gratuitamente o a prezzo politico, e con ciò escludendo oggettivamente la possibilità di coprire i costi con i ricavi degli utenti, non assumendo il rischio d’impresa in quanto il finanziamento delle attività deriva dalla contribuzione pubblica, gestisce servizi pubblici privi di rilevanza economica. 2. La disciplina applicabile ai servizi privi di rilevanza economica. Il testo dell’art. 113 bis del d.lgs. n. 267/2000 prevedeva, (prima di essere abrogato dalla Corte Costituzionale) la gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica mediante affidamento diretto a istituzioni, aziende speciali, anche consortili, società a capitale interamente pubblico controllate dagli enti locali, ovvero, in caso di modeste dimensioni del servizio o caratteristiche che lo rendessero opportuno, in economia. L’art. 113 bis costituiva, infatti, norma derogatoria e di carattere eccezionale consentendo di affidare in concessione pubblici servizi ad uno specifico soggetto economico (la società a capitale interamente pubblico) senza dover ricorrere alle procedure di evidenza pubblica che, altrimenti, dovrebbero necessariamente connotare l’affidamento in concessione di un pubblico servizio, indipendentemente anche dall’operatività o meno, nel settore specifico di cui si tratta, delle norme o dei principi di fonte comunitaria. Mentre nel caso dei servizi locali di rilevanza economica l’art. 113 prevede sostanzialmente l’affidamento mediante gara, l’art. 113 bis, per l’appunto, per i servizi privi di rilevanza economica disponeva la gestione mediante affidamento diretto senza gara. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 272/2004, (Cfr. All. 1 e All.2) ha dichiarato l’incostituzionalità del citato art. 113bis del TUEL in materia di servizi privi di rilevanza
  • 7. 7 economica, in quanto, nella valutazione della Corte, questi servizi non attengono alla tutela della concorrenza (come invece i servizi di rilevanza economica) e perciò la relativa disciplina non spetta alla competenza statale ex art. 117 Cost. ma alle regioni. Poiché, quindi, come osservato dalla sentenza, nell’ambito dei servizi di rilevanza non economica non si pone un problema di tutela della concorrenza, l’intervento legislativo censurato esula certamente da tale materia, determinando così un’evidente invasione da parte dello Stato della competenza legislativa spettante all’autonomia regionale. A tale proposito la Corte ha opportunamente richiamato il “Libro Verde sui servizi di interesse generale” del 21 maggio 2003, in cui la stessa Commissione Europea ha affermato che le norme sulla concorrenza si applicano soltanto alle attività economiche, dopo aver precisato che la distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo, cosicché non sarebbe possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura “non economica”. A seguito dell’intervento della Consulta sopra esposto, si è di fatto determinata una sorta di “vuoto di disciplina dei servizi privi di rilevanza economica, che non è stato colmato neppure dall’art. 23bis del D.L n. 112/2008, il quale si riferisce espressamente ai servizi a rilevanza economica” (Parere Corte dei Conti 195/2009). In particolare, rimane senza una specifica norma di riferimento la possibilità di gestire servizi privi di rilievo economico a mezzo di società di capitali ovvero a mezzo di associazioni o fondazioni, così come l’affidamento a terzi e la gestione in economia. Al fine della individuazione della disciplina applicabile ai servizi in questione, occorre certamente escludere la possibilità di ricorso, in via analogica, alle previsioni dettate dall’art. 113 TUEL o a quelle di cui all’art. 23 bis, d.l. n. 112 del 25 giugno 2008 convertito, con modifiche, nella legge n. 133 del 6 agosto 2008 a proposito dei servizi a rilevanza economica. Il quadro sopra descritto è confermato dalla giurisprudenza secondo cui “La caducazione ad opera della Corte costituzionale con la sentenza n. 272 del 27 luglio 2004 della disposizione di cui all'art. 113 bis del TUEL, che dettava, con elencazione ritenuta tassativa, le modalità di gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica e prevedeva l'obbligo di disciplinare i rapporti tra Ente locale e soggetto erogatore dei servizi tramite contratto di servizio, ha determinato, al di là dell'ampliamento della potestà normativa regionale e locale, il venir meno del principio di tipicità delle formule organizzative gestionali e la possibilità, per gli Enti locali, di ricorrere, anche in analogia con soluzioni già introdotte nell'ordinamento dalla normativa relativa a settori specifici (cfr. art. 112 e 115 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, come modificati dal d.lgs. 256 del 2006), a svariate possibili formule gestionali. Alla luce di quanto detto emerge come l’ordinamento lasci all’autonomia delle singole amministrazioni l’individuazione di interessi pubblici da soddisfare per assurgere a servizi pubblici e prevede la gestione delle attività così individuate attraverso una serie vastissima di organismi, la cui varietà è estrema nell’attuale panorama legislativo quanto a configurazione giuridica e a metodi organizzativi, ovvero anche mediante l’affidamento, sotto forma di concessione o anche di contratti con privati. L’ente locale ben potrà quindi continuare a gestire i servizi privi di rilievo economico, che il consiglio comunale intendesse assumere, a mezzo di società di capitali, ovvero costituendo allo scopo Aziende di servizi alla persona, fondazioni e/o associazioni, ciò nell’ambito della propria capacità di diritto privato, che seppure funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico, ogni amministrazione pubblica possiede. Con riguardo alle forme organizzative, va, in particolare, ricordato che sono presenti nell’ordinamento numerose normative settoriali come quella che istituisce le Aziende pubbliche di
  • 8. 8 servizi alla persona; per tutti gli altri servizi (non contemplati da normative specifiche) in dottrina si ritiene che le scelte gestionali possano essere ricondotte alla prassi consolidata nel tempo. Il quadro può mutare qualora la Regione - avendone per espressa affermazione della Corte Costituzionale, facoltà - approvi, nell’ambito della competenza legislativa residuale generale riconosciutale dall’art. 117 Cost., una legge di riordino dell’intera materia dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica, definendo in tal modo gli strumenti a disposizione dei comuni, singoli o associati, per la relativa gestione. In merito alla competenza, la dottrina1 e la giurisprudenza sono pressoché pacifiche nel riconoscere che, a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, la disciplina dei servizi in questione e le forme di gestione degli stessi non possa essere contenuta in una legge dello Stato ma essere lasciate all’autonomia regionale (potestà legislativa esclusiva regionale) e, per il principio costituzionale del decentramento amministrativo, a quella degli enti territoriali minori. Deve, dunque, ritenersi che, nel silenzio della legge regionale, la base normativa di riferimento possa oggi essere rinvenuta negli statuti degli Enti Locali, in virtù sia dell’espresso riconoscimento, da parte della sentenza in commento, del ruolo dell’“autonomia locale2 ” nella disciplina di tali servizi, sia, a maggior ragione, della dignità conferita a tali atti nel sistema delle fonti dalla riforma del titolo V della Costituzione. 3. Cosa prevede il D.L. 95/2012 (Spending Review)? Il D.l. 95/2012 non può prevedere nulla per i servizi pubblici privi di rilevanza economica in quanto la competenza legislativa esclusiva è delle regioni. Non a caso, dopo il comma 1 dell’art. 9 del D.L. 95/2012, che stabilisce che province e “comuni sopprimono o accorpano o, in ogni caso, assicurano la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20 per cento, enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica precisa” aggiunge al comma 1-bis, inserito in sede di conversione in legge del decreto che “Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano alle aziende speciali, agli enti ed alle istituzioni che gestiscono servizi socio‐‐‐‐assistenziali, educativi e culturali.” Per cui anche se non ce n’era bisogno sono stati fugati tutti i dubbi interpretativi. Nel caso specifico le ASP ed altri enti ed aziende che gestiscono i servizi socio-assistenziali non sono soggette alle disposizioni dell’art. 9 del D.L. 95/2012. 1 Prof. Cuocolo, Università Bocconi; Castellani-Cesarini-Picchiotti. 2 Al riguardo significativo è il passaggio al nuovo ordinamento delle autonomie locali che ha segnato l’espansione del potere degli enti di enucleare servizi pubblici, ampliandone anche le modalità di gestione, secondo cui “Gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali” (art. 112 TUEL che riprende l’art. 22 della Legge n. 142/1990).
  • 9. 9 4. La regione Marche ha approvato una disciplina dei servizi pubblici privi di rilevanza economica? La regione Marche non ha una disciplina organica sui servizi pubblici privi di rilevanza economica ma ha una normativa settoriale relativa alla materia. Per esempio con l’art.10 della L.R. 5/2008 è intervenuta nella materia stabilendo che “i Comuni possono istituire, anche in forma associata con altri Enti locali e con soggetti pubblici e privati, nuove Aziende” pubbliche di servizi alla persona (ASP) “che abbiano la finalità di gestire in maniera integrata i servizi socio-assistenziali e socio-sanitari”. Questa pertanto è una delle forme gestionali che i comuni possono utilizzare per la gestione associata dei servizi socio-assistenziali e socio- sanitari. Sempre la regione Marche recentemente ha stabilito con il Piano socio-sanitario delle Marche 2012-2014 (D.C.R. n.38/2011) di privilegiare tre forme di gestione associata dei servizi sociali: le convenzioni per l’istituzione degli uffici comuni, le comunità montane e le Aziende di servizi alla persona (ASP). Nel caso specifico la regione Marche ha già esercitato la sua competenza con il Piano sociosanitario 2012-2014 e con la LR 5/2008 individuando alcune modalità di gestione associata dei servizi sociali che andrebbero confermate con al legge sui servizi sociali e, se possibile, ampliate. E’ facoltà della regione – prevista esplicitamente dalla Corte Costituzionale - approvare, nell’ambito della competenza legislativa residuale generale riconosciutale dall’art. 117 Cost., una normativa più ampia sulla modalità di gestione associata dei servizi sociali, definendo in tal modo tutti gli strumenti a disposizione dei comuni per la relativa gestione, anche alla luce della recente normativa che obbliga i comuni con meno di 5.000 abitanti alla gestione associata dei loro servizi. E’ auspicabile che tale opportunità venga colta dalla regione Marche con la prossima presentazione della proposta di legge regionale ad iniziativa della Giunta sulla riforma dei servizi sociali. Anche altre regioni stanno andando in questa direzione. Ci sono due esempi recentissimi. La regione Piemonte ha appena approvato la L.R. n.11 del 28/9/2012 “Disposizioni organiche in materia di enti locali” per recepire il D.L. 95/2012 con particolare riferimento alle norme sulla gestione associata dei piccoli comuni. Ebbene, tale legge prevede che la gestione associata dei piccoli comuni si possa fare con le convenzioni, con le unioni e, per i servizi socio- assistenziali, con i consorzi (art.3 comma 2) che non sono previsti dal D.L. 95/2012 ma che sono già presenti e diffusi in tutto il territorio proprio per la gestione dei servizi sociali. Al posto dei consorzi, dunque, avrebbero potuto starci le ASP o altre aziende le cose non sarebbero cambiate. Più recentemente la Regione Puglia con la L. R. 6 febbraio 2013, n. 7 ha stabilito all’art. 2 che “I Comuni appartenenti allo stesso ambito territoriale di cui all’art. 5 determinano autonomamente la forma di gestione associata, scegliendola tra le forme previste dagli articoli 30 e seguenti del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, emanato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. I comuni, inoltre, possono attribuire la gestione di alcuni o tutti i servizi del Piano sociale di zona (PSZ) a una delle aziende pubbliche di servizi alla persona … che abbia sede legale nel territorio dell’ambito stesso…” Quello che conta è l’esempio di una strada percorribile. Il Governo non ha ovviamente impugnato le leggi del Piemonte e della Puglia perché la competenza a definire le modalità di gestione dei servizi sociali è della regione. La stessa cosa deve fare la regione Marche .
  • 10. 10 L’AFFIDAMENTO DEI SERVIZI Proposta di Emendamento: sostituire l’art.16 con la seguente formulazione: Art. 16 (Affidamento dei servizi sociali) 1. I servizi sociali possono essere progettati, organizzati e gestiti sia da enti pubblici che da soggetti privati. 2. Gli enti pubblici affidano i servizi previsti dalla presente legge con procedure di evidenza pubblica secondo modalità tali da permettere il confronto tra più soggetti e più offerte. La Giunta regionale, previo parere del CAL, disciplina le modalità e i criteri per l’affidamento dei servizi da parte degli enti locali e degli altri enti pubblici, in conformità alle disposizioni statali in materia. L'affidamento dei servizi avviene altresì nel rispetto delle clausole dei contratti collettivi nazionali e degli accordi decentrati , poste a garanzia del mantenimento del trattamento giuridico ed economico dei lavoratori interessati, nonché nel rispetto della normativa vigente in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. 3. Negli affidamenti relativi ai servizi alla persona, gli enti pubblici procedono all’aggiudicazione secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, attribuendo al fattore prezzo un punteggio non superiore al 40 per cento del punteggio complessivo. E' esclusa l'aggiudicazione basata esclusivamente sul criterio del prezzo più basso. 4. Gli enti locali indicono istruttorie pubbliche nei casi in cui riconoscono l'utilità di co- progettare iniziative innovative o sperimentali per rispondere in modo adeguato a determinati bisogni sociali. La co-progettazione ha per oggetto la definizione progettuale di iniziative, interventi e attività complesse, da realizzare in collaborazione fra il soggetto pubblico e soggetti del terzo settore individuati in conformità a una procedura di selezione pubblica. L’istruttoria pubblica ha lo scopo di identificare il soggetto o i soggetti del terzo settore che si possa qualificare come partner dell’ente pubblico. Con l’atto di cui al comma 2, la Giunta regionale definisce i criteri in base a cui i Comuni valutano il ricorso all’istruttoria pubblica, le modalità di esperimento di tale istruttoria, i criteri di valutazione dei soggetti che partecipano alla progettazione e delle proposte progettuali. Art. 16 bis (clausole sociali) 1. In attuazione di quanto previsto dagli articoli 2 e 69 del D. Lgs. 163/2006 e successive modificazioni ed integrazioni, la regione e gli enti locali possono inserire negli affidamenti, di qualunque importo, delle forniture di beni e di servizi e della realizzazione di opere e lavori pubblici, clausole sociali quali modalità di esecuzione dei contratti, anche al fine della promozione dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. I disciplinari di gara prevedono, al fine della scelta del soggetto aggiudicatario, una congrua valutazione delle proposte di clausole sociali.
  • 11. 11 2. I capitolati prevedono idonee modalità di verifica della corretta attuazione delle clausole sociali in sede di esecuzione del contratto. Art. 16 ter (Affidamenti per la fornitura di beni e servizi a cooperative sociali di tipo “B”) 1.La regione Marche e gli enti locali destinano, ai sensi dell’art. 5 della L. 381/1991 e successive modificazioni ed integrazioni, alle cooperative sociali di tipo “B” una quota pari ad almeno il 5% delle forniture di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria. 2.A tal fine possono individuare specifiche categorie merceologiche e di servizi ritenute particolarmente adatte allo scopo, da riservare interamente agli affidamenti di cui al comma 1.
  • 12. 12 RELAZIONE ESPLICATIVA L’emendamento all’art.16 è giustificato dalla necessità di arricchire il contenuto della proposta di legge regionale soprattutto nella fase attuale di grave crisi economica che incide nei comportamenti dei soggetti economici. L’intento dell’emendamento è quello di: • Porre una più grande attenzione per tutta la strategica fase dell’affidamento dei servizi sociali; • Ribadire, in una fase in cui taluni operatori economici sono indotti a presentare ribassi elevati, la necessità del rispetto dei CCNL e delle norme sulla sicurezza; • Ribadire, in una fase in cui taluni operatori economici sono indotti a presentare ribassi elevati, che il fattore prezzo non può superare il 40% del punteggio complessivo e che comunque è esclusa l’aggiudicazione basata esclusivamente sul prezzo più basso; • Definire un percorso per le co-progettazioni di cui si parla da anni ma che non decollano anche a causa della mancata definizione delle procedure amministrative; • Mantenere viva l’attenzione e creare nuove occasioni per l’occupazione dei soggetti svantaggiati che sono i primi soggetti ad essere colpiti dalla fase economica attuale.
  • 13. 13 I VOUCHER SOCIALI Proposta di Emendamento: Eliminare il secondo comma dell’art.17.
  • 14. 14 RELAZIONE ESPLICATIVA L’art. 17 della pdl regionale n. 280/2013 si occupa dei “Titoli per l’acquisizione di servizi” (o voucher sociali). Con il 1° comma dell’articolo si stabilisce che i comuni possono assicurare le prestazioni sociali mediante l’assegnazione di titoli validi per l’acquisizione di servizi presso le strutture e i servizi sociali accreditati. Con il 2° comma l’art. 17 testualmente stabilisce che “Il Piano socio-sanitario regionale determina i criteri e le modalità per l’adozione dei titoli di cui al comma 1”. Con l’introduzione di questo secondo comma l’uso dei voucher non è più libero ma condizionato dai criteri e dalle modalità stabilite dal nuovo Piano socio-sanitario che peraltro non arriverà che fra qualche anno dato che l’attuale scadrà alla fine del 2014 (se non verrà prorogato). Come è noto, il voucher sociale è uno degli strumenti ordinari della pratica sociale. Viene utilizzato da molti comuni per la gestione di alcuni servizi. Sono diversi i comuni che li utilizzano per fornire i pacchi viveri alle famiglie in difficoltà. Altri comuni li utilizzano per i buoni spesa da assegnare alle famiglie indigenti. Il comune di Ancona, per esempio, li utilizza per gestire le ore di recupero scolastico da assegnare alle famiglie con figli problematici. I titoli per l’acquisizione di servizi, per esempio, si sono usati moltissimo nei progetti della provincia di Ascoli Piceno e di Ancona per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. In questi progetti sono stati coinvolti molti ambiti sociali per erogare voucher sociali a donne per l’acquisto di prestazioni negli asili nido, nei centri estivi ed in altri servizi socio-educativi per minori. Gli esempi potrebbero continuare. Si tratta in sostanza di un banale strumento di lavoro. Rinviarne l’uso ai criteri e alle modalità stabilite dal Piano socio-sanitario appare sinceramente privo di ogni giustificazione ed indubbiamente comprime l’operatività degli ambiti sociali e dei comuni mettendo infine in difficoltà i tanti comuni che usano i voucher sociali. Chi li usa per i pacchi viveri che dovrebbe fare? Dovrebbe interrompere l’erogazione in attesa che nel 2015 arrivi una inutile regolamentazione? La cosa migliore è pertanto quella di eliminare il secondo comma dell’art.17. La sua permanenza crea oggettivamente dei danni e delle limitazioni senza alcuna giustificazione. Nulla impedisce alla Giunta Regionale, qualora abbia delle idee sull’uso dei voucher sociali, di esplicitarle con delle norme di indirizzo ai comuni e agli ambiti sociali.
  • 15. 15 LA COMPARTECIPAZIONE ALLA SPESA DEGLI ASSISTITI Proposta di emendamento all’art. 18 della PDLR n. 280/2013 sul “Sistema integrato dei servizi sociali….” Sostituire l’art. 18 con il seguente articolo Art. 18 1. Gli utenti dei servizi sociali, socio-educativi e socio-sanitari partecipano, mediante il pagamento di rette, alla copertura del costo delle prestazioni. 2. La Giunta regionale, con propria direttiva, acquisito il parere del Consiglio delle Autonomie locali, definisce gli indirizzi generali per il concorso da parte degli utenti al costo dei servizi sociali, socio-educativi e socio-sanitari, sulla base del principio di progressività in ragione della capacità economica dei soggetti. Con la stessa direttiva la Giunta regionale, per i servizi finanziati in tutto o in parte dalla Regione, fissa la soglia minima per l’esenzione totale dalla compartecipazione, parametrandola ai tipi di servizio e determinandone i criteri di applicazione, al di sotto della quale il comune di residenza dell’assistito assume interamente gli oneri per le prestazioni sociali. 3. La quota di compartecipazione al costo delle prestazioni sociali, socio-educative e socio- sanitarie nonché la soglia minima di esclusione dalla partecipazione al costo sono stabilite dagli Ambiti territoriali sociali, dagli enti gestori o dai comuni, nel rispetto dei principi della normativa statale in materia di indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) e tenendo conto della direttiva di cui al 2° comma del presente articolo. 4. Ai fini della determinazione della retta delle prestazioni residenziali, semiresidenziali e domiciliari, gli ambiti territoriali sociali, gli enti gestori e i comuni tengono conto di tutte le prestazioni economiche previdenziali o assistenziali a qualsiasi titolo percepite dagli utenti. 5. Agli assistiti è garantito il mantenimento di una quota del proprio reddito per il soddisfacimento delle esigenze di vita secondo le disposizioni stabilite dalla Giunta regionale. 6. I servizi di tipo residenziale sono a carico del comune in cui la persona assistita risiede al momento del ricovero, essendo irrilevante l’eventuale cambiamento di residenza o di dimora
  • 16. 16 dovuto al ricovero stesso. Nel caso di minori in cui la tutela è esercitata, ai sensi dell’art.3 della legge 4 maggio 1983, n.184 (Diritto del minore ad una famiglia) da un amministratore della struttura residenziale presso il quale il minore è ricoverato, gli oneri sono a carico del comune in cui risiedono i genitori, che sono comunque tenuti a contribuire, o, in mancanza, del comune di residenza del tutore. Nel caso di minori stranieri non accompagnati la retta è a carico del comune in cui i minori sono stati ritrovati dalle forze dell’ordine. In caso di affidamento familiare di un minore, gli oneri relativi alle relative prestazioni sociali sono a carico del comune di residenza della famiglia del minore. 7. Per la determinazione della retta dei disabili adulti collocati in strutture residenziali, i redditi a cui fare riferimento sono quelli del disabile, del suo coniuge e dei suoi figli. Nel caso questi non siano presenti si conteggia il reddito del solo beneficiario dell’assistenza. 8. Per gli interventi economici di contrasto della povertà, gli enti gestori sono autorizzati, fino all’approvazione della norma statale che preveda il calcolo dell’ISEE corrente, a valutare le condizioni economiche dei beneficiari senza l’ausilio dell’ISEE. 9. Il livello di reddito e patrimonio dell’assistito non può costituire motivo di esclusione ai fini dell’accesso ai servizi sociali. 10. E’ fatto salvo il rimborso del costo delle prestazioni anticipate in via d’urgenza dal comune di temporaneo soggiorno dell’assistito nei confronti del comune di residenza.
  • 17. 17 RELAZIONE DI ACCOMPAGNAMENTO ALL’EMENDAMENTO. La recente sentenza n.296/2012 della Corte Costituzionale e la mancata approvazione da parte del Governo Monti del nuovo decreto sull’ISEE rende necessario rivedere il testo dell’articolo almeno fino a quando non verrà rivista l’attuale normativa sull’ISEE. L’attuale formulazione dell’art. 18 sulla compartecipazione degli assistiti non affronta i principali problemi che sono relativi: a) al coinvolgimento o meno dei familiari nel pagamento delle rette; b) alla valorizzazione o meno dei redditi (previdenziali ed assistenziali) percepiti dagli utenti ma non rilevanti ai fini Irpef; c) all’uso o meno dell’ISEE nella valutazione della situazione economica dei poveri che chiedono contributi economici per superare gravi momenti di difficoltà. In questa ipotesi di emendamento, il reddito di riferimento, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.296/2012, è quello del nucleo familiare fatta eccezione del disabile adulto collocato in struttura residenziale (in questo caso reddito del coniuge del disabile, dei figli del disabile o, in mancanza, del solo disabile che è l’ipotesi del nuovo decreto non approvato sull’ISEE). Per quel che riguarda, invece, la determinazione della retta delle prestazioni residenziali, semiresidenziali e domiciliari, la scelta è quella di tener conto di tutte le prestazioni economiche previdenziali o assistenziali a qualsiasi titolo percepite dagli utenti. Occorre risolvere il problema degli interventi economici che i comuni erogano ai poveri. Tali interventi non possono basarsi sull’ISEE che in qualche caso fa riferimento a due anni prima. Questo sistema non tiene conto di situazioni improvvise come la perdita del lavoro. Finché non verrà approvato un nuovo decreto che preveda il calcolo dell’ISEE corrente per questo tipo di interventi i comuni e gli altri enti gestori non possono tener conto dell’ISEE in tutte le situazioni che sono improvvisamente peggiorate. Ci sono poi altri problemi minori che forse vanno affrontati con maggior precisione, e si tratta: • Nel comma 1 della proposta regionale, il riferimento alla normativa statale a che cosa si riferisce tenuto conto che la competenza in materia è delle regioni? Non creerà qualche equivoco quell’inciso? Per questo nel testo dell’emendamento quella frase è stata eliminata. • Il comma 6 della proposta regionale, assolutamente condivisibile nel contenuto, forse va scritto meglio tenuto conto che in base alle leggi sull’anagrafe si presta a qualche equivoco (secondo le leggi sull’anagrafe la nuova residenza, qualunque sia il giorno di concessione decorre dal giorno di richiesta del cittadino). Per questo è stato riscritto nella prima frase del comma 6 dell’emendamento.
  • 18. 18 • Occorre definire, per evitare equivoci, la responsabilità relativa al pagamento di oneri, come nel caso dell’affidamento familiare, che può veder coinvolti comuni diversi. La nuova formulazione è contenuta nel comma 6 dell’emendamento. Rimane infine la scelta regionale, legittima, di definire regionalmente le soglie di esenzione i cui costi dovranno poi essere sostenuti dai comuni. Si tratta di una scelta di equità che si inserisce in territori la cui ricchezza (e povertà) varia molto per cui non è detto che gli effetti nel territorio siano del tutto equi e positivi. Ma l’aspetto più importante è che se le spese ricadranno sui comuni è bene che queste scelte vengano discusse e condivise con le organizzazioni di rappresentanza dei comuni per cui è bene che anche questo aspetto sia sottoposto al CAL.
  • 19. 19 LE PROFESSIONI SOCIALI Proposta di emendamento: Inserire il seguente nuovo articolo prima del titolo II della proposta di legge Art. 18 bis (Repertorio regionale delle professioni sociali) 1. La formazione degli operatori costituisce strumento per la promozione della qualità ed efficacia degli interventi e dei servizi della rete integrata, per lo sviluppo dell’approccio multidisciplinare, nonché per il sostegno alla innovazione organizzativa e gestionale. 2. La Regione, con apposito atto regionale, da adottare entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentiti le organizzazioni sindacali, gli ordini e le associazioni professionali, i rappresentanti dei soggetti privati e del privato sociale gestori dei servizi, istituisce il Repertorio regionale delle professioni sociali, quale strumento di identificazione e di certificazione dei profili professionali richiesti dalla programmazione regionale ed occorrenti all’erogazione dei servizi della rete regionale integrata. Il Repertorio regionale delle professioni sociali riconosce le figure e le professioni sociali formate dal sistema regionale della formazione professionale da ritenersi comunque aggiuntive rispetto a quelle già definite a livello nazionale e nelle more dell’individuazione a livello nazionale dei nuovi profili professionali sociali, come previsti dall’articolo 12 della l. n. 328/2000. 3. Il Repertorio individua le funzioni e le qualifiche delle diverse categorie di operatori dei servizi sociali la cui formazione è di competenza regionale, le suddivide per area di attività e definisce per ciascuna di esse compiti e attribuzioni, titoli di studio, curricoli e percorsi di formazione, riqualificazione e aggiornamento professionale.
  • 20. 20 RELAZIONE ESPLICATIVA Gli occupati nei servizi sociali delle Marche Gli occupati nei servizi sociali delle Marche sono circa 13.000 unità, per due terzi donne. Due terzi degli occupati lavorano in organizzazioni di terzo settore (6.200 nelle sole cooperative sociali), mentre i dipendenti pubblici hanno un peso limitato, con 3.500 addetti; le imprese private mantengono un ruolo marginale (circa 900 addetti). Nella Regione Marche i 13.000 occupati rilevati rappresentano un valore di 0,9 addetti ai servizi sociali ogni cento abitanti della Regione, un dato in linea – appena lievemente inferiore – a quello nazionale. Sulla qualità dell'occupazione nei servizi sociali non sono disponibili informazioni sistematiche. Le figure professionali più frequenti sono gli educatori (oltre 3.000), gli addetti all'assistenza alla persona (2.400), gli operatori socio-sanitari (1.300, in aumento) concentrati questi ultimi nelle strutture gestite dall'ASUR. Gli assistenti sociali (460) sono presenti soprattutto nell'impiego pubblico e, insieme ad alcune altre professioni (ad esempio gli psicologi), rappresentano le figure con maggiore qualificazione. L'area di intervento prevalente in cui sono impegnati gli addetti al settore è quella dell'assistenza sociale non residenziale (due terzi degli addetti complessivi). In termini di contratti di lavoro, un elemento positivo è che, all'interno delle cooperative sociali, la quota di personale con contratti di collaborazione o interinali è relativamente bassa (meno del 10% del totale), anche se compensata da un vasto ricorso al lavoro part-time. Gli aspetti problematici Non mancano gli aspetti problematici sul versante delle professioni sociali. Come abbiamo appena visto con i dati quali-quantitativi, solo una piccola parte degli operatori del sociale appartiene a professioni riconosciute a livello nazionale, molti lavorano con titoli e qualifiche regionali che sembra opportuno valorizzare e riqualificare. Proprio a questo riguardo, numerosi segnali evidenziano uno stato di diffuso disagio all’interno del lavoro sociale, sempre più caratterizzato da un’estrema domanda di flessibilità e di elevate competenze tecnico-professionali cui non corrisponde un’adeguata valorizzazione degli operatori né sul piano retributivo né sul piano della visibilità e del riconoscimento sociale. Anche in questi termini si ritiene importante sottolineare l’esigenza di avviare percorsi di riordino e definizione dei profili professionali di rilievo regionale in grado di costituire un “quadro delle certezze” per gli operatori e per gli utenti finali dei servizi e degli interventi sociali. Ci sarebbe bisogno, per la verità, anche di un intervento sulle professioni di rilievo nazionale ma queste spettano al governo italiano. Le comunità professionali degli operatori e dei professionisti del welfare, d’altro canto, evidenziano una diffusa esigenza di formazione continua, di aggiornamento professionale e sostegno alle funzioni svolte, unitamente alla segnalazione di specifici fattori di sofferenza riguardanti le retribuzioni, l’inquadramento contrattuale, le possibilità di sviluppo professionale. Sul fronte delle qualifiche formative per il comparto sociale, le ricerche svolte convergono nel segnalare un’accentuata parcellizzazione, con percorsi che mostrano differenti standard formativi in ogni contesto regionale. Le Figure professionali sociali nella L. 328/200 L’art. 12 della L. 328/2000 a proposito delle professioni sociali ha stabilito quanto segue: “1. Con decreto del Ministro per la solidarietà sociale, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, di concerto con i Ministri della sanità, del lavoro e della previdenza sociale, della pubblica istruzione e dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica, sulla base dei criteri e dei parametri individuati dalla Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ai sensi dell'articolo 129, comma 2, del
  • 21. 21 decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, sono definiti i profili professionali delle figure professionali sociali. 2. Con regolamento del Ministro per la solidarietà sociale, da emanare di concerto con i Ministri della sanità e dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica e d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti: a) le figure professionali di cui al comma 1 da formare con i corsi di laurea di cui all'articolo 6 del regolamento recante norme concernenti l'autonomia didattica degli atenei, adottato con decreto del Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509; b) le figure professionali di cui al comma 1 da formare in corsi di formazione organizzati dalle regioni, nonché i criteri generali riguardanti i requisiti per l'accesso, la durata e l'ordinamento didattico dei medesimi corsi di formazione; c) i criteri per il riconoscimento e la equiparazione dei profili professionali esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge. 3. Gli ordinamenti didattici dei corsi di laurea di cui al comma 2, lettera a), sono definiti dall'università ai sensi dell'articolo 11 del citato regolamento adottato con decreto del Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509. 4. Restano ferme le disposizioni di cui all'articolo 3-octies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, introdotto dall'articolo 3 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, relative ai profili professionali dell'area socio-sanitaria ad elevata integrazione socio-sanitaria. 5. Ai sensi del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con decreto dei Ministri per la solidarietà sociale, del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e per la funzione pubblica, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono individuate, per le figure professionali sociali, le modalità di accesso alla dirigenza, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.” La norma relativa al comma 2 lettera b) dell’art. 12 della 328/2000 contrastando con norme precedenti e successive ha creato qualche problema di interpretazione nello stabilire l’effettiva competenza normativa fra Stato e Regioni relativamente alla definizione delle figure professionali del settore sociali formate dal sistema della formazione professionale regionale. La legge n. 845/1978 che affida alla competenza regionale la formazione professionale e la successiva emanazione della Legge Costituzionale n. 3/2001 sembrano aver sciolto molti dubbi individuando in via diretta ed indiretta le regioni quali soggetti competenti a definire i profili professionali degli operatori formati da corsi di formazione professionale regionale. Ciononostante qualche perplessità logica (non interpretativa) rimane perché non vi è dubbio che solo con l’individuazione con legge o con D.P.R. di un profilo professionale questo ne sancisce il riconoscimento giuridico e la “spendibilità generalizzata” del titolo sia in Italia che nell’Unione Europea. Il riordino dei profili professionali: lo stato dell’arte nelle diverse regioni In realtà il regolamento del Ministro per la solidarietà sociale (oggi Ministro del lavoro) non ha mai definito le figure professionali da formare in corsi di formazione organizzati dalle regioni, nonché i criteri generali riguardanti i requisiti per l'accesso, la durata e l'ordinamento didattico dei medesimi corsi di formazione. Probabilmente anche a causa dei problemi di competenza a cui abbiamo appena accennato. In assenza di una regolamentazione quadro a livello nazionale delle professioni sociali, i sistemi di welfare regionali hanno avvertito l’esigenza di qualificare i servizi e gli interventi sociali assicurando standard operativi, funzionali e professionali in grado di garantire livelli uniformi delle prestazioni.
  • 22. 22 Alcune Regioni, tra cui Campania, Umbria e Puglia hanno avviato proposte per il riordino delle professioni sociali, progettando alcuni profili professionali, a cui ricondurre le qualifiche formate negli ultimi decenni. La Campania ha approvato con la DGR 2843/2003 il nuovo quadro regionale delle professioni sociali prevedendo 11 figure professionali/profili: Assistente Familiare (certificazione di competenze e percorso formativo), OSA e OSS (qualifiche tecniche di base), Tecnico dell’Accoglienza Sociale, Mediatore Culturale, Operatore d’infanzia, Animatore Sociale e Tecnico dell’Inserimento lavorativo (qualifiche tecniche), Assistente Sociale ed Educatore Professionale (profili regolamentati a livello nazionale per i quali è previsto il diploma di laurea) e il Mediatore familiare (alta specializzazione). In Umbria con la delibera 216/00 è stato approvato un documento che individua una “lista minima” di figure professionali prevedendone un’articolazione in quattro livello (qualifiche di base, qualifiche tecniche, quadri e alta qualificazione) ciascuno articolato in specializzazioni di contesto e gestionali. Nella Regione Marche è stato fatto un significativo lavoro preparatorio per arrivare alla definizione del Repertorio regionale delle professioni sociali, lavoro che non ha ancora avuto seguito. Tale proposta individuava 5 figure cardine: operatore dell’infanzia, animatore sociale, tecnico dell’inserimento lavorativo, mediatore culturale, operatore professionale per il comparto sanitario, sociale, penitenziario e di comunità educativa/terapeutica. Prevedeva inoltre l’inserimento di due profili di gestione: Tecnico dell’organizzazione e gestione dell’impresa sociale e Tecnico di rete territoriale dei servizi. Venivano inoltre previste delle “specializzazioni di contesto” legate alle differenti aree di intervento sociale (infanzia-adolescenza; anziani non autosufficienti e problematiche psichiatriche; dipendenze patologiche; orientamento e problematiche del lavoro; interculturalità; marginalità) e “specializzazioni di gestione” articolate in 4 livelli (responsabile unità di lavoro, responsabile di un servizio semplice, responsabile di un servizio complesso, responsabile di sviluppo sociale). Il Piano 2008-2010 si proponeva di dar seguito al percorso intrapreso con l’obiettivo di approvare un atto deliberativo che riordinasse i percorsi formativi e avviasse un tavolo congiunto tra Servizio Politiche sociali, Servizio Salute e Servizio Formazione professionale, università marchigiane e gli istituti di istruzione superiore per la stesura del repertorio delle professioni sociali e la definizione delle priorità formative in base alle politiche di welfare regionale. Un percorso che sembra essersi interrotto. Altre regioni, invece, hanno regolamentato singole figure professionali; è il caso dell’Abruzzo, che ha approvato la qualifica professionale e i relativi standard formativi del mediatore culturale e della Lombardia che ha deliberato le linee guida per la formazione dell’Assistente familiare e dell’Ausiliario socio-assistenziale (ASA). Emilia Romagna, Lazio, Toscana e Piemonte, nell’ambito del percorso di riordino del sistema della formazione e di definizione di un sistema di certificazione delle competenze professionali in linea con gli indirizzi dell’Unione Europea, hanno definito il sistema regionale delle qualifiche e adottato un proprio repertorio. Il repertorio dell’Emilia Romagna è stato approvato in attuazione della Legge Regionale n. 12/2003, “Norme per l’uguaglianza delle opportunità di accesso al sapere, per ognuno e per tutto l’arco della vita, attraverso il rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale, anche in integrazione tra loro”. Nell’Area professionale “Assistenza sociale, sanitaria e socio-sanitaria” ricomprende 4 qualifiche/figure professionali: Animatore Sociale, Interprete in Lingua Italiana dei Segni, Mediatore Interculturale e Operatore Socio-Sanitario OSS. Nel Repertorio della Toscana ciascun profilo professionale viene descritto in termini di caratteristiche della professionalità da conseguire in uscita da un percorso formativo, di cui vengono individuati gli standard minimi. Ai sensi di quanto previsto dalla DGR 903 del 200 5 il repertorio è articolato in 3 sezioni: la prima raccoglie tutti i profili professionali propriamente detti, ovvero quelli cui corrispondono qualifiche professionali conseguibili al termine di percorsi formativi ad esse finalizzati; la seconda raccoglie l’elenco delle figure professionali individuate a livello
  • 23. 23 nazionale nell’ambito del canale formativo dell’Istruzione e Formazione tecnico Superiore; la terza sezione raccoglie le descrizioni di quei profili professionali (o di componenti di professionalità) definite e regolamentate da specifiche normative nazionali/regionali di settore per lo svolgimento di determinate funzioni e/o attività lavorative; a tali profili generalmente non corrispondono vere e proprie qualifiche professionali, ma piuttosto dei titoli di abilitazione all’esercizio della funzione e/o delle attività lavorative previste. Nella Regione Lazio con la DGR n. 128 del 2006 è stata approvata l’istituzione del Repertorio regionale dei profili professionali e formativi nell’ottica della creazione di un sistema finalizzato alla certificazione delle competenze possedute nella direzione dell’integrazione dei sistemi dell’istruzione, formazione professionale e lavoro; per ciò che concerne il settore sociale, sono stati approvati ai fini dell’inserimento nel Repertorio i profili professionali e formativi dell’Assistente familiare e del Mediatore Interculturale. Un percorso analogo è stato avviato anche nella Regione Piemonte che si è inoltre dotata di un sistema informativo integrato che supporta l’intero processo di descrizione e certificazione delle competenze (DGR n. 152/3672 del 2006). Il sistema denominato “COLLEGAMENTI” gestisce il repertorio dei profili professionali e formativi descritti per competenze e il loro raccordo con i codici ISTAT e ISCO. Nel comparto di riferimento per i servizi socio-assistenziali vengono inseriti 9 “profili di competenze tecnico-professionali”: Operatore socio-sanitario, Animatore Servizi all’Infanzia, Educatore prima infanzia, Mediatore interculturale, Direttore di Comunità socio- sanitaria, Assistente educativo, l’animatore professionale socio-educativo. La proposta Occorre adesso trasferire questo lavoro già prodotto avviato in altre regioni anche nelle Marche. Si tratterà quindi di avviare un proficuo lavoro a livello regionale finalizzato alla definizione di un “quadro di certezze” per le professioni sociali di rilievo regionale nel quale trovi posto la definizione dei profili professionali, l’indicazione di standard formativi omogenei per il conseguimento di qualifiche regionali e la tendenziale convergenza delle professioni di base ed intermedie formate attraverso percorsi regionali. La proposta è di istituire anche nelle Marche il Repertorio regionale delle professioni sociali, quale strumento di identificazione e di certificazione dei profili professionali richiesti dalla programmazione regionale degli interventi ed occorrenti all’erogazione dei servizi della rete regionale integrata, individuando le funzioni e le qualifiche delle diverse categorie di operatori dei servizi sociali, le area di attività, compiti e attribuzioni, titoli di studio, curricoli e percorsi di formazione, riqualificazione e aggiornamento professionale.