Supermario sbaglia i conti Sul Pil una svista del 500%
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SUPERMARIO SBAGLIA I
CONTI: SUL PIL UNA SVISTA
DEL 500%
Editoriale de Il Giornale, 21 gennaio 2013
21 gennaio 2013 a cura di Renato Brunetta
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Monti sbaglia i conti.
Nella Nota di aggiornamento del DEF del 20 settembre 2012, il
presidente del Consiglio, Mario Monti, e il ministro dell’Economia e delle
finanze, Vittorio Grilli, prevedevano una crescita, si fa per dire, del PIL di -
0,2%. A meno di 4 mesi di distanza, il Bollettino economico della Banca
d’Italia, pubblicato lo scorso 18 gennaio, calcola una decrescita del nostro
PIL pari all’1%. Un errore del 500%.
Non male per un governo di tecnocrati. Anche perché da questo errore
deriverà, molto probabilmente, una nuova manovra correttiva. Figlia della
politica economica sbagliata proprio dell’esecutivo dei capaci di Mario
Monti. Complimenti e andiamo a capo.
Anche perché nel frattempo la verità sta venendo a galla.
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Fatta finalmente chiarezza sulla natura della crisi che ha colpito l’eurozona
nell’ultimo anno e mezzo, sulle origini della stessa e sulle conseguenze delle misure
adottate per “risolverla”; considerato che la teoria dei “compiti a casa” di Angela
Merkel e le politiche economiche di solo rigore imposte dalla Germania hanno
spinto i paesi dell’area euro in una spirale di decrescita che non accenna a finire,
e che da ulteriori sangue, sudore e lacrime all’Italia non deriverà più credibilità,
ma arriverà solo più recessione; cosa serve per tirare fuori il nostro paese dalla
crisi, dai ricatti dei mercati, dall’egoismo degli Stati nord europei, dal pessimismo,
dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze?
L’Italia ha bisogno di ricominciare a crescere. Perché solo con la crescita si creano
posti di lavoro, si realizza l’equità sociale, si risponde agli impegni presi con
l’Europa.
La difficoltà dell’ultimo governo Berlusconi è stata quella di non riuscire a
conciliare rigore finanziario con programmi di crescita in una fase difficile della
finanza pubblica, dopo aver trattato con l’Europa il percorso ambizioso di
azzeramento del deficit e avviato la costituzionalizzazione del pareggio di
bilancio.
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E pur avendo attuato i passaggi dolorosi necessari per realizzare questo obiettivo
più tagliando la spesa pubblica che aumentando le tasse. L’esecutivo tecnico, al
contrario, ha spostato il peso del risanamento dalla riduzione della spesa
all’aumento delle tasse (i risibili risultati della Spending review sono ancora basati
su tagli lineari), nella totale assenza di un programma di crescita attuato e
neppure concepito in modo serio.
Risultato prevedibile: approfondimento della recessione.
Dagli errori del passato, di qualsiasi colore politico, dobbiamo ricominciare.
L’Italia ha bisogno di crescere, e per crescere è necessario attuare una strategia
coraggiosa di riduzione della pressione fiscale, naturalmente nel rispetto della
regola costituzionale del pareggio di bilancio strutturale e degli impegni di
riduzione del debito assunti in sede europea.
È possibile? È certamente possibile se poniamo come obiettivo strategico della
prossima legislatura quello di portare l’Italia nelle seguenti condizioni:
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una pressione fiscale ridotta di cinque punti percentuali (dal 45% al 40%); una
spesa pubblica ridotta in misura corrispondente (80 miliardi); un sentiero di
riduzione costante del debito (sotto il 100% del PIL), tale da soddisfare gli
impegni europei, che non comporti un avanzo primario maggiore del 3% del PIL,
cioè inferiore di quasi 2 punti all’avanzo primario programmato per il prossimo
anno. Dando ossigeno, così, alla crescita.
Naturalmente è necessario indicare come e dove tagliare tasse e spesa. La
riduzione della pressione fiscale di un punto percentuale all’anno per 5 anni, cioè
la sua riduzione dal 45% al 40% del PIL, comporta, rispetto al quadro
programmatico fino ad oggi approvato, un minor gettito (ex-ante, cioè a PIL
invariato) di circa 16 miliardi all’anno e di 80 miliardi alla fine del quinquennio di
previsione. In altri termini, l’obiettivo è di far pagare meno tasse per 80 miliardi a
famiglie ed imprese, cioè una riduzione di circa il 10%.
Prima di specificare dove tagliare le tasse di questo ammontare, cosa non
secondaria, si deve chiarire come si finanzia questa riduzione di gettito, cioè come
tagliare la spesa pubblica per un ammontare corrispondente.
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Poiché la spesa pubblica complessiva è pari a circa 800 miliardi di euro, si tratta
di ridurla del 10% in 5 anni, con un taglio di spese progressivo di 16 miliardi
all’anno. Il cuore dell’operazione dovrà consistere in un forte, serio, credibile piano
di attacco al debito pubblico, che incida sullo stock e sui flussi.
Tanto più la riduzione della spesa graverà sulla riduzione degli interessi passivi
pagati per la remunerazione del debito pubblico, tanto più l’effetto sulla crescita
sarà virtuoso.
Questo perché la spesa pubblica consiste di redditi di famiglie e imprese e la sua
riduzione attenua l’effetto espansivo della riduzione della pressione fiscale,
mentre la spesa per interessi passivi è composta di flussi di pagamento che per
circa la metà vanno a remunerare sottoscrittori residenti all’estero, quindi la
riduzione di questi flussi non ha effetti negativi sulla domanda interna.
Ma quali sono gli spazi di manovra per una loro riduzione?
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Gli interessi sul debito pubblico ammonteranno nel 2013 a circa 90 miliardi (fonte:
Nota di aggiornamento del DEF 2012), oltre il 10% della spesa pubblica
complessiva. La loro dinamica futura dipende ovviamente dallo stock del debito,
ma anche dalla sua remunerazione, cioè dal suo tasso medio di rendimento.
Le 2 variabili sono tra di loro collegate perché un debito più basso, e soprattutto
in discesa, richiede per il suo finanziamento una remunerazione minore, a parità di
condizioni dei mercati finanziari.
Lo spazio di manovra dipende dalla capacità di mettere in atto un piano di
riduzione dello stock del nostro debito pubblico per almeno 400 miliardi di euro in
5 anni in modo tale da portarlo al di sotto del 100% del PIL.
Si tratta di adottare in modo più coraggioso i vari piani di dismissione e
valorizzazione del patrimonio pubblico proposti in questi anni, anche utilizzando le
migliori tecniche di gestione finanziaria (costituzione di una società di diritto
privato ove conferire i beni dello Stato ed emissione, da parte di quest’ultima, di
obbligazioni con warrant).
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Se si attuasse questo piano di riduzione progressivo dello stock del debito, di circa
100 miliardi all’anno per 5 anni, ne deriverebbe certamente una riduzione del
tasso medio di interesse/rendimento, che in via prudenziale potremmo valutare di
un punto percentuale (cioè passare progressivamente dal 4,5% al 3,5%), ma
anche, di conseguenza, il tendenziale dimezzamento del servizio del debito, nello
stesso arco temporale, dai circa 90 miliardi previsti per il 2013 a circa 50 miliardi
nel 2017.
In altri termini, riducendo lo stock del debito, aumenta la sostenibilità dello stesso,
quindi la credibilità del nostro paese, quindi diminuiscono i rendimenti.
Alle misure sopra prospettate, che dovranno garantire circa metà del
programmato abbattimento di 80 miliardi della spesa pubblica, incluso un
accordo bilaterale con la Svizzera per la tassazione dei capitali ivi detenuti (sul
modello di una simile convenzione già siglata con la Svizzera da Germania e
Inghilterra), che libera 30-40 miliardi subito e ulteriori 5-7 miliardi negli anni
successivi, dovrà accompagnarsi una seria azione di contrasto a illogiche forme di
“erosione fiscale” ricorrenti nel nostro paese.
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Per “erosione fiscale” si intende l’ampia, e spesso indiscriminatamente
anacronistica, area degli “sconti fiscali” previsti nel nostro ordinamento. Più in
particolare, si tratta di abbattimenti del debito di imposta imputabili a previsioni
legislative: deduzioni, detrazioni, esclusioni, esenzioni, aliquote ridotte, le quali,
apportando una riduzione del gettito, producono sul bilancio pubblico un effetto
analogo ad aumenti di spesa.
Le cosiddette “Tax expenditures” (spese fiscali) che, stando ai risultati di un
apposito gruppo di lavoro costituito dal governo Berlusconi e presieduto dal
dottor Vieri Ceriani (poi sottosegretario tecnico alle finanze dell’ultimo governo
Monti), si aggirano intorno a 254 miliardi di euro. Forme di erosione
indiscriminatamente disposte su un elenco enorme di oltre 720 voci, stratificatesi
nel tempo in maniera spesso irrazionale e, comunque, disordinata.
Un’opera di razionalizzazione di queste voci può portare un recupero di gettito di
almeno 35 miliardi di euro in 5 anni (più del 10% del totale delle agevolazioni,
che abbiamo visto essere pari a circa 254 miliardi di euro).
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Infine, in modo realistico, senza ricorrere a tagli lineari, un’azione seria di recupero
di efficienza della pubblica amministrazione e delle sue modalità di spesa può
garantire progressivamente nel quinquennio almeno 10 miliardi addizionali di
risparmi su un totale di circa 300 miliardi tra spesa per stipendi e consumi
intermedi.
Bene, abbiamo i soldi. Come li utilizziamo per ridurre la pressione fiscale di 5
punti in un quinquennio? Innanzitutto dividiamo equamente la riduzione del
prelievo fiscale calcolato nel nostro esercizio tra famiglie e imprese. Ciò significa
che, nel primo anno, dei primi 16 miliardi di minor prelievo complessivo dovranno
beneficiare per 8 miliardi sia le une sia le altre, per arrivare a un minor prelievo
di 40 miliardi sulle famiglie e un minor prelievo di 40 miliardi alla fine del
quinquennio, quando si sarà raggiunto l’obiettivo di abbattimento della pressione
fiscale di 5 punti.
Per le famiglie iniziamo subito, dal 2013, eliminando l’IMU sulla prima casa, costo
stimato 4 miliardi di euro. Con i restanti 4 miliardi a disposizione avviamo il
quoziente familiare, il cui costo totale è stimato in 12 miliardi di euro.
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A questo, pertanto, destiniamo anche gli ulteriori 8 miliardi che si libereranno per
le famiglie dall’attacco al debito e dalla revisione delle Tax expenditures nel
2014. A partire dal 2015, e per il 2016 e il 2017, infine, destineremo l’ulteriore
abbattimento programmato della pressione fiscale a disposizione per le famiglie
alla progressiva riduzione dell’Irpef, con l’obiettivo di convergere verso un sistema
fiscale composto da 2 sole aliquote, del 23% e del 33%, prendendo un livello di
40.000 euro come discrimine.
Si tratta di un’azione di cui il nostro paese ha assolutamente bisogno. Perché solo
aumentando il reddito disponibile delle famiglie attraverso la riduzione della
pressione fiscale, prima mediante l’eliminazione dell’IMU sulla prima casa, poi
introducendo il quoziente familiare e riducendo le aliquote IRPEF, aumenteranno i
consumi, aumenterà quindi la domanda interna, e le imprese torneranno a investire
e ad assumere, invertendo il circolo vizioso che da un anno e mezzo almeno
soffoca la nostra economia.
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Vediamo ora l’azione dell’abbattimento fiscale nei confronti delle imprese, per le
quali nel nostro esercizio abbiamo previsto un abbattimento fiscale che parte da 8
miliardi nel primo anno fino a arrivare a 40 miliardi alla fine dell’esercizio di
previsione. Come li utilizzeremo?
Per abolire gradualmente l’IRAP, quell’imposta ingiusta che tassa le imprese non in
base agli utili conseguiti, bensì in base al personale assunto a tempo indeterminato
nell’azienda. Un’imposta insulsa, contro la crescita, contro lo sviluppo, contro il
lavoro. Inaccettabile. Gettito complessivo dell’IRAP è di 34-35 miliardi all’anno.
Ampiamente coperto dal nostro gruzzoletto quinquennale. Abolire l’Irap vuol dire
aumentare la competitività dell’intero sistema paese. Significa nuove assunzioni.
Anche in questo modo si inverte il circolo vizioso della recessione e il paese
ricomincia a crescere, recuperando quella credibilità tanto ricercata.
Il percorso di riduzione del debito che verrebbe assicurato secondo il nostro
esercizio programmatico è facilmente illustrato.
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Come è noto la dinamica del rapporto debito/PIL è determinata dalla differenza,
moltiplicata per il rapporto debito/PIL esistente, tra il tasso nominale di
rendimento medio del debito e il tasso di crescita nominale del PIL, meno l’avanzo
primario. In altri termini, la formula di calcolo è la seguente: Δd = - s + (i-g)d ,
dove d indica il rapporto debito/PIL, s indica l’avanzo primario, i il tasso di
interesse nominale medio sul debito, g il tasso di crescita del PIL. Bene, questo
significa che nel 2013, con un tasso di crescita nominale del PIL previsto intorno
all’1% (1% negativo reale + 2% di inflazione), un tasso di rendimento medio del
debito intorno al 4,5%, e un rapporto debito/PIL del 120%, l’avanzo primario
necessario a stabilizzare il rapporto debito/PIL , cioè a far sì che Δd sia uguale a
zero, dovrebbe essere pari a circa 4,2% del PIL, cioè intorno a 70 miliardi.
Questa è la situazione come si prospetta oggi in base all’obiettivo di pareggio di
bilancio.
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Secondo il nostro esercizio, l’azione di proposta di abbattimento del prelievo
fiscale, con pareggio di bilancio garantito dalla riduzione di spesa, con la sua
prima attuazione e il conseguente effetto annuncio, può portare già nel 2014,
primo anno in cui si avrebbero gli effetti del programma, a una crescita economica
reale intorno all’1%, e quindi ad una crescita nominale del 3%, ipotizzando
inflazione stabile al 2%.
Il tasso di rendimento medio del debito si potrebbe stabilizzare e non aumentare
come previsto e, anche grazie all’inizio del processo di abbattimento dello stock
del debito, l’avanzo primario necessario alla stabilizzazione del reddito PIL
scenderebbe a meno del 2%, il che significa che l’avanzo primario, oggi
programmato per il 2014 ad un livello superiore al 5,5%, potrebbe essere ridotto
pur lasciando spazio per una diminuzione del rapporto debito/PIL.
In un esercizio, seppur realistico, come quello che proponiamo alla riflessione,
contano le tendenze.
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Vediamo quindi la situazione alla fine del quinquennio di revisione, in cui avremmo
una pressione fiscale ridotta di 5 punti in percentuale del PIL, una riduzione di
spesa corrispondente di cui quasi la metà rappresentata da minori uscite verso
l’estero cioè senza impatto sulla domanda interna e un rapporto debito/PIL pari
al 100% secondo la nostra ipotesi. In questa situazione posiamo ipotizzare un
tasso di crescita costante almeno dell’1,5%-2% in termini reali, e quindi un tasso di
crescita nominale intorno al 3,5%-4% se la BCE mantiene l’obiettivo di inflazione
al 2%, mentre il tasso di rendimento medio del debito si dovrebbe ridurre almeno
di un punto e, quindi, intorno al 3,5%.
Un semplice calcolo ci dice che l’avanzo primario necessario a mantenere stabile il
rapporto debito/PIL scenderebbe vicino allo zero. Ciò significa ancora che per
arrivare all’obiettivo di un rapporto debito/PIL del 60% in 20 anni, secondo gli
impegni comunitari, si dovrà ridurre lo stock del debito di 2 punti percentuali
all’anno e, quindi, un avanzo primario che all’inizio del percorso dovrà essere
intorno al 2%, cioè meno della metà di quello programmatico attuale per il 2013,
e in riduzione progressiva nel processo di convergenza.
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Uno sforzo accettabile anche perché l’evidente sostenibilità del debito raggiunta
può fruttare un miglioramento del quadro macroeconomico e di finanza pubblica
superiore a quello ipotizzato.
Tutto questo serve all’Italia. Perché tutto questo vuol dire più mercato, vuol dire più
capitalismo, vuol dire nuovi investimenti, vuol dire, anche sociologicamente, nuovi
capitalisti, più produttività, più competitività, più crescita, più occupazione, minore
pressione fiscale, emersione del sommerso, più responsabilità, più credibilità.
La nuova strategia di politica economica non deve essere solo di ingegneria
finanziaria, ma deve avere in sé tutta la forza, tutta l’etica, di un cambio di passo,
di uno shock economico finanziario finalizzato alla crescita e alla credibilità della
nostra finanza pubblica. Diventare europei nel debito significa diventare europei
a 360 gradi.
Nei mercati, nelle banche, nella finanza, nelle relazioni industriali, nella giustizia,
nella politica. Insomma, mettere fine, all’interno, al non più sopportabile
compromesso consociativo che dal dopoguerra ha soffocato e soffoca il nostro
Paese.
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E, soprattutto all’esterno, smetterla con la sudditanza ai diktat della Germania e
di un’Europa che non ha saputo guardare al futuro.
Monti, nei suoi 13 mesi di governo, è stato incapace anche solo di pensare una
strategia di questo tipo. Senza coraggio nonostante la sua maggioranza
parlamentare. Senza capacità di visione.
Agli italiani decidere: se rimettersi in gioco o continuare a subire con
rassegnazione in compagnia di Monti, Fini, Casini, Bersani e Vendola.
18. programma spot
GIÙ LE TASSE!
21 gennaio 2013 a cura di Renato Brunetta
20. 40 miliardi
20
FAMIGLIE
Eliminazione IMU prima casa (4 mld)
Quoziente familiare (12 mld)
Totale
Riduzione aliquote IRPEF (24 mld)
80 miliardi
in 5 anni
40 miliardi
IMPRESE
Abolizione dell’IRAP
21. Gettito attuale
750 miliardi
21
tasse
Riduzione in
termini assoluti 80 miliardi
(in 5 anni)
Riduzione in
% del PIL 10,6%
(in 5 anni)
22. DOVE PRENDIAMO LE COPERTURE
• Riducendo il servizio del debito pubblico
22
• Siglando un accordo con la Svizzera
• Dai proventi derivanti dalla lotta all’evasione fiscale
8
miliardi 8
all’anno miliardi
all’anno
• Recuperando il 3% delle 700 agevolazioni
22 fiscali che valgono 254 miliardi
23. i dossier
www.freefoundation.com
DETTAGLIO PER ANNO
21 gennaio 2013 a cura di Renato Brunetta