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MOBBING: ASPETTI PROBATORI E
GIURISPRUDENZA
di Enrico Giannattasio*
Sommario: 1. Introduzione 2. La ripartizione
probatoria fra le parti 3. Il nesso eziologico
nella pronuncia della Corte di Cassazione del
29 gennaio 2013.
1. Introduzione
Preliminarmente all’analisi dei temi di
prova che, nell’ambito dei casi di mobbing,
gravano sulle parti, è opportuno
individuare l’esatta configurazione
giuridica della fattispecie, tenendo in
considerazione i vari contributi provenienti
dalla dottrina, ma anche e, soprattutto, dalla
giurisprudenza.
Nelle diverse elaborazioni, che nel
tempo si sono avvicendate, risulta
consolidato questo aspetto: “il mobbing è un
fenomeno prevalentemente inerente
all'organizzazione del lavoro; esso si manifesta
quale disposizione di atti o fatti (giuridici:
organizzativi, negoziali; privi di rilevanza
giuridica) provenienti dal superiore gerarchico,
dai colleghi della vittima o dai suoi sottoposti,
che producono l'effetto di determinare una
situazione di disistima e disagio personale e
professionale del dipendente idoneo a procurare
un suo spontaneo allontanamento dal luogo di
lavoro"1. Poiché, com’è noto, la fattispecie
mobbing è di creazione giurisprudenziale,
ad oggi è prevalentemente rimesso alla
* Laurea Magistrale in Giurisprudenza conseguita a
Bari il 19 aprile 2013.
Dalla tesi di laurea: L’onere della prova del danno da
mobbing.
1
G. MAUTONE, Mobbing e onere della prova, in
QDLRI, fasc. 29, 2006.
sensibilità del singolo interprete ritenere
come costitutivi determinati aspetti già noti
della medesima fattispecie, quali: la
preordinazione della condotta alla finalità
espulsiva; la ripetitività e sistematicità dei
comportamenti; la necessaria alterazione
psico-fisica del lavoratore mobbizzato.
Dall’analisi delle pronunce
giurisprudenziali2, sia di legittimità che di
merito, in tema di mobbing, emerge con
chiarezza che i Giudici tendono a
configurare il fenomeno in maniera
particolarmente rigida e restrittiva,
richiedendo molti degli elementi su elencati,
e di conseguenza rendendo l’attività
probatoria del lavoratore-ricorrente
particolarmente gravosa.
In tale contesto è di fondamentale
importanza citare una recente pronuncia
della Suprema Corte, risalente al gennaio
del 2012, che ha confermato il suesposto
orientamento, ribadendo solennemente
quali sono gli elementi da considerarsi
necessari e sufficienti alla costituzione della
fattispecie mobbing: “ai fini della
configurabilità della condotta lesiva del datore di
lavoro sono rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere
persecutorio, illeciti o anche leciti se
considerati singolarmente, che siano stati
posti in essere in modo miratamente
sistematico e prolungato contro il dipendente
con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità
del dipendente;
2
Un contributo importante si rinviene in Cass. civ.
Sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774.
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore
o del superiore gerarchico e il pregiudizio
all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè
dell’intento persecutorio.” 3
La definizione, che la Corte fornisce con
questa pronuncia, ribadisce quali sono gli
elementi della fattispecie che il lavoratore
sarà onerato di dimostrare, sottolineando
che la sua attività probatoria dovrà svolgersi
in maniera particolarmente rigorosa e
puntuale.
Di non poco conto, inoltre, è il notevole
rilievo ormai assunto in sede giudiziale
dagli studi sviluppati dalla psicologia del
lavoro. Il riferimento non può che essere al
metodo elaborato dal Prof. Ege, e che è
molto accreditato presso le Corti4.
Poiché il metodo si fonda
sull’individuazione di sette stadi successivi,
attraverso il medesimo numero di parametri
di riconoscimento, è ovvio che la sua
utilizzazione da parte dei Giudici, rende
ancor più complessa la prova del fenomeno
a carico della parte ricorrente.
Alla luce di quanto detto, pertanto,
emerge con evidenza l’intento dei Giudici di
circoscrivere con particolare rigore le
caratteristiche fondamentali del mobbing, al
fine di scongiurare un uso eccessivo,
inopportuno e, di conseguenza,
depotenziante della fattispecie, evitando,
pertanto, la realizzazione di quell’assioma
che è stato prospettato da una delle prime, e
3
Cass. civ. Sez. lav., 10 gennaio 2012, n. 87.
4
Così Trib. Forlì, 15 marzo 2001, n. 84: Deve essere
si dall’inizio dello studio e dell’elaborazione chiaro
questo concetto: si avrà mobbing solo ed in quanto
determinato condotte presentino i requisiti richiesti
dalla psicologia del lavoro internazionale (in
particolare grazie ai lavori del professor Heinz
Leymann) e nazionale (in particolare grazie ai lavori
del professor Ege) per poter parlare di tale fenomeno
perché, in casi che presentano mera somiglianza con
il mobbing, ogni episodio dovrà essere altrimenti
catalogato e darà diritti a diversi profili di tutela
risarcitoria a favore di chi ha subito le condotte.”
pionieristiche, pronunce sul tema, secondo
cui“tutto è mobbing, niente è mobbing”5.
2. La ripartizione probatoria fra le parti
Alla luce della fattispecie mobbing, così
com’è venuta delineandosi, si può affermare
che, ove il lavoratore, desideri ottenere la
tutela risarcitoria in giudizio, dovrà
necessariamente dimostrare una serie di
circostanze essenziali, quali:
• l’inadempimento datoriale dell’obbligo
di sicurezza, ovvero le condotte illecite
del mobber, ripetitive, sistematiche, e
connotate dalla finalità espulsiva;
• i danni patiti;
• il nesso eziologico, sussistente fra
condotte vessatorie e pregiudizio subito.
Diversa, invece, è la posizione del datore
di lavoro, e/o mobber, convenuto, il quale,
potrà fornire la prova semplice, negativa
delle circostanze costitutive del mobbing
dedotte da controparte (ad es. assenza dei
fatti materiali lesivi della salute o della
dignità, assenza del danno subito, ecc.).
Inoltre nei casi diversi da bossing, la parte
datoriale potrà, anche, dedurre fatti idonei
ad eliminare la presunzione di colpa che
scatta ex art. 1218 c.c., per non avere evitato
il comportamento mobbizzante dei colleghi
della vittima. Nel caso, diverso, di
responsabilità aquiliana ex art. 2049 c.c.,
potrà, invece, provare l’inevitabilità e
l’imprevedibilità della condotta posta in
essere dal/dai mobber.
Guardando in maniera più specifica alla
posizione del lavoratore-ricorrente, questi,
in ossequio a quanto stabilito dall’art. 2967
c.c., dovrà innanzitutto dimostrare
l’esistenza del fatto storico ritenuto
mobbizzante. Tuttavia, nell’assolvimento di
tale onere probatorio, il ricorrente, potrà
tenere in considerazione tutti gli aspetti
della vicenda (ritenuta) mobbizzante, non
esistendo una predeterminazione, rigida e
5
Cit. Trib. Forlì, 15 marzo 2001, n. 84.
netta, degli atti che possono configurare la
fattispecie. Ciò è dovuto, soprattutto, alla
norma di riferimento, che nella gran parte
dei casi è l’art. 2087 c.c., il cui contenuto
aperto e generico, e la cui natura finalistica,
permette una valutazione giudiziale di
qualsivoglia comportamento e/o situazione
organizzativa, abusiva e dannosa.
Si può notare, pertanto, che non sarà
neppure necessario dimostrare quella
“progressività” della vicenda mobbizzante,
illustrata da diversi studiosi della psicologia
del lavoro, e su tutti, da H. Ege.
Tuttavia, il ricorrente, non potrà
limitarsi a dimostrare sic et simpliciter la
sussistenza di determinati atti, ritenuti
astrattamente mobbizzanti. Questi, infatti,
dovranno essere illustrati in tutte le loro
caratteristiche e sfaccettature, poiché
nell’ambito del mobbing, è necessario che le
condotte abbiano determinate connotazioni:
da un lato, un’idoneità causale a provocare
lo stato di prostrazione tipico della vicenda
mobbizzante; dall’altro, una connotazione
finalistica, ovvero dovranno essere
finalizzate all’allontanamento dal luogo di
lavoro del lavoratore-vittima.
In riferimento a questo secondo aspetto,
l’onere della prova da parte del lavoratore-
ricorrente, potrà essere soddisfatto non solo,
e non tanto, attraverso una prova diretta
(ipotesi estremamente rara, e più che altro
di scuola, che si verifica, ad esempio, in caso
di disponibilità di un atto confessorio,
direttamente proveniente dal datore di
lavoro), ma anche, e soprattutto, attraverso
una prova indiretta.
Pertanto, il lavoratore, per convincere i
Giudice sulla sussistenza dell’animus del
soggetto agente, potrà dedurre una serie di
elementi che conducano, da un lato,
all’accertamento del fatto positivo della
concreta lesione dell’integrità psico-fisica
della vittima, e dall’altro, all’accertamento
del fatto negativo, dell’assenza di
qualsivoglia giustificazione, razionale e/o
organizzativa, della condotta datoriale. Alla
luce di ciò, attraverso un’inferenza
presuntiva, sarà possibile sostenere e tentare
di convincere il Giudice, della
funzionalizzazione della condotta al fine
illegittimo dell’allontanamento spontaneo
del dipendente dal luogo lavorativo.
Con riguardo alla ripartizione
probatoria, va precisato che, se la prova
della lesione subita è a carico del lavoratore,
poiché è fatto costitutivo della sua pretesa,
spetterà, invece, alla parte datoriale,
dimostrare l’esistenza di esigenze
organizzative/produttive, o comunque di
scopi leciti, che giustifichino la sua condotta.
Una tale ripartizione degli oneri probatori
fra le parti, deriva dall’applicazione di
alcuni principi generali, e fra tutti, quello
della vicinanza della prova.
La serie di atti vessatori, che fanno parte
della vicenda di mobbing, devono
ovviamente risultare imputabili, a titolo di
responsabilità civile, al datore di lavoro.
Tuttavia, in tale ambito, è necessario
profilare una differenza: infatti, nel caso di
bossing, in cui l’atto molesto proviene
direttamente dal datore di lavoro,
l’imputabilità soggettiva a titolo di dolo o di
colpa è in re ipsa. Diversamente, negli altri
casi, la responsabilità civile può assumere la
forma contrattuale, ovvero
extracontrattuale. Il prevalente indirizzo
giurisprudenziale6, identifica tale
responsabilità come contrattuale, e, dunque,
la disciplina si rinviene nel combinato
disposto dagli artt. 1218 c.c. e 2087 c.c.. Alla
luce di ciò, risulta operante un’inversione
dell’onere della prova, per il quale, sarà il
datore di lavoro, debitore dell’obbligo di
sicurezza, a doversi discolpare
dell’eventuale “nocività”7 dell’ambiente di
lavoro, quest’ultima sì, dimostrata dal
lavoratore.
6
Una recente conferma di tale impostazione, giunge
da Cass. pen. Sez. IV, 8 marzo 2012, n. 9173.
7
Nella particolare materia del mobbing “la nocività
consiste nell’imputazione causale all’organizzazione
del lavoro della situazione di disagio, ovvero la
provenienza dal collega di lavoro dell’atto lesivo”.
Cfr. G. MAUTONE, Mobbing e onere della prova, in
QDLRI, fasc. 29, 2006.
Ulteriore elemento della fattispecie
mobbing, che il lavoratore è onerato di
dimostrare, è il danno subito in
conseguenza delle condotte vessatorie.
Il danno, in quest’ambito, potrà essere
sia di natura non patrimoniale, che
patrimoniale. Tuttavia, va sottolineato che,
la verificazione di un danno patrimoniale in
tale contesto, è solo eventuale e successiva
alla verificazione di un danno non
patrimoniale, poiché le condotte vessatorie,
hanno l’attitudine a ledere, in maniera
diretta, esclusivamente l’integrità psico-
fisica della vittima, e solo indirettamente il
patrimonio della medesima.
In particolare, è nota la classica
tripartizione del pregiudizio non
patrimoniale: danno biologico; danno
esistenziale; danno morale. In tale contesto,
però, si deve necessariamente, far cenno alle
storiche sentenze delle Sezioni Unite del
20088, cd. di San Martino, ove la Corte ha
solennemente sancito l’unificazione delle
diverse poste di danno, ritenendo, le varie
denominazioni, rispondenti esclusivamente
ad esigenze descrittive.
Tuttavia, se nel 2008 le Sezioni Unite
avevano messo la parola “fine” alla
controversa tripartizione del danno non
patrimoniale, si deve dare atto anche di una
consolidata corrente giurisprudenziale che,
al contrario, continua ad affermare la
predetta tripartizione, ritenendola
funzionale ad assicurare un adeguato
ristoro di tutti i pregiudizi subiti in
occasione della vicenda di mobbing. A
testimonianza dell’importanza di tale filone,
si nota che, di recente, è la stessa Corte di
Cassazione9 che, nel trattare di una vicenda
di licenziamento ingiurioso, si è pronunciata
in tal senso.
Il lavoratore, alla luce della suesposta
giurisprudenza, dovrà dunque dimostrare
puntualmente tutte le lesioni subite,
servendosi dei diversi mezzi di prova a sua
8
Cass. SS. UU., 11 novembre 2008, nn. 26972 e
26973.
9
Cass. sez. lav., 30 dicembre 2011, n. 30668.
disposizione, quali: la testimonianza; la
consulenza tecnica di parte; la
documentazione di ogni tipo, ma
soprattutto di tipo medico.
Infine, ultimo ma assolutamente
fondamentale elemento della fattispecie
mobbing, che necessita di prova è il nesso
eziologico che deve intercorrere fra le
condotte e il danno.
Ovvio è che in questo caso, l’onere
probatorio grava tutto sul lavoratore, il
quale, innanzitutto, può servirsi di una
consulenza tecnica di parte. Tale consulenza
può svilupparsi, in primo luogo, attraverso
riscontri positivi, che, ad esempio,
verifichino l’idoneità delle condotte, a
cagionare la malattia diagnosticata alla
vittima; in secondo luogo, attraverso
riscontri negativi, che possano escludere
dalla catena causale, eventi idonei a
cagionare la malattia.
Nell’assolvere al suo onere probatorio,
sarà importante, per il lavoratore-ricorrente,
anche dimostrare la prossimità temporale
fra condotte mobbizzanti e l’insorgere della
patologia: in questo caso, sarà opportuno
servirsi di testimoni.
Si sottolinea, tuttavia, che un autorevole
orientamento giurisprudenziale10, ritiene
che, la sussistenza del nesso di causalità non
venga pregiudicata da elementi che siano
idonei semplicemente ad aggravare l’esito
delle condotte subite. La “rottura” della
serie causale, dunque, sarà possibile solo
ove sia rinvenibile un fatto diverso e
indipendente dal mobbing, che sia in grado
di generare l’evento dannoso
autonomamente.
Pertanto, anche in ossequio del principio
di vicinanza della prova, può apparire
fondato che il lavoratore, abbia interesse a
dimostrare, non solo la prossimità
temporale tra mobbing e patologie, ma
anche fatti positivi, ulteriori e diversi, che
possano convincere il Giudice
10
Si veda: Cass. 1 settembre 1997, n. 8267; Cass. 20
aprile 1998, n. 4012; Cass. 5 novembre 1999, n.
12339; Cass. civ. 5 febbraio 2000, n. 1307.
dell’inesistenza di serie causali indipendenti
dalla vicenda mobbizzante.
3. Il nesso eziologico nella pronuncia della
Corte di Cassazione del 29 gennaio 2013
In data 29 gennaio 2013, con la
pronuncia n. 2038, la Suprema Corte ha
evidenziato alcuni aspetti interessanti, in
tema di onere della prova dei danni
derivanti da mobbing.
Nella controversia, che si svolge tra un
vigile urbano e il proprio Comune-datore di
lavoro, il ricorrente (vigile), dopo aver
ottenuto un equo indennizzo per malattia
derivante da “causa di servizio”, decide di
agire in giudizio chiedendo: innanzitutto
l’annullamento di una sanzione irrogatagli
nel 2003, ritenuta illegittima; inoltre, chiede
la condanna del datore di lavoro e del
superiore gerarchico, al risarcimento dei
danni da mobbing.
Mentre il Giudice di Pisa respingeva la
domanda del predetto vigile, la Corte di
Appello di Firenze, rigettando il gravame
proposto, osservava che, sebbene non vi
fossero sufficienti elementi per qualificare la
vicenda in termini di mobbing, tuttavia,
sussisteva una situazione potenzialmente
dannosa, ascrivibile in astratto ad una
violazione dell’art. 2087 c.c. da parte del
Comune-datore di lavoro.
Giunto dinanzi alla Corte di Cassazione,
il ricorso principale del vigile viene ritenuto
infondato. Secondo i Giudici “l’articolo 2087
c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità
oggettiva, (...). Ne consegue che incombe sul
lavoratore che lamenti di aver subito, a causa
dell’attività lavorativa svolta, un danno alla
salute, l’onere di provare l’esistenza di tale
danno, come pure la nocività dell’ambiente di
lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro e, solo
se il lavoratore abbia fornito la prova di tali
circostanze, sussiste per il datore di lavoro
l'onere di provare di avere adottato tutte le
cautele necessarie ad impedire il verificarsi del
danno e che la malattia de dipendente non e
ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”.
Pertanto, emerge chiaramente, l’enfasi con
cui la Corte sottolinea la ripartizione
probatoria fra le parti, ed in particolare, gli
oneri gravanti sul lavoratore.
Inoltre, la Corte precisa che: “...Né la
riconosciuta dipendenza delle malattie da una
"causa di servizio" implica necessariamente che
gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni
di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo
essi dipendere piuttosto dalla qualità
intrinsecamente usurante della ordinaria
prestazione lavorativa (...), restandosi cosi fuori
dall'ambito dell'articolo 2087 cod. civ.”.
L’elemento di novità della seguente
pronuncia si rinviene nel successivo
passaggio, ove i Giudici di legittimità,
hanno la premura di sottolineare la
differenza esistente fra gli istituti dell’equo
indennizzo e del risarcimento dei danni da
malattia professionale, dando particolare
risalto al “diverso grado di intensità del
rapporto causale”. Infatti, se ai fini dell’equo
indennizzo il nesso eziologico può essere
ricostruito in termini possibilistici, nel
risarcimento dei danni da malattia
professionale, il criterio è necessariamente
di tipo probabilistico, e dunque, la
concessione di un equo indennizzo non può
giustificare automaticamente, la concessione
di un risarcimento del danno in questa
occasione.
Si vede ancor una volta, dunque, il
particolare rigore della giurisprudenza in
tema di oneri probatori gravanti sul
lavoratore.
“Peraltro, deve considerarsi che l'affermazione
della Corte del merito secondo cui la differenza
fondamentale fra gli istituti dell'equo indennizzo
e del risarcimento danni da malattia
professionale risiede nel “diverso grado di
intensità del rapporto causale” è conforme ad
orientamento giurisprudenziale (...). Vero è che
in successivo passaggio motivazionale la Corte
territoriale ha richiamato ulteriori sentenze dei
giudici di legittimità (...) per sostenere che
l'autonomia dei due istituti ha subito una certa
attenuazione..., sicché le circostanze di fatto
accertate ai fini di uno dei benefici non possono
essere ignorate dal giudice del merito ai fini
dell'altro...”.
Facendo leva su quanto precede, la
Corte, nel caso di specie, ha respinto la
richiesta di risarcimento dei danni da
mobbing, avendo, la perizia medica
disposta nel procedimento, escluso un
rapporto causale tra lo stress subito dal
dipendente e l’insorgenza del morbo di
Chron e del diabete, malattie per le quali era
stato riconosciuto al lavoratore un equo
indennizzo in quanto patologie derivanti da
“causa di servizio”.

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MOBBING: ASPETTI PROBATORI E GIURISPRUDENZA

  • 1. MOBBING: ASPETTI PROBATORI E GIURISPRUDENZA di Enrico Giannattasio* Sommario: 1. Introduzione 2. La ripartizione probatoria fra le parti 3. Il nesso eziologico nella pronuncia della Corte di Cassazione del 29 gennaio 2013. 1. Introduzione Preliminarmente all’analisi dei temi di prova che, nell’ambito dei casi di mobbing, gravano sulle parti, è opportuno individuare l’esatta configurazione giuridica della fattispecie, tenendo in considerazione i vari contributi provenienti dalla dottrina, ma anche e, soprattutto, dalla giurisprudenza. Nelle diverse elaborazioni, che nel tempo si sono avvicendate, risulta consolidato questo aspetto: “il mobbing è un fenomeno prevalentemente inerente all'organizzazione del lavoro; esso si manifesta quale disposizione di atti o fatti (giuridici: organizzativi, negoziali; privi di rilevanza giuridica) provenienti dal superiore gerarchico, dai colleghi della vittima o dai suoi sottoposti, che producono l'effetto di determinare una situazione di disistima e disagio personale e professionale del dipendente idoneo a procurare un suo spontaneo allontanamento dal luogo di lavoro"1. Poiché, com’è noto, la fattispecie mobbing è di creazione giurisprudenziale, ad oggi è prevalentemente rimesso alla * Laurea Magistrale in Giurisprudenza conseguita a Bari il 19 aprile 2013. Dalla tesi di laurea: L’onere della prova del danno da mobbing. 1 G. MAUTONE, Mobbing e onere della prova, in QDLRI, fasc. 29, 2006. sensibilità del singolo interprete ritenere come costitutivi determinati aspetti già noti della medesima fattispecie, quali: la preordinazione della condotta alla finalità espulsiva; la ripetitività e sistematicità dei comportamenti; la necessaria alterazione psico-fisica del lavoratore mobbizzato. Dall’analisi delle pronunce giurisprudenziali2, sia di legittimità che di merito, in tema di mobbing, emerge con chiarezza che i Giudici tendono a configurare il fenomeno in maniera particolarmente rigida e restrittiva, richiedendo molti degli elementi su elencati, e di conseguenza rendendo l’attività probatoria del lavoratore-ricorrente particolarmente gravosa. In tale contesto è di fondamentale importanza citare una recente pronuncia della Suprema Corte, risalente al gennaio del 2012, che ha confermato il suesposto orientamento, ribadendo solennemente quali sono gli elementi da considerarsi necessari e sufficienti alla costituzione della fattispecie mobbing: “ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; 2 Un contributo importante si rinviene in Cass. civ. Sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774.
  • 2. c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.” 3 La definizione, che la Corte fornisce con questa pronuncia, ribadisce quali sono gli elementi della fattispecie che il lavoratore sarà onerato di dimostrare, sottolineando che la sua attività probatoria dovrà svolgersi in maniera particolarmente rigorosa e puntuale. Di non poco conto, inoltre, è il notevole rilievo ormai assunto in sede giudiziale dagli studi sviluppati dalla psicologia del lavoro. Il riferimento non può che essere al metodo elaborato dal Prof. Ege, e che è molto accreditato presso le Corti4. Poiché il metodo si fonda sull’individuazione di sette stadi successivi, attraverso il medesimo numero di parametri di riconoscimento, è ovvio che la sua utilizzazione da parte dei Giudici, rende ancor più complessa la prova del fenomeno a carico della parte ricorrente. Alla luce di quanto detto, pertanto, emerge con evidenza l’intento dei Giudici di circoscrivere con particolare rigore le caratteristiche fondamentali del mobbing, al fine di scongiurare un uso eccessivo, inopportuno e, di conseguenza, depotenziante della fattispecie, evitando, pertanto, la realizzazione di quell’assioma che è stato prospettato da una delle prime, e 3 Cass. civ. Sez. lav., 10 gennaio 2012, n. 87. 4 Così Trib. Forlì, 15 marzo 2001, n. 84: Deve essere si dall’inizio dello studio e dell’elaborazione chiaro questo concetto: si avrà mobbing solo ed in quanto determinato condotte presentino i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale (in particolare grazie ai lavori del professor Heinz Leymann) e nazionale (in particolare grazie ai lavori del professor Ege) per poter parlare di tale fenomeno perché, in casi che presentano mera somiglianza con il mobbing, ogni episodio dovrà essere altrimenti catalogato e darà diritti a diversi profili di tutela risarcitoria a favore di chi ha subito le condotte.” pionieristiche, pronunce sul tema, secondo cui“tutto è mobbing, niente è mobbing”5. 2. La ripartizione probatoria fra le parti Alla luce della fattispecie mobbing, così com’è venuta delineandosi, si può affermare che, ove il lavoratore, desideri ottenere la tutela risarcitoria in giudizio, dovrà necessariamente dimostrare una serie di circostanze essenziali, quali: • l’inadempimento datoriale dell’obbligo di sicurezza, ovvero le condotte illecite del mobber, ripetitive, sistematiche, e connotate dalla finalità espulsiva; • i danni patiti; • il nesso eziologico, sussistente fra condotte vessatorie e pregiudizio subito. Diversa, invece, è la posizione del datore di lavoro, e/o mobber, convenuto, il quale, potrà fornire la prova semplice, negativa delle circostanze costitutive del mobbing dedotte da controparte (ad es. assenza dei fatti materiali lesivi della salute o della dignità, assenza del danno subito, ecc.). Inoltre nei casi diversi da bossing, la parte datoriale potrà, anche, dedurre fatti idonei ad eliminare la presunzione di colpa che scatta ex art. 1218 c.c., per non avere evitato il comportamento mobbizzante dei colleghi della vittima. Nel caso, diverso, di responsabilità aquiliana ex art. 2049 c.c., potrà, invece, provare l’inevitabilità e l’imprevedibilità della condotta posta in essere dal/dai mobber. Guardando in maniera più specifica alla posizione del lavoratore-ricorrente, questi, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 2967 c.c., dovrà innanzitutto dimostrare l’esistenza del fatto storico ritenuto mobbizzante. Tuttavia, nell’assolvimento di tale onere probatorio, il ricorrente, potrà tenere in considerazione tutti gli aspetti della vicenda (ritenuta) mobbizzante, non esistendo una predeterminazione, rigida e 5 Cit. Trib. Forlì, 15 marzo 2001, n. 84.
  • 3. netta, degli atti che possono configurare la fattispecie. Ciò è dovuto, soprattutto, alla norma di riferimento, che nella gran parte dei casi è l’art. 2087 c.c., il cui contenuto aperto e generico, e la cui natura finalistica, permette una valutazione giudiziale di qualsivoglia comportamento e/o situazione organizzativa, abusiva e dannosa. Si può notare, pertanto, che non sarà neppure necessario dimostrare quella “progressività” della vicenda mobbizzante, illustrata da diversi studiosi della psicologia del lavoro, e su tutti, da H. Ege. Tuttavia, il ricorrente, non potrà limitarsi a dimostrare sic et simpliciter la sussistenza di determinati atti, ritenuti astrattamente mobbizzanti. Questi, infatti, dovranno essere illustrati in tutte le loro caratteristiche e sfaccettature, poiché nell’ambito del mobbing, è necessario che le condotte abbiano determinate connotazioni: da un lato, un’idoneità causale a provocare lo stato di prostrazione tipico della vicenda mobbizzante; dall’altro, una connotazione finalistica, ovvero dovranno essere finalizzate all’allontanamento dal luogo di lavoro del lavoratore-vittima. In riferimento a questo secondo aspetto, l’onere della prova da parte del lavoratore- ricorrente, potrà essere soddisfatto non solo, e non tanto, attraverso una prova diretta (ipotesi estremamente rara, e più che altro di scuola, che si verifica, ad esempio, in caso di disponibilità di un atto confessorio, direttamente proveniente dal datore di lavoro), ma anche, e soprattutto, attraverso una prova indiretta. Pertanto, il lavoratore, per convincere i Giudice sulla sussistenza dell’animus del soggetto agente, potrà dedurre una serie di elementi che conducano, da un lato, all’accertamento del fatto positivo della concreta lesione dell’integrità psico-fisica della vittima, e dall’altro, all’accertamento del fatto negativo, dell’assenza di qualsivoglia giustificazione, razionale e/o organizzativa, della condotta datoriale. Alla luce di ciò, attraverso un’inferenza presuntiva, sarà possibile sostenere e tentare di convincere il Giudice, della funzionalizzazione della condotta al fine illegittimo dell’allontanamento spontaneo del dipendente dal luogo lavorativo. Con riguardo alla ripartizione probatoria, va precisato che, se la prova della lesione subita è a carico del lavoratore, poiché è fatto costitutivo della sua pretesa, spetterà, invece, alla parte datoriale, dimostrare l’esistenza di esigenze organizzative/produttive, o comunque di scopi leciti, che giustifichino la sua condotta. Una tale ripartizione degli oneri probatori fra le parti, deriva dall’applicazione di alcuni principi generali, e fra tutti, quello della vicinanza della prova. La serie di atti vessatori, che fanno parte della vicenda di mobbing, devono ovviamente risultare imputabili, a titolo di responsabilità civile, al datore di lavoro. Tuttavia, in tale ambito, è necessario profilare una differenza: infatti, nel caso di bossing, in cui l’atto molesto proviene direttamente dal datore di lavoro, l’imputabilità soggettiva a titolo di dolo o di colpa è in re ipsa. Diversamente, negli altri casi, la responsabilità civile può assumere la forma contrattuale, ovvero extracontrattuale. Il prevalente indirizzo giurisprudenziale6, identifica tale responsabilità come contrattuale, e, dunque, la disciplina si rinviene nel combinato disposto dagli artt. 1218 c.c. e 2087 c.c.. Alla luce di ciò, risulta operante un’inversione dell’onere della prova, per il quale, sarà il datore di lavoro, debitore dell’obbligo di sicurezza, a doversi discolpare dell’eventuale “nocività”7 dell’ambiente di lavoro, quest’ultima sì, dimostrata dal lavoratore. 6 Una recente conferma di tale impostazione, giunge da Cass. pen. Sez. IV, 8 marzo 2012, n. 9173. 7 Nella particolare materia del mobbing “la nocività consiste nell’imputazione causale all’organizzazione del lavoro della situazione di disagio, ovvero la provenienza dal collega di lavoro dell’atto lesivo”. Cfr. G. MAUTONE, Mobbing e onere della prova, in QDLRI, fasc. 29, 2006.
  • 4. Ulteriore elemento della fattispecie mobbing, che il lavoratore è onerato di dimostrare, è il danno subito in conseguenza delle condotte vessatorie. Il danno, in quest’ambito, potrà essere sia di natura non patrimoniale, che patrimoniale. Tuttavia, va sottolineato che, la verificazione di un danno patrimoniale in tale contesto, è solo eventuale e successiva alla verificazione di un danno non patrimoniale, poiché le condotte vessatorie, hanno l’attitudine a ledere, in maniera diretta, esclusivamente l’integrità psico- fisica della vittima, e solo indirettamente il patrimonio della medesima. In particolare, è nota la classica tripartizione del pregiudizio non patrimoniale: danno biologico; danno esistenziale; danno morale. In tale contesto, però, si deve necessariamente, far cenno alle storiche sentenze delle Sezioni Unite del 20088, cd. di San Martino, ove la Corte ha solennemente sancito l’unificazione delle diverse poste di danno, ritenendo, le varie denominazioni, rispondenti esclusivamente ad esigenze descrittive. Tuttavia, se nel 2008 le Sezioni Unite avevano messo la parola “fine” alla controversa tripartizione del danno non patrimoniale, si deve dare atto anche di una consolidata corrente giurisprudenziale che, al contrario, continua ad affermare la predetta tripartizione, ritenendola funzionale ad assicurare un adeguato ristoro di tutti i pregiudizi subiti in occasione della vicenda di mobbing. A testimonianza dell’importanza di tale filone, si nota che, di recente, è la stessa Corte di Cassazione9 che, nel trattare di una vicenda di licenziamento ingiurioso, si è pronunciata in tal senso. Il lavoratore, alla luce della suesposta giurisprudenza, dovrà dunque dimostrare puntualmente tutte le lesioni subite, servendosi dei diversi mezzi di prova a sua 8 Cass. SS. UU., 11 novembre 2008, nn. 26972 e 26973. 9 Cass. sez. lav., 30 dicembre 2011, n. 30668. disposizione, quali: la testimonianza; la consulenza tecnica di parte; la documentazione di ogni tipo, ma soprattutto di tipo medico. Infine, ultimo ma assolutamente fondamentale elemento della fattispecie mobbing, che necessita di prova è il nesso eziologico che deve intercorrere fra le condotte e il danno. Ovvio è che in questo caso, l’onere probatorio grava tutto sul lavoratore, il quale, innanzitutto, può servirsi di una consulenza tecnica di parte. Tale consulenza può svilupparsi, in primo luogo, attraverso riscontri positivi, che, ad esempio, verifichino l’idoneità delle condotte, a cagionare la malattia diagnosticata alla vittima; in secondo luogo, attraverso riscontri negativi, che possano escludere dalla catena causale, eventi idonei a cagionare la malattia. Nell’assolvere al suo onere probatorio, sarà importante, per il lavoratore-ricorrente, anche dimostrare la prossimità temporale fra condotte mobbizzanti e l’insorgere della patologia: in questo caso, sarà opportuno servirsi di testimoni. Si sottolinea, tuttavia, che un autorevole orientamento giurisprudenziale10, ritiene che, la sussistenza del nesso di causalità non venga pregiudicata da elementi che siano idonei semplicemente ad aggravare l’esito delle condotte subite. La “rottura” della serie causale, dunque, sarà possibile solo ove sia rinvenibile un fatto diverso e indipendente dal mobbing, che sia in grado di generare l’evento dannoso autonomamente. Pertanto, anche in ossequio del principio di vicinanza della prova, può apparire fondato che il lavoratore, abbia interesse a dimostrare, non solo la prossimità temporale tra mobbing e patologie, ma anche fatti positivi, ulteriori e diversi, che possano convincere il Giudice 10 Si veda: Cass. 1 settembre 1997, n. 8267; Cass. 20 aprile 1998, n. 4012; Cass. 5 novembre 1999, n. 12339; Cass. civ. 5 febbraio 2000, n. 1307.
  • 5. dell’inesistenza di serie causali indipendenti dalla vicenda mobbizzante. 3. Il nesso eziologico nella pronuncia della Corte di Cassazione del 29 gennaio 2013 In data 29 gennaio 2013, con la pronuncia n. 2038, la Suprema Corte ha evidenziato alcuni aspetti interessanti, in tema di onere della prova dei danni derivanti da mobbing. Nella controversia, che si svolge tra un vigile urbano e il proprio Comune-datore di lavoro, il ricorrente (vigile), dopo aver ottenuto un equo indennizzo per malattia derivante da “causa di servizio”, decide di agire in giudizio chiedendo: innanzitutto l’annullamento di una sanzione irrogatagli nel 2003, ritenuta illegittima; inoltre, chiede la condanna del datore di lavoro e del superiore gerarchico, al risarcimento dei danni da mobbing. Mentre il Giudice di Pisa respingeva la domanda del predetto vigile, la Corte di Appello di Firenze, rigettando il gravame proposto, osservava che, sebbene non vi fossero sufficienti elementi per qualificare la vicenda in termini di mobbing, tuttavia, sussisteva una situazione potenzialmente dannosa, ascrivibile in astratto ad una violazione dell’art. 2087 c.c. da parte del Comune-datore di lavoro. Giunto dinanzi alla Corte di Cassazione, il ricorso principale del vigile viene ritenuto infondato. Secondo i Giudici “l’articolo 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, (...). Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro e, solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia de dipendente non e ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”. Pertanto, emerge chiaramente, l’enfasi con cui la Corte sottolinea la ripartizione probatoria fra le parti, ed in particolare, gli oneri gravanti sul lavoratore. Inoltre, la Corte precisa che: “...Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (...), restandosi cosi fuori dall'ambito dell'articolo 2087 cod. civ.”. L’elemento di novità della seguente pronuncia si rinviene nel successivo passaggio, ove i Giudici di legittimità, hanno la premura di sottolineare la differenza esistente fra gli istituti dell’equo indennizzo e del risarcimento dei danni da malattia professionale, dando particolare risalto al “diverso grado di intensità del rapporto causale”. Infatti, se ai fini dell’equo indennizzo il nesso eziologico può essere ricostruito in termini possibilistici, nel risarcimento dei danni da malattia professionale, il criterio è necessariamente di tipo probabilistico, e dunque, la concessione di un equo indennizzo non può giustificare automaticamente, la concessione di un risarcimento del danno in questa occasione. Si vede ancor una volta, dunque, il particolare rigore della giurisprudenza in tema di oneri probatori gravanti sul lavoratore. “Peraltro, deve considerarsi che l'affermazione della Corte del merito secondo cui la differenza fondamentale fra gli istituti dell'equo indennizzo e del risarcimento danni da malattia professionale risiede nel “diverso grado di intensità del rapporto causale” è conforme ad orientamento giurisprudenziale (...). Vero è che in successivo passaggio motivazionale la Corte territoriale ha richiamato ulteriori sentenze dei giudici di legittimità (...) per sostenere che l'autonomia dei due istituti ha subito una certa attenuazione..., sicché le circostanze di fatto accertate ai fini di uno dei benefici non possono
  • 6. essere ignorate dal giudice del merito ai fini dell'altro...”. Facendo leva su quanto precede, la Corte, nel caso di specie, ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni da mobbing, avendo, la perizia medica disposta nel procedimento, escluso un rapporto causale tra lo stress subito dal dipendente e l’insorgenza del morbo di Chron e del diabete, malattie per le quali era stato riconosciuto al lavoratore un equo indennizzo in quanto patologie derivanti da “causa di servizio”.