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Parlando di cultura e scuola in tempo di crisi, il punto di partenza è 
obbligato: è prevalsa in Italia una versione dei fatti, sbandierata dalla destra e 
vissuta con rassegnazione da buona parte della sinistra, secondo cui in tempo 
di crisi ridurre le risorse (cioè tagliare le gambe) alla ricerca, alla scuola, 
all’università, al teatro, alla tutela dei beni culturali, alla musica è non solo 
necessario ma giusto. Questa volgare mistificazione, di solito citata con la 
formuletta (attribuita a Tremonti) “la cultura non si mangia”, ha un corollario 
importante: la riduzione dei fondi pubblici, dicono lorsignori, innescherà un 
processo virtuoso, per cui non solo si spenderà meglio quel poco che c’è, ma 
prontamente interverrano i privati ad assicurare il funzionamento delle 
istituzioni. 
Vale la pena di smontare in poche mosse questo traballante castello di 
carta. Prima di tutto, non è vero che la politica dei tagli alla spesa pubblica in 
cultura sia una reazione-standard dei governi di destra alla crisi. Non è quello 
che ha fatto la Francia di Sarkozy, che anzi ha “sanctuarisé” le spese in cultura 
(dichiarazione del ministro Frédéric Mitterrand, 29 maggio 2012), e ha 
lanciato un programma di accresciuti investimenti in ricerca per 21,9 miliardi 
di euro nel quinquennio (discorso del ministro Valérie Pécresse, 1 giugno 
2010). Non è quello che ha fatto la Germania di Angela Merkel, che anzi ha 
incrementato i fondi per la ricerca di 10 miliardi di euro con la 
Exzellenzinitiative lanciata tre anni fa e ancora in corso. Lo spirito di questi 
provvedimenti in questi due Paesi europei è identico a quello espresso dal 
presidente Obama nel suo discorso alla National Academy of Sciences del 27 
aprile 2009: «In un momento difficile come il presente, c’è chi dice che non 
possiamo permetterci di investire in ricerca, che sostenere la scienza è un 
lusso in una fase in cui bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente 
necessario. Sono di opinione opposta. Oggi la ricerca è più essenziale che mai 
alla nostra prosperità, sicurezza, salute, ambiente, qualità della vita. (...) Per 
reagire alla crisi, oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si 
sia mai fatto nella ricerca applicata e nella ricerca di base, anche se in qualche 
caso i risultati si potranno vedere solo fra dieci anni o più: (...) i finanziamenti 
pubblici sono essenziali proprio dove i privati non osano rischiare. All’alto 
rischio corrispondono infatti alti benefici per la nostra economia e la nostra 
società». 
Reagire alla crisi economica tagliando gli investimenti pubblici in 
cultura, dunque, non è la politica delle destre europee, bensì una specialità 
della destra italiana. Ma di quale destra? Una delle favolette consolatorie che 
ci raccontiamo per addormentarci è che vi sarebbero in Italia due destre: una 
destra becera e indecente (quella di Berlusconi, di Bossi, di Alemanno), per 
fortuna ormai sgominata; e una destra colta, “pulita” e tecnocratica che si è 
incarnata nel governo “tecnico”, e che si è poi riversata nella destra ai governi 
delle “larghe intese”, basata oggi sul patto di carta fra Matteo Renzi e Silvio 
Berlusconi.
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Ma non dobbiamo accecare noi stessi al punto di non vedere che, sotto 
molti aspetti, dall’una all’altra destra nulla è cambiato: e questo è vero in 
particolare per quel che riguarda la spesa sociale e gli investimenti in cultura. 
Fra Gelmini e Giannini c’è una perfetta continuità di intenti, con un continuo 
depotenziamento della scuola, dell’università, della ricerca. Dobbiamo 
dunque constatare amaramente che il disprezzo per la cultura e la deliberata 
intenzione di relegarla al margine delle politiche pubbliche non è un attributo 
della destra “becera”, ma anche della destra “pulita” e tecnocratica, quella che 
ancor oggi ci governa, appena travestita sotto il velo di una strana 
maggioranza. Allargando le braccia, e magari fingendo di vergognarsi, si 
tagliano le spese in cultura, dando per scontato che scuola e ricerca siano 
optional a cui dedicare solo il superfluo (che non c’è mai). 
Spendere per la scuola, per i musei o per i teatri è dunque, in Italia e 
solo in Italia, considerato un lusso che in tempi di magra non ci possiamo 
permettere. Possiamo vederlo bene ricordando un famoso articolo di 
Alessandro Baricco su Repubblica del 24 febbraio 2009. Il titolo era : Basta soldi 
di Stato al teatro. Un titolo eloquente. In tempi di crisi, questa la sua tesi, non si 
può pensare che la cultura sia finanziata con fondi pubblici. E’ arrivato il 
momento di scegliere. Basta soldi di Stato al teatro, puntiamo sulla scuola e la 
televisione, le sole cose che contino «nel paesaggio che ci circonda» (per la 
loro dimensione di massa). Quanto al teatro, all’opera lirica e così via, «meglio 
lasciar fare al mercato e non disturbare», tanto più che «se non sono 
stagnanti, poco ci manca». Ergo: tagliare tutti i fondi a musica e teatro, 
spostandoli integralmente sulla scuola e la televisione, «il Paese reale è lì». 
Sarebbe interessante analizzare le reazioni a questo articolo, ma non ce n’è il 
tempo: ricordo solo l’esultanza degli allora ministri Brunetta e Bondi e le 
critiche acute di Eugenio Scalfari. Più tardi, Vincenzo Cerami sull’Unità 
(3.1.2010) e Gioacchino Lanza Tomasi sul Sole ( 17.1.2010) hanno 
lapidariamente osservato che anche alla sinistra «manca la cultura della 
cultura». Non è un gioco di parole. Cultura della cultura vuol dire sapere che 
le attività artistiche, la creazione letteraria, la ricerca scientifica, i progetti 
museografici, la scuola, l’università hanno una funzione alta e insostituibile 
nella società. Sono luoghi di consapevolezza e di educazione alla creatività, 
alla democrazia e ai valori civici e identitari : il cuore di quella capacità di 
crescita endogena che i migliori economisti individuano come uno stimolo 
potente all’innovazione e all’occupazione non di quei settori specifici, ma di 
una società nel suo insieme. 
Qualche domanda, allora: 
1. perché in Italia si taglia, altrove l’investimento in cultura è visto come una 
reazione positiva alla crisi? 
2. ha ragione Baricco di chiedere più soldi per la scuola e una decente TV 
pubblica che recuperi (se mai è possibile) il degrado culturale che proprio la
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televisione, privata e pubblica, va consolidando. Ma perché va fatto a spese 
del teatro (o del patrimonio culturale? o della ricerca e dell’univeristà? o della 
tutela del paesaggio?). In quale Paese al mondo si è mai dovuto scegliere fra 
scuola e musica, fra televisione e teatro? 
3. «Spostate quei soldi», scriveva Baricco, e intendeva : spostate su scuola e 
TV i fondi del teatro. Come se vi fosse un “paniere cultura”, necessariamente 
magrissimo, da cui pescare, in alternativa, o per la scuola o per l’opera. E 
perché mai non potremmo dire: «Spostate quei soldi», ma intendendo quelli 
destinati a opere inutili anzi dannose come il Ponte sullo Stretto, le varie Tav, 
la dannosa autostrada Orte-Mestre e le altre cementificazioni dello Sblocca- 
Italia, il cosiddetto salvataggio Alitalia che ha borseggiato il contribuente, e 
così via? 
Ci viene propinata quotidianamente una dose letale di perversa 
retorica dello sviluppo inteso come profitto delle imprese e non come crescita 
civile ed economica del Paese. Storditi da un pulviscolo di cifre e dalla 
necessaria genuflessione al Dio Mercato, dimentichiamo che non può esservi 
nessun vero sviluppo economico, se non è anche crescita democratica del 
Paese. Dimentichiamo che la cultura non è un lusso, ma è stimolo potente di 
creatività non solo artistica e letteraria, ma scientifica e industriale. Quella 
creatività che produce innovazione e lavoro, e che oggi in Italia è agonizzante 
perché ha ceduto il passo ai facili guadagni di un’edilizia di pessima qualità, 
al riciclaggio dei denari delle mafie, allo smontaggio dello Stato e dei beni 
pubblici, oggetto privilegiato di un’economia di rapina che non produce 
nuova ricchezza, ma sposta le risorse dalla comunità dei ci ttadini alle nuove 
caste prodotte dal neoliberismo spinto che ci governa. 
Per smontare la catena di menzogne che ci soffoca, è vitale ricordarsi 
che il “paniere cultura” non sta sotto una campana di vetro. E’ parte 
essenziale di un largo orizzonte di diritti, che ha nella Costituzione 
repubblicana il suo perfetto manifesto. La nostra Costituzione è davvero “la 
grande incompiuta” (Calamandrei): non è una ragione per cambiarla, bensì 
per esigere che venga finalmente messa in pratica. Il grandioso progetto che 
sinora non abbiamo saputo tradurre in pratica si esprime al meglio nell’art. 9, 
secondo cui «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca 
scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della 
Nazione». Essenziale alla legalità di una Repubblica che è e deve restare «una 
e indivisibile» (art. 5 Cost.), il principio espresso nell’art. 9 si lega ad altri 
articoli della Costituzione in una sapiente architettura di valori. Esso va inteso 
come espressione dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e 
sociale» (art. 2); dev’essere indirizzato al «pieno sviluppo della personalità 
umana» (art. 3) e collegato alla piena libertà di pensiero e di parola (art. 21), 
alla libertà dell’arte, della scienza e del loro insegnamento (art. 33), alla 
centralità della scuola pubblica statale e al diritto allo studio (art. 34). La 
tutela del paesaggio, inoltre, concorre alla formazione della nozione di
4 
ambiente come valore costituzionale primario convergendo con la tutela della 
salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della 
collettività» (art. 32). Secondo la Costituzione il bene comune non comprime, 
ma limita i diritti di privati e imprese: alla proprietà privata deve essere 
«assicurata la funzione sociale» (art. 42), la libertà d’impresa «non può 
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla 
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41). 
Dando tanto risalto alla cultura, la Costituzione è in sintonia con grandi 
tendenze culturali del nostro tempo, secondo cui «l’etica dev’essere una 
condizione del mondo, come la logica» (Wittgenstein). La cultura fa parte 
dello stesso identico orizzonte di valori costituzionali che include il diritto al 
lavoro, la tutela della salute, la libertà personale, la democrazia. Perciò 
dobbiamo reagire contro l’indifferenza che uccide la democrazia, contro la 
tirannia antipolitica dei mercati. Io condivido pienamente quanto ha scritto 
Zagrebelsky: “antipolitica è una parola violenta e disonesta”, se applicata a 
movimenti di cittadini, anche confusi e sgangherati: se “antipolitico” è quel 
che opera contro la democrazia, nulla di più antipolitico della cieca forza dei 
mercati, a cui pure destra e sinistra si genuflettono senza fiatare. Dobbiamo 
rilanciare l’etica della cittadinanza, puntando su mete necessarie: giustizia 
sociale, tutela dell’ambiente, priorità del bene comune sul profitto del singolo. 
Dobbiamo far leva sui beni comuni come garanzia delle libertà pubbliche e 
dei diritti civili. Recuperare spirito comunitario, pensare anche in nome delle 
generazioni future. Ambiente, patrimonio culturale, salute, ricerca, 
educazione incarnano valori di cui la Costituzione è il manifesto: libertà, 
eguaglianza, diritto al lavoro. La scuola pubblica statale è lo snodo necessario 
fra l’orizzonte dei diritti e l’esercizio attivo della cittadinanza: perciò 
dovrebbe costituire il più importante investimendo del Paese sul proprio 
futuro. Nessuno può dire “non ci sono risorse per farlo”: in un Paese che nel 
solo 2012 non ha pagato 154,4 miliardi di euro di tasse (dati Confcommercio), 
le risorse ci sono, ma vengono lasciate nel cassetto dell’evasione fiscale. 
Ricordiamo l’ammonimento di Brecht «per la difesa della cultura» al I e 
al II congresso internazionale degli scrittori: «Si abbia pietà della cultura, ma 
prima di tutto si abbia pietà degli uomini! La cultura è salva quando sono salvi gli 
uomini. Non lasciamoci trascinare dall’affermazione che gli uomini esistono per la 
cultura, e non la cultura per gli uomini. (...) Riflettiamo sulle radici del male! (...) 
scendiamo sempre più in profondo, attraverso un inferno di atrocità, fino a giungere 
là dove una piccola parte dell’umanità ha ancorato il suo spietato dominio, sfruttando 
il prossimo a prezzo dell’abbandono delle leggi della convivenza umana (...), sferrando 
un attacco generale contro ogni forma di cultura. Ma la cultura non si può separare 
dal complesso dell’attività produttiva di un popolo, tanto più quando un unico assalto 
violento sottrae al popolo il pane e la poesia.» E Brecht conclude esortando a 
lottare per la cultura anche in nome della produttività, oltre che della libertà. 
Per condurre questa battaglia, non c’è arma migliore della Costituzione 
repubblicana. Per la Costituzione, la comunità dei cittadini è fonte delle leggi
5 
e titolare dei diritti. Dobbiamo dunque riguadagnare sovranità, nello spirito 
della Costituzione, cercando nei movimenti civici il meccanismo-base della 
democrazia, il serbatoio delle idee per una nuova agenda della politica. 
Dobbiamo dare nuova legittimazione alla democrazia rappresentativa 
facendo esplodere le contraddizioni fra i diritti costituzionali e le pratiche di 
governo che li calpestano in obbedienza ai mercati. Dobbiamo ricreare la 
cultura che muove le norme, ripristina la legalità, progetta il futuro. Serve 
oggi una nuova consapevolezza, una nuova responsabilità. Una forte azione 
popolare in difesa del bene comune, della cultura, della scuola, di un’Italia 
declinata al futuro all’insegna della sua Costituzione.

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Salvatore Settis

  • 1. 1 Parlando di cultura e scuola in tempo di crisi, il punto di partenza è obbligato: è prevalsa in Italia una versione dei fatti, sbandierata dalla destra e vissuta con rassegnazione da buona parte della sinistra, secondo cui in tempo di crisi ridurre le risorse (cioè tagliare le gambe) alla ricerca, alla scuola, all’università, al teatro, alla tutela dei beni culturali, alla musica è non solo necessario ma giusto. Questa volgare mistificazione, di solito citata con la formuletta (attribuita a Tremonti) “la cultura non si mangia”, ha un corollario importante: la riduzione dei fondi pubblici, dicono lorsignori, innescherà un processo virtuoso, per cui non solo si spenderà meglio quel poco che c’è, ma prontamente interverrano i privati ad assicurare il funzionamento delle istituzioni. Vale la pena di smontare in poche mosse questo traballante castello di carta. Prima di tutto, non è vero che la politica dei tagli alla spesa pubblica in cultura sia una reazione-standard dei governi di destra alla crisi. Non è quello che ha fatto la Francia di Sarkozy, che anzi ha “sanctuarisé” le spese in cultura (dichiarazione del ministro Frédéric Mitterrand, 29 maggio 2012), e ha lanciato un programma di accresciuti investimenti in ricerca per 21,9 miliardi di euro nel quinquennio (discorso del ministro Valérie Pécresse, 1 giugno 2010). Non è quello che ha fatto la Germania di Angela Merkel, che anzi ha incrementato i fondi per la ricerca di 10 miliardi di euro con la Exzellenzinitiative lanciata tre anni fa e ancora in corso. Lo spirito di questi provvedimenti in questi due Paesi europei è identico a quello espresso dal presidente Obama nel suo discorso alla National Academy of Sciences del 27 aprile 2009: «In un momento difficile come il presente, c’è chi dice che non possiamo permetterci di investire in ricerca, che sostenere la scienza è un lusso in una fase in cui bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente necessario. Sono di opinione opposta. Oggi la ricerca è più essenziale che mai alla nostra prosperità, sicurezza, salute, ambiente, qualità della vita. (...) Per reagire alla crisi, oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si sia mai fatto nella ricerca applicata e nella ricerca di base, anche se in qualche caso i risultati si potranno vedere solo fra dieci anni o più: (...) i finanziamenti pubblici sono essenziali proprio dove i privati non osano rischiare. All’alto rischio corrispondono infatti alti benefici per la nostra economia e la nostra società». Reagire alla crisi economica tagliando gli investimenti pubblici in cultura, dunque, non è la politica delle destre europee, bensì una specialità della destra italiana. Ma di quale destra? Una delle favolette consolatorie che ci raccontiamo per addormentarci è che vi sarebbero in Italia due destre: una destra becera e indecente (quella di Berlusconi, di Bossi, di Alemanno), per fortuna ormai sgominata; e una destra colta, “pulita” e tecnocratica che si è incarnata nel governo “tecnico”, e che si è poi riversata nella destra ai governi delle “larghe intese”, basata oggi sul patto di carta fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
  • 2. 2 Ma non dobbiamo accecare noi stessi al punto di non vedere che, sotto molti aspetti, dall’una all’altra destra nulla è cambiato: e questo è vero in particolare per quel che riguarda la spesa sociale e gli investimenti in cultura. Fra Gelmini e Giannini c’è una perfetta continuità di intenti, con un continuo depotenziamento della scuola, dell’università, della ricerca. Dobbiamo dunque constatare amaramente che il disprezzo per la cultura e la deliberata intenzione di relegarla al margine delle politiche pubbliche non è un attributo della destra “becera”, ma anche della destra “pulita” e tecnocratica, quella che ancor oggi ci governa, appena travestita sotto il velo di una strana maggioranza. Allargando le braccia, e magari fingendo di vergognarsi, si tagliano le spese in cultura, dando per scontato che scuola e ricerca siano optional a cui dedicare solo il superfluo (che non c’è mai). Spendere per la scuola, per i musei o per i teatri è dunque, in Italia e solo in Italia, considerato un lusso che in tempi di magra non ci possiamo permettere. Possiamo vederlo bene ricordando un famoso articolo di Alessandro Baricco su Repubblica del 24 febbraio 2009. Il titolo era : Basta soldi di Stato al teatro. Un titolo eloquente. In tempi di crisi, questa la sua tesi, non si può pensare che la cultura sia finanziata con fondi pubblici. E’ arrivato il momento di scegliere. Basta soldi di Stato al teatro, puntiamo sulla scuola e la televisione, le sole cose che contino «nel paesaggio che ci circonda» (per la loro dimensione di massa). Quanto al teatro, all’opera lirica e così via, «meglio lasciar fare al mercato e non disturbare», tanto più che «se non sono stagnanti, poco ci manca». Ergo: tagliare tutti i fondi a musica e teatro, spostandoli integralmente sulla scuola e la televisione, «il Paese reale è lì». Sarebbe interessante analizzare le reazioni a questo articolo, ma non ce n’è il tempo: ricordo solo l’esultanza degli allora ministri Brunetta e Bondi e le critiche acute di Eugenio Scalfari. Più tardi, Vincenzo Cerami sull’Unità (3.1.2010) e Gioacchino Lanza Tomasi sul Sole ( 17.1.2010) hanno lapidariamente osservato che anche alla sinistra «manca la cultura della cultura». Non è un gioco di parole. Cultura della cultura vuol dire sapere che le attività artistiche, la creazione letteraria, la ricerca scientifica, i progetti museografici, la scuola, l’università hanno una funzione alta e insostituibile nella società. Sono luoghi di consapevolezza e di educazione alla creatività, alla democrazia e ai valori civici e identitari : il cuore di quella capacità di crescita endogena che i migliori economisti individuano come uno stimolo potente all’innovazione e all’occupazione non di quei settori specifici, ma di una società nel suo insieme. Qualche domanda, allora: 1. perché in Italia si taglia, altrove l’investimento in cultura è visto come una reazione positiva alla crisi? 2. ha ragione Baricco di chiedere più soldi per la scuola e una decente TV pubblica che recuperi (se mai è possibile) il degrado culturale che proprio la
  • 3. 3 televisione, privata e pubblica, va consolidando. Ma perché va fatto a spese del teatro (o del patrimonio culturale? o della ricerca e dell’univeristà? o della tutela del paesaggio?). In quale Paese al mondo si è mai dovuto scegliere fra scuola e musica, fra televisione e teatro? 3. «Spostate quei soldi», scriveva Baricco, e intendeva : spostate su scuola e TV i fondi del teatro. Come se vi fosse un “paniere cultura”, necessariamente magrissimo, da cui pescare, in alternativa, o per la scuola o per l’opera. E perché mai non potremmo dire: «Spostate quei soldi», ma intendendo quelli destinati a opere inutili anzi dannose come il Ponte sullo Stretto, le varie Tav, la dannosa autostrada Orte-Mestre e le altre cementificazioni dello Sblocca- Italia, il cosiddetto salvataggio Alitalia che ha borseggiato il contribuente, e così via? Ci viene propinata quotidianamente una dose letale di perversa retorica dello sviluppo inteso come profitto delle imprese e non come crescita civile ed economica del Paese. Storditi da un pulviscolo di cifre e dalla necessaria genuflessione al Dio Mercato, dimentichiamo che non può esservi nessun vero sviluppo economico, se non è anche crescita democratica del Paese. Dimentichiamo che la cultura non è un lusso, ma è stimolo potente di creatività non solo artistica e letteraria, ma scientifica e industriale. Quella creatività che produce innovazione e lavoro, e che oggi in Italia è agonizzante perché ha ceduto il passo ai facili guadagni di un’edilizia di pessima qualità, al riciclaggio dei denari delle mafie, allo smontaggio dello Stato e dei beni pubblici, oggetto privilegiato di un’economia di rapina che non produce nuova ricchezza, ma sposta le risorse dalla comunità dei ci ttadini alle nuove caste prodotte dal neoliberismo spinto che ci governa. Per smontare la catena di menzogne che ci soffoca, è vitale ricordarsi che il “paniere cultura” non sta sotto una campana di vetro. E’ parte essenziale di un largo orizzonte di diritti, che ha nella Costituzione repubblicana il suo perfetto manifesto. La nostra Costituzione è davvero “la grande incompiuta” (Calamandrei): non è una ragione per cambiarla, bensì per esigere che venga finalmente messa in pratica. Il grandioso progetto che sinora non abbiamo saputo tradurre in pratica si esprime al meglio nell’art. 9, secondo cui «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Essenziale alla legalità di una Repubblica che è e deve restare «una e indivisibile» (art. 5 Cost.), il principio espresso nell’art. 9 si lega ad altri articoli della Costituzione in una sapiente architettura di valori. Esso va inteso come espressione dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2); dev’essere indirizzato al «pieno sviluppo della personalità umana» (art. 3) e collegato alla piena libertà di pensiero e di parola (art. 21), alla libertà dell’arte, della scienza e del loro insegnamento (art. 33), alla centralità della scuola pubblica statale e al diritto allo studio (art. 34). La tutela del paesaggio, inoltre, concorre alla formazione della nozione di
  • 4. 4 ambiente come valore costituzionale primario convergendo con la tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32). Secondo la Costituzione il bene comune non comprime, ma limita i diritti di privati e imprese: alla proprietà privata deve essere «assicurata la funzione sociale» (art. 42), la libertà d’impresa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41). Dando tanto risalto alla cultura, la Costituzione è in sintonia con grandi tendenze culturali del nostro tempo, secondo cui «l’etica dev’essere una condizione del mondo, come la logica» (Wittgenstein). La cultura fa parte dello stesso identico orizzonte di valori costituzionali che include il diritto al lavoro, la tutela della salute, la libertà personale, la democrazia. Perciò dobbiamo reagire contro l’indifferenza che uccide la democrazia, contro la tirannia antipolitica dei mercati. Io condivido pienamente quanto ha scritto Zagrebelsky: “antipolitica è una parola violenta e disonesta”, se applicata a movimenti di cittadini, anche confusi e sgangherati: se “antipolitico” è quel che opera contro la democrazia, nulla di più antipolitico della cieca forza dei mercati, a cui pure destra e sinistra si genuflettono senza fiatare. Dobbiamo rilanciare l’etica della cittadinanza, puntando su mete necessarie: giustizia sociale, tutela dell’ambiente, priorità del bene comune sul profitto del singolo. Dobbiamo far leva sui beni comuni come garanzia delle libertà pubbliche e dei diritti civili. Recuperare spirito comunitario, pensare anche in nome delle generazioni future. Ambiente, patrimonio culturale, salute, ricerca, educazione incarnano valori di cui la Costituzione è il manifesto: libertà, eguaglianza, diritto al lavoro. La scuola pubblica statale è lo snodo necessario fra l’orizzonte dei diritti e l’esercizio attivo della cittadinanza: perciò dovrebbe costituire il più importante investimendo del Paese sul proprio futuro. Nessuno può dire “non ci sono risorse per farlo”: in un Paese che nel solo 2012 non ha pagato 154,4 miliardi di euro di tasse (dati Confcommercio), le risorse ci sono, ma vengono lasciate nel cassetto dell’evasione fiscale. Ricordiamo l’ammonimento di Brecht «per la difesa della cultura» al I e al II congresso internazionale degli scrittori: «Si abbia pietà della cultura, ma prima di tutto si abbia pietà degli uomini! La cultura è salva quando sono salvi gli uomini. Non lasciamoci trascinare dall’affermazione che gli uomini esistono per la cultura, e non la cultura per gli uomini. (...) Riflettiamo sulle radici del male! (...) scendiamo sempre più in profondo, attraverso un inferno di atrocità, fino a giungere là dove una piccola parte dell’umanità ha ancorato il suo spietato dominio, sfruttando il prossimo a prezzo dell’abbandono delle leggi della convivenza umana (...), sferrando un attacco generale contro ogni forma di cultura. Ma la cultura non si può separare dal complesso dell’attività produttiva di un popolo, tanto più quando un unico assalto violento sottrae al popolo il pane e la poesia.» E Brecht conclude esortando a lottare per la cultura anche in nome della produttività, oltre che della libertà. Per condurre questa battaglia, non c’è arma migliore della Costituzione repubblicana. Per la Costituzione, la comunità dei cittadini è fonte delle leggi
  • 5. 5 e titolare dei diritti. Dobbiamo dunque riguadagnare sovranità, nello spirito della Costituzione, cercando nei movimenti civici il meccanismo-base della democrazia, il serbatoio delle idee per una nuova agenda della politica. Dobbiamo dare nuova legittimazione alla democrazia rappresentativa facendo esplodere le contraddizioni fra i diritti costituzionali e le pratiche di governo che li calpestano in obbedienza ai mercati. Dobbiamo ricreare la cultura che muove le norme, ripristina la legalità, progetta il futuro. Serve oggi una nuova consapevolezza, una nuova responsabilità. Una forte azione popolare in difesa del bene comune, della cultura, della scuola, di un’Italia declinata al futuro all’insegna della sua Costituzione.