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Università degli Studi di Padova
Facoltà di Economia
CORSO DI LAUREA TRIENNALE
IN ECONOMIA AZIENDALE
PICCOLE AZIENDE, GRANDI IMPRESE.
IL RISCHIO IMPRENDITORIALE E LE SUE DINAMICHE
Relatore: Ch.mo Prof. Paolo Gubitta
Laureando Enrico Pasqualin
Matricola 542061
Anno Accademico 2007/2008
INDICE
INTRODUZIONE E SINTESI........................................................................................1

1.
 CAPITOLO ................................................................................................................................................3

PICCOLE IMPRESE E RISCHIO IMPRENDITORIALE ......................................................3

1.1
 Rischio e Iniziativa.....................................................................................................3

1.2
 Le Persone e la Propensione al Rischio......................................................................5

1.2.1
 Che cos’è il rischio imprenditoriale?...................................................................................................... 6

1.2.2
 Perché gli imprenditori sono più propensi al rischio delle altre persone? La stessa propensione al
rischio è riscontrabile anche nei manager non imprenditori?................................................................................. 8

1.2.3
 La variabile culturale può influenzare la propensione al rischio degli imprenditori? .......................... 10

1.3
 Rischio, Organizzazione e Territorio .......................................................................12

1.3.1
 La progettazione organizzativa e, in particolare, la scelta della struttura organizzativa possono essere
strumenti per gestire il rischio imprenditoriale?................................................................................................... 13

1.3.2
 La localizzazione delle imprese, come dimostrano i processi di shopping territoriale in alcuni settori,
è un ulteriore elemento che influenza il rischio di impresa. Perché? ................................................................... 15

1.3.3
 Fino ad ora si è parlato di come è possibile controllare i rischi mediante l’azione sull’ambiente
esterno. Come si può gestire il rischio dall’interno? ............................................................................................ 19

1.4
 Il Management del Rischio: Strumenti e Applicazioni ............................................20

1.4.1
 Quali sono le strategie fondamentali di risk management? .................................................................. 22

1.4.2
 Il management del rischio è una “scienza esatta” che si scontra con la razionalità limitata degli
individui. Quali sono i fattori che portano ad un’errata valutazione e gestione dei rischi? ................................. 24

1.4.3
 Inserire un risk manager all’interno di una piccola impresa è difficile e costoso. Come si deve
comportare un piccolo imprenditore nel gestire il rischio? .................................................................................. 25

1.5
 Piccole Aziende, Grandi e Inconsapevoli Risk Takers.............................................27

2.
 CAPITOLO ..............................................................................................................................................29

IMPRESE ALLA RICERCA DI CAPITALI .....................................................................29

2.1
 Capitali, Rischio e Rating.........................................................................................29

2.2
 Avvio........................................................................................................................31

2.2.1
 Nella fase di seed financing il fabbisogno delle imprese non è soprattutto di natura finanziaria, per cui
i venture capitalists incontrano difficoltà ad intervenire efficacemente. Cosa serve quindi alle start up in questa
fase? Chi può soddisfare questo fabbisogno?....................................................................................................... 32

2.2.2
 Il problema della ricerca di capitali durante la fase di avvio riguarda anche il commitment
dell’investitore, che può venire a mancare a causa della scarsa fiducia nel progetto imprenditoriale. A chi ci si
può rivolgere per risolvere questo problema? ...................................................................................................... 36

2.2.3
 Quali sono i fattori che rendono attrattiva un’impresa in fase di avvio agli occhi degli investitori?... 39

2.3
 Consolidamento e Sviluppo......................................................................................40

2.3.1
 Le banche si fidano delle imprese?....................................................................................................... 41

2.3.2
 L’applicazione di Basilea2 da molti viene interpretata come una spersonalizzazione dei rapporti tra
imprese e banche. Qual è il significato del termine spersonalizzazione in questo contesto?............................... 43

2.3.3
 Quali sono le implicazioni del processi di spersonalizzazione per le piccole e medie imprese? ......... 45

2.4
 Ristrutturazione, Crisi e Cambiamento ....................................................................48

2.4.1
 Quali sono le cause che portano alla ristrutturazione, e quali le strategie di ristrutturazione?............. 49

2.4.2
 Abbiamo affermato che nelle fasi di ristrutturazione di un’azienda servono competenze manageriali
forti e know-how specifici: chi è la figura a cui le piccole imprese si possono appoggiare per affrontare il
cambiamento?....................................................................................................................................................... 51

2.4.3
 Come può intervenire un contract manager in una piccola impresa? .................................................. 54

2.5
 Piccole Aziende, Grandi Ostacoli.............................................................................56

Piccole Aziende, Grandi Imprese
II
3.
 CAPITOLO ..............................................................................................................................................57

LA COMUNICAZIONE CON GLI STAKEHOLDERS FINANZIARI......................................57

3.1
 La Domanda di Informazioni ...................................................................................57

3.2
 Comunicare con gli Stakeholders.............................................................................58

3.2.1
 Come si implementa una comunicazione efficace verso i potenziali investitori? ................................ 59

3.2.2
 L’efficacia della comunicazione verso l’esterno dell’impresa si ha solamente se esiste un’efficace
comunicazione interna. Come è possibile raggiungere entrambi i risultati?........................................................ 61

3.2.3
 Come dovrebbe comunicare un’azienda trasparente?........................................................................... 62

3.3
 Comunicare il Rischio..............................................................................................65

3.3.1
 Comunicare i rischi potenziali per l’impresa, secondo alcuni significa mettere in luce i punti deboli di
un’organizzazione e renderla quindi più vulnerabile alle azioni della concorrenza. È quindi utile la
comunicazione del rischio? .................................................................................................................................. 66

3.3.2
 Quali sono gli obiettivi di un’efficace comunicazione del rischio?...................................................... 67

3.3.3
 Quali sono i fattori che influenzano la strategia di risk communication?............................................. 68

3.4
 Corporate Social Responsibility...............................................................................69

3.4.1
 È opinione di molti che l’attuazione di politiche di CSR sia una caratteristica esclusiva delle grandi
aziende. Alcuni studi dimostrano però che nel mondo delle piccole aziende qualcosa si sta muovendo. Quali
sono le prospettive di sviluppo del fenomeno per le PMI? .................................................................................. 71

3.4.2
 Quali sono gli strumenti a disposizione delle imprese per comunicare efficacemente la propria
responsabilità sociale? .......................................................................................................................................... 75

3.4.3
 Fare business etico è ormai una moda diffusa, soprattutto tra le grandi imprese. Inizia però a
consolidarsi un fenomeno che vede molte piccole imprese cooperare ed intrecciare i loro business ponendo al
centro di questa cooperazione l’attenzione verso le questioni sociali, non solo in un’ottica di profitto: come si
spiega questa nuova tendenza?............................................................................................................................. 79

3.5
 Piccole Aziende, Grandi Responsabilità ..................................................................81

4.
 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI .....................................................................................................................83

BIBLIOGRAFIA......................................................................................................83

4.1
 Libri e articoli...........................................................................................................83

4.2
 Altri materiali ...........................................................................................................86

4.3
 Siti internet ...............................................................................................................86

Indice
III
INDICE BOX, TABELLE E FIGURE
Box 1
 Il sensemaking.............................................................................................................5

Box 2
 Quando la squadra funziona, è grande mela..............................................................15

Box 3
 Il caso Altoprofilo .....................................................................................................36

Box 4
 Giovani business angel italiani crescono...................................................................38

Box 5
 La Soft Information...................................................................................................43

Box 6
 Noi, dirigenti col timer..............................................................................................53

Box 7
 Il rilancio di un nome storico della camiceria italiana ..............................................55

Box 8
 Che cos’è la CSR?.....................................................................................................70

Box 9
 Microimprese e CSR .................................................................................................75

Box 10
 L’identificazione degli stakeholders nel bilancio sociale di T&D............................78

Box 11
 L’identità del consorzio Altromercato ......................................................................80

Tabella1
 Tipologia di business risks ..........................................................................................7

Tabella 2
 Con quali strategie le PMI devono affrontare il mercato per rimanere
competitive? ..............................................................................................................14

Tabella 3
 Venture Capitalists e incubatori ................................................................................34

Tabella 4
 Le cause della ristrutturazione...................................................................................50

Tabella 5
 Le strategie di ristrutturazione...................................................................................51

Figura 1
 Il processo di assunzione del rischio ...........................................................................8

Figura 2
 Relazione tra esperienza e capacità di identificare nuove opportunità .....................10

Figura 3
 Con quali strategie le PMI devono affrontare il mercato per rimanere
competitive? ..............................................................................................................14

Figura 4
 Tipologie di marchi collettivi....................................................................................18

Figura 5
 Il processo di risk management.................................................................................26

Figura 6
 Gli stadi di investimento ...........................................................................................30

Figura 7
 L’influenza dell’incubatore nello sviluppo iniziale dell’impresa..............................33

Figura 8
 Principali servizi offerti dagli incubatori...................................................................35

Figura 9
 Un modello di classificazione dei business angels in base a
motivazioni e propensione al rischio.........................................................................37

Figura 10
 La Soft Information...................................................................................................44

Figura 11
 Il processo di integrazione in UniCredit Group ........................................................45

Figura 12
 Caratteristiche di una “banca-fabbrica” ....................................................................46

Figura 13
 Caratteristiche della "Banca del Cuore"....................................................................47

Figura 14
 I tre livelli della trasparenza nella comunicazione aziendale...................................64

Figura 15
 La risk disclosure ......................................................................................................69

Figura 16
 Canali di comunicazione con il personale.................................................................72

Figura 17
 Servizi aggiuntivi per il personale nelle PMI............................................................73

Figura 18
 PMI che hanno effettuato donazioni e/o erogazioni liberali ....................................74

Figura 19
 Destinazioni delle donazioni e/o erogazioni ............................................................74

INTRODUZIONE E SINTESI
Le piccole imprese sono al centro della nostra economia, rappresentando oltre il 95% di
tutte le imprese e fornendo quasi il 70% dell’occupazione.
L’imprenditorialità, intesa come la propensione delle persone ad innovare assumendosi
rischi anche considerevoli a fronte dell’opportunità di trarre un guadagno, è fondamen-
tale per mantenere competitivo il tessuto industriale italiano ed europeo.
Il mio lavoro tratta delle dinamiche dell’imprenditorialità, concentrandosi sulla perce-
zione e l’assunzione del rischio imprenditoriale e la sua influenza sulla gestione delle
piccole e medie imprese.
In particolare, nella prima parte si cercano di spiegare i meccanismi di percezione del ri-
schio ed il processo di assunzione del rischio, indagando sul perché alcune persone sono
più propense di altre all’attività imprenditoriale. Verrà dato spazio alle tecniche di ge-
stione del rischio ed al ruolo importante svolto dal territorio e dall’ambiente organizza-
tivo nella definizione delle strategie di risk management.
Nel secondo capitolo si sposterà invece l’attenzione su come il rischio può influenzare
le attività di ricerca di capitali finanziari e non da parte delle piccole imprese nelle di-
verse fasi del loro ciclo di vita.
La terza sezione, infine, sarà dedicata alla comunicazione con gli stakeholders finanzia-
ri. La comunicazione è ormai fondamentale per ogni azienda che voglia raggiungere una
buona solidità basata sul vantaggio competitivo. Negli ultimi tempi, soprattutto, si stan-
Piccole Aziende, Grandi Imprese
2
no evolvendo le tecniche di comunicazione del rischio e della responsabilità sociale
d’impresa, concetti che verranno discussi alla fine di questa tesi.
1. CAPITOLO
PICCOLE IMPRESE E
RISCHIO IMPRENDITORIALE
1.1 RISCHIO E INIZIATIVA
Fin dai tempi più antichi, scommettere, la vera essenza dell’assunzione di un rischio, è
stata uno dei più diffusi passatempi e spesso addirittura una dipendenza. Le persone so-
no sempre state attirate dal gioco d’azzardo e dalle scommesse perché queste attività
portano l’essere umano a confrontarsi faccia a faccia con il fato. Si accetta la sfida per-
ché si è tutti convinti di avere un potente alleato: la fortuna, che si interporrà tra noi e gli
eventi sfavorevoli fino a portarci alla vittoria. Adam Smith, profondo conoscitore della
natura umana, non a caso definiva la motivazione come “l’esagerata fiducia che la mag-
gior parte degli uomini ha nelle proprie abilità e la loro assurda presunzione di essere
fortunati” [Bernstein, 1996].
Nelle società occidentali contemporanee l’aspirazione al controllo sulla propria vita ha
acquistato una grandissima importanza ed è proprio al concetto di rischio che si fa ricor-
so per spiegare le deviazioni dalla norma, la sfortuna o gli eventi sfavorevoli. La base
simbolica delle nostre incertezze è l’ansia creata dal disordine, e la tensione che deriva
dal timore di perdere il controllo su di noi stessi e sui rapporti con gli altri.
Non vi è certo impassibilità di fronte a questi timori, ma si ricorre a buon grado alle
strategie preventive che si ritengono più opportune. Facciamo appello al pensiero razio-
nale e ai metodi che ci permettono di individuare le minacce prima che si traducano in
realtà.
Diverse teorie analizzano il rischio, prendendo strade diverse ed interpretandolo sotto
differenti punti di vista [Lupton, 2003].
La teoria cognitivista presenta un approccio tecnico-scientifico al rischio, definendolo
come il prodotto delle probabilità e delle conseguenze del verificarsi di un evento av-
Piccole Aziende, Grandi Imprese
4
verso. Il focus in questo caso è puntato sulla misurabilità oggettiva dei rischi e sullo svi-
luppo di modelli causali che analizzano le modalità di valutazione del rischio e le con-
seguenti reazioni dei soggetti interessati dall’evento. L’ipotesi è che i rischi siano misu-
rabili e che eventuali asimmetrie informative riguardo alla natura del rischio conducano
a distorsioni nella valutazione dello stesso.
Le teorie del costruttivismo sociale prediligono gli aspetti sociali e culturali del rischio.
A tal proposito si può operare una distinzione in costruttivismo debole e costruttivismo
forte. Il costruttivismo debole assume che i rischi rimandino a dati di fatto oggettivi e ri-
gorosamente calcolabili (riprendendo in certi tratti l’approccio cognitivista), ma che le
percezioni degli individui siano necessariamente mediate da processi culturali, sociali e
politici. Viene definito costruttivismo forte, invece, il filone di teorie i cui esponenti so-
stengono che nulla è un rischio in se stesso: ciò che ci appare sotto forma di “rischio” è
il prodotto di un modo di vedere storicamente, socialmente e politicamente determinato.
Il costruttivismo aiuta a spiegare perche le persone possono decidere di impegnarsi in
attività considerate rischiose: i modelli mentali che le persone utilizzano per elaborare i
loro giudizi sui rischi vanno interpretati come convenzioni e cultura condivise. La cultu-
ra contribuisce in questo caso al formarsi di una nozione di rischio collettiva, che può
vedere i rischi correlati a determinate iniziative come “buoni”, incoraggiando
l’intrapresa di tali iniziative.
Tra gli studiosi più significativi di questa teoria emerge la figura di Ulrich Beck [1986],
il quale sostiene che le società occidentali contemporanee stanno vivendo in un epoca di
transizione che sta portando la società industriale a trasformarsi in una società del ri-
schio. In questa fase di transizione la produzione di ricchezza procede di pari passo con
la produzione di rischi, moltiplicatisi in seguito al processo di modernizzazione. Il pro-
blema principale non è più quello della produzione e distribuzione della ricchezza, ma si
sta spostando sempre più nella prevenzione e riduzione dei rischi correlati a queste atti-
vità.
Se il rischio è un tema così attuale e così legato alla generazione di profitto, allora le
imprese con l’ambizione ad eccellere dovranno saper riconoscere e gestire i rischi legati
alla natura stessa del concetto di imprenditorialità.
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
5
Il primo capitolo affronterà il tema del rischio visto dalla prospettiva delle piccole e
medie imprese e degli imprenditori che si confrontano ogni giorno con i rischi e le op-
portunità che derivano dalle loro decisioni quotidiane e straordinarie.
1.2 LE PERSONE E LA PROPENSIONE AL RISCHIO
Il rischio è parte del quotidiano, ma ci sono alcune attività, come quella imprenditoriale,
che ne risultano più esposte di altre. L’imprenditore è il primo decisore rispetto alle
scelte di mercato, di organizzazione, finanziarie e di prodotto della sua azienda e come
tale deve tollerare il rischio meglio di altri. D’altro canto, molto spesso ad elevati rischi
corrisponde un commisurato pay-off in caso di successo.
Le imprese operano in ambienti dove fattori come la globalizzazione, la tecnologia, le
ristrutturazioni, i cambiamenti nei mercati, la concorrenza e la regolamentazione creano
incertezze. L’incertezza rappresenta sia un rischio sia un’opportunità, e può potenzial-
mente ridurre o accrescere il valore creato per gli stakeholders [Steinberger et al.,
2006].
Il contesto che si trova ad affrontare un soggetto che decide di avviare una nuova inizia-
tiva imprenditoriale è solitamente turbolento e caratterizzato da elevata variabilità, e
quindi rischioso. Non tutti gli individui hanno una propensione al rischio tale da voler
investire tempo e denaro in un’iniziativa dal guadagno non certo. La differenza risiede
nelle motivazioni: ci sono attori motivati dal potenziale guadagno, altri invece traggono
le loro motivazioni da bisogni di sicurezza, quindi tendono a ridurre il rischio.
L’imprenditore si caratterizza per una tendenza a vedere certe situazioni di potenziale
guadagno con maggiore positività rispetto a chi non è imprenditore, punti di forza ed
opportunità dove gli altri vedono debolezze e pericoli. Non vede sé stesso come un in-
cosciente che si espone al rischio, ma persegue opportunità che altri non prendono in
considerazione, semplicemente perché le vede da un diverso punto di vista [Forlani e
Mullins, 2000]. Questo approccio è coerente con la teoria cognitivista [Palich e Bagby,
1995] e, più nello specifico, con la teoria del sensemaking [Weick, 1979].
Box 1 Il sensemaking
Il contributo di K. Weick al filone di studi cognitivista permette di interpretare il processo di percezione del
rischio negli individui.
Secondo Weick l’ambiente è come un’entità continuamente costruita dagli attori organizzativi, che sfrutta-
no le proprie mappe cognitive (processi cognitivi di creazione di senso) per dare un senso a ciò che li cir-
conda.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
6
Il sensemaking si divide in tre fasi:
La fase di enactment consiste nella raccolta di dati e di flussi di esperienza, che verranno poi selezionati e
interpretati durante la fase di selezione, dando come risultante l’enacted environment. L’ultima fase, quella
di ritenzione, rappresenta il momento in cui si “archiviano” gli eventi che dimostano di avere un senso uni-
voco e relativamente stabile.
L’imprenditore è quindi un soggetto che non evita il rischio, ma lo persegue cercando di
individuarlo e controllarlo. In un contesto sempre più dinamico gli studi sul rischio e lo
sviluppo di modelli di risk management hanno avuto una rapida diffusione tra le grandi
aziende, ma ci sono molte possibilità di sviluppo ed applicazione della materia anche
nelle imprese più piccole. Alcuni di questi aspetti vengono già perseguiti in maniera in-
consapevole, altri richiederanno in futuro uno sforzo che però troverà le sue ricompense
in un maggior tasso di sopravvivenza delle PMI ed in una redditività maggiore e meno
volatile. La prima tappa del nostro studio del mondo del rischio ci porterà ad analizzare
il processo di assunzione del rischio da parte degli imprenditori, cercando di compren-
derne le determinanti.
1.2.1 Che cos’è il rischio imprenditoriale?
L’imprenditore ha due grandi responsabilità: le decisioni di business e le decisioni fi-
nanziarie. Le prime riguardano il core business e gli aspetti di produzione, distribuzio-
ne, vendita e promozione dell’offerta dell’impresa. Le seconde sono rivolte al reperi-
mento e all’investimento di fondi per la loro impresa.
I rischi di business minano la possibilità di trarre un profitto dall’attività imprenditoriale
[Borge, 2001].
Una classificazione del rischio imprenditoriale secondo la fonte che lo produce si può
trovare in Bowden, Lane e Martin [2001]. Il business risk viene suddiviso in cinque in-
siemi:
• Rischio strategico: è il rischio che le strategie seguite falliscano. I rischi strategici in-
cludono strategie di marketing e di acquisizione non efficaci, cambiamenti inaspettati
nel comportamento d’acquisto e cambiamenti a livello istituzionale.
• Rischio finanziario: è il rischio di inefficienze e fallimento del controllo finanziario. I
rischi finanziari possono sorgere da operazioni di tesoreria, cattiva gestione dei credi-
ti, frode e operazioni illecite e cattiva gestione del magazzino e della liquidità.
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
7
• Rischio operativo: è il rischio che deriva dalle azioni umane, volontarie o involonta-
rie. Esempi di rischio operativo sono gli errori di sistema, procedure poco sicure,
routine non gestite a livello centrale, comportamenti distruttivi volontari.
• Rischio commerciale: è il rischio di interrompere l’attività imprenditoriale. I rischi
commerciali più frequenti derivano dalla perdita di risorse umane fondamentali, fal-
limento dei rapporti nella catena di fornitura e nella catena distributiva, problemi le-
gali.
• Rischio tecnico: è il rischio di malfunzionamento o distruzione di risorse fisiche. Al-
cuni esempi di rischio tecnico sono i danni alle infrastrutture, incendi e calamità na-
turali, inquinamento, esplosioni e sabotaggio.
Apgar [2006], invece, fornisce una classificazione del business risk, dividendo le tipo-
logie di rischio in due macrocategorie:
• Rischi produttivi (supply-side risks);
• Rischi di mercato (demand-side risks).
Tabella1 Tipologia di business risks
PRODUCTION, OR SUPPLY SIDE RISKS MARKETING, OR DEMAND-SIDE RISKS
Operating risks like: Security or political risks like:
Control and compliance failures Market-disrupting events
Partner coordination failures Geopolitical volatility
Supply chain risks like: End-market or customer risks like:
Supplier failure or political rupture Brand or reputation erosion
Key cost volatility Customer consolidation
Technology risks like: Competitive risks like:
Infrastructure breakdown Disruptive technologies
Information security breaches New entrants to the market
Workforce risks like: Regulatory or legal risks like:
Capacity loss or disruption Legislation or litigation
Key staff loss or defection Official corruption
Asset risks like: Financial or economic risks like:
Fraud or theft Financial market volatility
Counterparty credit losses Recession
Fonte: Apgar, 2006
I rischi produttivi riguardano le possibili perdite dovute ad accadimenti negativi dal lato
dell’offerta, ovvero internamente all’azienda. Sono i rischi che si possono controllare e
gestire meglio, in quanto derivano spesso dalla strategia implementata e dalle scelte in-
terne all’impresa.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
8
I rischi di mercato invece sono legati a fattori esterni, e sono quindi più difficili da con-
trollare. È comunque indispensabile tenerne conto, perché possono essere fonte di gravi
problemi, ma anche di opportunità estremamente redditizie. Il rischio va quindi esami-
nato sotto un duplice aspetto: quello interno, che permette di valutare cause e conse-
guenze delle scelte strategiche e quello esterno, che rappresenta una fonte continua di
pericoli e nuove opportunità. Un approccio multidimensionale che, se adottato corretta-
mente, permette di evitare brutte sorprese e di ottenere grossi profitti.
1.2.2 Perché gli imprenditori sono più propensi al rischio delle altre persone?
La stessa propensione al rischio è riscontrabile anche nei manager non
imprenditori?
Molti studi si sono focalizzati sui tratti distintivi di un imprenditore, e sul legame tra
imprenditorialità e propensione al rischio [Palich e Bagby, 1995, Forlani e Mullins,
2000 e 2005, Townsend, Busenitz e Arthurs, 2008, Zhang e Arvey, 2008] . Il processo
di assunzione del rischio da parte dell’imprenditore è influenzato dal rischio percepito,
dai tratti e dalle motivazioni dell’imprenditore e dall’ambiente.
Figura 1 Il processo di assunzione del rischio
Palich e Bagby [1995] sostengono che non ci siano differenze sostanziali tra imprendi-
tori e non-imprenditori per quanto riguarda la propensione al rischio: ciò che cambia è
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
9
l’interpretazione dello stesso, ovvero le mappe cognitive che permettono ad un impren-
ditore di vedere un potenziale guadagno al posto di una potenziale perdita. Ciò non to-
glie che la propensione al rischio cambi di persona in persona. Questa peculiarità gioca
un ruolo importante per quanto riguarda la quantificazione del guadagno potenziale.
Una maggiore propensione al rischio, infatti, genera distorsioni cognitive per quanto ri-
guarda la quantificazione del guadagno potenziale. Nello specifico, il pay-off percepito
viene sovrastimato aumentando di conseguenza il commitment dell’imprenditore nei
confronti dell’iniziativa imprenditoriale [Mullins e Forlani, 2005].
Il fatto di vedere il bicchiere “mezzo pieno” è spiegato da una diversa percezione del ri-
schio. La percezione del rischio dipende a sua volta da molteplici fattori, tra cui
l’onerosità dell’investimento minimo richiesto per cimentarsi nell’azzardo (e quindi le
possibili perdite), la fonte dei capitali reperiti per far fronte a tale investimento, la varia-
bilità del pay-off atteso [Forlani e Mullins, 2000 e 2005] e la fiducia dell’imprenditore
nelle proprie capacità di portare l’iniziativa al successo [Townsend, Busenitz e Arthurs,
2008].
I tratti e le motivazioni dell’imprenditore sono l’elemento fondamentale del processo di
assunzione del rischio. Sono essi che agiscono sulle informazioni incomplete in mano
all’imprenditore, guidando la scelta verso una precisa direzione tra le alternative a di-
sposizione.
Uno studio di Zhang e Arvey [2008] prende spunto dalla definizione schumpeteriana di
impresa come distruzione creatrice e associa la capacità di innovazione e di assumere
rischi da parte degli imprenditori con la loro propensione al “rompere le regole”
nell’adolescenza.
Altre ricerche [Forbes, 2004; Ucbasaran, Westhead e Wright, 2008] trovano nell’età e
nell’esperienza una determinante fondamentale della propensione al rischio negli indi-
vidui. Il contributo di Ucbasaran, West e Wright [2008], in particolare, mette in eviden-
za come ci sia una relazione non lineare tra l’esperienza e la capacità di identificare
nuove opportunità da parte dell’imprenditore. Arrivata ad un certo picco, questa capaci-
tà e di conseguenza la capacità di assumersi nuovi rischi, si riduce.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
10
Figura 2 Relazione tra esperienza e capacità di identificare nuove opportunità
Fonte: Ucbasaran, West e Wright, 2008
Il concetto di commitment è fondamentale: molte ricerche [Begley, 1995, Forbes, 2004]
e l’evidenza empirica sottolineano che ci sia una spiccata differenza tra manager ed im-
prenditori nell’approccio ad un’iniziativa rischiosa. Solitamente gli imprenditori, che ri-
schiano il loro capitale nell’impresa di proprietà, hanno una migliore visione delle nuo-
ve opportunità e perseguono il rischio in misura maggiore di quanto facciano i manager,
che trovano più conveniente effettuare scelte sicure anche se di minor redditività.
Un fattore importante, che influisce sia nelle mappe cognitive dei soggetti, sia nelle stra-
tegie di management del rischio, è rappresentato dall’ambiente in cui opera l’impresa.
Questo aspetto sarà trattato ampiamente nel paragrafo 1.3 del mio lavoro.
1.2.3 La variabile culturale può influenzare la propensione al rischio degli im-
prenditori?
In Italia sono già più di 227.000 le imprese con datori di lavoro stranieri. Un’azienda su
tre è gestita da immigrati: sono soprattutto artigiani che preferiscono inserirsi in edilizia
e nel commercio e che scelgono il nord come sede lavorativa. Si tratta di un fenomeno
che si verifica in tutti i paesi nei quali l’immigrazione comincia a diventare stanziale.
La spiegazione di questo fenomeno risiede nel fatto che gli imprenditori immigrati han-
no una maggiore tolleranza verso il rischio.
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
11
Tutti conosciamo il background che porta solitamente le persone ad emigrare dal loro
paese d’origine per trasferirsi in Italia alla ricerca di un’opportunità: lo hanno vissuto
molti italiani all’inizio del ‘900 (lo “zio d’America” è una figura ormai storica nella cul-
tura italiana) ed ora il flusso si è sostanzialmente invertito. Chi arriva in Italia, ci arriva
senza un capitale da investire, con il solo bagaglio della propria volontà a perseguire un
futuro migliore per sé e per un’eventuale famiglia. Questo potrebbe costituire una limi-
tazione, essendo la disponibilità di risorse molto più bassa della media dei potenziali
imprenditori, ed invece è il principale driver dell’imprenditorialità degli immigrati. Ciò
che viene messo sul piatto della bilancia è di gran lunga inferiore al possibile guadagno
in caso di successo, e qui sta la spiegazione per l’imprenditorialità diffusa tra gli immi-
grati. Le differenze rispetto agli imprenditori italiani risiedono nei tratti peculiari e nelle
motivazioni di una persona che è stata esposta a contesti culturali diversi e si trova in
una situazione diametralmente opposta. Il “non aver nulla da perdere” è una leva che
amplifica la tolleranza del rischio, unitamente ad un commitment molto forte, le cui ori-
gini sono identificabili nelle motivazioni dell’imprenditore immigrato: i bisogni che le
generano sono, come direbbe Maslow, fisiologici e di sicurezza. Ciò che, lavorando
come dipendenti si percepisce come fattore igienico (se assente genera insoddisfazione,
se presente non genera motivazione), diventa un fattore motivante quando si decide di
mettersi in gioco con tutto ciò di cui si dispone ed avviare un’iniziativa imprenditoriale
[Costa e Gubitta, 2008].
Uno dei fattori che più influiscono sulla capacità di assumersi rischi maggiori è
l’ambiente, inteso come l’enacted environment risultante dal processo di sensemaking, e
quindi generato dalle mappe cognitive degli attori. A parità di contesto, il forte com-
mitment e le motivazioni di cui abbiamo appena discusso influenzano l’interpretazione
dell’ambiente, favorendo la scoperta di opportunità imprenditoriali in situazioni dove
non sembra che esistano (calzano a pennello gli esempi dell’edilizia e del commercio al
dettaglio, settori considerati saturi e che invece hanno dimostrato di poter garantire an-
cora profitti accettabili). Una volta identificata l’opportunità ed accettati i rischi poten-
ziali, è conseguenza naturale l’avvio di una nuova impresa.
L’argomento che tratteremo di seguito sarà proprio l’azione del territorio come determi-
nante dell’organizzazione e le sue implicazioni nelle tematiche del rischio.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
12
1.3 RISCHIO, ORGANIZZAZIONE E TERRITORIO
Precedentemente è stato affermato che i fattori ambientali influiscono sul processo di
assunzione del rischio. Essi agiscono sulle mappe cognitive degli individui, con conse-
guenze importanti nel processo di generazione dell’enacted environment.
Seguendo un approccio evolutivo [si veda Costa e Gubitta, 2008] si può affermare che
la strategia di un’impresa e la sua struttura organizzativa si influenzano a vicenda, ma
sono a loro volta soggette alle caratteristiche del contesto ambientale in cui sono inseri-
te, alle strategie dei soggetti che operano in questo ambiente e alle strutture di governo
delle relazioni. Il rischio risiede in tutti questi fattori, ma c’è una differenza sostanziale.
Molti dei rischi interni possono essere frutto di decisioni strategiche, e quindi rispec-
chiano una “scelta” dell’imprenditore. Le dinamiche di assunzione di questi rischi sono
già state esaminate in precedenza. I rischi connessi all’ambiente esterno, invece, non
sono selezionabili e molte volte risulta difficile una corretta previsione degli stessi. La
struttura dell’ambiente e le strategie degli attori che vi operano possono allo stesso tem-
po costituire un’importante risorsa nella gestione e nella limitazione del rischio.
Una grande impresa può affrontare contesti complessi e turbolenti con successo, poten-
do disporre di risorse sufficienti a perseguire strategie di diversificazione non correlata,
che riducono di molto il rischio [Borge, 2001]. Imprese di minori dimensioni non hanno
capitali sufficienti per perseguire un’efficace strategia di diversificazione, trovandosi ad
affrontare rischi maggiori, ai quali consegue una minor fiducia del mercato e degli inve-
stitori, minore attrattività di capitali e la possibilità del fallimento.
Elementi culturali condivisi e situazioni ambientali specifiche e favorevoli permettono
alle piccole imprese di affrontare il rischio con maggiore sicurezza: è quindi possibile
gestire il rischio per via organizzativa, implementando strategie efficaci all’interno e
cercando di influenzare l’ambiente circostante. Ne nascono forme organizzative ibride,
in cui i confini tra ambiente interno ed ambiente esterno sono più labili e si fa strada
l’idea di co-opetizione. La condivisione di cultura, conoscenza e talvolta di risorse criti-
che ha spesso come conseguenza naturale la condivisione di una parte del rischio indi-
viduale delle imprese, permettendo di raggiungere elevati livelli di performance a fronte
di un rischio sostanzialmente minore. Le forme aggregative, pur risolvendo notevoli
problemi, implicano l’assunzione di un nuovo tipo di rischio: c’è il pericolo che il flusso
di informazioni e di conoscenza trasferito ai co-opetitori sfugga al controllo
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
13
dell’imprenditore e sbilanci la relazione, portando un notevole vantaggio competitivo ai
partners a danno dell’organizzazione [Becerra, Lunnan e Huemer, 2008].
L’azione sull’ambiente, inteso come struttura organizzativa interna ed esterna e
l’influenza del territorio sul rischio di un’impresa saranno i temi principali di questa se-
zione.
1.3.1 La progettazione organizzativa e, in particolare, la scelta della struttura
organizzativa possono essere strumenti per gestire il rischio imprendito-
riale?
Affrontare la sfida dell’internazionalizzazione è un’impresa assai ardua per una piccola
azienda: tra le molte barriere che ostacolano questo processo vi sono le dimensioni
maggiori dei player all’interno dei mercati globali, e la generale complessità di questi
ultimi.
Una soluzione organizzativa tramite la quale le piccole imprese possono rendersi più
competitive è la cooperazione. Nel caso italiano i distretti sono indubbiamente gli e-
sempi più calzanti per questo modello organizzativo. Molte volte, però, la forza dei di-
stretti e delle alleanze viene meno. Si tratta dei casi in cui c’è la necessità di disporre di
un brand forte, in grado di affermarsi anche in un contesto internazionale. Le piccole
imprese non possono contare su risorse sufficienti a condurre da sole campagne per la
valorizzazione del marchio in uno scenario in cui competono con grandi multinazionali.
Ci sono mercati vasti e complessi (Cina e USA, ad esempio), nei quali non basta più
l’iniziativa del singolo imprenditore, ma servono grandi numeri di produzione e una for-
te visibilità. La qualità, unita ai grandi numeri, permette di avere un rapporto meno su-
bordinato con la grande distribuzione [Roma, 2008]. Nella realtà italiana, il fattore visi-
bilità è aiutato dalla fama del “Made in Italy”, concetto riconosciuto in tutto il mondo ed
espressione di una creatività orientata al mercato, risultato di un modello industriale ba-
sato su flessibilità, specializzazione e continuità in cui la qualità è caratteristica
dell’intera filiera [Corbellini e Saviolo, 2004]. Per crescere bisogna integrarsi o costrui-
re dei rapporti di network che costituiscano, di fatto, un’integrazione virtuale [Corbellini
e Saviolo, 2004], e proprio sulla possibilità di farsi conoscere come sistema paese e
sull’unione degli sforzi di molte piccole imprese puntano i consorzi.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
14
Tabella 2 Con quali strategie le PMI devono affrontare il mercato per rimanere competi-
tive?
Nord-
Ovest
10-49
dipen-
denti
Nord-
Ovest
oltre 50
dipen-
denti
Nord-Est
10-49 di-
pendenti
Nord-
Est oltre
50 di-
pendenti
Centro
10-49
dipen-
denti
Centro
oltre 50
dipen-
denti
Sud-Isole
10-49 di-
pendenti
Sud-
Isole ol-
tre 50
dipen-
denti
Agire da sole 30,3 19,9 24,5 23,1 31,9 13,7 14,0 20,8
Formare consor-
zi
42,3 41,6 48,7 38,7 38,8 39,4 57,6 53,2
Creare fusioni 17,6 16,8 18,6 22,5 20,6 28,5 19,1 19,8
Acquisire nuove
aziende
5,4 19,1 5,3 13,4 6,1 17,2 6,8 6,2
Cedere l'attività 4,4 2,6 2,9 2,3 2,6 1,2 2,5 0,0
Fonte: Fondazione Nord Est – “il Sole 24 Ore” – Unicredit Corporate Banking, giugno 2007
Figura 3 Con quali strategie le PMI devono affrontare il mercato per rimanere competi-
tive?
Fonte: Fondazione Nord Est – “il Sole 24 Ore” – Unicredit Corporate Banking, giugno 2007
I consorzi permettono di garantire la qualità di un prodotto e di ottenere migliori condi-
zioni di accesso al credito in virtù delle maggiori dimensioni, ma soprattutto raggruppa-
no imprese che da sole rischierebbero l’emarginazione dal mercato e che, invece, rie-
scono ad invertire la tendenza al declino verso l’espansione [Roma, 2008].
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
15
Le strategie tipiche dei consorzi sono la promozione di un marchio unico ed il coordi-
namento organizzativo tra i piccoli produttori. Questo coordinamento ha un ruolo fon-
damentale nella gestione del rischio imprenditoriale di ogni piccola impresa appartenen-
te al consorzio: il rischio complessivo derivante dall’internazionalizzazione viene infatti
collettivizzato e diviso tra i soggetti cooperanti, in modo da ridurre i danni potenziali a
carico dei singoli.
Un caso emblematico del successo dei consorzi sullo scenario globale è rappresentato
dal consorzio Grana Padano. Costituito nel 1954, il consorzio riunisce oggi 200 produt-
tori, stagionatori e commercianti di formaggio Grana Padano, tutelando e promuovendo
il prodotto e la sua denominazione di origine protetta.
La forza di un unico marchio permette di avere una maggiore visibilità all’estero (dove
viene esportato il 40% della produzione) ed allo stesso tempo garantisce la qualità del
prodotto. La forza del consorzio ha permesso di affermare un brand che supera e margi-
nalizza qualsiasi altro piccolo marchio. Secondo un sondaggio [CorrierEconomia,
2008] “il grana è conosciuto dal 97% degli italiani, e nell’agroalimentare è secondo solo
alla Coca-Cola”.
Box 2 Quando la squadra funziona, è grande mela.
“Il nostro è l’unico consorzio al mondo – spiega Luca Granata, direttore generale Consorzio Melinda – a
firmare un miliardo di mele. Da soli rappresentiamo il 75% della produzione del trentino, il 15% dell’Italia e
il 3% in Europa.”Un autentico prodigio, quello delle mele della Val di Non. Melinda nasce infatti nel 1998 e
mette insieme 16 cooperative che negli anni ’70 erano addirittura una quarantina. “E tutte a farsi una guer-
ra spietata – continua Granata – Però, finché il mercato è trainante, c’è spazio per tutti, quando il mercato
diventa selettivo, o cresci o muori. E quando qui in Trentino si sono accorti che farsi la guerra abbassava il
potere contrattuale e faceva andar male tutti, hanno scelto il consorzio. Per convenienza e non per amore.
Persino la formula scelta è stata quella di associazione temporanea d’impresa, una sorta di convivenza
prematrimoniale, prima di passare al consorzio”. Uno schema applicabile anche ad altri settori, come di-
mostrano le esperienze nell’alimentare, nel tessile e nell’enologia. “Certo, il modello è unico: fare un passo
indietro per farne dieci in avanti. È vero, in un consorzio l’efficienza pro capite scende, ma il maggior pote-
re contrattuale compensa. Del resto trovano giovamento nella fusione le grandi aziende, figurarsi le picco-
le e le medie”. E il prossimo scatto di competitività? “Crescere ancora. Magari con qualche grossa fusione.
Abbiamo bisogno di aumentare la nostra dimensione, un po’ come succede alla grande distribuzione o alle
banche. Bisogna puntare a conquistare sempre più quote di mercato”.
Fonte: CorrierEconomia, 2 Giugno 2008
1.3.2 La localizzazione delle imprese, come dimostrano i processi di shopping
territoriale in alcuni settori, è un ulteriore elemento che influenza il rischio
di impresa. Perché?
Lo shopping territoriale, ovvero la migrazione delle imprese alla ricerca delle migliori
condizioni in termini di costi, può concretamente essere considerata come un'azione
Piccole Aziende, Grandi Imprese
16
che, con l'obiettivo di ottenere condizioni di vantaggio competitivo, permette implicita-
mente di ridurre il rischio.
Si consideri ad esempio la progressiva attrattività della Cina per molte imprese italiane
e, in generale, dei Paesi industrializzati.
Con l’entrata dei prodotti cinesi nei mercati di tutto il mondo si è materializzato il ri-
schio per i distretti italiani di divenire obsoleti, non riuscendo più ad incontrare la do-
manda e perdendo il mercato che prima controllavano saldamente.
L’Italia dei distretti industriali è esposta alla globalizzazione dell’economia e alla con-
correnza dei paesi emergenti, che possono disporre di costi di produzione assai inferiori
a quelli italiani. Ciò significa che tutti i beni replicabili tendono a perdere di valore, per-
ché con l’affacciarsi dei paesi emergenti il loro costo di produzione diminuisce in ter-
mini reali. In altre parole, più un prodotto è facilmente replicabile e più agevoli sono il
suo trasferimento nei paesi a basso costo del lavoro – Cina in primis – e la sua contraf-
fazione [Alberti e Sciascia, 2007, p. 58].
Tuttavia, lo shopping territoriale e quindi l'affannosa e continua ricerca delle migliori
condizioni di costo non è il solo modo per “usare il territorio come fattore per ridurre il
rischio”. Se pensiamo ai nostri distretti industriali, si coglie il ruolo giocato dalle rela-
zioni e dal social capital nella gestione del rischio.
Per comprendere punti di forza e debolezza del sistema distrettuale italiano bisogna co-
noscerne le caratteristiche principali [Cortesi, Alberti e Salvato, 2004]:
• È un sistema territoriale circoscritto: il distretto nasce e si sviluppa in un’area geogra-
fica necessariamente circoscritta. Questo non deve essere frainteso come un segnale
di chiusura verso l’esterno, tanto che la competitività dei distretti è dovuta in gran
parte alla capacità di tessere relazioni con l’ambiente esterno, decentrare la produ-
zione e sviluppando rapporti che vanno al di là del requisito della vicinanza geografi-
ca grazie alle ICT.
• È una comunità locale di persone: ciò si traduce in un sistema abbastanza omogeneo
di valori, che semplifica il coordinamento e garantisce nel tempo la sedimentazione
di relazioni privilegiate di collaborazione tra le imprese.
• È una popolazione di piccole-medie imprese specializzate: ogni impresa è specializ-
zata in una specifica fase del processo produttivo. Ciò è possibile grazie al processo
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
17
di disintegrazione verticale del ciclo produttivo che caratterizza la formula del di-
stretto e che favorisce la nascita di nuove imprese specializzate su singole fasi.
• La divisione del lavoro e la qualità delle risorse umane: grazie alla specializzazione,
che conduce alla divisione del lavoro, le imprese distrettuali possono accedere ad un
mercato del lavoro caratterizzato da una professionalità diffusa e qualificata, ricca di
competenze specifiche.
• Gli attori istituzionali: i distretti hanno la capacità di coniugare sinergicamente
l’azione delle imprese con l’iniziativa degli attori sociali pubblici e privati, in parti-
colare delle banche locali, che svolgono un ruolo cruciale per il sostegno finanziario
delle imprese distrettuali.
• L’equilibrio tra concorrenza e cooperazione: i rapporti economici che intercorrono
tra gli attori in un sistema distrettuale sono il risultato del combinarsi della concor-
renza nei mercati interni al distretto con una consuetudine locale di cooperazione re-
ciproca.
• L’imprenditorialità distrettuale: nei distretti le motivazioni dei singoli individui ten-
dono ad essere esasperate, accentuando il desiderio di autorealizzazione e facendo
emergere la volontà di trasferire capacità, attese e interessi in un’attività lavorativa.
Questo si traduce in un’elevata fertilità dell’area dovuta principalmente a meccani-
smi di spin-off.
Le capacità di presidiare livelli molto elevati di conoscenza diffusa rendono possibile la
valorizzazione di tradizioni artigiane vecchie di secoli all’interno dei distretti, che si
configurano come sistemi cognitivi basati su contesti territoriali in cui si sedimentano
linguaggi, esperienze condivise e identità collettive, che donano alle produzioni distret-
tuali del made in Italy un carattere di forte idiosincraticità [Alberti e Sciascia, 2007].
Si tratta di lavorazioni basate su saperi fortemente vissuti e poco verbalizzati, conoscen-
ze che si sono storicamente trasmesse grazie alla vicinanza culturale e geografica [Cor-
bellini e Saviolo, 2004].
L’unicità di questi prodotti fornisce ai distretti un potenziale vantaggio competitivo di
differenziazione, molto più sostenibile di un vantaggio di costo che risulta estremamente
vulnerabile a forze esterne imprevedibili.
Un segnale di qualità e coerenza particolarmente importante potrebbe essere rappresen-
tato dall’utilizzo di un marchio collettivo che identifichi i prodotti provenienti da un de-
Piccole Aziende, Grandi Imprese
18
terminato distretto. Il marchio svolge molteplici ruoli: da un lato è una garanzia offerta
dal produttore al consumatore della qualità del prodotto, dall’altro rappresenta un inve-
stimento fornisce un incentivo a mantenere quella qualità, riducendo il rischio percepito
dagli acquirenti [Grant, 2005].
Figura 4 Tipologie di marchi collettivi
Fonte: Alberti, Sciascia, 2007
I distretti potranno quindi superare le difficoltà emergenti solo con la consapevolezza di
dover gestire un’immagine unitaria, sfruttando il cosiddetto “country of origin effect”,
ossia l’influenza esercitata dall’origine geografica del prodotto sui comportamenti
d’acquisto.
Al di là delle strategie basate su di un marchio comune, ciò che risulta evidente è che la
competitività dei distretti può essere preservata solo se le imprese che ne fanno parte ri-
nunceranno all’individualismo di fondo che è presente in questi contesti e renderanno i
loro confini organizzativi completamente permeabili alla cultura ed alle esperienze del
distretto, competendo in maniera compatta per mantenere la leadership e difendere le
enormi potenzialità sviluppate finora.
L’esistenza ed il mantenimento di un social capital che aumenti l’efficienza delle azioni
condivise [Costa, Gubitta, 2008] è dunque imprescindibile.
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
19
1.3.3 Fino ad ora si è parlato di come è possibile controllare i rischi mediante
l’azione sull’ambiente esterno. Come si può gestire il rischio dall’interno?
Le piccole e medie imprese possono mitigare il rischio imprenditoriale mediante forme
organizzative di tipo cooperativo che possono servire a diversificare il rischio, a divider-
lo tra i soggetti cooperanti o a sfruttare dimensioni maggiori che permettono di cogliere
opportunità redditizie altrimenti impossibili da perseguire. Tutto ciò presuppone però
che l’ambiente in cui opera l’impresa fornisca i presupposti culturali e organizzativi per
poter implementare forme cooperative. Il rischio, però, non è gestibile solo per vie e-
sterne.
Le piccole imprese, soprattutto quelle familiari, hanno una caratteristica distintiva, la
sovente sovrapposizione tra il ruolo di proprietario e quello di manager, che tradizio-
nalmente è considerata un punto di forza, ma che in alcuni contesti può trasformarsi in
punto di debolezza, in quanto può condurre ad una chiusura nel riconoscimento dei ri-
schi e dei problemi dell’impresa e può portare al mancato presidio di tutte le dinamiche
presenti nel contesto aziendale.
Un efficace metodo per evitare il rischio di incorrere in impasse decisionali e, peggio
ancora, nell’implementazione di strategie sbagliate, è quello di separare almeno in ma-
niera parziale il management dalla proprietà.
Questo può avvenire in via temporanea (come vedremo più avanti) mediante il ricorso a
contract managers, oppure in forma continua con l’assunzione di risorse umane adatte a
ricoprire ruoli dirigenziali, o la promozione di risorse interne all’azienda.
La managerializzazione dell’impresa presenta notevoli vantaggi.
Ponendo alla guida dell’impresa persone con competenze e know-how specifici si pos-
sono sfruttare tutte le opportunità di crescita delle diverse funzioni aziendali, potendo
inoltre contare su economie di apprendimento e di specializzazione da parte dei dipen-
denti all’interno delle singole funzioni.
L’inserimento nella governance di manager esterni alla famiglia può evitare la fuga dei
talenti stimolata da un contesto di scarsa possibilità di carriera all’interno dell’azienda o
mitigando i comportamenti opportunistici che tendono a nascere in alcuni componenti
per la sovrapposizione tra l’ambito familiare e quello aziendale. L’inserimento di figure
esterne riesce quindi a portare una maggiore responsabilizzazione e nel contempo una
possibile valutazione dell’operato manageriale, consentendo conseguentemente una
maggior chiarezza circa i punti di forza e debolezza dell’impresa.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
20
Di contro, il commitment di un manager non potrà mai eguagliare quello
dell’imprenditore che, artefice dell’iniziativa e primo portatore dei valori aziendali, rap-
presenta l’anima dell’idea imprenditoriale. Il requisito minimo per un’efficace strategia
di managerializzazione dell’azienda è quindi quello di trovare delle persone che condi-
vidano la vision dell’imprenditore, e siano capaci di sviluppare strategie di funzione in
linea con essa. Senza un’azione coordinata basata su valori condivisi tra management e
proprietà una piccola azienda non potrà percorrere questa strada, i benefici potenziali si
trasformeranno in problemi organizzativi e, peggio ancora, incoerenza interna nelle stra-
tegie seguite, con il probabile insorgere di conflittualità tra le funzioni aziendali.
1.4 IL MANAGEMENT DEL RISCHIO: STRUMENTI E APPLICAZIONI
Se tutto fosse governato dalla fortuna, il management del rischio sarebbe solamente un
esercizio senza senso. Tirare in ballo la fortuna oscura la realtà, perché separa un avve-
nimento dalle sue cause. Quando ci assumiamo un rischio, stiamo scommettendo sul ri-
sultato di una decisione che abbiamo preso, anche se non sappiamo con certezza quale
sarà quel risultato.
L’essenza del risk management sta nel massimizzare le aree di decisione sulle quali ab-
biamo un qualche controllo, minimizzando nel contempo quelle in cui non abbiamo
nessun controllo circa il risultato e nelle quali la correlazione tra causa ed effetto ci è i-
gnota [Bernstein, 1996]. Non si tratta di eliminare del tutto il rischio, ma di trovare il
miglior bilanciamento possibile tra rischi assunti ed opportunità connesse [Borge,
2001].
Laplace, nel suo Essai philosophique sur les probabilités, esclude che un qualsiasi even-
to sia regolato dalla fortuna: “Gli eventi presenti sono connessi a quelli passati mediante
un legame basato sull’evidente principio che una cosa non può accadere se non in pre-
senza di una causa che la generi […] Tutti gli eventi, anche quelli che non sembrano se-
guire le grandi leggi della natura, sono in realtà una risultante di essa”.
Si può concludere che, almeno il linea teorica, il rischio è quantificabile e quindi gesti-
bile in maniera oggettiva mediante calcoli più o meno complessi.
Molte volte però, abbiamo troppe poche informazioni a disposizione per applicare le
leggi della probabilità. In mancanza di informazioni, ci si deve necessariamente affidare
all’intuito, che però risente delle nostre esperienze passate e di distorsioni cognitive di
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
21
vario tipo. Non essendo possibile un calcolo perfettamente razionale dei pericoli a cui si
va incontro, si può solamente cercare di gestire al meglio la razionalità limitata degli at-
tori organizzativi, mediante il ricorso a best practices, routine organizzative e modelli di
risk management.
Bowden, Lane e Martin [2001] sostengono che buone pratiche di risk management pos-
sono permettere alle imprese di sfruttare i seguenti benefici:
• miglioramento delle relazioni con gli stakeholders e maggiore attrattività verso i
nuovi investitori;
• raggiungimento degli obiettivi prefissati con maggiore facilità;
• maggiore facilità nel portare a termine iniziative di cambiamento;
• miglioramento degli standard di best practices interni;
• minor costo del capitale;
• migliori punti di partenza per la pianificazione e la direzione strategica;
• ottenimento di vantaggi competitivi;
• riduzione del tempo speso dal management in attività di gestione delle crisi;
• minore probabilità di incappare in imprevisti sfavorevoli.
Al contrario, un’inadeguata gestione del rischio può portare a conseguenze negative
quali:
• multe o sanzioni;
• azioni di protesta;
• costi per difendere l’impresa da azioni legali penali e civili;
• danni di immagine;
• abbassamento del morale e deterioramento del clima aziendale;
• aumento dei premi di assicurazione;
• maggiori oneri finanziari;
• inaffidabilità futura nel prestare garanzie;
• revoca di licenze e permessi.
Le PMI, a differenza di imprese più grandi, raramente presentano procedure formalizza-
te di gestione del rischio: il rischio fa parte della vision dell’imprenditore e viene gestito
in maniera inconsapevole, influenzando comunque le decisioni strategiche. Mentre mol-
te grandi aziende si sono ormai dotate di un Chief Risk Officer, questo ruolo nelle picco-
le e medie realtà non è ancora preso in considerazione e probabilente non lo sarà mai,
Piccole Aziende, Grandi Imprese
22
dati gli elevati costi di coordinamento che una soluzione come questa comporta. Ci sono
però delle linee guida che ogni buon imprenditore dovrebbe seguire, almeno per avere la
consapevolezza dei rischi che l’impresa corre e delle opportunità emergenti.
1.4.1 Quali sono le strategie fondamentali di risk management?
La gestione del rischio non è una golden rule applicabile ad ogni caso: dipende dalle
strategie e dalla propensione al rischio degli attori e dell’organizzazione e differisce in
maniera rilevante anche in situazioni simili. Secondo quanto teorizzato da Borge [2001],
l’azione di risk management è comunque classificabile in diverse categorie ed esistono
delle linee guida da seguire per governare il rischio e manipolarlo, per quanto possibile.
Il rischio va identificato: è difficile gestire un rischio quando non se ne conosce la natu-
ra. L’identificazione del rischio non è semplice come sembra, dato che la percezione di
esso è soggettiva. In assenza di un sistema oggettivo per identificare e classificare i ri-
schi, si può tentare di ricondurre la situazione contingente ad un contesto già affrontato
da molti decision makers, tentando di replicare le decisioni di successo prese in passato.
Si tratta di un classico problema di razionalità limitata, per ovviare alla quale si può ri-
correre a routine a decisioni programmabili [Costa, Gubitta, 2008].
Saper quantificare i rischi, una volta identificati, aiuta ad affrontarli da un punto di vista
razionale, potendo fare uso di modelli matematici e statistici. Meglio si quantifica un ri-
schio, meglio si previene: la prevenzione dei rischi è la più ovvia strategia di gestione
degli stessi. Non si dovrebbe mai assumere un rischio, se non volontariamente e dopo
averne scrupolosamente calcolato cause e conseguenze.
Ci sono alcuni casi in cui, invece di evitare il rischio, lo si vuole creare. I rischi “deside-
rabili” sono quelli legati ad opportunità in cui il pay-off supera le probabilità di insuc-
cesso.
Se non si riesce a prevenire un rischio, si può cercare di venderlo. Al contrario, se non si
riesce a creare un rischio desiderabile, si può cercare di comperarlo. In verità, ciò che si
compra e si vende non è il rischio in se, ma l’opportunità legata a tale rischio: se si vuo-
le scalare il monte Everest, si può acquistare un posto in una spedizione, mettendo a re-
pentaglio la propria vita in cambio del guadagno di un’opportunità di raggiungere la
vetta.
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
23
Un buon modo per abbassare l’esposizione complessiva ai rischi è quello di diversificar-
li: assumendo rischi non correlati l’un l’altro, si riesce a ridurre il danno potenziale
complessivi, mantenendo sostanzialmente invariati gli eventuali profitti.
La strategia diametralmente opposta a quella di diversificazione si può perseguire cer-
cando di concentrare i rischi. Perché si dovrebbe cercare di concentrare i rischi quando
abbiamo visto che la diversificazione è un’ottima strategia? Un caso, ad esempio, si ve-
rifica quando si vuole preservare la possibilità di guadagni estremamente positivi, piut-
tosto che ridurre quella di risultati molto negativi. Un'altra possibilità si ha quando la
concentrazione dei rischi permette di ottenere un’influenza positiva sui risultati, ad e-
sempio tramite il controllo del pacchetto di maggioranza di un’azienda.
Un’altra strategia di gestione del rischio è quella di cercare di compensare un rischio as-
sunto con uno uguale e contrario, ottenendo un gioco a somma zero. Si pensi di trovarsi
nella situazione di puntare una certa somma sulla vittoria di un tennista nella finale tor-
neo di Wimbledon, ma allo stesso tempo di voler azzerare le probabilità di perdere la
somma puntata. In questo caso si potrebbe puntare una somma che ci consenta di otte-
nere la stessa vincita sul tennista avversario. Se uno dei due vince, è inevitabile che
l’altro perda. Compensare la scommessa in questo modo equivale a non scommettere.
Sfortunatamente, la maggior parte dei rischi a cui ci esponiamo non ci permette di indi-
viduare e compensare tutti i risultati, rendendo questa strategia un’arma a doppio taglio
pericolosissima.
La più pericolosa strategia, però, consiste nel far leva sul rischio con l’intento di molti-
plicare il pay-off atteso. Ciò porta inevitabilmente a moltiplicare il danno nel caso si ve-
rifichi un evento sfavorevole. Un esempio dell’applicazione di questa strategia si può
notare quando un’impresa prende a prestito dei soldi per investire in un’attività ad alto
rischio.
Il metodo più conosciuto ed in uso per gestire i rischi correlati ad un’attività è, infine,
l’assicurazione. Quando ci si assicura contro un evento sfavorevole, si paga un premio
all’assicuratore, che elargirà un risarcimento se e solo se quell’evento avrà luogo.
La scelta tra le varie opzioni di risk management è soggettiva, e nessuno potrà dire qua-
le sia la migliore fino a quando non se ne toccheranno con mano le conseguenze.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
24
1.4.2 Il management del rischio è una “scienza esatta” che si scontra con la
razionalità limitata degli individui. Quali sono i fattori che portano ad
un’errata valutazione e gestione dei rischi?
I problemi delle limitazioni alla razionalità degli individui sono molteplici, e possono
produrre distorsioni cognitive, con la conseguenza di portare gli individui a valutare i ri-
schi in maniera errata. Valutazioni distorte possono portare a scartare rischi “buoni” e
ad accettare l’assunzione di rischi “cattivi”. Nel processo decisionale intervengono mol-
ti fattori che interferiscono sulla nostra abilità di gestire il rischio in maniera razionale.
Non si tratta solamente di mancanza di informazioni o di limitazioni temporali, ma di
aspetti profondamente radicati nella psicologia umana [Borge, 2001].
L’eccesso di fiducia è uno di essi: solitamente siamo portati a sottostimare il range di
conseguenze negative (o positive) legate a un evento incerto. Questo fattore è determi-
nante nel processo di assunzione del rischio imprenditoriale, ed è uno dei tratti che di-
stinguono gli imprenditori, e più in generale le persone, che sono più propensi ad impe-
gnarsi in un‘attività rischiosa. Le conseguenze dell’eccesso di fiducia possono condurre
all’assunzione di rischi eccessivi o alla perdita di buone opportunità. Quest’ultimo a-
spetto accade però più di rado, perché c’è un secondo aspetto che ci porta a sottostimare
i rischi: l’ottimismo. Quasi tutti gli individui sono convinti di poter controllare gli eventi
in misura maggiore di quanto invece succede nella realtà: questo porta a percepire un
pay-off maggiore di quello che in realtà si avrebbe seguendo una valutazione razionale
dei rischi intrapresi e delle probabilità del verificarsi di eventi negativi.
La minore percezione dei rischi, che causa l’abbassamento della soglia di guardia negli
individui, è data anche dalla scarsa capacità di imparare dagli errori precedenti. Spesso
infatti gli eventi passati vengono interpretati in maniera fuorviante e non si è in grado di
ricostruire abbastanza accuratamente lo scenario precedente alla decisione di assumersi
un determinato rischio. Al contrario, si tende a distorcere tale scenario, rendendolo più
vicino a quello ottimale.La capacità di imparare dagli errori commessi nel passato si ri-
duce quindi drasticamente, rendendo difficoltosa l’identificazione e l’applicazione delle
decisioni adatte ad una situazione che si ripete nel tempo. Il processo di sensemaking
[Weick, 1979] è pregiudicato già nella fase di enactment, poiché non sono disponibili
flussi di esperienza non distorti. La selezione di tali flussi e l’attribuzione di un signifi-
cato ad essi è impossibile, e l’intera sequenza decisionale non può essere applicata in
modo efficace.
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
25
Un altro pericolo viene da quella che Borge [2001] chiama overcompensation: quando
si trova il modo di ridurre un rischio, si è tentati a comportarsi in modo da creare situa-
zioni ben più pericolose di quella che si è evitata. È il classico esempio di chi, convinto
di possedere un’auto particolarmente sicura, guida in maniera meno prudente, esponen-
dosi ancor di più al rischio di un incidente.
La cosa che più di tutte influenza negativamente la nostra capacità di affrontare il ri-
schio in maniera razionale è però una diffusa miopia, la quale si manifesta sia in rela-
zione al passato, sia rivolta agli eventi futuri. Ci si basa solo sul recente passato per pre-
vedere eventi futuri, e si fatica ad immaginare ciò che potrà accadere in un futuro che
non sia prossimo.
Da non trascurare è anche la testardaggine che porta i soggetti a ignorare possibilità al
di fuori di un particolare scenario che viene ritenuto il più probabile. Pur di non abban-
donare l’idea, si rifiuta o distorce ogni informazione in conflitto con essa.
Come abbiamo visto, la razionalità limitata è un ostacolo, ma essendo consapevoli dei
pericoli che essa porta, si può cercare di semplificare il processo decisionale e valutati-
vo, augurandosi di aver catturato l’essenza del problema. E di risolverlo.
1.4.3 Inserire un risk manager all’interno di una piccola impresa è difficile e co-
stoso. Come si deve comportare un piccolo imprenditore nel gestire il ri-
schio?
Nelle grandi aziende la figura del risk manager è ormai una costante: le grandi dimen-
sioni e la complessità del business rendono indispensabile la presenza di una funzione
indipendente in grado di riconoscere e gestire i rischi affrontati dall’azienda. In una pic-
cola impresa, dove la linea manageriale è ridotta e concentrata e molte funzioni si so-
vrappongono, è per forza di cose l’imprenditore ad assumersi anche il ruolo di risk
manager.
Il modo migliore per gestire il rischio in una piccola impresa è quello di consolidarne
l’importanza nella cultura aziendale, ricorrendo a procedure e comportamenti che, se
adottati in maniera costante, possono permettere di essere sempre al corrente dei rischi
che l’impresa sta correndo.
Il consolidamento del concetto di rischio nella cultura aziendale permette di coinvolgere
l’intera organizzazione nel processo di risk monitoring, garantendo un’ottimale copertu-
Piccole Aziende, Grandi Imprese
26
ra del rischio e la possibilità di assumersi nuovi rischi oppure di dismetterne altri non
voluti.
Un approccio strutturato al processo di gestione del rischio dovrebbe poi guidare
l’imprenditore nelle scelte strategiche da adottare di volta in volta.
Bowden, Lane e Martin [2001], schematizzano il processo di risk management come in
Figura 5.
Figura 5 Il processo di risk management
Fonte: Bowden, Lane e Martin [2001]
Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale
27
L’approccio da seguire dipende dall’ambiente in cui si inserisce un’impresa. In ambienti
relativamente stabili, con rischi conosciuti, per una piccola impresa può bastare un ap-
proccio di tipo qualitativo, mentre se l’ambiente dovesse essere turbolento ed altamente
imprevedibile è necessario adottare una gestione del rischio di tipo quantitativo. Quanti-
ficare i rischi ha molteplici vantaggi: li rende perfettamente confrontabili tra loro e dà la
possibilità di esprimerli in un’analisi di tipo costi-benefici. Rende inoltre più veloce e
semplice la gestione di eventi complessi. L’unico problema in un approccio del genere
potrebbe derivare dalla necessità di quantificare eventi solitamente non misurabili: ciò
può essere facilmente risolto tramite la definizione delle conseguenze di ogni evento,
creando scenari potenziali [Bowden, Lane e Martin, 2001, Banks, 2002].
Non è facile inserire tutto questo nel contesto di una piccola impresa, ma al giorno
d’oggi non è più possibile sottovalutare l’importanza di un’adeguata strategia di risk
management, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa.
1.5 PICCOLE AZIENDE, GRANDI E INCONSAPEVOLI RISK TAKERS
Abbiamo visto come il mondo sia regolato dal rischio e come, da situazioni di rischio, si
possa far scaturire un’iniziativa proficua.
Le dimensioni ridotte non danno l’idea dei rischi assunti dalle piccole e medie imprese,
molte volte in maniera inconsapevole. I piccoli imprenditori sono ogni giorno sottoposti
a giudizi e scelte in grado di cambiare radicalmente il profilo di rischio di un’impresa, e
molte delle decisioni che prendono racchiudono rischi impliciti anche di ingenti dimen-
sioni.
Ecco perché l’analisi delle dinamiche di assunzione del rischio imprenditoriale nelle
piccole aziende è un argomento che interessa sempre più studiosi ed imprenditori: capi-
re il processo di assunzione del rischio, essere coscienti delle proprie mappe cognitive
ed elaborare piani di gestione delle crisi e dei rischi emergenti è indispensabile per una
piccola azienda che vuole eccellere.
Non si potranno certo mobilitare le risorse di cui può disporre solo una grande impresa,
ma è essenziale che il rischio venga assimilato nella cultura aziendale, diventando
anch’esso una risorsa strategica generatrice di valore.
Uno dei punti di forza a vantaggio delle PMI italiane è la profonda integrazione con il
territorio che, rafforzata da forme organizzative di tipo aggregativo come consorzi e di-
Piccole Aziende, Grandi Imprese
28
stretti, permette una più efficiente gestione dei rischi connessi all’attività d’impresa, ap-
poggiando l’arduo compito di trovare e mantenere un vantaggio competitivo sostenibile.
2. CAPITOLO
IMPRESE ALLA RICERCA
DI CAPITALI
2.1 CAPITALI, RISCHIO E RATING
Rischio e rating sono due concetti strettamente legati tra loro: rating migliori corrispon-
dono a profili di rischio più bassi.
Le procedure di attribuzione del rating ad un’impresa riguardano soprattutto la sua di-
namica finanziaria: possiamo affermare che il rating di un’azienda e gli aspetti finanzia-
ri della gestione siano legati tra loro in maniera interdipendente, influenzandosi a vicen-
da.
La natura e il contenuto del rating, unitamente alle dinamiche finanziarie aziendali, di-
pendono dal settore e dalla fase del ciclo di vita dell’impresa.
Le imprese nascono quasi tutte da una buona idea, un’intuizione vincente che getta le
basi di un vantaggio competitivo. Le idee da sole, però, non portano da nessuna parte:
devono materializzarsi in azioni concrete, che per manifestarsi hanno bisogno
dell’apporto di capitali di varia natura.
I capitali sono poi necessari allo sviluppo dell’impresa, ed in generale durante tutto il
suo ciclo di vita. Il buon imprenditore è perciò colui che riesce a trovare i capitali adatti
ad alimentare la crescita della sua intuizione.
La natura di questi capitali differisce a seconda della fase del percorso di sviluppo del
progetto imprenditoriale.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
30
Figura 6 Gli stadi di investimento
Fonte: Bonini, Zullo, 2002 p.14
Imprese alla Ricerca di Capitali
31
Il sistema italiano delle piccole imprese è caratterizzato da alcune peculiarità rilevanti ai
fini dell’analisi delle dinamiche di reperimento dei capitali necessari ad una PMI [Perri-
ni, 1998]:
• la struttura produttiva è particolarmente frammentata, e le dimensioni medie delle
impresa sono inferiori ad altri paesi;
• le PMI sono prevalentemente a controllo familiare (oltre il 90%). Vi è la presenza
costante dell’imprenditore, affiancato da dirigenti solo per dimensioni di un certo ri-
lievo, oppure nelle generazioni successive al fondatore;
• la struttura finanziaria delle imprese è poco equilibrata e caratterizzata da un livello
di indebitamento piuttosto elevato, prevalentemente a breve termine, dove il patri-
monio dell’impresa ed il patrimonio della famiglia interagiscono.
Ci sono dei momenti in cui il capitale maggiormente necessario all’azienda non è di tipo
finanziario: ecco che entrano in gioco le persone giuste al momento giusto.
In questo capitolo si analizzerà il fabbisogno di capitali nelle varie fasi della vita di
un’azienda: dal momento dell’avvio, passando per la fase di consolidamento e sviluppo,
fino ad arrivare al momento in cui, per l’evoluzione della gestione o per altre contingen-
ze, sono necessari interventi di ristrutturazione.
2.2 AVVIO
La vita di un’impresa nasce ancora prima della sua costituzione legale. Prima che diven-
ti un soggetto giuridico legalmente riconosciuto, infatti, deve affrontare uno stadio di
sperimentazione, nel corso del quale viene elaborato il prodotto, si analizza la business
idea e, dopo aver svolto le opportune analisi di mercato, si redige un business plan.
Successivamente l’azienda viene costituita, il prodotto viene sviluppato in modo da ren-
derne possibile l’industrializzazione e si elabora un piano di marketing che ne renda
possibile la commercializzazione. Nella fase di avvio i problemi ricorrenti sono la diffi-
coltà nella valutazione dell’idea (pericoli ed opportunità connessi ad essa) e la ricerca
dei collaboratori adatti a portare avanti l’iniziativa imprenditoriale.
Dal punto di vista dell’impresa, la richiesta di capitali in fase di avvio è generalmente
riconducibile a un imprenditore, o aspirante tale, intenzionato a sviluppare una nuova
invenzione, o a migliorare un prodotto o un processo produttivo esistenti. Prima che la
nuova impresa cominci ad essere redditizia sono richiesti all’imprenditore investimenti
Piccole Aziende, Grandi Imprese
32
a volte onerosi. Inoltre, ciò di cui il portatore della nuova idea imprenditoriale ha spesso
grande bisogno è un apporto in termini di capacità imprenditoriale, di competenze a-
ziendali e manageriali. Nelle operazioni di avvio, o di early stage, l'uomo necessita
spesso, più che di un mero contributo in termini di capitali, di un aiuto nella definizione
della formula imprenditoriale e nella riflessione sulla propria posizione competitiva. Al
tempo stesso, l'investitore deve necessariamente avere fiducia non solo nelle potenziali-
tà del business, ma anche negli uomini che con lui lo condurranno.
La fase di avvio di un’azienda è probabilmente quella più rischiosa, date le dinamiche
instabili che regolano le strategie e la struttura dell’impresa. In questa fase l’apporto di
capitali è condizione necessaria alla nascita stessa dell’impresa, ma è di difficile reperi-
mento, dato che gli investitori non possono disporre di informazioni circa l’andamento
del business.
Affidarsi alle banche è pressoché impossibile, dato che non si possono fornire garanzie
a fronte del capitale di debito e il profilo di rischio è elevatissimo.
Nel caso italiano le istituzioni non aiutano il diffondersi di strumenti di finanziamento
alternativi alle banche, che rappresentano sempre la soluzione adottata con maggior fre-
quenza. Viene quindi preferita la fornitura di servizi finanziari a soggetti ampiamente
qualificati. Nel mondo anglosassone, al contrario, lo sviluppo inteso come creazione di
nuova imprenditorialità viene sostenuto dalle istituzioni mediante la creazione di incu-
batori e strutture non-for-profit (praticamente assenti in Italia) e la somministrazione di
sussidi. Affidarsi alle banche comporta notevoli oneri finanziari e una minor flessibilità,
dato il profilo di rischio elevato ed il conseguente abbassamento del rating. Lo sviluppo
di meccanismi di finanziamento alternativi alle banche e più adatti a supportare piccole
imprese in fase di avvio è il presupposto per preservare la competitività del tessuto in-
dustriale italiano, mantenendo un alto tasso di natalità senza lasciare i piccoli imprendi-
tori in balia delle molteplici avversità di un mercato sempre più globalizzato.
2.2.1 Nella fase di seed financing il fabbisogno delle imprese non è soprattutto
di natura finanziaria, per cui i venture capitalists incontrano difficoltà ad
intervenire efficacemente. Cosa serve quindi alle start up in questa fase?
Chi può soddisfare questo fabbisogno?
Le aziende che si trovano nello stadio di sviluppo iniziale, mosse dalla necessità di svi-
luppare la propria offerta, non devono fronteggiare ingenti investimenti per lo sviluppo
Imprese alla Ricerca di Capitali
33
della struttura dell’impresa. L’attività prevalente è quella di ricerca e sviluppo, per la
quale, nella maggior parte dei casi, l’imprenditore dispone già delle risorse necessarie.
In un momento delicato come quello della fase di seed financing, ciò di cui ha bisogno
l’imprenditore è il supporto nello sviluppo dell’idea e nella pianificazione del suo svi-
luppo. Più che di capitali, il fabbisogno è spiegabile in termini di servizi che rendano
possibile la costruzione di un efficiente network e che portino al raggiungimento di eco-
nomie di scala e di scopo, pur mantenendo intatta la libertà d’iniziativa
dell’imprenditore.
La risposta a questo fabbisogno viene dagli incubatori.
Con il termine incubatore si intende un’istituzione che interagisce con potenziali sogget-
ti imprenditori, offrendo servizi e, talvolta, risorse finanziarie, con l’obiettivo di favorire
e sostenere l’avvio di nuove forme d’impresa. Il valore aggiunto consiste
nell’accelerazione del processo di costituzione dell’impresa e nell’incremento delle pos-
sibilità potenziali di sopravvivenza e di successo sul mercato [Gervasoni, 2004].
Figura 7 L’influenza dell’incubatore nello sviluppo iniziale dell’impresa
Fonte: Gervasoni, 2004 p. 28
Gli incubatori presentano notevoli vantaggi rispetto ad altre forme di finanziamento.
Piccole Aziende, Grandi Imprese
34
Non avendo grosse interferenze nella governance aziendale, la flessibilità e l’autonomia
decisionale dell’imprenditore restano intatte, a differenza di quanto accade ad esempio
con i venture capitalists. L’ingerenza di finanziatori esterni in ruoli decisionali o co-
munque di controllo (come nel caso di formulazione di patti parasociali in conseguenza
all’entrata di venture capital), può risultare gravemente limitante nelle fasi embrionali
del progetto. I problemi possono essere ricondotti alla presenza di asimmetrie informa-
tive, che pongono l’imprenditore nella condizione di detenere informazioni potenzial-
mente critiche sconosciute al venture capitalist. Ciò può portare il finanziatore ad agire
in maniera prevenuta per tutelarsi, ostacolando anche in maniera inconsapevole il cor-
retto sviluppo del progetto imprenditoriale e con il rischio di danneggiare i suoi stessi
profitti futuri.
Tabella 3 Venture Capitalists e incubatori
VENTURE CAPITALISTS INCUBATORI
ECONOMIE
DI SCALA
E DI SCOPO
BASSO
Le start up venture backed ac-
quistano servizi e consulenza in
completa autonomia
MEDIO
È consentito l’accesso a servizi e ri-
sorse comuni che consentono alle
start up un consistente risparmio di
tempo
SPIRITO
IMPRENDITORIALE
ELEVATO
Il venture capitalist è, per defini-
zione, un socio temporaneo
dell’imprenditore
ELEVATO
Gli imprenditori liberi da strutture ec-
cessivamente burocratizzate parteci-
pano in prima persona al rischio
d’impresa
ACCESSO
AL NETWORK
BASSO
Un venture capitalist può anche
disporre di un eccellente network,
ma tende a rimanere un partner
singolo
ELEVATO
Viene organizzato un sistema di rela-
zioni sia tra gli start up interni
all’incubatore, sia con partner strategi-
ci
Fonte: Gervasoni, 2004
Un altro vantaggio degli incubatori è quello di fornire alle imprese incubate una gamma
di servizi ed infrastrutture che permettono di sfruttare già dall’inizio economie di scala e
di scopo. Tra i servizi a disposizione, sono prevalenti l’assistenza manageriale attiva,
l’accesso a canali privilegiati di finanziamento ed il supporto nell’utilizzo di servizi tec-
nici e di business. Oltre a questi servizi, gli incubatori mettono a disposizione servizi
d’ufficio, attrezzature ed ampi spazi per implementare l’attività di business [Bonini,
Zullo, 2002].
Imprese alla Ricerca di Capitali
35
Figura 8 Principali servizi offerti dagli incubatori
Fonte: Gervasoni, 2004
La condivisione di queste risorse tra le imprese incubate abbassa i costi fissi e permette
di ottimizzare le modalità di intervento, creando tra le altre cose economie di apprendi-
mento tramite le quali l’incubatore potrà fornire servizi simili a costi decrescenti nel
tempo.
All’interno dell’incubatore sono inoltre incentivate e ricercate le collaborazioni tra le
diverse start-up. Questo permette di sviluppare fin da subito un network efficiente che
permette all’impresa di affacciarsi sul mercato potendo contare su una rete consolidata
di relazioni e partnership, così da facilitare il flusso di conoscenze e di talenti tra le a-
ziende [Gervasoni, 2004].
Piccole Aziende, Grandi Imprese
36
Il caso Altoprofilo, approfondito nel Box 3, dimostra come un incubatore sia in grado di
fornire tutto il supporto necessario per l’avvio di un’impresa ad alto contenuto innovati-
vo.
Box 3 Il caso Altoprofilo
Altoprofilo è una società di business integration fondata nel marzo 2000. Offre servizi alle imprese nel
campo delle soluzioni tecnologiche innovative per l’accelerazione e il miglioramento dei processi organiz-
zativi aziendali (portali formativi aziendali, portali di e-commerce, progetti web-based per la comunicazione
interna, portali di banking on-line, soluzioni wireless multi-canale e multi-device, sistemi di riconoscimento
vocale).
Altoprofilo, nella fase di avvio dell’attività, ha utilizzato i servizi promossi dall’incubatore privato MyQube,
che opera anche come società di venture capital e che ha permesso la realizzazione dell’idea imprendito-
riale.
L’idea è stata proposta nel gennaio del 2000 ad un incubatore privato, MyQube (al quale aderiscono il
Gruppo Benetton, Mediobanca, Merril Lynch, Caltagirone, Banca Intesa, Camfin e Gazzoni Frascara).
Il rapporto con investitori autorevoli dà sicurezza alle persone della community di Altoprofilo. Inoltre,
l’ingresso di MyQube permette di avere a disposizione il supporto economico e logistico per favorire il ra-
pido sviluppo della società.
Dopo l’accordo con l’incubatore, l’azienda nasce formalmente a Milano nel marzo del 2000. Altoprofilo ha
avviato l’attività con tre persone, per arrivare a 93 collaboratori (tra grafici, ingegneri, psicologi, semiologi,
ecc.) nel luglio 2001, con due sedi una a Milano e una a Boston.
Nella fase di start-up sono state affrontate molte questioni delicate come la costruzione della credibilità,
che è stata affrontata cercando di avere un approccio aziendale professionale più che artigianale e la ri-
cerca di collaboratori di alto livello sia sul lato dell’innovazione tecnologica, sia dal lato dei business deve-
lopers, per la gestione della parte commerciale.
Sempre in MyQube Altoprofilo ha trovato a pagamento servizi di consulenza legale e di comunicazione da
professionisti preparati.
Altoprofilo non ha usufruito nella fase di start-up di nessun tipo di sostegno pubblico, perché considerato
troppo lento, rigido e poco stimolante nei confronti della crescita dell’autonomia imprenditoriale. Oltre a ri-
sorse proprie, tuttavia, la scelta è caduta sulle risorse e le conoscenze dell’incubatore privato MyQube,
che possiede una quota azionaria dell’azienda e che ha fornito risorse finanziarie.
Secondo i soci di Altoprofilo l’incubatore privato – ad un certo prezzo, ma con maggiore rapidità ed elasti-
cità di incubatori che operano con la filosofia del settore pubblico – ha messo a disposizione risorse finan-
ziarie ed infrastrutturali.
Gli imprenditori che hanno dato vita ad Altoprofilo hanno evidenziato inoltre come la conoscenza dei vinco-
li burocratici ed amministrativi sia una risorsa rara e molto preziosa per una azienda neonata. In questa
prospettiva oggi in Italia manca una struttura che offra soluzioni e risposte alle domande di natura ammini-
strativa, fiscale, legale, compiute da chi desidera avviare una nuova impresa.
Fonte: Pyrenean-Alpine Network of Entrepreneurial Liaisons
2.2.2 Il problema della ricerca di capitali durante la fase di avvio riguarda an-
che il commitment dell’investitore, che può venire a mancare a causa
della scarsa fiducia nel progetto imprenditoriale. A chi ci si può rivolgere
per risolvere questo problema?
Per un’impresa in fase di avvio l’accesso al credito bancario è pressoché impossibile.
Oltre al problema della ricerca di un istituto di credito che conceda un finanziamento, si
verifica infatti anche il problema di avere a che fare con tassi di interesse troppo alti ed
insostenibili.
L’alternativa al credito bancario è rappresentata dai cosiddetti investitori informali, che
possono essere business angels o venture capitalists. La differenza tra i due è notevole: i
business angels sono per lo più dirigenti d’azienda in pensione o investitori che voglio-
Imprese alla Ricerca di Capitali
37
no ampliare il proprio portafoglio di investimenti e che impiegano tipicamente fondi di
loro proprietà, al contrario dei venture capitalists, che gestiscono fondi costituiti da ca-
pitale di terzi [Elitzur e Gavious, 2003].
I business angels investono capitali nelle imprese prima di quanto non lo faccia un fon-
do di venture capital. Non si tratta solo di capitali di natura finanziaria, ma di qualsiasi
tipo di beni tangibili (denaro, prodotti, servizi, materie prime, macchinari, immobili,
crediti, marchi e brevetti, …) ed intangibili (contatti, reputazione, idee, conoscenza, e-
sperienza, abilità, istruzione, ...). Proprio per questa varietà del portato di un business
angel esso può essere visto, più che come un finanziatore vero e proprio, comea un “fa-
cilitatore”, che gioca un ruolo importante nella ricerca di altri capitali di debito, partners
strategici e contatti con venture capitalists [Sorheim, 2005].
Ciò che spinge un business angel ad impiegare parte del suo patrimonio per aiutare la
causa di un’impresa è identificabile in due parametri: le motivazioni e la propensione al
rischio [Diotallevi, 2005].
Figura 9 Un modello di classificazione dei business angels in base a motivazioni e pro-
pensione al rischio
Fonte: Diotallevi, 2005
Le motivazioni possono essere di tre tipi:
• Motivazioni interne: sono legate al rapporto con l’imprenditore e la sua iniziativa e
possono essere dettate dal desiderio di aiutare il promotore dell’impresa (ad esempio
un padre che aiuta il figlio nella realizzazione della sua idea imprenditoriale), dalla
volontà di ottenere vantaggi commerciali (essere futuri fornitori o clienti della nuova
Piccole Aziende, Grandi Imprese
38
azienda) o l’ottenimento di preferenze da parte dell’imprenditore (per esempio
l’assunzione di determinate persone all’interno dell’impresa).
• Motivazioni esterne: derivano dalla ricerca di soluzioni a problemi non legati al pro-
motore e alla sua iniziativa. Tali motivazioni possono venir generate dalla ricerca di
benefici strutturali all’attività del business angel (interesse di filiera), dalla promo-
zione dell’imprenditoria locale (nel caso di Comuni e altre istituzioni) e dalla ricerca
di soluzioni ad un proprio problema finanziario (come lo smobilizzo di un credito).
• Motivazioni finanziarie: è il caso del business angel classico. L’investimento in una
nuova iniziativa imprenditoriale viene visto come una scelta di portafoglio diretta a
far fruttare il capitale in possesso dell’investitore.
Allo stesso modo, si distinguono tre gradi di propensione al rischio:
• Forte: il rischio di perdita di capitali è accettato, nell’immediato (apporto di contanti)
o a scadenza (apporto di garanzie).
• Media: il rischio accettabile è solo quello di una perdita di valori trasformabili in ca-
pitali, come un credito o dei beni.
• Debole: il rischio accettato riguarda solo la perdita di valori intangibili o tangibili ma
non essenziali, come ad esempio guadagni futuri, reputazione o tempo (impiegato per
consulenze).
Il business angel è una figura che per le sue caratteristiche ha un grado di commitment
maggiore delle fonti alternative di capitale e per questo motivo si adatta particolarmente
bene alle iniziative imprenditoriali nelle primissime fasi della sua vita.
Box 4 Giovani business angel italiani crescono
È un uomo, mediamente ha 48 anni, risiede al Nord e ha un patrimonio personale che nel 50% dei casi
non supera i cinquecentomila euro. E' questo il sintetico ritratto del business angel italiano (o investitore in-
formale) che emerge da una ricerca realizzata dalla Bocconi in collaborazione con l'Iban (Italian business
angel network association).
Figura importante nel mondo dell'innovazione e dei finanziamenti alle start up, il Business angel è "Un por-
tatore di risorse non solo finanziarie" nelle aziende in cui investe come ha sottolineato Emil Abirascid, il
giornalista del Sole 24 Ore che ha moderato l'incontro di presentazione della ricerca.
Per i suoi investimenti, che crescono del 50-60% rispetto allo scorso anno, il Ba predilige le prime fasi di
vita di una nuova azienda dove oltre ai soldi può apportare anche la sua competenza manageriale. La
maggioranza si considera infatti un imprenditore e rispetto al passato diminuiscono le figure dei consulenti
e pensionati.
Il Business angel italiano, infatti, ha un'età media di gran lunga inferiore rispetto ai colleghi europei o ame-
ricani (la metà dice di avere iniziato a investire prima dei 35 anni). Sembra quasi che la sua attività non
corrisponda a quella sorta di "give back" in voga nei paesi anglosassoni (a una certa età ci si ritira dal lavo-
ro attivo per dedicarsi ad altre attività che in genere permettano di restituire alla società parte di quello ri-
cevuto in una vita di successo), ma a una reale attività imprenditoriale. Più probabilmente, però, il Ba af-
fianca questa attività ad altre tanto che nell'investimento dichiara di cercare, oltre all'ovvio alto rendimento,
la gratificazione personale, il ruolo di imprenditore e un ruolo sociale.
Imprese alla Ricerca di Capitali
39
Presumibilmente la metà del campione di 110 Ba ha un patrimonio superiore al milione di euro, il 70% af-
ferma di investire una quota fino al 30% e gli altri il 50%. Di solito fanno più di una operazione l'anno, con
punte fino a cinque, che conoscono grazie a una solida rete di relazioni. Più difficile che il contatto arrivi da
banche e ancora meno da università e centri di ricerca.
La forma societaria preferita è la Srl e al momento di decidere se e quanti soldi piazzare il Ba valuta so-
prattutto il livello manageriale della squadra, la validità del prodotto o del servizio e il potenziale di crescita.
L'exit non pare fondamentale anche se due su tre sono convinti che è importante definirlo prima di entrare
nella società.
A proposito di exit, in ordine di importanza, si parla soprattutto di riacquisto da parte di chi ha proposto l'in-
vestimento, di ingresso di un investitore di maggiori dimensioni o di un partner industriale. Il mondo
Ict/Internet è il settore principale di investimento, mentre cala il manifatturiero e sale l'energia.
Seed, start up ed early stage sono le fasi di vita dell'azienda in cui di solito interviene il Business angel che
acquista una quota di minoranza, opera prevalentemente da solo (ma il 40% ha uno o più partner), sta in
media 3,3 anni nell'azienda e alla fine si porta a casa un guadagno medio del 17% (con punte del 40%).
Ma il 40% i suoi soldi non li ha più visti.
2.2.3 Quali sono i fattori che rendono attrattiva un’impresa in fase di avvio agli
occhi degli investitori?
Si discute molto sulle varie alternative di finanziamento a cui può attingere un impren-
ditore per garantire una solida base alla sua iniziativa, ma ciò che conta, oltre alle fonti,
sono i comportamenti da mettere in atto per suscitare interesse negli investitori, aggiu-
dicandosi trattamenti vantaggiosi e l’attenzione di un buon numero di potenziali portato-
ri di capitale. Il gap culturale presente tra imprenditori ed investitori è ricostruibile ana-
lizzando le diverse nature della loro attività. Una persona che vuole rendere redditizia
una buona idea è solitamente un esperto del settore nel quale è stata generata l’idea stes-
sa, e non ha mai avuto a che fare con i mercati finanziari che regolano le decisioni di in-
vestimento nelle start-up. Al contrario, gli operatori di tali mercati faticano a valutare la
bontà di un prodotto o di un processo innovativo in quanto mancano loro le conoscenze
tecniche necessarie a comprendere appieno il potenziale dell’iniziativa.
Un investitore deve quindi basare le sue decisioni su fattori decisionali conosciuti, il più
importante dei quali risulta essere la bontà del management [Holland, 2006].
In particolare, le start-up non devono essere guidate da un singolo individuo, ma sareb-
be indicato che il team manageriale fosse composto da più persone. Questo perché il bu-
siness dev’essere sostenibile anche in assenza del proprietario e devono esistere diffuse
capacità manageriali [Mason e Harrison, 2000].
Una soluzione di questo tipo porta a ridurre il rischio percepito dagli investitori, in
quanto i valori e la cultura aziendale continuerebbero a persistere anche nel caso in cui
venissero a mancare figure chiave nell’organizzazione, ed il commitment della compa-
gine imprenditoriale non risulterebbe intaccato in nessun modo dalla defezione. La fidu-
cia nei confronti del management si traduce in una maggior disponibilità di finanzia-
Piccole Aziende, Grandi Imprese
40
menti in fase di avvio, unita ad una minor onerosità degli stessi derivante dalle migliori
condizioni di credito concesse.
In una fase durante la quale la generazione di profitti è ampiamente compromessa
dall’entità degli investimenti iniziali, buoni rapporti con gli investitori sono fondamen-
tali per garantire una sufficiente copertura finanziaria all’impresa: in questo senso le
imprese devono cercare di incontrare la domanda di informazione dei potenziali portato-
ri di capitali, perseguendo quella che i mercati chiamano investment readyness.
2.3 CONSOLIDAMENTO E SVILUPPO
L’impresa avviata verso la fase di maturità necessita di continuare la sua evoluzione,
consolidando i risultati raggiunti e gettando le basi per lo sviluppo. Solitamente in que-
sto stadio della vita di un’azienda il portato dell’imprenditore non è più sufficiente e si
delinea la necessità di poter usufruire di mezzi monetari e competenze tecniche di terzi
[Compagno, 2003].
In questa fase si avranno prevalentemente investimenti materiali, necessari per adeguare
la capacità produttiva (tramite investimenti strutturali) e l’operatività delle altre funzioni
aziendali (approntamento della rete distributiva). Non trascurabili saranno però gli inve-
stimenti di natura immateriale, quali marketing, spese pubblicitarie e promozionali [Per-
rini, 1998].
Il canale privilegiato per l’accesso a mezzi finanziari non propri in questa fase della vita
dell’impresa è quello del credito bancario. I rapporti con le banche diventano quindi
fondamentali e devono essere gestiti al meglio al fine di ottenere finanziamenti a condi-
zioni sostenibili. Soprattutto nel caso delle piccole imprese, come abbiamo già visto ed
approfondiremo ora, ciò non è sempre facile: vincoli culturali ed ambientali pregiudica-
no il successo delle azioni di ricerca di capitale bancario, con conseguenze potenzial-
mente disastrose. La situazione attuale è ulteriormente complicata dall’introduzione del
Nuovo Accordo sul Capitale degli intermediari finanziari, da molti conosciuto anche
come “Basilea 2”.
Basilea 2 consiste in un miglioramento dello schema di adeguatezza patrimoniale delle
banche, che impatta direttamente ed in modo rilevante sulle modalità di operare delle i-
stituzioni finanziarie. Il nuovo accordo include un complesso di regole dirette sia a di-
sciplinare l’attività d’assunzione del rischio da parte delle banche, tramite coefficienti
Tesi-EPasqualin_Definitivo
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  • 1. Università degli Studi di Padova Facoltà di Economia CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN ECONOMIA AZIENDALE PICCOLE AZIENDE, GRANDI IMPRESE. IL RISCHIO IMPRENDITORIALE E LE SUE DINAMICHE Relatore: Ch.mo Prof. Paolo Gubitta Laureando Enrico Pasqualin Matricola 542061 Anno Accademico 2007/2008
  • 2.
  • 3. INDICE INTRODUZIONE E SINTESI........................................................................................1
 1.
 CAPITOLO ................................................................................................................................................3
 PICCOLE IMPRESE E RISCHIO IMPRENDITORIALE ......................................................3
 1.1
 Rischio e Iniziativa.....................................................................................................3
 1.2
 Le Persone e la Propensione al Rischio......................................................................5
 1.2.1
 Che cos’è il rischio imprenditoriale?...................................................................................................... 6
 1.2.2
 Perché gli imprenditori sono più propensi al rischio delle altre persone? La stessa propensione al rischio è riscontrabile anche nei manager non imprenditori?................................................................................. 8
 1.2.3
 La variabile culturale può influenzare la propensione al rischio degli imprenditori? .......................... 10
 1.3
 Rischio, Organizzazione e Territorio .......................................................................12
 1.3.1
 La progettazione organizzativa e, in particolare, la scelta della struttura organizzativa possono essere strumenti per gestire il rischio imprenditoriale?................................................................................................... 13
 1.3.2
 La localizzazione delle imprese, come dimostrano i processi di shopping territoriale in alcuni settori, è un ulteriore elemento che influenza il rischio di impresa. Perché? ................................................................... 15
 1.3.3
 Fino ad ora si è parlato di come è possibile controllare i rischi mediante l’azione sull’ambiente esterno. Come si può gestire il rischio dall’interno? ............................................................................................ 19
 1.4
 Il Management del Rischio: Strumenti e Applicazioni ............................................20
 1.4.1
 Quali sono le strategie fondamentali di risk management? .................................................................. 22
 1.4.2
 Il management del rischio è una “scienza esatta” che si scontra con la razionalità limitata degli individui. Quali sono i fattori che portano ad un’errata valutazione e gestione dei rischi? ................................. 24
 1.4.3
 Inserire un risk manager all’interno di una piccola impresa è difficile e costoso. Come si deve comportare un piccolo imprenditore nel gestire il rischio? .................................................................................. 25
 1.5
 Piccole Aziende, Grandi e Inconsapevoli Risk Takers.............................................27
 2.
 CAPITOLO ..............................................................................................................................................29
 IMPRESE ALLA RICERCA DI CAPITALI .....................................................................29
 2.1
 Capitali, Rischio e Rating.........................................................................................29
 2.2
 Avvio........................................................................................................................31
 2.2.1
 Nella fase di seed financing il fabbisogno delle imprese non è soprattutto di natura finanziaria, per cui i venture capitalists incontrano difficoltà ad intervenire efficacemente. Cosa serve quindi alle start up in questa fase? Chi può soddisfare questo fabbisogno?....................................................................................................... 32
 2.2.2
 Il problema della ricerca di capitali durante la fase di avvio riguarda anche il commitment dell’investitore, che può venire a mancare a causa della scarsa fiducia nel progetto imprenditoriale. A chi ci si può rivolgere per risolvere questo problema? ...................................................................................................... 36
 2.2.3
 Quali sono i fattori che rendono attrattiva un’impresa in fase di avvio agli occhi degli investitori?... 39
 2.3
 Consolidamento e Sviluppo......................................................................................40
 2.3.1
 Le banche si fidano delle imprese?....................................................................................................... 41
 2.3.2
 L’applicazione di Basilea2 da molti viene interpretata come una spersonalizzazione dei rapporti tra imprese e banche. Qual è il significato del termine spersonalizzazione in questo contesto?............................... 43
 2.3.3
 Quali sono le implicazioni del processi di spersonalizzazione per le piccole e medie imprese? ......... 45
 2.4
 Ristrutturazione, Crisi e Cambiamento ....................................................................48
 2.4.1
 Quali sono le cause che portano alla ristrutturazione, e quali le strategie di ristrutturazione?............. 49
 2.4.2
 Abbiamo affermato che nelle fasi di ristrutturazione di un’azienda servono competenze manageriali forti e know-how specifici: chi è la figura a cui le piccole imprese si possono appoggiare per affrontare il cambiamento?....................................................................................................................................................... 51
 2.4.3
 Come può intervenire un contract manager in una piccola impresa? .................................................. 54
 2.5
 Piccole Aziende, Grandi Ostacoli.............................................................................56

  • 4. Piccole Aziende, Grandi Imprese II 3.
 CAPITOLO ..............................................................................................................................................57
 LA COMUNICAZIONE CON GLI STAKEHOLDERS FINANZIARI......................................57
 3.1
 La Domanda di Informazioni ...................................................................................57
 3.2
 Comunicare con gli Stakeholders.............................................................................58
 3.2.1
 Come si implementa una comunicazione efficace verso i potenziali investitori? ................................ 59
 3.2.2
 L’efficacia della comunicazione verso l’esterno dell’impresa si ha solamente se esiste un’efficace comunicazione interna. Come è possibile raggiungere entrambi i risultati?........................................................ 61
 3.2.3
 Come dovrebbe comunicare un’azienda trasparente?........................................................................... 62
 3.3
 Comunicare il Rischio..............................................................................................65
 3.3.1
 Comunicare i rischi potenziali per l’impresa, secondo alcuni significa mettere in luce i punti deboli di un’organizzazione e renderla quindi più vulnerabile alle azioni della concorrenza. È quindi utile la comunicazione del rischio? .................................................................................................................................. 66
 3.3.2
 Quali sono gli obiettivi di un’efficace comunicazione del rischio?...................................................... 67
 3.3.3
 Quali sono i fattori che influenzano la strategia di risk communication?............................................. 68
 3.4
 Corporate Social Responsibility...............................................................................69
 3.4.1
 È opinione di molti che l’attuazione di politiche di CSR sia una caratteristica esclusiva delle grandi aziende. Alcuni studi dimostrano però che nel mondo delle piccole aziende qualcosa si sta muovendo. Quali sono le prospettive di sviluppo del fenomeno per le PMI? .................................................................................. 71
 3.4.2
 Quali sono gli strumenti a disposizione delle imprese per comunicare efficacemente la propria responsabilità sociale? .......................................................................................................................................... 75
 3.4.3
 Fare business etico è ormai una moda diffusa, soprattutto tra le grandi imprese. Inizia però a consolidarsi un fenomeno che vede molte piccole imprese cooperare ed intrecciare i loro business ponendo al centro di questa cooperazione l’attenzione verso le questioni sociali, non solo in un’ottica di profitto: come si spiega questa nuova tendenza?............................................................................................................................. 79
 3.5
 Piccole Aziende, Grandi Responsabilità ..................................................................81
 4.
 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI .....................................................................................................................83
 BIBLIOGRAFIA......................................................................................................83
 4.1
 Libri e articoli...........................................................................................................83
 4.2
 Altri materiali ...........................................................................................................86
 4.3
 Siti internet ...............................................................................................................86

  • 5. Indice III INDICE BOX, TABELLE E FIGURE Box 1
 Il sensemaking.............................................................................................................5
 Box 2
 Quando la squadra funziona, è grande mela..............................................................15
 Box 3
 Il caso Altoprofilo .....................................................................................................36
 Box 4
 Giovani business angel italiani crescono...................................................................38
 Box 5
 La Soft Information...................................................................................................43
 Box 6
 Noi, dirigenti col timer..............................................................................................53
 Box 7
 Il rilancio di un nome storico della camiceria italiana ..............................................55
 Box 8
 Che cos’è la CSR?.....................................................................................................70
 Box 9
 Microimprese e CSR .................................................................................................75
 Box 10
 L’identificazione degli stakeholders nel bilancio sociale di T&D............................78
 Box 11
 L’identità del consorzio Altromercato ......................................................................80
 Tabella1
 Tipologia di business risks ..........................................................................................7
 Tabella 2
 Con quali strategie le PMI devono affrontare il mercato per rimanere competitive? ..............................................................................................................14
 Tabella 3
 Venture Capitalists e incubatori ................................................................................34
 Tabella 4
 Le cause della ristrutturazione...................................................................................50
 Tabella 5
 Le strategie di ristrutturazione...................................................................................51
 Figura 1
 Il processo di assunzione del rischio ...........................................................................8
 Figura 2
 Relazione tra esperienza e capacità di identificare nuove opportunità .....................10
 Figura 3
 Con quali strategie le PMI devono affrontare il mercato per rimanere competitive? ..............................................................................................................14
 Figura 4
 Tipologie di marchi collettivi....................................................................................18
 Figura 5
 Il processo di risk management.................................................................................26
 Figura 6
 Gli stadi di investimento ...........................................................................................30
 Figura 7
 L’influenza dell’incubatore nello sviluppo iniziale dell’impresa..............................33
 Figura 8
 Principali servizi offerti dagli incubatori...................................................................35
 Figura 9
 Un modello di classificazione dei business angels in base a motivazioni e propensione al rischio.........................................................................37
 Figura 10
 La Soft Information...................................................................................................44
 Figura 11
 Il processo di integrazione in UniCredit Group ........................................................45
 Figura 12
 Caratteristiche di una “banca-fabbrica” ....................................................................46
 Figura 13
 Caratteristiche della "Banca del Cuore"....................................................................47
 Figura 14
 I tre livelli della trasparenza nella comunicazione aziendale...................................64
 Figura 15
 La risk disclosure ......................................................................................................69
 Figura 16
 Canali di comunicazione con il personale.................................................................72
 Figura 17
 Servizi aggiuntivi per il personale nelle PMI............................................................73
 Figura 18
 PMI che hanno effettuato donazioni e/o erogazioni liberali ....................................74
 Figura 19
 Destinazioni delle donazioni e/o erogazioni ............................................................74

  • 6.
  • 7. INTRODUZIONE E SINTESI Le piccole imprese sono al centro della nostra economia, rappresentando oltre il 95% di tutte le imprese e fornendo quasi il 70% dell’occupazione. L’imprenditorialità, intesa come la propensione delle persone ad innovare assumendosi rischi anche considerevoli a fronte dell’opportunità di trarre un guadagno, è fondamen- tale per mantenere competitivo il tessuto industriale italiano ed europeo. Il mio lavoro tratta delle dinamiche dell’imprenditorialità, concentrandosi sulla perce- zione e l’assunzione del rischio imprenditoriale e la sua influenza sulla gestione delle piccole e medie imprese. In particolare, nella prima parte si cercano di spiegare i meccanismi di percezione del ri- schio ed il processo di assunzione del rischio, indagando sul perché alcune persone sono più propense di altre all’attività imprenditoriale. Verrà dato spazio alle tecniche di ge- stione del rischio ed al ruolo importante svolto dal territorio e dall’ambiente organizza- tivo nella definizione delle strategie di risk management. Nel secondo capitolo si sposterà invece l’attenzione su come il rischio può influenzare le attività di ricerca di capitali finanziari e non da parte delle piccole imprese nelle di- verse fasi del loro ciclo di vita. La terza sezione, infine, sarà dedicata alla comunicazione con gli stakeholders finanzia- ri. La comunicazione è ormai fondamentale per ogni azienda che voglia raggiungere una buona solidità basata sul vantaggio competitivo. Negli ultimi tempi, soprattutto, si stan-
  • 8. Piccole Aziende, Grandi Imprese 2 no evolvendo le tecniche di comunicazione del rischio e della responsabilità sociale d’impresa, concetti che verranno discussi alla fine di questa tesi.
  • 9. 1. CAPITOLO PICCOLE IMPRESE E RISCHIO IMPRENDITORIALE 1.1 RISCHIO E INIZIATIVA Fin dai tempi più antichi, scommettere, la vera essenza dell’assunzione di un rischio, è stata uno dei più diffusi passatempi e spesso addirittura una dipendenza. Le persone so- no sempre state attirate dal gioco d’azzardo e dalle scommesse perché queste attività portano l’essere umano a confrontarsi faccia a faccia con il fato. Si accetta la sfida per- ché si è tutti convinti di avere un potente alleato: la fortuna, che si interporrà tra noi e gli eventi sfavorevoli fino a portarci alla vittoria. Adam Smith, profondo conoscitore della natura umana, non a caso definiva la motivazione come “l’esagerata fiducia che la mag- gior parte degli uomini ha nelle proprie abilità e la loro assurda presunzione di essere fortunati” [Bernstein, 1996]. Nelle società occidentali contemporanee l’aspirazione al controllo sulla propria vita ha acquistato una grandissima importanza ed è proprio al concetto di rischio che si fa ricor- so per spiegare le deviazioni dalla norma, la sfortuna o gli eventi sfavorevoli. La base simbolica delle nostre incertezze è l’ansia creata dal disordine, e la tensione che deriva dal timore di perdere il controllo su di noi stessi e sui rapporti con gli altri. Non vi è certo impassibilità di fronte a questi timori, ma si ricorre a buon grado alle strategie preventive che si ritengono più opportune. Facciamo appello al pensiero razio- nale e ai metodi che ci permettono di individuare le minacce prima che si traducano in realtà. Diverse teorie analizzano il rischio, prendendo strade diverse ed interpretandolo sotto differenti punti di vista [Lupton, 2003]. La teoria cognitivista presenta un approccio tecnico-scientifico al rischio, definendolo come il prodotto delle probabilità e delle conseguenze del verificarsi di un evento av-
  • 10. Piccole Aziende, Grandi Imprese 4 verso. Il focus in questo caso è puntato sulla misurabilità oggettiva dei rischi e sullo svi- luppo di modelli causali che analizzano le modalità di valutazione del rischio e le con- seguenti reazioni dei soggetti interessati dall’evento. L’ipotesi è che i rischi siano misu- rabili e che eventuali asimmetrie informative riguardo alla natura del rischio conducano a distorsioni nella valutazione dello stesso. Le teorie del costruttivismo sociale prediligono gli aspetti sociali e culturali del rischio. A tal proposito si può operare una distinzione in costruttivismo debole e costruttivismo forte. Il costruttivismo debole assume che i rischi rimandino a dati di fatto oggettivi e ri- gorosamente calcolabili (riprendendo in certi tratti l’approccio cognitivista), ma che le percezioni degli individui siano necessariamente mediate da processi culturali, sociali e politici. Viene definito costruttivismo forte, invece, il filone di teorie i cui esponenti so- stengono che nulla è un rischio in se stesso: ciò che ci appare sotto forma di “rischio” è il prodotto di un modo di vedere storicamente, socialmente e politicamente determinato. Il costruttivismo aiuta a spiegare perche le persone possono decidere di impegnarsi in attività considerate rischiose: i modelli mentali che le persone utilizzano per elaborare i loro giudizi sui rischi vanno interpretati come convenzioni e cultura condivise. La cultu- ra contribuisce in questo caso al formarsi di una nozione di rischio collettiva, che può vedere i rischi correlati a determinate iniziative come “buoni”, incoraggiando l’intrapresa di tali iniziative. Tra gli studiosi più significativi di questa teoria emerge la figura di Ulrich Beck [1986], il quale sostiene che le società occidentali contemporanee stanno vivendo in un epoca di transizione che sta portando la società industriale a trasformarsi in una società del ri- schio. In questa fase di transizione la produzione di ricchezza procede di pari passo con la produzione di rischi, moltiplicatisi in seguito al processo di modernizzazione. Il pro- blema principale non è più quello della produzione e distribuzione della ricchezza, ma si sta spostando sempre più nella prevenzione e riduzione dei rischi correlati a queste atti- vità. Se il rischio è un tema così attuale e così legato alla generazione di profitto, allora le imprese con l’ambizione ad eccellere dovranno saper riconoscere e gestire i rischi legati alla natura stessa del concetto di imprenditorialità.
  • 11. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 5 Il primo capitolo affronterà il tema del rischio visto dalla prospettiva delle piccole e medie imprese e degli imprenditori che si confrontano ogni giorno con i rischi e le op- portunità che derivano dalle loro decisioni quotidiane e straordinarie. 1.2 LE PERSONE E LA PROPENSIONE AL RISCHIO Il rischio è parte del quotidiano, ma ci sono alcune attività, come quella imprenditoriale, che ne risultano più esposte di altre. L’imprenditore è il primo decisore rispetto alle scelte di mercato, di organizzazione, finanziarie e di prodotto della sua azienda e come tale deve tollerare il rischio meglio di altri. D’altro canto, molto spesso ad elevati rischi corrisponde un commisurato pay-off in caso di successo. Le imprese operano in ambienti dove fattori come la globalizzazione, la tecnologia, le ristrutturazioni, i cambiamenti nei mercati, la concorrenza e la regolamentazione creano incertezze. L’incertezza rappresenta sia un rischio sia un’opportunità, e può potenzial- mente ridurre o accrescere il valore creato per gli stakeholders [Steinberger et al., 2006]. Il contesto che si trova ad affrontare un soggetto che decide di avviare una nuova inizia- tiva imprenditoriale è solitamente turbolento e caratterizzato da elevata variabilità, e quindi rischioso. Non tutti gli individui hanno una propensione al rischio tale da voler investire tempo e denaro in un’iniziativa dal guadagno non certo. La differenza risiede nelle motivazioni: ci sono attori motivati dal potenziale guadagno, altri invece traggono le loro motivazioni da bisogni di sicurezza, quindi tendono a ridurre il rischio. L’imprenditore si caratterizza per una tendenza a vedere certe situazioni di potenziale guadagno con maggiore positività rispetto a chi non è imprenditore, punti di forza ed opportunità dove gli altri vedono debolezze e pericoli. Non vede sé stesso come un in- cosciente che si espone al rischio, ma persegue opportunità che altri non prendono in considerazione, semplicemente perché le vede da un diverso punto di vista [Forlani e Mullins, 2000]. Questo approccio è coerente con la teoria cognitivista [Palich e Bagby, 1995] e, più nello specifico, con la teoria del sensemaking [Weick, 1979]. Box 1 Il sensemaking Il contributo di K. Weick al filone di studi cognitivista permette di interpretare il processo di percezione del rischio negli individui. Secondo Weick l’ambiente è come un’entità continuamente costruita dagli attori organizzativi, che sfrutta- no le proprie mappe cognitive (processi cognitivi di creazione di senso) per dare un senso a ciò che li cir- conda.
  • 12. Piccole Aziende, Grandi Imprese 6 Il sensemaking si divide in tre fasi: La fase di enactment consiste nella raccolta di dati e di flussi di esperienza, che verranno poi selezionati e interpretati durante la fase di selezione, dando come risultante l’enacted environment. L’ultima fase, quella di ritenzione, rappresenta il momento in cui si “archiviano” gli eventi che dimostano di avere un senso uni- voco e relativamente stabile. L’imprenditore è quindi un soggetto che non evita il rischio, ma lo persegue cercando di individuarlo e controllarlo. In un contesto sempre più dinamico gli studi sul rischio e lo sviluppo di modelli di risk management hanno avuto una rapida diffusione tra le grandi aziende, ma ci sono molte possibilità di sviluppo ed applicazione della materia anche nelle imprese più piccole. Alcuni di questi aspetti vengono già perseguiti in maniera in- consapevole, altri richiederanno in futuro uno sforzo che però troverà le sue ricompense in un maggior tasso di sopravvivenza delle PMI ed in una redditività maggiore e meno volatile. La prima tappa del nostro studio del mondo del rischio ci porterà ad analizzare il processo di assunzione del rischio da parte degli imprenditori, cercando di compren- derne le determinanti. 1.2.1 Che cos’è il rischio imprenditoriale? L’imprenditore ha due grandi responsabilità: le decisioni di business e le decisioni fi- nanziarie. Le prime riguardano il core business e gli aspetti di produzione, distribuzio- ne, vendita e promozione dell’offerta dell’impresa. Le seconde sono rivolte al reperi- mento e all’investimento di fondi per la loro impresa. I rischi di business minano la possibilità di trarre un profitto dall’attività imprenditoriale [Borge, 2001]. Una classificazione del rischio imprenditoriale secondo la fonte che lo produce si può trovare in Bowden, Lane e Martin [2001]. Il business risk viene suddiviso in cinque in- siemi: • Rischio strategico: è il rischio che le strategie seguite falliscano. I rischi strategici in- cludono strategie di marketing e di acquisizione non efficaci, cambiamenti inaspettati nel comportamento d’acquisto e cambiamenti a livello istituzionale. • Rischio finanziario: è il rischio di inefficienze e fallimento del controllo finanziario. I rischi finanziari possono sorgere da operazioni di tesoreria, cattiva gestione dei credi- ti, frode e operazioni illecite e cattiva gestione del magazzino e della liquidità.
  • 13. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 7 • Rischio operativo: è il rischio che deriva dalle azioni umane, volontarie o involonta- rie. Esempi di rischio operativo sono gli errori di sistema, procedure poco sicure, routine non gestite a livello centrale, comportamenti distruttivi volontari. • Rischio commerciale: è il rischio di interrompere l’attività imprenditoriale. I rischi commerciali più frequenti derivano dalla perdita di risorse umane fondamentali, fal- limento dei rapporti nella catena di fornitura e nella catena distributiva, problemi le- gali. • Rischio tecnico: è il rischio di malfunzionamento o distruzione di risorse fisiche. Al- cuni esempi di rischio tecnico sono i danni alle infrastrutture, incendi e calamità na- turali, inquinamento, esplosioni e sabotaggio. Apgar [2006], invece, fornisce una classificazione del business risk, dividendo le tipo- logie di rischio in due macrocategorie: • Rischi produttivi (supply-side risks); • Rischi di mercato (demand-side risks). Tabella1 Tipologia di business risks PRODUCTION, OR SUPPLY SIDE RISKS MARKETING, OR DEMAND-SIDE RISKS Operating risks like: Security or political risks like: Control and compliance failures Market-disrupting events Partner coordination failures Geopolitical volatility Supply chain risks like: End-market or customer risks like: Supplier failure or political rupture Brand or reputation erosion Key cost volatility Customer consolidation Technology risks like: Competitive risks like: Infrastructure breakdown Disruptive technologies Information security breaches New entrants to the market Workforce risks like: Regulatory or legal risks like: Capacity loss or disruption Legislation or litigation Key staff loss or defection Official corruption Asset risks like: Financial or economic risks like: Fraud or theft Financial market volatility Counterparty credit losses Recession Fonte: Apgar, 2006 I rischi produttivi riguardano le possibili perdite dovute ad accadimenti negativi dal lato dell’offerta, ovvero internamente all’azienda. Sono i rischi che si possono controllare e gestire meglio, in quanto derivano spesso dalla strategia implementata e dalle scelte in- terne all’impresa.
  • 14. Piccole Aziende, Grandi Imprese 8 I rischi di mercato invece sono legati a fattori esterni, e sono quindi più difficili da con- trollare. È comunque indispensabile tenerne conto, perché possono essere fonte di gravi problemi, ma anche di opportunità estremamente redditizie. Il rischio va quindi esami- nato sotto un duplice aspetto: quello interno, che permette di valutare cause e conse- guenze delle scelte strategiche e quello esterno, che rappresenta una fonte continua di pericoli e nuove opportunità. Un approccio multidimensionale che, se adottato corretta- mente, permette di evitare brutte sorprese e di ottenere grossi profitti. 1.2.2 Perché gli imprenditori sono più propensi al rischio delle altre persone? La stessa propensione al rischio è riscontrabile anche nei manager non imprenditori? Molti studi si sono focalizzati sui tratti distintivi di un imprenditore, e sul legame tra imprenditorialità e propensione al rischio [Palich e Bagby, 1995, Forlani e Mullins, 2000 e 2005, Townsend, Busenitz e Arthurs, 2008, Zhang e Arvey, 2008] . Il processo di assunzione del rischio da parte dell’imprenditore è influenzato dal rischio percepito, dai tratti e dalle motivazioni dell’imprenditore e dall’ambiente. Figura 1 Il processo di assunzione del rischio Palich e Bagby [1995] sostengono che non ci siano differenze sostanziali tra imprendi- tori e non-imprenditori per quanto riguarda la propensione al rischio: ciò che cambia è
  • 15. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 9 l’interpretazione dello stesso, ovvero le mappe cognitive che permettono ad un impren- ditore di vedere un potenziale guadagno al posto di una potenziale perdita. Ciò non to- glie che la propensione al rischio cambi di persona in persona. Questa peculiarità gioca un ruolo importante per quanto riguarda la quantificazione del guadagno potenziale. Una maggiore propensione al rischio, infatti, genera distorsioni cognitive per quanto ri- guarda la quantificazione del guadagno potenziale. Nello specifico, il pay-off percepito viene sovrastimato aumentando di conseguenza il commitment dell’imprenditore nei confronti dell’iniziativa imprenditoriale [Mullins e Forlani, 2005]. Il fatto di vedere il bicchiere “mezzo pieno” è spiegato da una diversa percezione del ri- schio. La percezione del rischio dipende a sua volta da molteplici fattori, tra cui l’onerosità dell’investimento minimo richiesto per cimentarsi nell’azzardo (e quindi le possibili perdite), la fonte dei capitali reperiti per far fronte a tale investimento, la varia- bilità del pay-off atteso [Forlani e Mullins, 2000 e 2005] e la fiducia dell’imprenditore nelle proprie capacità di portare l’iniziativa al successo [Townsend, Busenitz e Arthurs, 2008]. I tratti e le motivazioni dell’imprenditore sono l’elemento fondamentale del processo di assunzione del rischio. Sono essi che agiscono sulle informazioni incomplete in mano all’imprenditore, guidando la scelta verso una precisa direzione tra le alternative a di- sposizione. Uno studio di Zhang e Arvey [2008] prende spunto dalla definizione schumpeteriana di impresa come distruzione creatrice e associa la capacità di innovazione e di assumere rischi da parte degli imprenditori con la loro propensione al “rompere le regole” nell’adolescenza. Altre ricerche [Forbes, 2004; Ucbasaran, Westhead e Wright, 2008] trovano nell’età e nell’esperienza una determinante fondamentale della propensione al rischio negli indi- vidui. Il contributo di Ucbasaran, West e Wright [2008], in particolare, mette in eviden- za come ci sia una relazione non lineare tra l’esperienza e la capacità di identificare nuove opportunità da parte dell’imprenditore. Arrivata ad un certo picco, questa capaci- tà e di conseguenza la capacità di assumersi nuovi rischi, si riduce.
  • 16. Piccole Aziende, Grandi Imprese 10 Figura 2 Relazione tra esperienza e capacità di identificare nuove opportunità Fonte: Ucbasaran, West e Wright, 2008 Il concetto di commitment è fondamentale: molte ricerche [Begley, 1995, Forbes, 2004] e l’evidenza empirica sottolineano che ci sia una spiccata differenza tra manager ed im- prenditori nell’approccio ad un’iniziativa rischiosa. Solitamente gli imprenditori, che ri- schiano il loro capitale nell’impresa di proprietà, hanno una migliore visione delle nuo- ve opportunità e perseguono il rischio in misura maggiore di quanto facciano i manager, che trovano più conveniente effettuare scelte sicure anche se di minor redditività. Un fattore importante, che influisce sia nelle mappe cognitive dei soggetti, sia nelle stra- tegie di management del rischio, è rappresentato dall’ambiente in cui opera l’impresa. Questo aspetto sarà trattato ampiamente nel paragrafo 1.3 del mio lavoro. 1.2.3 La variabile culturale può influenzare la propensione al rischio degli im- prenditori? In Italia sono già più di 227.000 le imprese con datori di lavoro stranieri. Un’azienda su tre è gestita da immigrati: sono soprattutto artigiani che preferiscono inserirsi in edilizia e nel commercio e che scelgono il nord come sede lavorativa. Si tratta di un fenomeno che si verifica in tutti i paesi nei quali l’immigrazione comincia a diventare stanziale. La spiegazione di questo fenomeno risiede nel fatto che gli imprenditori immigrati han- no una maggiore tolleranza verso il rischio.
  • 17. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 11 Tutti conosciamo il background che porta solitamente le persone ad emigrare dal loro paese d’origine per trasferirsi in Italia alla ricerca di un’opportunità: lo hanno vissuto molti italiani all’inizio del ‘900 (lo “zio d’America” è una figura ormai storica nella cul- tura italiana) ed ora il flusso si è sostanzialmente invertito. Chi arriva in Italia, ci arriva senza un capitale da investire, con il solo bagaglio della propria volontà a perseguire un futuro migliore per sé e per un’eventuale famiglia. Questo potrebbe costituire una limi- tazione, essendo la disponibilità di risorse molto più bassa della media dei potenziali imprenditori, ed invece è il principale driver dell’imprenditorialità degli immigrati. Ciò che viene messo sul piatto della bilancia è di gran lunga inferiore al possibile guadagno in caso di successo, e qui sta la spiegazione per l’imprenditorialità diffusa tra gli immi- grati. Le differenze rispetto agli imprenditori italiani risiedono nei tratti peculiari e nelle motivazioni di una persona che è stata esposta a contesti culturali diversi e si trova in una situazione diametralmente opposta. Il “non aver nulla da perdere” è una leva che amplifica la tolleranza del rischio, unitamente ad un commitment molto forte, le cui ori- gini sono identificabili nelle motivazioni dell’imprenditore immigrato: i bisogni che le generano sono, come direbbe Maslow, fisiologici e di sicurezza. Ciò che, lavorando come dipendenti si percepisce come fattore igienico (se assente genera insoddisfazione, se presente non genera motivazione), diventa un fattore motivante quando si decide di mettersi in gioco con tutto ciò di cui si dispone ed avviare un’iniziativa imprenditoriale [Costa e Gubitta, 2008]. Uno dei fattori che più influiscono sulla capacità di assumersi rischi maggiori è l’ambiente, inteso come l’enacted environment risultante dal processo di sensemaking, e quindi generato dalle mappe cognitive degli attori. A parità di contesto, il forte com- mitment e le motivazioni di cui abbiamo appena discusso influenzano l’interpretazione dell’ambiente, favorendo la scoperta di opportunità imprenditoriali in situazioni dove non sembra che esistano (calzano a pennello gli esempi dell’edilizia e del commercio al dettaglio, settori considerati saturi e che invece hanno dimostrato di poter garantire an- cora profitti accettabili). Una volta identificata l’opportunità ed accettati i rischi poten- ziali, è conseguenza naturale l’avvio di una nuova impresa. L’argomento che tratteremo di seguito sarà proprio l’azione del territorio come determi- nante dell’organizzazione e le sue implicazioni nelle tematiche del rischio.
  • 18. Piccole Aziende, Grandi Imprese 12 1.3 RISCHIO, ORGANIZZAZIONE E TERRITORIO Precedentemente è stato affermato che i fattori ambientali influiscono sul processo di assunzione del rischio. Essi agiscono sulle mappe cognitive degli individui, con conse- guenze importanti nel processo di generazione dell’enacted environment. Seguendo un approccio evolutivo [si veda Costa e Gubitta, 2008] si può affermare che la strategia di un’impresa e la sua struttura organizzativa si influenzano a vicenda, ma sono a loro volta soggette alle caratteristiche del contesto ambientale in cui sono inseri- te, alle strategie dei soggetti che operano in questo ambiente e alle strutture di governo delle relazioni. Il rischio risiede in tutti questi fattori, ma c’è una differenza sostanziale. Molti dei rischi interni possono essere frutto di decisioni strategiche, e quindi rispec- chiano una “scelta” dell’imprenditore. Le dinamiche di assunzione di questi rischi sono già state esaminate in precedenza. I rischi connessi all’ambiente esterno, invece, non sono selezionabili e molte volte risulta difficile una corretta previsione degli stessi. La struttura dell’ambiente e le strategie degli attori che vi operano possono allo stesso tem- po costituire un’importante risorsa nella gestione e nella limitazione del rischio. Una grande impresa può affrontare contesti complessi e turbolenti con successo, poten- do disporre di risorse sufficienti a perseguire strategie di diversificazione non correlata, che riducono di molto il rischio [Borge, 2001]. Imprese di minori dimensioni non hanno capitali sufficienti per perseguire un’efficace strategia di diversificazione, trovandosi ad affrontare rischi maggiori, ai quali consegue una minor fiducia del mercato e degli inve- stitori, minore attrattività di capitali e la possibilità del fallimento. Elementi culturali condivisi e situazioni ambientali specifiche e favorevoli permettono alle piccole imprese di affrontare il rischio con maggiore sicurezza: è quindi possibile gestire il rischio per via organizzativa, implementando strategie efficaci all’interno e cercando di influenzare l’ambiente circostante. Ne nascono forme organizzative ibride, in cui i confini tra ambiente interno ed ambiente esterno sono più labili e si fa strada l’idea di co-opetizione. La condivisione di cultura, conoscenza e talvolta di risorse criti- che ha spesso come conseguenza naturale la condivisione di una parte del rischio indi- viduale delle imprese, permettendo di raggiungere elevati livelli di performance a fronte di un rischio sostanzialmente minore. Le forme aggregative, pur risolvendo notevoli problemi, implicano l’assunzione di un nuovo tipo di rischio: c’è il pericolo che il flusso di informazioni e di conoscenza trasferito ai co-opetitori sfugga al controllo
  • 19. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 13 dell’imprenditore e sbilanci la relazione, portando un notevole vantaggio competitivo ai partners a danno dell’organizzazione [Becerra, Lunnan e Huemer, 2008]. L’azione sull’ambiente, inteso come struttura organizzativa interna ed esterna e l’influenza del territorio sul rischio di un’impresa saranno i temi principali di questa se- zione. 1.3.1 La progettazione organizzativa e, in particolare, la scelta della struttura organizzativa possono essere strumenti per gestire il rischio imprendito- riale? Affrontare la sfida dell’internazionalizzazione è un’impresa assai ardua per una piccola azienda: tra le molte barriere che ostacolano questo processo vi sono le dimensioni maggiori dei player all’interno dei mercati globali, e la generale complessità di questi ultimi. Una soluzione organizzativa tramite la quale le piccole imprese possono rendersi più competitive è la cooperazione. Nel caso italiano i distretti sono indubbiamente gli e- sempi più calzanti per questo modello organizzativo. Molte volte, però, la forza dei di- stretti e delle alleanze viene meno. Si tratta dei casi in cui c’è la necessità di disporre di un brand forte, in grado di affermarsi anche in un contesto internazionale. Le piccole imprese non possono contare su risorse sufficienti a condurre da sole campagne per la valorizzazione del marchio in uno scenario in cui competono con grandi multinazionali. Ci sono mercati vasti e complessi (Cina e USA, ad esempio), nei quali non basta più l’iniziativa del singolo imprenditore, ma servono grandi numeri di produzione e una for- te visibilità. La qualità, unita ai grandi numeri, permette di avere un rapporto meno su- bordinato con la grande distribuzione [Roma, 2008]. Nella realtà italiana, il fattore visi- bilità è aiutato dalla fama del “Made in Italy”, concetto riconosciuto in tutto il mondo ed espressione di una creatività orientata al mercato, risultato di un modello industriale ba- sato su flessibilità, specializzazione e continuità in cui la qualità è caratteristica dell’intera filiera [Corbellini e Saviolo, 2004]. Per crescere bisogna integrarsi o costrui- re dei rapporti di network che costituiscano, di fatto, un’integrazione virtuale [Corbellini e Saviolo, 2004], e proprio sulla possibilità di farsi conoscere come sistema paese e sull’unione degli sforzi di molte piccole imprese puntano i consorzi.
  • 20. Piccole Aziende, Grandi Imprese 14 Tabella 2 Con quali strategie le PMI devono affrontare il mercato per rimanere competi- tive? Nord- Ovest 10-49 dipen- denti Nord- Ovest oltre 50 dipen- denti Nord-Est 10-49 di- pendenti Nord- Est oltre 50 di- pendenti Centro 10-49 dipen- denti Centro oltre 50 dipen- denti Sud-Isole 10-49 di- pendenti Sud- Isole ol- tre 50 dipen- denti Agire da sole 30,3 19,9 24,5 23,1 31,9 13,7 14,0 20,8 Formare consor- zi 42,3 41,6 48,7 38,7 38,8 39,4 57,6 53,2 Creare fusioni 17,6 16,8 18,6 22,5 20,6 28,5 19,1 19,8 Acquisire nuove aziende 5,4 19,1 5,3 13,4 6,1 17,2 6,8 6,2 Cedere l'attività 4,4 2,6 2,9 2,3 2,6 1,2 2,5 0,0 Fonte: Fondazione Nord Est – “il Sole 24 Ore” – Unicredit Corporate Banking, giugno 2007 Figura 3 Con quali strategie le PMI devono affrontare il mercato per rimanere competi- tive? Fonte: Fondazione Nord Est – “il Sole 24 Ore” – Unicredit Corporate Banking, giugno 2007 I consorzi permettono di garantire la qualità di un prodotto e di ottenere migliori condi- zioni di accesso al credito in virtù delle maggiori dimensioni, ma soprattutto raggruppa- no imprese che da sole rischierebbero l’emarginazione dal mercato e che, invece, rie- scono ad invertire la tendenza al declino verso l’espansione [Roma, 2008].
  • 21. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 15 Le strategie tipiche dei consorzi sono la promozione di un marchio unico ed il coordi- namento organizzativo tra i piccoli produttori. Questo coordinamento ha un ruolo fon- damentale nella gestione del rischio imprenditoriale di ogni piccola impresa appartenen- te al consorzio: il rischio complessivo derivante dall’internazionalizzazione viene infatti collettivizzato e diviso tra i soggetti cooperanti, in modo da ridurre i danni potenziali a carico dei singoli. Un caso emblematico del successo dei consorzi sullo scenario globale è rappresentato dal consorzio Grana Padano. Costituito nel 1954, il consorzio riunisce oggi 200 produt- tori, stagionatori e commercianti di formaggio Grana Padano, tutelando e promuovendo il prodotto e la sua denominazione di origine protetta. La forza di un unico marchio permette di avere una maggiore visibilità all’estero (dove viene esportato il 40% della produzione) ed allo stesso tempo garantisce la qualità del prodotto. La forza del consorzio ha permesso di affermare un brand che supera e margi- nalizza qualsiasi altro piccolo marchio. Secondo un sondaggio [CorrierEconomia, 2008] “il grana è conosciuto dal 97% degli italiani, e nell’agroalimentare è secondo solo alla Coca-Cola”. Box 2 Quando la squadra funziona, è grande mela. “Il nostro è l’unico consorzio al mondo – spiega Luca Granata, direttore generale Consorzio Melinda – a firmare un miliardo di mele. Da soli rappresentiamo il 75% della produzione del trentino, il 15% dell’Italia e il 3% in Europa.”Un autentico prodigio, quello delle mele della Val di Non. Melinda nasce infatti nel 1998 e mette insieme 16 cooperative che negli anni ’70 erano addirittura una quarantina. “E tutte a farsi una guer- ra spietata – continua Granata – Però, finché il mercato è trainante, c’è spazio per tutti, quando il mercato diventa selettivo, o cresci o muori. E quando qui in Trentino si sono accorti che farsi la guerra abbassava il potere contrattuale e faceva andar male tutti, hanno scelto il consorzio. Per convenienza e non per amore. Persino la formula scelta è stata quella di associazione temporanea d’impresa, una sorta di convivenza prematrimoniale, prima di passare al consorzio”. Uno schema applicabile anche ad altri settori, come di- mostrano le esperienze nell’alimentare, nel tessile e nell’enologia. “Certo, il modello è unico: fare un passo indietro per farne dieci in avanti. È vero, in un consorzio l’efficienza pro capite scende, ma il maggior pote- re contrattuale compensa. Del resto trovano giovamento nella fusione le grandi aziende, figurarsi le picco- le e le medie”. E il prossimo scatto di competitività? “Crescere ancora. Magari con qualche grossa fusione. Abbiamo bisogno di aumentare la nostra dimensione, un po’ come succede alla grande distribuzione o alle banche. Bisogna puntare a conquistare sempre più quote di mercato”. Fonte: CorrierEconomia, 2 Giugno 2008 1.3.2 La localizzazione delle imprese, come dimostrano i processi di shopping territoriale in alcuni settori, è un ulteriore elemento che influenza il rischio di impresa. Perché? Lo shopping territoriale, ovvero la migrazione delle imprese alla ricerca delle migliori condizioni in termini di costi, può concretamente essere considerata come un'azione
  • 22. Piccole Aziende, Grandi Imprese 16 che, con l'obiettivo di ottenere condizioni di vantaggio competitivo, permette implicita- mente di ridurre il rischio. Si consideri ad esempio la progressiva attrattività della Cina per molte imprese italiane e, in generale, dei Paesi industrializzati. Con l’entrata dei prodotti cinesi nei mercati di tutto il mondo si è materializzato il ri- schio per i distretti italiani di divenire obsoleti, non riuscendo più ad incontrare la do- manda e perdendo il mercato che prima controllavano saldamente. L’Italia dei distretti industriali è esposta alla globalizzazione dell’economia e alla con- correnza dei paesi emergenti, che possono disporre di costi di produzione assai inferiori a quelli italiani. Ciò significa che tutti i beni replicabili tendono a perdere di valore, per- ché con l’affacciarsi dei paesi emergenti il loro costo di produzione diminuisce in ter- mini reali. In altre parole, più un prodotto è facilmente replicabile e più agevoli sono il suo trasferimento nei paesi a basso costo del lavoro – Cina in primis – e la sua contraf- fazione [Alberti e Sciascia, 2007, p. 58]. Tuttavia, lo shopping territoriale e quindi l'affannosa e continua ricerca delle migliori condizioni di costo non è il solo modo per “usare il territorio come fattore per ridurre il rischio”. Se pensiamo ai nostri distretti industriali, si coglie il ruolo giocato dalle rela- zioni e dal social capital nella gestione del rischio. Per comprendere punti di forza e debolezza del sistema distrettuale italiano bisogna co- noscerne le caratteristiche principali [Cortesi, Alberti e Salvato, 2004]: • È un sistema territoriale circoscritto: il distretto nasce e si sviluppa in un’area geogra- fica necessariamente circoscritta. Questo non deve essere frainteso come un segnale di chiusura verso l’esterno, tanto che la competitività dei distretti è dovuta in gran parte alla capacità di tessere relazioni con l’ambiente esterno, decentrare la produ- zione e sviluppando rapporti che vanno al di là del requisito della vicinanza geografi- ca grazie alle ICT. • È una comunità locale di persone: ciò si traduce in un sistema abbastanza omogeneo di valori, che semplifica il coordinamento e garantisce nel tempo la sedimentazione di relazioni privilegiate di collaborazione tra le imprese. • È una popolazione di piccole-medie imprese specializzate: ogni impresa è specializ- zata in una specifica fase del processo produttivo. Ciò è possibile grazie al processo
  • 23. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 17 di disintegrazione verticale del ciclo produttivo che caratterizza la formula del di- stretto e che favorisce la nascita di nuove imprese specializzate su singole fasi. • La divisione del lavoro e la qualità delle risorse umane: grazie alla specializzazione, che conduce alla divisione del lavoro, le imprese distrettuali possono accedere ad un mercato del lavoro caratterizzato da una professionalità diffusa e qualificata, ricca di competenze specifiche. • Gli attori istituzionali: i distretti hanno la capacità di coniugare sinergicamente l’azione delle imprese con l’iniziativa degli attori sociali pubblici e privati, in parti- colare delle banche locali, che svolgono un ruolo cruciale per il sostegno finanziario delle imprese distrettuali. • L’equilibrio tra concorrenza e cooperazione: i rapporti economici che intercorrono tra gli attori in un sistema distrettuale sono il risultato del combinarsi della concor- renza nei mercati interni al distretto con una consuetudine locale di cooperazione re- ciproca. • L’imprenditorialità distrettuale: nei distretti le motivazioni dei singoli individui ten- dono ad essere esasperate, accentuando il desiderio di autorealizzazione e facendo emergere la volontà di trasferire capacità, attese e interessi in un’attività lavorativa. Questo si traduce in un’elevata fertilità dell’area dovuta principalmente a meccani- smi di spin-off. Le capacità di presidiare livelli molto elevati di conoscenza diffusa rendono possibile la valorizzazione di tradizioni artigiane vecchie di secoli all’interno dei distretti, che si configurano come sistemi cognitivi basati su contesti territoriali in cui si sedimentano linguaggi, esperienze condivise e identità collettive, che donano alle produzioni distret- tuali del made in Italy un carattere di forte idiosincraticità [Alberti e Sciascia, 2007]. Si tratta di lavorazioni basate su saperi fortemente vissuti e poco verbalizzati, conoscen- ze che si sono storicamente trasmesse grazie alla vicinanza culturale e geografica [Cor- bellini e Saviolo, 2004]. L’unicità di questi prodotti fornisce ai distretti un potenziale vantaggio competitivo di differenziazione, molto più sostenibile di un vantaggio di costo che risulta estremamente vulnerabile a forze esterne imprevedibili. Un segnale di qualità e coerenza particolarmente importante potrebbe essere rappresen- tato dall’utilizzo di un marchio collettivo che identifichi i prodotti provenienti da un de-
  • 24. Piccole Aziende, Grandi Imprese 18 terminato distretto. Il marchio svolge molteplici ruoli: da un lato è una garanzia offerta dal produttore al consumatore della qualità del prodotto, dall’altro rappresenta un inve- stimento fornisce un incentivo a mantenere quella qualità, riducendo il rischio percepito dagli acquirenti [Grant, 2005]. Figura 4 Tipologie di marchi collettivi Fonte: Alberti, Sciascia, 2007 I distretti potranno quindi superare le difficoltà emergenti solo con la consapevolezza di dover gestire un’immagine unitaria, sfruttando il cosiddetto “country of origin effect”, ossia l’influenza esercitata dall’origine geografica del prodotto sui comportamenti d’acquisto. Al di là delle strategie basate su di un marchio comune, ciò che risulta evidente è che la competitività dei distretti può essere preservata solo se le imprese che ne fanno parte ri- nunceranno all’individualismo di fondo che è presente in questi contesti e renderanno i loro confini organizzativi completamente permeabili alla cultura ed alle esperienze del distretto, competendo in maniera compatta per mantenere la leadership e difendere le enormi potenzialità sviluppate finora. L’esistenza ed il mantenimento di un social capital che aumenti l’efficienza delle azioni condivise [Costa, Gubitta, 2008] è dunque imprescindibile.
  • 25. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 19 1.3.3 Fino ad ora si è parlato di come è possibile controllare i rischi mediante l’azione sull’ambiente esterno. Come si può gestire il rischio dall’interno? Le piccole e medie imprese possono mitigare il rischio imprenditoriale mediante forme organizzative di tipo cooperativo che possono servire a diversificare il rischio, a divider- lo tra i soggetti cooperanti o a sfruttare dimensioni maggiori che permettono di cogliere opportunità redditizie altrimenti impossibili da perseguire. Tutto ciò presuppone però che l’ambiente in cui opera l’impresa fornisca i presupposti culturali e organizzativi per poter implementare forme cooperative. Il rischio, però, non è gestibile solo per vie e- sterne. Le piccole imprese, soprattutto quelle familiari, hanno una caratteristica distintiva, la sovente sovrapposizione tra il ruolo di proprietario e quello di manager, che tradizio- nalmente è considerata un punto di forza, ma che in alcuni contesti può trasformarsi in punto di debolezza, in quanto può condurre ad una chiusura nel riconoscimento dei ri- schi e dei problemi dell’impresa e può portare al mancato presidio di tutte le dinamiche presenti nel contesto aziendale. Un efficace metodo per evitare il rischio di incorrere in impasse decisionali e, peggio ancora, nell’implementazione di strategie sbagliate, è quello di separare almeno in ma- niera parziale il management dalla proprietà. Questo può avvenire in via temporanea (come vedremo più avanti) mediante il ricorso a contract managers, oppure in forma continua con l’assunzione di risorse umane adatte a ricoprire ruoli dirigenziali, o la promozione di risorse interne all’azienda. La managerializzazione dell’impresa presenta notevoli vantaggi. Ponendo alla guida dell’impresa persone con competenze e know-how specifici si pos- sono sfruttare tutte le opportunità di crescita delle diverse funzioni aziendali, potendo inoltre contare su economie di apprendimento e di specializzazione da parte dei dipen- denti all’interno delle singole funzioni. L’inserimento nella governance di manager esterni alla famiglia può evitare la fuga dei talenti stimolata da un contesto di scarsa possibilità di carriera all’interno dell’azienda o mitigando i comportamenti opportunistici che tendono a nascere in alcuni componenti per la sovrapposizione tra l’ambito familiare e quello aziendale. L’inserimento di figure esterne riesce quindi a portare una maggiore responsabilizzazione e nel contempo una possibile valutazione dell’operato manageriale, consentendo conseguentemente una maggior chiarezza circa i punti di forza e debolezza dell’impresa.
  • 26. Piccole Aziende, Grandi Imprese 20 Di contro, il commitment di un manager non potrà mai eguagliare quello dell’imprenditore che, artefice dell’iniziativa e primo portatore dei valori aziendali, rap- presenta l’anima dell’idea imprenditoriale. Il requisito minimo per un’efficace strategia di managerializzazione dell’azienda è quindi quello di trovare delle persone che condi- vidano la vision dell’imprenditore, e siano capaci di sviluppare strategie di funzione in linea con essa. Senza un’azione coordinata basata su valori condivisi tra management e proprietà una piccola azienda non potrà percorrere questa strada, i benefici potenziali si trasformeranno in problemi organizzativi e, peggio ancora, incoerenza interna nelle stra- tegie seguite, con il probabile insorgere di conflittualità tra le funzioni aziendali. 1.4 IL MANAGEMENT DEL RISCHIO: STRUMENTI E APPLICAZIONI Se tutto fosse governato dalla fortuna, il management del rischio sarebbe solamente un esercizio senza senso. Tirare in ballo la fortuna oscura la realtà, perché separa un avve- nimento dalle sue cause. Quando ci assumiamo un rischio, stiamo scommettendo sul ri- sultato di una decisione che abbiamo preso, anche se non sappiamo con certezza quale sarà quel risultato. L’essenza del risk management sta nel massimizzare le aree di decisione sulle quali ab- biamo un qualche controllo, minimizzando nel contempo quelle in cui non abbiamo nessun controllo circa il risultato e nelle quali la correlazione tra causa ed effetto ci è i- gnota [Bernstein, 1996]. Non si tratta di eliminare del tutto il rischio, ma di trovare il miglior bilanciamento possibile tra rischi assunti ed opportunità connesse [Borge, 2001]. Laplace, nel suo Essai philosophique sur les probabilités, esclude che un qualsiasi even- to sia regolato dalla fortuna: “Gli eventi presenti sono connessi a quelli passati mediante un legame basato sull’evidente principio che una cosa non può accadere se non in pre- senza di una causa che la generi […] Tutti gli eventi, anche quelli che non sembrano se- guire le grandi leggi della natura, sono in realtà una risultante di essa”. Si può concludere che, almeno il linea teorica, il rischio è quantificabile e quindi gesti- bile in maniera oggettiva mediante calcoli più o meno complessi. Molte volte però, abbiamo troppe poche informazioni a disposizione per applicare le leggi della probabilità. In mancanza di informazioni, ci si deve necessariamente affidare all’intuito, che però risente delle nostre esperienze passate e di distorsioni cognitive di
  • 27. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 21 vario tipo. Non essendo possibile un calcolo perfettamente razionale dei pericoli a cui si va incontro, si può solamente cercare di gestire al meglio la razionalità limitata degli at- tori organizzativi, mediante il ricorso a best practices, routine organizzative e modelli di risk management. Bowden, Lane e Martin [2001] sostengono che buone pratiche di risk management pos- sono permettere alle imprese di sfruttare i seguenti benefici: • miglioramento delle relazioni con gli stakeholders e maggiore attrattività verso i nuovi investitori; • raggiungimento degli obiettivi prefissati con maggiore facilità; • maggiore facilità nel portare a termine iniziative di cambiamento; • miglioramento degli standard di best practices interni; • minor costo del capitale; • migliori punti di partenza per la pianificazione e la direzione strategica; • ottenimento di vantaggi competitivi; • riduzione del tempo speso dal management in attività di gestione delle crisi; • minore probabilità di incappare in imprevisti sfavorevoli. Al contrario, un’inadeguata gestione del rischio può portare a conseguenze negative quali: • multe o sanzioni; • azioni di protesta; • costi per difendere l’impresa da azioni legali penali e civili; • danni di immagine; • abbassamento del morale e deterioramento del clima aziendale; • aumento dei premi di assicurazione; • maggiori oneri finanziari; • inaffidabilità futura nel prestare garanzie; • revoca di licenze e permessi. Le PMI, a differenza di imprese più grandi, raramente presentano procedure formalizza- te di gestione del rischio: il rischio fa parte della vision dell’imprenditore e viene gestito in maniera inconsapevole, influenzando comunque le decisioni strategiche. Mentre mol- te grandi aziende si sono ormai dotate di un Chief Risk Officer, questo ruolo nelle picco- le e medie realtà non è ancora preso in considerazione e probabilente non lo sarà mai,
  • 28. Piccole Aziende, Grandi Imprese 22 dati gli elevati costi di coordinamento che una soluzione come questa comporta. Ci sono però delle linee guida che ogni buon imprenditore dovrebbe seguire, almeno per avere la consapevolezza dei rischi che l’impresa corre e delle opportunità emergenti. 1.4.1 Quali sono le strategie fondamentali di risk management? La gestione del rischio non è una golden rule applicabile ad ogni caso: dipende dalle strategie e dalla propensione al rischio degli attori e dell’organizzazione e differisce in maniera rilevante anche in situazioni simili. Secondo quanto teorizzato da Borge [2001], l’azione di risk management è comunque classificabile in diverse categorie ed esistono delle linee guida da seguire per governare il rischio e manipolarlo, per quanto possibile. Il rischio va identificato: è difficile gestire un rischio quando non se ne conosce la natu- ra. L’identificazione del rischio non è semplice come sembra, dato che la percezione di esso è soggettiva. In assenza di un sistema oggettivo per identificare e classificare i ri- schi, si può tentare di ricondurre la situazione contingente ad un contesto già affrontato da molti decision makers, tentando di replicare le decisioni di successo prese in passato. Si tratta di un classico problema di razionalità limitata, per ovviare alla quale si può ri- correre a routine a decisioni programmabili [Costa, Gubitta, 2008]. Saper quantificare i rischi, una volta identificati, aiuta ad affrontarli da un punto di vista razionale, potendo fare uso di modelli matematici e statistici. Meglio si quantifica un ri- schio, meglio si previene: la prevenzione dei rischi è la più ovvia strategia di gestione degli stessi. Non si dovrebbe mai assumere un rischio, se non volontariamente e dopo averne scrupolosamente calcolato cause e conseguenze. Ci sono alcuni casi in cui, invece di evitare il rischio, lo si vuole creare. I rischi “deside- rabili” sono quelli legati ad opportunità in cui il pay-off supera le probabilità di insuc- cesso. Se non si riesce a prevenire un rischio, si può cercare di venderlo. Al contrario, se non si riesce a creare un rischio desiderabile, si può cercare di comperarlo. In verità, ciò che si compra e si vende non è il rischio in se, ma l’opportunità legata a tale rischio: se si vuo- le scalare il monte Everest, si può acquistare un posto in una spedizione, mettendo a re- pentaglio la propria vita in cambio del guadagno di un’opportunità di raggiungere la vetta.
  • 29. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 23 Un buon modo per abbassare l’esposizione complessiva ai rischi è quello di diversificar- li: assumendo rischi non correlati l’un l’altro, si riesce a ridurre il danno potenziale complessivi, mantenendo sostanzialmente invariati gli eventuali profitti. La strategia diametralmente opposta a quella di diversificazione si può perseguire cer- cando di concentrare i rischi. Perché si dovrebbe cercare di concentrare i rischi quando abbiamo visto che la diversificazione è un’ottima strategia? Un caso, ad esempio, si ve- rifica quando si vuole preservare la possibilità di guadagni estremamente positivi, piut- tosto che ridurre quella di risultati molto negativi. Un'altra possibilità si ha quando la concentrazione dei rischi permette di ottenere un’influenza positiva sui risultati, ad e- sempio tramite il controllo del pacchetto di maggioranza di un’azienda. Un’altra strategia di gestione del rischio è quella di cercare di compensare un rischio as- sunto con uno uguale e contrario, ottenendo un gioco a somma zero. Si pensi di trovarsi nella situazione di puntare una certa somma sulla vittoria di un tennista nella finale tor- neo di Wimbledon, ma allo stesso tempo di voler azzerare le probabilità di perdere la somma puntata. In questo caso si potrebbe puntare una somma che ci consenta di otte- nere la stessa vincita sul tennista avversario. Se uno dei due vince, è inevitabile che l’altro perda. Compensare la scommessa in questo modo equivale a non scommettere. Sfortunatamente, la maggior parte dei rischi a cui ci esponiamo non ci permette di indi- viduare e compensare tutti i risultati, rendendo questa strategia un’arma a doppio taglio pericolosissima. La più pericolosa strategia, però, consiste nel far leva sul rischio con l’intento di molti- plicare il pay-off atteso. Ciò porta inevitabilmente a moltiplicare il danno nel caso si ve- rifichi un evento sfavorevole. Un esempio dell’applicazione di questa strategia si può notare quando un’impresa prende a prestito dei soldi per investire in un’attività ad alto rischio. Il metodo più conosciuto ed in uso per gestire i rischi correlati ad un’attività è, infine, l’assicurazione. Quando ci si assicura contro un evento sfavorevole, si paga un premio all’assicuratore, che elargirà un risarcimento se e solo se quell’evento avrà luogo. La scelta tra le varie opzioni di risk management è soggettiva, e nessuno potrà dire qua- le sia la migliore fino a quando non se ne toccheranno con mano le conseguenze.
  • 30. Piccole Aziende, Grandi Imprese 24 1.4.2 Il management del rischio è una “scienza esatta” che si scontra con la razionalità limitata degli individui. Quali sono i fattori che portano ad un’errata valutazione e gestione dei rischi? I problemi delle limitazioni alla razionalità degli individui sono molteplici, e possono produrre distorsioni cognitive, con la conseguenza di portare gli individui a valutare i ri- schi in maniera errata. Valutazioni distorte possono portare a scartare rischi “buoni” e ad accettare l’assunzione di rischi “cattivi”. Nel processo decisionale intervengono mol- ti fattori che interferiscono sulla nostra abilità di gestire il rischio in maniera razionale. Non si tratta solamente di mancanza di informazioni o di limitazioni temporali, ma di aspetti profondamente radicati nella psicologia umana [Borge, 2001]. L’eccesso di fiducia è uno di essi: solitamente siamo portati a sottostimare il range di conseguenze negative (o positive) legate a un evento incerto. Questo fattore è determi- nante nel processo di assunzione del rischio imprenditoriale, ed è uno dei tratti che di- stinguono gli imprenditori, e più in generale le persone, che sono più propensi ad impe- gnarsi in un‘attività rischiosa. Le conseguenze dell’eccesso di fiducia possono condurre all’assunzione di rischi eccessivi o alla perdita di buone opportunità. Quest’ultimo a- spetto accade però più di rado, perché c’è un secondo aspetto che ci porta a sottostimare i rischi: l’ottimismo. Quasi tutti gli individui sono convinti di poter controllare gli eventi in misura maggiore di quanto invece succede nella realtà: questo porta a percepire un pay-off maggiore di quello che in realtà si avrebbe seguendo una valutazione razionale dei rischi intrapresi e delle probabilità del verificarsi di eventi negativi. La minore percezione dei rischi, che causa l’abbassamento della soglia di guardia negli individui, è data anche dalla scarsa capacità di imparare dagli errori precedenti. Spesso infatti gli eventi passati vengono interpretati in maniera fuorviante e non si è in grado di ricostruire abbastanza accuratamente lo scenario precedente alla decisione di assumersi un determinato rischio. Al contrario, si tende a distorcere tale scenario, rendendolo più vicino a quello ottimale.La capacità di imparare dagli errori commessi nel passato si ri- duce quindi drasticamente, rendendo difficoltosa l’identificazione e l’applicazione delle decisioni adatte ad una situazione che si ripete nel tempo. Il processo di sensemaking [Weick, 1979] è pregiudicato già nella fase di enactment, poiché non sono disponibili flussi di esperienza non distorti. La selezione di tali flussi e l’attribuzione di un signifi- cato ad essi è impossibile, e l’intera sequenza decisionale non può essere applicata in modo efficace.
  • 31. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 25 Un altro pericolo viene da quella che Borge [2001] chiama overcompensation: quando si trova il modo di ridurre un rischio, si è tentati a comportarsi in modo da creare situa- zioni ben più pericolose di quella che si è evitata. È il classico esempio di chi, convinto di possedere un’auto particolarmente sicura, guida in maniera meno prudente, esponen- dosi ancor di più al rischio di un incidente. La cosa che più di tutte influenza negativamente la nostra capacità di affrontare il ri- schio in maniera razionale è però una diffusa miopia, la quale si manifesta sia in rela- zione al passato, sia rivolta agli eventi futuri. Ci si basa solo sul recente passato per pre- vedere eventi futuri, e si fatica ad immaginare ciò che potrà accadere in un futuro che non sia prossimo. Da non trascurare è anche la testardaggine che porta i soggetti a ignorare possibilità al di fuori di un particolare scenario che viene ritenuto il più probabile. Pur di non abban- donare l’idea, si rifiuta o distorce ogni informazione in conflitto con essa. Come abbiamo visto, la razionalità limitata è un ostacolo, ma essendo consapevoli dei pericoli che essa porta, si può cercare di semplificare il processo decisionale e valutati- vo, augurandosi di aver catturato l’essenza del problema. E di risolverlo. 1.4.3 Inserire un risk manager all’interno di una piccola impresa è difficile e co- stoso. Come si deve comportare un piccolo imprenditore nel gestire il ri- schio? Nelle grandi aziende la figura del risk manager è ormai una costante: le grandi dimen- sioni e la complessità del business rendono indispensabile la presenza di una funzione indipendente in grado di riconoscere e gestire i rischi affrontati dall’azienda. In una pic- cola impresa, dove la linea manageriale è ridotta e concentrata e molte funzioni si so- vrappongono, è per forza di cose l’imprenditore ad assumersi anche il ruolo di risk manager. Il modo migliore per gestire il rischio in una piccola impresa è quello di consolidarne l’importanza nella cultura aziendale, ricorrendo a procedure e comportamenti che, se adottati in maniera costante, possono permettere di essere sempre al corrente dei rischi che l’impresa sta correndo. Il consolidamento del concetto di rischio nella cultura aziendale permette di coinvolgere l’intera organizzazione nel processo di risk monitoring, garantendo un’ottimale copertu-
  • 32. Piccole Aziende, Grandi Imprese 26 ra del rischio e la possibilità di assumersi nuovi rischi oppure di dismetterne altri non voluti. Un approccio strutturato al processo di gestione del rischio dovrebbe poi guidare l’imprenditore nelle scelte strategiche da adottare di volta in volta. Bowden, Lane e Martin [2001], schematizzano il processo di risk management come in Figura 5. Figura 5 Il processo di risk management Fonte: Bowden, Lane e Martin [2001]
  • 33. Piccole Aziende e Rischio Imprenditoriale 27 L’approccio da seguire dipende dall’ambiente in cui si inserisce un’impresa. In ambienti relativamente stabili, con rischi conosciuti, per una piccola impresa può bastare un ap- proccio di tipo qualitativo, mentre se l’ambiente dovesse essere turbolento ed altamente imprevedibile è necessario adottare una gestione del rischio di tipo quantitativo. Quanti- ficare i rischi ha molteplici vantaggi: li rende perfettamente confrontabili tra loro e dà la possibilità di esprimerli in un’analisi di tipo costi-benefici. Rende inoltre più veloce e semplice la gestione di eventi complessi. L’unico problema in un approccio del genere potrebbe derivare dalla necessità di quantificare eventi solitamente non misurabili: ciò può essere facilmente risolto tramite la definizione delle conseguenze di ogni evento, creando scenari potenziali [Bowden, Lane e Martin, 2001, Banks, 2002]. Non è facile inserire tutto questo nel contesto di una piccola impresa, ma al giorno d’oggi non è più possibile sottovalutare l’importanza di un’adeguata strategia di risk management, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa. 1.5 PICCOLE AZIENDE, GRANDI E INCONSAPEVOLI RISK TAKERS Abbiamo visto come il mondo sia regolato dal rischio e come, da situazioni di rischio, si possa far scaturire un’iniziativa proficua. Le dimensioni ridotte non danno l’idea dei rischi assunti dalle piccole e medie imprese, molte volte in maniera inconsapevole. I piccoli imprenditori sono ogni giorno sottoposti a giudizi e scelte in grado di cambiare radicalmente il profilo di rischio di un’impresa, e molte delle decisioni che prendono racchiudono rischi impliciti anche di ingenti dimen- sioni. Ecco perché l’analisi delle dinamiche di assunzione del rischio imprenditoriale nelle piccole aziende è un argomento che interessa sempre più studiosi ed imprenditori: capi- re il processo di assunzione del rischio, essere coscienti delle proprie mappe cognitive ed elaborare piani di gestione delle crisi e dei rischi emergenti è indispensabile per una piccola azienda che vuole eccellere. Non si potranno certo mobilitare le risorse di cui può disporre solo una grande impresa, ma è essenziale che il rischio venga assimilato nella cultura aziendale, diventando anch’esso una risorsa strategica generatrice di valore. Uno dei punti di forza a vantaggio delle PMI italiane è la profonda integrazione con il territorio che, rafforzata da forme organizzative di tipo aggregativo come consorzi e di-
  • 34. Piccole Aziende, Grandi Imprese 28 stretti, permette una più efficiente gestione dei rischi connessi all’attività d’impresa, ap- poggiando l’arduo compito di trovare e mantenere un vantaggio competitivo sostenibile.
  • 35. 2. CAPITOLO IMPRESE ALLA RICERCA DI CAPITALI 2.1 CAPITALI, RISCHIO E RATING Rischio e rating sono due concetti strettamente legati tra loro: rating migliori corrispon- dono a profili di rischio più bassi. Le procedure di attribuzione del rating ad un’impresa riguardano soprattutto la sua di- namica finanziaria: possiamo affermare che il rating di un’azienda e gli aspetti finanzia- ri della gestione siano legati tra loro in maniera interdipendente, influenzandosi a vicen- da. La natura e il contenuto del rating, unitamente alle dinamiche finanziarie aziendali, di- pendono dal settore e dalla fase del ciclo di vita dell’impresa. Le imprese nascono quasi tutte da una buona idea, un’intuizione vincente che getta le basi di un vantaggio competitivo. Le idee da sole, però, non portano da nessuna parte: devono materializzarsi in azioni concrete, che per manifestarsi hanno bisogno dell’apporto di capitali di varia natura. I capitali sono poi necessari allo sviluppo dell’impresa, ed in generale durante tutto il suo ciclo di vita. Il buon imprenditore è perciò colui che riesce a trovare i capitali adatti ad alimentare la crescita della sua intuizione. La natura di questi capitali differisce a seconda della fase del percorso di sviluppo del progetto imprenditoriale.
  • 36. Piccole Aziende, Grandi Imprese 30 Figura 6 Gli stadi di investimento Fonte: Bonini, Zullo, 2002 p.14
  • 37. Imprese alla Ricerca di Capitali 31 Il sistema italiano delle piccole imprese è caratterizzato da alcune peculiarità rilevanti ai fini dell’analisi delle dinamiche di reperimento dei capitali necessari ad una PMI [Perri- ni, 1998]: • la struttura produttiva è particolarmente frammentata, e le dimensioni medie delle impresa sono inferiori ad altri paesi; • le PMI sono prevalentemente a controllo familiare (oltre il 90%). Vi è la presenza costante dell’imprenditore, affiancato da dirigenti solo per dimensioni di un certo ri- lievo, oppure nelle generazioni successive al fondatore; • la struttura finanziaria delle imprese è poco equilibrata e caratterizzata da un livello di indebitamento piuttosto elevato, prevalentemente a breve termine, dove il patri- monio dell’impresa ed il patrimonio della famiglia interagiscono. Ci sono dei momenti in cui il capitale maggiormente necessario all’azienda non è di tipo finanziario: ecco che entrano in gioco le persone giuste al momento giusto. In questo capitolo si analizzerà il fabbisogno di capitali nelle varie fasi della vita di un’azienda: dal momento dell’avvio, passando per la fase di consolidamento e sviluppo, fino ad arrivare al momento in cui, per l’evoluzione della gestione o per altre contingen- ze, sono necessari interventi di ristrutturazione. 2.2 AVVIO La vita di un’impresa nasce ancora prima della sua costituzione legale. Prima che diven- ti un soggetto giuridico legalmente riconosciuto, infatti, deve affrontare uno stadio di sperimentazione, nel corso del quale viene elaborato il prodotto, si analizza la business idea e, dopo aver svolto le opportune analisi di mercato, si redige un business plan. Successivamente l’azienda viene costituita, il prodotto viene sviluppato in modo da ren- derne possibile l’industrializzazione e si elabora un piano di marketing che ne renda possibile la commercializzazione. Nella fase di avvio i problemi ricorrenti sono la diffi- coltà nella valutazione dell’idea (pericoli ed opportunità connessi ad essa) e la ricerca dei collaboratori adatti a portare avanti l’iniziativa imprenditoriale. Dal punto di vista dell’impresa, la richiesta di capitali in fase di avvio è generalmente riconducibile a un imprenditore, o aspirante tale, intenzionato a sviluppare una nuova invenzione, o a migliorare un prodotto o un processo produttivo esistenti. Prima che la nuova impresa cominci ad essere redditizia sono richiesti all’imprenditore investimenti
  • 38. Piccole Aziende, Grandi Imprese 32 a volte onerosi. Inoltre, ciò di cui il portatore della nuova idea imprenditoriale ha spesso grande bisogno è un apporto in termini di capacità imprenditoriale, di competenze a- ziendali e manageriali. Nelle operazioni di avvio, o di early stage, l'uomo necessita spesso, più che di un mero contributo in termini di capitali, di un aiuto nella definizione della formula imprenditoriale e nella riflessione sulla propria posizione competitiva. Al tempo stesso, l'investitore deve necessariamente avere fiducia non solo nelle potenziali- tà del business, ma anche negli uomini che con lui lo condurranno. La fase di avvio di un’azienda è probabilmente quella più rischiosa, date le dinamiche instabili che regolano le strategie e la struttura dell’impresa. In questa fase l’apporto di capitali è condizione necessaria alla nascita stessa dell’impresa, ma è di difficile reperi- mento, dato che gli investitori non possono disporre di informazioni circa l’andamento del business. Affidarsi alle banche è pressoché impossibile, dato che non si possono fornire garanzie a fronte del capitale di debito e il profilo di rischio è elevatissimo. Nel caso italiano le istituzioni non aiutano il diffondersi di strumenti di finanziamento alternativi alle banche, che rappresentano sempre la soluzione adottata con maggior fre- quenza. Viene quindi preferita la fornitura di servizi finanziari a soggetti ampiamente qualificati. Nel mondo anglosassone, al contrario, lo sviluppo inteso come creazione di nuova imprenditorialità viene sostenuto dalle istituzioni mediante la creazione di incu- batori e strutture non-for-profit (praticamente assenti in Italia) e la somministrazione di sussidi. Affidarsi alle banche comporta notevoli oneri finanziari e una minor flessibilità, dato il profilo di rischio elevato ed il conseguente abbassamento del rating. Lo sviluppo di meccanismi di finanziamento alternativi alle banche e più adatti a supportare piccole imprese in fase di avvio è il presupposto per preservare la competitività del tessuto in- dustriale italiano, mantenendo un alto tasso di natalità senza lasciare i piccoli imprendi- tori in balia delle molteplici avversità di un mercato sempre più globalizzato. 2.2.1 Nella fase di seed financing il fabbisogno delle imprese non è soprattutto di natura finanziaria, per cui i venture capitalists incontrano difficoltà ad intervenire efficacemente. Cosa serve quindi alle start up in questa fase? Chi può soddisfare questo fabbisogno? Le aziende che si trovano nello stadio di sviluppo iniziale, mosse dalla necessità di svi- luppare la propria offerta, non devono fronteggiare ingenti investimenti per lo sviluppo
  • 39. Imprese alla Ricerca di Capitali 33 della struttura dell’impresa. L’attività prevalente è quella di ricerca e sviluppo, per la quale, nella maggior parte dei casi, l’imprenditore dispone già delle risorse necessarie. In un momento delicato come quello della fase di seed financing, ciò di cui ha bisogno l’imprenditore è il supporto nello sviluppo dell’idea e nella pianificazione del suo svi- luppo. Più che di capitali, il fabbisogno è spiegabile in termini di servizi che rendano possibile la costruzione di un efficiente network e che portino al raggiungimento di eco- nomie di scala e di scopo, pur mantenendo intatta la libertà d’iniziativa dell’imprenditore. La risposta a questo fabbisogno viene dagli incubatori. Con il termine incubatore si intende un’istituzione che interagisce con potenziali sogget- ti imprenditori, offrendo servizi e, talvolta, risorse finanziarie, con l’obiettivo di favorire e sostenere l’avvio di nuove forme d’impresa. Il valore aggiunto consiste nell’accelerazione del processo di costituzione dell’impresa e nell’incremento delle pos- sibilità potenziali di sopravvivenza e di successo sul mercato [Gervasoni, 2004]. Figura 7 L’influenza dell’incubatore nello sviluppo iniziale dell’impresa Fonte: Gervasoni, 2004 p. 28 Gli incubatori presentano notevoli vantaggi rispetto ad altre forme di finanziamento.
  • 40. Piccole Aziende, Grandi Imprese 34 Non avendo grosse interferenze nella governance aziendale, la flessibilità e l’autonomia decisionale dell’imprenditore restano intatte, a differenza di quanto accade ad esempio con i venture capitalists. L’ingerenza di finanziatori esterni in ruoli decisionali o co- munque di controllo (come nel caso di formulazione di patti parasociali in conseguenza all’entrata di venture capital), può risultare gravemente limitante nelle fasi embrionali del progetto. I problemi possono essere ricondotti alla presenza di asimmetrie informa- tive, che pongono l’imprenditore nella condizione di detenere informazioni potenzial- mente critiche sconosciute al venture capitalist. Ciò può portare il finanziatore ad agire in maniera prevenuta per tutelarsi, ostacolando anche in maniera inconsapevole il cor- retto sviluppo del progetto imprenditoriale e con il rischio di danneggiare i suoi stessi profitti futuri. Tabella 3 Venture Capitalists e incubatori VENTURE CAPITALISTS INCUBATORI ECONOMIE DI SCALA E DI SCOPO BASSO Le start up venture backed ac- quistano servizi e consulenza in completa autonomia MEDIO È consentito l’accesso a servizi e ri- sorse comuni che consentono alle start up un consistente risparmio di tempo SPIRITO IMPRENDITORIALE ELEVATO Il venture capitalist è, per defini- zione, un socio temporaneo dell’imprenditore ELEVATO Gli imprenditori liberi da strutture ec- cessivamente burocratizzate parteci- pano in prima persona al rischio d’impresa ACCESSO AL NETWORK BASSO Un venture capitalist può anche disporre di un eccellente network, ma tende a rimanere un partner singolo ELEVATO Viene organizzato un sistema di rela- zioni sia tra gli start up interni all’incubatore, sia con partner strategi- ci Fonte: Gervasoni, 2004 Un altro vantaggio degli incubatori è quello di fornire alle imprese incubate una gamma di servizi ed infrastrutture che permettono di sfruttare già dall’inizio economie di scala e di scopo. Tra i servizi a disposizione, sono prevalenti l’assistenza manageriale attiva, l’accesso a canali privilegiati di finanziamento ed il supporto nell’utilizzo di servizi tec- nici e di business. Oltre a questi servizi, gli incubatori mettono a disposizione servizi d’ufficio, attrezzature ed ampi spazi per implementare l’attività di business [Bonini, Zullo, 2002].
  • 41. Imprese alla Ricerca di Capitali 35 Figura 8 Principali servizi offerti dagli incubatori Fonte: Gervasoni, 2004 La condivisione di queste risorse tra le imprese incubate abbassa i costi fissi e permette di ottimizzare le modalità di intervento, creando tra le altre cose economie di apprendi- mento tramite le quali l’incubatore potrà fornire servizi simili a costi decrescenti nel tempo. All’interno dell’incubatore sono inoltre incentivate e ricercate le collaborazioni tra le diverse start-up. Questo permette di sviluppare fin da subito un network efficiente che permette all’impresa di affacciarsi sul mercato potendo contare su una rete consolidata di relazioni e partnership, così da facilitare il flusso di conoscenze e di talenti tra le a- ziende [Gervasoni, 2004].
  • 42. Piccole Aziende, Grandi Imprese 36 Il caso Altoprofilo, approfondito nel Box 3, dimostra come un incubatore sia in grado di fornire tutto il supporto necessario per l’avvio di un’impresa ad alto contenuto innovati- vo. Box 3 Il caso Altoprofilo Altoprofilo è una società di business integration fondata nel marzo 2000. Offre servizi alle imprese nel campo delle soluzioni tecnologiche innovative per l’accelerazione e il miglioramento dei processi organiz- zativi aziendali (portali formativi aziendali, portali di e-commerce, progetti web-based per la comunicazione interna, portali di banking on-line, soluzioni wireless multi-canale e multi-device, sistemi di riconoscimento vocale). Altoprofilo, nella fase di avvio dell’attività, ha utilizzato i servizi promossi dall’incubatore privato MyQube, che opera anche come società di venture capital e che ha permesso la realizzazione dell’idea imprendito- riale. L’idea è stata proposta nel gennaio del 2000 ad un incubatore privato, MyQube (al quale aderiscono il Gruppo Benetton, Mediobanca, Merril Lynch, Caltagirone, Banca Intesa, Camfin e Gazzoni Frascara). Il rapporto con investitori autorevoli dà sicurezza alle persone della community di Altoprofilo. Inoltre, l’ingresso di MyQube permette di avere a disposizione il supporto economico e logistico per favorire il ra- pido sviluppo della società. Dopo l’accordo con l’incubatore, l’azienda nasce formalmente a Milano nel marzo del 2000. Altoprofilo ha avviato l’attività con tre persone, per arrivare a 93 collaboratori (tra grafici, ingegneri, psicologi, semiologi, ecc.) nel luglio 2001, con due sedi una a Milano e una a Boston. Nella fase di start-up sono state affrontate molte questioni delicate come la costruzione della credibilità, che è stata affrontata cercando di avere un approccio aziendale professionale più che artigianale e la ri- cerca di collaboratori di alto livello sia sul lato dell’innovazione tecnologica, sia dal lato dei business deve- lopers, per la gestione della parte commerciale. Sempre in MyQube Altoprofilo ha trovato a pagamento servizi di consulenza legale e di comunicazione da professionisti preparati. Altoprofilo non ha usufruito nella fase di start-up di nessun tipo di sostegno pubblico, perché considerato troppo lento, rigido e poco stimolante nei confronti della crescita dell’autonomia imprenditoriale. Oltre a ri- sorse proprie, tuttavia, la scelta è caduta sulle risorse e le conoscenze dell’incubatore privato MyQube, che possiede una quota azionaria dell’azienda e che ha fornito risorse finanziarie. Secondo i soci di Altoprofilo l’incubatore privato – ad un certo prezzo, ma con maggiore rapidità ed elasti- cità di incubatori che operano con la filosofia del settore pubblico – ha messo a disposizione risorse finan- ziarie ed infrastrutturali. Gli imprenditori che hanno dato vita ad Altoprofilo hanno evidenziato inoltre come la conoscenza dei vinco- li burocratici ed amministrativi sia una risorsa rara e molto preziosa per una azienda neonata. In questa prospettiva oggi in Italia manca una struttura che offra soluzioni e risposte alle domande di natura ammini- strativa, fiscale, legale, compiute da chi desidera avviare una nuova impresa. Fonte: Pyrenean-Alpine Network of Entrepreneurial Liaisons 2.2.2 Il problema della ricerca di capitali durante la fase di avvio riguarda an- che il commitment dell’investitore, che può venire a mancare a causa della scarsa fiducia nel progetto imprenditoriale. A chi ci si può rivolgere per risolvere questo problema? Per un’impresa in fase di avvio l’accesso al credito bancario è pressoché impossibile. Oltre al problema della ricerca di un istituto di credito che conceda un finanziamento, si verifica infatti anche il problema di avere a che fare con tassi di interesse troppo alti ed insostenibili. L’alternativa al credito bancario è rappresentata dai cosiddetti investitori informali, che possono essere business angels o venture capitalists. La differenza tra i due è notevole: i business angels sono per lo più dirigenti d’azienda in pensione o investitori che voglio-
  • 43. Imprese alla Ricerca di Capitali 37 no ampliare il proprio portafoglio di investimenti e che impiegano tipicamente fondi di loro proprietà, al contrario dei venture capitalists, che gestiscono fondi costituiti da ca- pitale di terzi [Elitzur e Gavious, 2003]. I business angels investono capitali nelle imprese prima di quanto non lo faccia un fon- do di venture capital. Non si tratta solo di capitali di natura finanziaria, ma di qualsiasi tipo di beni tangibili (denaro, prodotti, servizi, materie prime, macchinari, immobili, crediti, marchi e brevetti, …) ed intangibili (contatti, reputazione, idee, conoscenza, e- sperienza, abilità, istruzione, ...). Proprio per questa varietà del portato di un business angel esso può essere visto, più che come un finanziatore vero e proprio, comea un “fa- cilitatore”, che gioca un ruolo importante nella ricerca di altri capitali di debito, partners strategici e contatti con venture capitalists [Sorheim, 2005]. Ciò che spinge un business angel ad impiegare parte del suo patrimonio per aiutare la causa di un’impresa è identificabile in due parametri: le motivazioni e la propensione al rischio [Diotallevi, 2005]. Figura 9 Un modello di classificazione dei business angels in base a motivazioni e pro- pensione al rischio Fonte: Diotallevi, 2005 Le motivazioni possono essere di tre tipi: • Motivazioni interne: sono legate al rapporto con l’imprenditore e la sua iniziativa e possono essere dettate dal desiderio di aiutare il promotore dell’impresa (ad esempio un padre che aiuta il figlio nella realizzazione della sua idea imprenditoriale), dalla volontà di ottenere vantaggi commerciali (essere futuri fornitori o clienti della nuova
  • 44. Piccole Aziende, Grandi Imprese 38 azienda) o l’ottenimento di preferenze da parte dell’imprenditore (per esempio l’assunzione di determinate persone all’interno dell’impresa). • Motivazioni esterne: derivano dalla ricerca di soluzioni a problemi non legati al pro- motore e alla sua iniziativa. Tali motivazioni possono venir generate dalla ricerca di benefici strutturali all’attività del business angel (interesse di filiera), dalla promo- zione dell’imprenditoria locale (nel caso di Comuni e altre istituzioni) e dalla ricerca di soluzioni ad un proprio problema finanziario (come lo smobilizzo di un credito). • Motivazioni finanziarie: è il caso del business angel classico. L’investimento in una nuova iniziativa imprenditoriale viene visto come una scelta di portafoglio diretta a far fruttare il capitale in possesso dell’investitore. Allo stesso modo, si distinguono tre gradi di propensione al rischio: • Forte: il rischio di perdita di capitali è accettato, nell’immediato (apporto di contanti) o a scadenza (apporto di garanzie). • Media: il rischio accettabile è solo quello di una perdita di valori trasformabili in ca- pitali, come un credito o dei beni. • Debole: il rischio accettato riguarda solo la perdita di valori intangibili o tangibili ma non essenziali, come ad esempio guadagni futuri, reputazione o tempo (impiegato per consulenze). Il business angel è una figura che per le sue caratteristiche ha un grado di commitment maggiore delle fonti alternative di capitale e per questo motivo si adatta particolarmente bene alle iniziative imprenditoriali nelle primissime fasi della sua vita. Box 4 Giovani business angel italiani crescono È un uomo, mediamente ha 48 anni, risiede al Nord e ha un patrimonio personale che nel 50% dei casi non supera i cinquecentomila euro. E' questo il sintetico ritratto del business angel italiano (o investitore in- formale) che emerge da una ricerca realizzata dalla Bocconi in collaborazione con l'Iban (Italian business angel network association). Figura importante nel mondo dell'innovazione e dei finanziamenti alle start up, il Business angel è "Un por- tatore di risorse non solo finanziarie" nelle aziende in cui investe come ha sottolineato Emil Abirascid, il giornalista del Sole 24 Ore che ha moderato l'incontro di presentazione della ricerca. Per i suoi investimenti, che crescono del 50-60% rispetto allo scorso anno, il Ba predilige le prime fasi di vita di una nuova azienda dove oltre ai soldi può apportare anche la sua competenza manageriale. La maggioranza si considera infatti un imprenditore e rispetto al passato diminuiscono le figure dei consulenti e pensionati. Il Business angel italiano, infatti, ha un'età media di gran lunga inferiore rispetto ai colleghi europei o ame- ricani (la metà dice di avere iniziato a investire prima dei 35 anni). Sembra quasi che la sua attività non corrisponda a quella sorta di "give back" in voga nei paesi anglosassoni (a una certa età ci si ritira dal lavo- ro attivo per dedicarsi ad altre attività che in genere permettano di restituire alla società parte di quello ri- cevuto in una vita di successo), ma a una reale attività imprenditoriale. Più probabilmente, però, il Ba af- fianca questa attività ad altre tanto che nell'investimento dichiara di cercare, oltre all'ovvio alto rendimento, la gratificazione personale, il ruolo di imprenditore e un ruolo sociale.
  • 45. Imprese alla Ricerca di Capitali 39 Presumibilmente la metà del campione di 110 Ba ha un patrimonio superiore al milione di euro, il 70% af- ferma di investire una quota fino al 30% e gli altri il 50%. Di solito fanno più di una operazione l'anno, con punte fino a cinque, che conoscono grazie a una solida rete di relazioni. Più difficile che il contatto arrivi da banche e ancora meno da università e centri di ricerca. La forma societaria preferita è la Srl e al momento di decidere se e quanti soldi piazzare il Ba valuta so- prattutto il livello manageriale della squadra, la validità del prodotto o del servizio e il potenziale di crescita. L'exit non pare fondamentale anche se due su tre sono convinti che è importante definirlo prima di entrare nella società. A proposito di exit, in ordine di importanza, si parla soprattutto di riacquisto da parte di chi ha proposto l'in- vestimento, di ingresso di un investitore di maggiori dimensioni o di un partner industriale. Il mondo Ict/Internet è il settore principale di investimento, mentre cala il manifatturiero e sale l'energia. Seed, start up ed early stage sono le fasi di vita dell'azienda in cui di solito interviene il Business angel che acquista una quota di minoranza, opera prevalentemente da solo (ma il 40% ha uno o più partner), sta in media 3,3 anni nell'azienda e alla fine si porta a casa un guadagno medio del 17% (con punte del 40%). Ma il 40% i suoi soldi non li ha più visti. 2.2.3 Quali sono i fattori che rendono attrattiva un’impresa in fase di avvio agli occhi degli investitori? Si discute molto sulle varie alternative di finanziamento a cui può attingere un impren- ditore per garantire una solida base alla sua iniziativa, ma ciò che conta, oltre alle fonti, sono i comportamenti da mettere in atto per suscitare interesse negli investitori, aggiu- dicandosi trattamenti vantaggiosi e l’attenzione di un buon numero di potenziali portato- ri di capitale. Il gap culturale presente tra imprenditori ed investitori è ricostruibile ana- lizzando le diverse nature della loro attività. Una persona che vuole rendere redditizia una buona idea è solitamente un esperto del settore nel quale è stata generata l’idea stes- sa, e non ha mai avuto a che fare con i mercati finanziari che regolano le decisioni di in- vestimento nelle start-up. Al contrario, gli operatori di tali mercati faticano a valutare la bontà di un prodotto o di un processo innovativo in quanto mancano loro le conoscenze tecniche necessarie a comprendere appieno il potenziale dell’iniziativa. Un investitore deve quindi basare le sue decisioni su fattori decisionali conosciuti, il più importante dei quali risulta essere la bontà del management [Holland, 2006]. In particolare, le start-up non devono essere guidate da un singolo individuo, ma sareb- be indicato che il team manageriale fosse composto da più persone. Questo perché il bu- siness dev’essere sostenibile anche in assenza del proprietario e devono esistere diffuse capacità manageriali [Mason e Harrison, 2000]. Una soluzione di questo tipo porta a ridurre il rischio percepito dagli investitori, in quanto i valori e la cultura aziendale continuerebbero a persistere anche nel caso in cui venissero a mancare figure chiave nell’organizzazione, ed il commitment della compa- gine imprenditoriale non risulterebbe intaccato in nessun modo dalla defezione. La fidu- cia nei confronti del management si traduce in una maggior disponibilità di finanzia-
  • 46. Piccole Aziende, Grandi Imprese 40 menti in fase di avvio, unita ad una minor onerosità degli stessi derivante dalle migliori condizioni di credito concesse. In una fase durante la quale la generazione di profitti è ampiamente compromessa dall’entità degli investimenti iniziali, buoni rapporti con gli investitori sono fondamen- tali per garantire una sufficiente copertura finanziaria all’impresa: in questo senso le imprese devono cercare di incontrare la domanda di informazione dei potenziali portato- ri di capitali, perseguendo quella che i mercati chiamano investment readyness. 2.3 CONSOLIDAMENTO E SVILUPPO L’impresa avviata verso la fase di maturità necessita di continuare la sua evoluzione, consolidando i risultati raggiunti e gettando le basi per lo sviluppo. Solitamente in que- sto stadio della vita di un’azienda il portato dell’imprenditore non è più sufficiente e si delinea la necessità di poter usufruire di mezzi monetari e competenze tecniche di terzi [Compagno, 2003]. In questa fase si avranno prevalentemente investimenti materiali, necessari per adeguare la capacità produttiva (tramite investimenti strutturali) e l’operatività delle altre funzioni aziendali (approntamento della rete distributiva). Non trascurabili saranno però gli inve- stimenti di natura immateriale, quali marketing, spese pubblicitarie e promozionali [Per- rini, 1998]. Il canale privilegiato per l’accesso a mezzi finanziari non propri in questa fase della vita dell’impresa è quello del credito bancario. I rapporti con le banche diventano quindi fondamentali e devono essere gestiti al meglio al fine di ottenere finanziamenti a condi- zioni sostenibili. Soprattutto nel caso delle piccole imprese, come abbiamo già visto ed approfondiremo ora, ciò non è sempre facile: vincoli culturali ed ambientali pregiudica- no il successo delle azioni di ricerca di capitale bancario, con conseguenze potenzial- mente disastrose. La situazione attuale è ulteriormente complicata dall’introduzione del Nuovo Accordo sul Capitale degli intermediari finanziari, da molti conosciuto anche come “Basilea 2”. Basilea 2 consiste in un miglioramento dello schema di adeguatezza patrimoniale delle banche, che impatta direttamente ed in modo rilevante sulle modalità di operare delle i- stituzioni finanziarie. Il nuovo accordo include un complesso di regole dirette sia a di- sciplinare l’attività d’assunzione del rischio da parte delle banche, tramite coefficienti