2. MOUSTAPHA NDIAYE (senegalese)
Sono venuto in Italia nel 1987, perché non avevo lavoro per
mantenere la famiglia numerosa e, perciò, per migliorare la
nostra condizione. Qui sono stato ben accolto ed ho avuto la
possibilità di avere un lavoro.
Nel primo periodo ho vissuto due anni di clandestinità, prima
a Napoli e poi in Sicilia dove, con la Legge Martelli, ho avuto
il permesso di soggiorno. Sono arrivato qui tramite un ospite
della comunità di don Giovanni Bau a Santa Teresina e, nel
1990, ho trovato impiego in una fabbrica locale, dove
tuttora lavoro. In quegli anni, nel territorio c’erano solo
quattro case dove alloggiavamo.
Nel 1995 è arrivata anche mia moglie ed è nato il nostro
primo figlio; ora, il quarto ha due anni. Ho comprato casa.
Se mi fossi trovato male sarei ritornato al mio Paese .
3. Abdoul, 42 anni, Niger
«In Libia lavoravo come autista. Il mio datore di lavoro è fuggito quando è scoppiato
il conflitto. Una mattina, stavo andando a lavoro e ho visto alcuni uomini armati. Mi
hanno minacciato. Ho dovuto lasciare la casa. Ho mandato mia moglie e i miei due
figli in Niger ma non sono riuscito a raggiungerli. Sono rimasto lì, bloccato nel bel
mezzo della guerra.
Sono salito sulla barca perché temevo di morire. Non ho dovuto pagare. Sapevo che
la morte ci avrebbe potuto cogliere in qualsiasi momento del viaggio. Non sapevo di
essere diretto in Italia.
In Niger, non c’è più niente per me. I miei genitori sono morti tempo fa, si rischia di
essere vittima degli scontri tra i contadini e allevatori e io non ho né terra né
bestiame. Ho lasciato il mio Paese 10 anni fa e ormai non lo conosco più.
Da quando sono arrivato a Mineo, non faccio altro che camminare in circolo. Sembra
di essere in carcere. Per due mesi ci hanno detto che avremmo dovuto ricevere i
documenti ma non è successo nulla. Il tempo passa e io non so nemmeno se la mia
famiglia riesce a sfamarsi e può sopravvivere senza di me. Non posso smettere di
pensare a loro e questo mi fa stare male. A volte sono talmente preoccupato che non
riesco a mangiare.
Vorrei restare in Italia, lavorare e prendermi cura della mia famiglia proprio come
facevo prima che scoppiasse la guerra».
4. Akin, 34 anni, Nigeria
«Ho lasciato la Nigeria e mi sono spostato da un posto ad un altro. Da quel momento
la situazione è solo peggiorata. Ma sopravvivo, sono un sopravvissuto. Ho visto
molte cose. Sono stato in Niger. Ho incontrato molti nigeriani lungo la strada verso la
Libia e mi sono unito a loro.
In Libia, ho iniziato una nuova vita pensando di essermi lasciato i problemi alle
spalle. Non mi andava troppo male. Sopravvivevo, vivevo. Poi è iniziata la guerra. Ho
pensato fosse il momento di fuggire di nuovo. Laggiù eravamo considerati delle armi.
Sono stato portato in un luogo chiuso, insieme ad altre persone. Volevano usarci
come mercenari. Sono fuggito nella notte insieme ad altre 3 persone. Ci avevano
messo in un posto dove non pensavano saremmo sopravvissuti ma siamo riusciti a
scappare attraverso una via di piccola fuga!
La barca era la nostra unica possibilità di scampare alla morte. Quando siamo stati
tratti in salvo ci hanno detto: “benvenuti in Italia”. In quel momento mi sono sentito
nuovamente vivo. Ci hanno chiesto cose come: “Stai bene? Hai caldo?”. Poi ci hanno
trasferito a Mineo attraverso una grande nave.
A Mineo tutti i giorni sono uguali. Non abbiamo accesso a nessuna informazione, non
c’è nulla che ci tenga occupati. Mi chiedo perché sono vivo oggi. Se dovessi morire,
nessuno piangerebbe la mia morte. E se sopravvivrò sarò l’unico a rallegrarsene.
A Mineo stiamo bene. Dormiamo, ci alziamo e mangiamo tre volte al giorno. Stiamo
bene ma non sappiamo cosa accadrà dopo. Stiamo solo qui. Il mio futuro comincerà
di nuovo quando sarò in grado di pensare: “Voglio fare questo o quello”. Ma per il
momento non so. Ho molte cose in mente e vorrei essere in grado di raccontarle».
5. • DANIEL SABOANU (rumeno)
Sono immigrato dopo un regime dittatoriale che ha tolto tutto
(materialmente e spiritualmente), anche la dignità. Per lo
Stato i cittadini erano solo funzionali a produrre.
Dall’età di sedici anni ho lavorato in una fonderia, in tre turni
di otto ore. Poi, con la caduta del regime ed il passaggio della
fabbrica ai privati, ci furono numerosi licenziamenti. A
vent’anni volevo crearmi un futuro. Tramite la Chiesa, nel
1991 andai perciò in un primo periodo di otto mesi in Austria,
per ritornare poi in Romania.
Tramite mio fratello, che studiava a Padova, arrivai a Monfumo
(TV), con visto regolare. Fui aiutato da un sacerdote, che mi
diede speranza. Anche un gruppo scout con il suo entusiasmo
mi ha aiutato molto. Abitavo in un appartamento della scuola
materna ed ero di sostegno nella parrocchia. Nel 1992 ho
avuto il permesso di soggiorno.
Ho scelto l’Italia perché era più vicina alla mia cultura .
6. Baidu, Ghana, "Da tante speranze nel passato a solo una
oggi"
Baidu, 38 anni, vive in Italia dal 1997. Abita a Trento insieme alla
moglie in un appartamento per cui paga un affitto di 650 euro. I
due figli, rispettivamente di 9 e 12 anni, vivono con i nonni in
Ghana, il paese di origine di Baidu. Dal 2001 lavora in una
fabbrica ad Ala come operaio. "Sono stato inquadrato con il
secondo livello e oggi sono al terzo. Quindi lo stipendio è
aumentato da poco in questi anni – racconta il giovane ghanese e
prosegue – guadagno 1300 euro al mese e mi sento sottopagato.
Nella fabbrica siamo in maggioranza immigrati di varie
nazionalità. Sembra che gli italiani non vogliono fare più questo
lavoro in quanto pesante e poco remunerato. Mi sento in ogni caso
fortunato rispetto ad altri in quanto ho un contratto a tempo
indeterminato. Infatti, molti di coloro assunti con contratto
determinato o tramite le agenzie temporali non si vedono più in
fabbrica.
7. ARTAN LLANAJ (albanese)
Sono metà albanese e metà italiano, visto che sono 14 anni che sono qui.
Venni nel 1993 per ragioni economiche. Finita la scuola avevo un posto
sicuro, ma non bastava per mantenere la famiglia numerosa.
Emigrai da Valona e vissi tre anni da clandestino. Incontrai i problemi
maggiori soprattutto per la casa. Sapevo già la lingua (da noi si vedeva la
tivù italiana) e venni al Nord perché sapevo che c’era maggior sviluppo
economico. Ebbi appoggio dai miei cugini e, grazie ai parenti ed amici,
ottenni i documenti. Feci il ricongiungimento familiare con i genitori e
fratelli. Ciò grazie alla fortuna o Dio, per chi crede (io sono ateo).
Venni a 21 anni e ora ne ho 35. Sono praticamente cresciuto qui in Italia:
ho incontrato un popolo di lavoratori, la cortesia e la buona cucina. Trovo
però la mancanza di mantenere la parola…
Ho sistemato la famiglia e abbiamo anche fatto un mutuo per la casa. Ho
seguito poi un corso per infermiere professionale e sono impiegato come
tale in una ditta privata. Ho realizzato quindi il mio sogno prima di partire
dall’Albania: se ritornassi indietro rifarei tutto come 14 anni fa. Sono
albanese, ma considero l’Italia il mio secondo Paese (conosco di più le
strade di San Donà che non quelle di Valona).