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Bazin

AndrèBazin vide nel cinema il “linguaggio della realtà” e coniò la definizione di “realismo ontologico”. E’ vero -sostiene
Bazin- che il film è costruito, progettato, sceneggiato, illuminato ecc…, ma ciò che si imprime sulla pellicola,
“l’impronta digitale del mondo” che si deposita sull’emulsione della pellicola è, senza ombra di dubbio, realtà. Tramite
il “complesso della mummia” Bazin afferma che il cinema soddisfa la necessità psicologica dell’uomo di “salvare
l’essere mediante l’apparenza”, imbalsamando non solo porzioni di mondo (prerogativa già presente nella pittura e più
tardi nella fotografia) ma anche il “tempo” in tutta la sua enigmatica e gravosa presenza . Queste considerazioni di
Bazin consentiranno ad un grande regista, oltre che grande intellettuale italiano, come Pier Paolo Pasolini, di parlare
per il cinema di “lingua scritta della realtà”.



Fondatore insieme a Jacques Doniol-Valcroze dei "Cahiers DuCinéma" nel 1951, Bazin costituisce una delle figure
principali della riflessione teorica sull’essenza della settima arte condotta nel secondo dopoguerra. Il cinema, secondo
il teorico francese, partecipa al reale grazie ad un bisogno psicologico che aveva già portato gli antichi ad imbalsamare
le apparenze degli esseri umani mediante il ricorso alla scultura e alla pittura, con l’obiettivo di non arrendersi
all’ineluttabile scorrere del tempo e all’incombenza della morte.

Ricorrendo alla psicanalisi, infatti, alle origini della nascita delle arti plastiche ci sarebbe il “complesso della mummia”,
che spingerebbe gli uomini a conservare le fattezze di ciò che è destinato a scomparire.

A questo riguardo, la scoperta della fotografia e del suo prolungamento, ovvero il cinema, contribuiscono a ravvivare
l’illusione di sconfiggere la morte grazie ad una riproduzione meccanica oggettiva che, pur raffigurando il soggetto
come altro da sè, offre una registrazione integrale e prossima della realtà fenomenica.

Da qui la sua convinzione che il realismo sia il principio di fondo a cui il cinema deve obbedire, conscio della sua
inimitabile potenzialità che si esplicita nella pregnanza di quanto appare sullo schermo.

Il destino del cinema è quello di sciogliersi nel mondo in una stretta connessione tra realtà e immagine.

Non può quindi sorprendere che Bazin diventasse il mentore di quel gruppo di artisti decisi a segnare una frattura e
proporre finalmente dei nuovi canoni interpretativi per una modifica radicale delle prassi condivise fino ad allora.

All’interno del nucleo di indagine di Bazin vanno ricercati i veri e propri capisaldi della teoria cinematografica come
l’elogio del piano-sequenza in cui il tempo della narrazione coincide con quello della realtà; emblematica scelta
estetica che asseconda al meglio la vocazione a perseguire la comunione con la realtà stessa.

Al contrario sono da considerare tabù quelle scelte che reprimono le peculiarità dell’arte filmica, tanto che Bazin
formula la definizione di “montaggio proibito” per tutti quei casi in cui il trucco ottico falsificherebbe l’obiettività
ottenuta dalla macchina da presa.

Separare la belva minacciosa dall’uomo minacciato ricorrendo agli stacchi di montaggio vuol dire minare alla base la
credibilità intrinseca del cinema. Ma vietata secondo Bazin è anche la rappresentazione di una situazione talmente
esclusiva ed intima da non poter essere registrata. E’ il caso dell’amore che “si vive e non si rappresenta” e della
morte, la cui riproduzione costituisce un’imperdonabile offesa di natura metafisica.

Ma quando un operatore affronta il rischio tangibile della propria vita per catturare una realtà estrema, come nei
documentari di guerra in cui l’occhio della cinepresa si mischia ai mirini dei fucili, il cinema, secondo Bazin, raggiunge
uno dei suoi vertici più alti e sublimi.

“L’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela”. Questo il
concetto basilare espresso da Bazin all’interno dei suoi interventi sui ‘Cahiers duCinéma’ e nelle pagine della sua opera
più famosa: “Che cos’è il cinema”.
Realismo

"Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé (...) ma perché è lo splendore del vero". Così Jean-Luc Godard a
proposito, e certo non a caso, di Rossellini. I presupposti del discorso teorico sul realismo nel Cinema in fondo sono
qui: l'immagine non è bella in quanto tale, non è autosufficiente, ma è bella in quanto costante rinvio a quell'esterno,
a quel fuori, a quel mondo di cui diviene la "splendida" ripresa. Splendida appunto perché in questa riproduzione vi è
insita la riscoperta, talvolta persino la sublimazione del vero.

Per comprendere bene cosa significhi tutto ciò è necessario rifarsi all'antefatto del Cinema, ovvero alla fotografia.
L'idea di "riproduzione fotografica" per molti studiosi di estetica e per Benedetto Croce avanti agli altri, avanti sia nelle
convinzioni che nelle attitudini persuasive, fu infatti il primo serio ostacolo per poter definire "Arte" il Cinema. Cinema
che appunto, per dirla in breve, si limiterebbe a copiare meccanicamente il reale e dunque mancherebbe di ogni
funzione autenticamente creativa, che poi è o dovrebbe essere quella propria della produzione artistica. Tuttavia
questo presunto limite del Cinema come "Arte", viene ribaltato e letto come specifico positivo da due dei più lucidi e
significativi teorici del secondo dopoguerra: André Bazin e SigfriedKracauer. Entrambi muovono i loro primi passi
appunto da un esame della riproduzione fotografica, per seguire poi, nell'ambito del realismo, percorsi assolutamente
distanti: da un lato quello che è stato definito il "realismo ontologico" di Bazin, altrove il "realismo fisico" di Kracauer.
Per Bazin, uno dei fondatori dei "ChaiersduCinéma" e padre riconosciuto della "nouvelle vague", i caratteri forti della
fotografia sono proprio gli stessi che costituivano un impaccio ai teorici di impostazione crociana. Ovvero l'oggettività
riproduttiva e l'assenza dell'uomo, dell'uomo come autore e interprete del reale, che di una tale oggettività è
conseguenza diretta. "Tutte le arti - scrive appunto Bazin - sono fondate sulla presenza dell'uomo; solo nella
fotografia ne godiamo l'assenza". Egli parla a questo proposito di "complesso della mummia": "una psicoanalisi delle
arti plastiche - dice - potrebbe considerare la pratica dell'imbalsamazione come fatto fondamentale della loro genesi;
all'origine della pittura e della scultura si troverebbe il complesso della mummia".

In altre parole alla base delle arti figurative vi sarebbe l'idea di difendersi contro il tempo, che corrompe le cose e i
corpi, e in parallelo il sogno di vincere la morte: "fissare artificialmente le apparenze carnali dell'essere - così ancora
Bazin - vuol dire strapparlo dal flusso della durata: ricondurlo alla vita". Ne deriva un'ossessione riproduttiva che viene
prima di ogni esigenza estetica: prima dell'esprimersi di un artista viene "il desiderio tutto psicologico di rimpiazzare il
mondo esterno con il suo doppio (...), l'istinto di salvare l'essere mediante le apparenze".

La fotografia, lasciando quindi libere le altre arti figurative di percorrere vie differenti, realizza questo "complesso
della mummia" e, seguendo il discorso di André Bazin, non si può che affermare con lui che il Cinema porta a
compimento questo processo interno alla Storia delle Arti, aggiungendo alla possibilità di riprodurre immagini anche
quella di riprodurre il tempo. In questo senso il Cinema è legato ontologicamente alla realtà e dunque non si limita a
riprodurre la realtà, ma nel riprodurla si fa realtà e, insieme, si fa ciò che si potrebbe definire una "realtà rituale",
dotata dunque di un forte spessore simbolico e anagogico. Una realtà che si interroga sul proprio significato e perciò
sul senso stesso di quel mondo che riproduce e replica e di cui si fa riflesso, frammento che sfugge alle leggi del
tempo, a patto di indagare, proprio attraverso le apparenze, ciò che si cela oltre il mondo sensibile. Partendo da questi
presupposti Bazin sente l'esigenza di stabilire delle regole formali che non contraddicano il carattere di realismo
ontologico specifico del Cinema, insomma una sorta di etica cinematografica che renda possibile la realizzazione in
atto della sua morale cinematografica e che, di fatto, si tramuta in stile, in forma esteriore. Da qui nasce il suo celebre
"montaggio proibito" che coinvolge, fra l'altro, il campo e il controcampo, tipico dei "serial", ma inaccettabile per la
totale mancanza di credibilità e di naturalezza. Fino a giungere poi all'idea della "oscenità metafisica", così la chiama,
della rappresentazione della morte, non rappresentabile perché momento intimo e supremo (ricordate in questa
direzione "Nick's movie" di Wenders sulla malattia di Nicholas Ray? Bene, l'impostazione è baziniana osservante) e
non rappresentabile perché in un Cinema che si fa realtà, la rappresentazione della morte è l'assurdità di morire due
volte. La morte, egli dice, può essere solo raccontata, mai mostrata. Proprio come in una tragedia greca.
L'idea di fondo di Bazin, il suo punto d'arrivo, è dunque quello di un Cinema che, prima ancora di rappresentare la
realtà, se ne fa partecipe, vi si intreccia al punto tale da confondervisi, da divenirne lo specchio identificatorio che ne
esibisce l'assenza. In questa idea di Cinema-verità, vi è il desiderio di cogliere il senso intimo del reale, di svelare i suoi
meccanismi. Vi è, appunto, quel "realismo ontologico" che finisce con l'andare molto oltre la semplice idea di
"riproduzione meccanica del reale" da cui si è prese le mosse, giungendo all'idea di un Cinema-verità che nulla ha di
documentaristico, ma che è tale perché svela o comunque indaga il senso dell'esistere.




Montaggio proibito

Il cinema deve essere arte che sintetizza un profondo legame tra la realtà e l’immagine. La necessità di realismo
comporta delle soluzioni estetiche e narrative molto forti e radicali: Bazin individua ad esempio nel piano-sequenza
uno dei capisaldi della sua teoria cinematografica, in quanto nel piano-sequenza il tempo della narrazione coincide
con quello della realtà. Al contrario vanno evitati quegli artifici estetici che possono minare il realismo della messa in
scena cinematografica. Bazin formula la definizione di “montaggio proibito”, da applicarsi a tutti quei casi in cui il
trucco ottico ha una funzione di falsificazione, facendo venir meno l’obiettività ottenuta dalla macchina da presa.
Quando l’essenziale di un avvenimento dipende dalla presenza di due o più fattori, allora il montaggio è proibito.
Quindi, separare la belva minacciosa dall’uomo ricorrendo agli stacchi di montaggio, per esempio, vuol dire minare la
credibilità del cinema e far venir meno il principio di realismo : "Une Féepascommelesautres" di Jean Touran.
Analizzando il film "Ballon rouge" di Albert Lamorisse, Bazin sostiene che in questo caso il film non deve niente al
montaggio perché il pallone fa veramente i movimenti che gli vediamo fare. Si tratta di un trucco che non deve niente
al cinema, l’illusione nasce nella realtà. Noi possiamo credere nella realtà degli avvenimenti pur sapendo che sono
truccati. Il racconto ritrova la realtà se un’inquadratura riunisce gli elementi dispersi dal montaggio: generi a cui si
applica questa legge sono film documentari (ma non didattici, il cui proposito non è la rappresentazione ma la
spiegazione dell’evento), d’attualità (ricostruite), film di finzione. Esemplare è "Nanook of the north" di Flaherty,
documentario appena romanzato che acquista senso solo attraverso la realtà integrata all’immaginario e il montaggio
deve ubbidire agli aspetti della realtà; poi ci sono i film di puro racconto dove il montaggio è necessario. Certi tipi di
azione, invece, rifiutano il montaggio, certe situazioni esistono solo se l’unità spaziale è messa in evidenza
(specialmente comiche tra uomo e oggetti).



Il teatro al cinema

I concetti espressi nella sorprendente teoria dell’immagine fotografica di André Bazin si trovano disseminati e implicati
parzialmente o implicitamente in tutte le sue successive riflessioni sul cinema (decine di articoli e saggi prodotti tra il
1945, anno di “Ontologia dell’immagine fotografica”, e il 1958) e costituiscono le fondamenta della sua visione dei
rapporti tra cinema e realtà, nonché tra cinema e altre arti. In ultima analisi, sostiene Bazin in poche righe e arrivando
subito al dunque, la storia dell’evoluzione delle arti plastiche deriva dal “complesso della mummia”, un espediente
difensivo escogitato dall’uomo nei confronti del tempo e quindi dei limiti temporali della vita: l’uomo ha sempre
cercato di riprodurre la realtà per rispondere a questo bisogno psicologico fondamentale. Ma non si tratta per il
“padre spirituale” della Nouvelle Vague di un estetismo universale o di una tensione idealistica consapevole, bensì di
un bisogno profondo di salvare gli scomparsi “da una seconda morte spirituale” o, anche in chiave meno
antropocentrica, di creare “un universo ideale a immagine del reale e dotato di un destino temporale autonomo”.

Da Niepce ai fratelli Lumière, passando per Muybridge e molti altri pionieri, la storia delle origini della fotografia (e del
cinema, sua evoluzione nell’ambito del tempo) sembra caratterizzata dalla fantasia e dall’operosità di “monomani”
guidati da un’unica ossessione: la “rappresentazione totale e integrale della realtà”. Il desiderio di coloro che
approcciarono per primi il paradosso delle immagini acheropoietiche (dal greco: fatte senza la mano dell'uomo) era
tanto sensibilmente concreto, lo scopo ultimo così semplice ed evidente, che oltrepassava le stesse possibilità offerte
dalle tecniche loro contemporanee: è normalissimo in effetti, prendendo in esame gli appunti, le memorie e gli stessi
apparecchi dei grandi precursori dell’Ottocento, imbattersi in visioni, sogni e speranze che prefigurano il cinema, l’arte
del Novecento, ma un “cinema totale”, capace di ricreare ogni aspetto sensibile del reale, l’immagine a colori, il suono,
il rilievo. Chi ci ha donato il cinema, “i fanatici, i maniaci, i pionieri disinteressati”, dice Bazin, è “gente posseduta dalla
propria immaginazione”, dal mito di una riproduzione totale della realtà. E riferendosi all’introduzione del sonoro,
delle pellicole pancromatiche, del colore negli anni ’30 e ’40 (ma approfittando anche dell’occasione per confutare le
argomentazioni dei detrattori dell’innovazione tecnica nel cinema), Bazin afferma: “Tutti i perfezionamenti che
assomma il cinema non possono dunque paradossalmente che avvicinarlo alle sue origini. Il cinema non è ancora stato
inventato!” .

L’interesse formidabile che l’umanità ha riservato alla fotografia trova dunque la principale motivazione nella sua
relativa indipendenza dall’uomo (laddove per le altre arti la dipendenza è al contrario totale), nelle immagini della
realtà che sono tali proprio grazie alla sua assenza. Nel 1839 Talbot, uno dei più importanti pionieri inglesi della
fotografia, a proposito di uno dei suoi “disegni fotogenici” raffigurante la sua casa di campagna, scrive: “Ritengo che
questo sia il primo esempio nella storia di una casa che abbia fatto il proprio ritratto”. A quasi due secoli di distanza,
partecipiamo ancora a questa illusione (anche se le immagini digitali, le cosiddette immagini sintetiche e
“fotorealistiche”, stanno introducendo problemi del tutto nuovi). Bazin paragona il sogno di una riproduzione totale
della realtà sensibile al mito di Icaro, quello di volare: “ha dovuto attendere il motore a scoppio...”.

Rivolgendosi finalmente allo specifico fenomeno del cinema, Bazin arriva così a postulare una essenziale, naturale,
ontologica predisposizione dell’arte (o tecnica) cinematografica nei confronti del realismo, da non intendersi come
realismo a tutti i livelli ma certamente contraddistinto, come è stato osservato, da un carattere che sembra
manifestarsi in tre ambiti: psicologico, tecnico e poetico. I primi due li abbiamo già incontrati: il realismo psicologico
proviene da quel profondo bisogno umano cui Bazin si riferisce attraverso la metafora del “complesso della mummia”,
bisogno assorbito dalle altre arti plastiche (da cui le libera da un lato, sconvolgendole dall’altro); il realismo tecnico
riguarda l’appropriarsi dell’obiettivo e dell’obiettività riproduttiva dell’immagine fotografica, l’ontologia realistica della
fotografia moltiplicata per “24 volte al secondo”. Il terzo, il carattere poetico del realismo cinematografico, l’aspetto
più controverso (e motivo di interpretazioni affrettate) della teoria di Bazin, riguarda la valorizzazione dei bisogni
psicologici a cui il cinema risponde e delle sue caratteristiche tecniche: il cinema raggiunge questo obiettivo facendosi
rivelatore della realtà. Limitiamoci a ricordare la semplice ma efficace distinzione che Bazin propone tra “i registi che
credono nell’immagine e quelli che credono nella realtà”, dove per immagine intende “tutto ciò che alla cosa
rappresentata può aggiungere la sua rappresentazione sullo schermo”: è sui secondi che concentra l’attenzione, quelli
per cui “l’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela”. Ecco
l’ontologia del cinema di Bazin, una delle risposte al suo “Qu’est-ce que le cinéma?”.

E’ questo il cuore della teoria baziniana, quello da cui prende vita la sua idea di “realismo ontologico” del cinema, e
deriva, come si è visto, da una riflessione sull’ontologia dell’immagine fotografica e dalla connessione tra questa e
l’assenza dell’uomo. “Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne godiamo l’assenza.”
Le conseguenze che l’introduzione della fotografia e del cinema provocano sul preesistente mondo dell’arte non
possono che impressionare: la fotografia costringerà la pittura e la scultura ad una violenta serie di rivoluzioni
poetiche di cui Picasso diverrà il simbolo più fortunato e celebrato; il cinema, che soffrirà per molto tempo di un
complesso di inferiorità nei confronti del teatro (percepibile sia nella teoria che nella pratica cinematografica) e vivrà
con esso una sorta di sfida estetica, finirà per sconvolgerlo e fornirgli motivazioni e idee per il suo rinnovamento.
Tuttavia Bazin non si concentra sugli effetti che il cinema produce sull’arte drammatica più antica, ma piuttosto sul
processo inverso che a partire dagli anni ’40, a suo avviso, si manifesta in maniera particolarmente significativa e
innovativa: il cinema smette di nascondere, camuffare, minimizzare, evitare le sue relazioni e i suoi rapporti di
dipendenza con il teatro cominciando a filmare ciò che il teatro è prima di ogni altra cosa, il teatro. Un fenomeno che
ricorda le tautologie godardiane (“il cinema è il cinema”) e che potrebbe tradursi con l’eccentrica definizione “il teatro
è il teatro, anche al cinema”.

Sarebbe tuttavia semplicistico e, ovviamente, del tutto ingenuo ridurre la riflessione di Bazin ad una battuta, che ha
qui solo una funzione evocativa: i problemi della relazione tra teatro e cinema individuati dal teorico francese seguono
un percorso molto ricco e articolato come cercheremo ora di descrivere.
In un saggio del 1951 Bazin si concentra sui rapporti tra teatro e cinema privilegiando la riflessione sul momento del
passaggio da un sistema estetico, il teatro, all’altro, il cinema. Così facendo, parlando cioè di qualcosa che sta a cavallo
tra teatro e cinema, che rischia di confondersi o restare un ibrido indefinito, che suscita timori di eresie artistiche
inaccettabili e ingenue (il “cinema impuro”, che Bazin al contrario auspica), egli fornisce una serie di spunti per una
riflessione lucidissima e profonda sull’uno e sull’altro.

Il “drammatico” non è per Bazin una prerogativa esclusiva del teatro, esso esercita piuttosto una influenza immensa
sulle altre arti e “il cinema è l’ultima delle arti che possa sfuggirgli”: la storia mostra quanto il cinema sia stato, per
molti generi teatrali minori o abbandonati, una sorta di continuazione, se non addirittura il momento di massimo
splendore (vale l’esempio che Bazin propone della farsa classica, riesumata e sviluppata da Buster Keaton, Laurel e
Hardy, Chaplin, il cinema comico degli anni ’10, ma anche quello della commedia americana anni ’20 e si potrebbe
aggiungere il filo che lega l’evoluzione del melodramma teatrale ottocentesco al cinema tout-court). Il rapporto tra il
teatro e il cinema non si limita quindi al temibile orrore del cosiddetto “teatro filmato”, l’operazione di sterile
registrazione dell’immagine della scena (“teatro in conserva”), ma è ben più profondo e riguarda generi che sono stati
considerati come miti di purezza cinematografica.

Il problema del testo drammatico (dove ne esiste uno) è invece centrale, secondo Bazin, perché nel teatro classico e
contemporaneo esso si difende mediante la sua specifica dipendenza dalle convenzioni della scena teatrale: il testo
contiene, almeno in parte, lo spettacolo teatrale. Tale sistema di regole, posto in relazione al carattere dell’immagine
fotografica mostra le specificità dei due sistemi, cinema e teatro, che riguardano lo spazio e l’uomo.

Sembrerebbe a questo punto liquidata la nozione classica di “presenza” (intesa come compresenza di spettatori e
attori) dall’insieme delle possibili differenze ontologiche tra cinema e teatro: secondo Bazin infatti anche lo schermo è
in grado di mettere lo spettatore in presenza dell’attore, ma lo fa come uno specchio e in maniera differita.
L’immagine fotografica, è vero, non è che una traccia, ma ottenuta da un’impronta sulla pellicola che veicola l’identità
dell’oggetto riprodotto. Ad una lettura più attenta capiamo però che Bazin conferma, forse in modo non consapevole,
la fondatezza del concetto di “presenza” (con una lieve variante) nel momento in cui la ritrova analizzando la
psicologia dello spettatore, il suo modo cioè di percepire la “presenza” nella scena e nello schermo. A teatro lo
spettatore e l’attore sono reciprocamente consapevoli della loro compresenza, ciò stesso motiva la partecipazione
dello spettatore al “gioco” dell’attore. Lo spettatore cinematografico è invece “solo”, di fronte a sé ha uno schermo
dove si agitano le tracce luminose lasciate da un evento che lo ignora, nessuno si cura di lui durante la proiezione.
Questo stato di cose difficilmente contestabile comporta, in Bazin, atteggiamenti psicologici ovviamente diversi. Da un
lato lo spettatore partecipa allo spettacolo nel suo tempo biografico, ne è un elemento costitutivo che accetta le
regole del gioco; dall’altro egli è un individuo di fronte ad un mondo “altro”, indipendente, che viene accolto come
continuazione della realtà esterna. Ecco dunque la variante rispetto alla nozione comune di “presenza”: non è tanto la
presenza dell’attore ad essere determinante nello svelare le diverse dinamiche che fondano teatro e cinema, ma una
diversa presenza dello spazio e dell’uomo nella “mente” dello spettatore. Il teatro esibisce un gioco, il cinema la
realtà. Tuttavia, l’atteggiamento psicologico dello spettatore non nasce magicamente o per pura convenzione. Cosa lo
scatena?

Il luogo drammatico del teatro è per definizione uno spazio innaturale. Esso si fonda, l’abbiamo visto, sulla coscienza
reciproca dei presenti e si pone, con la recitazione dell’attore, come elemento fondamentale del gioco teatrale. I limiti
del palcoscenico sono anche i confini che tengono distinto lo spazio del gioco da quello della realtà: “Nessuno ignora
che l’attore che si «ritira nei suoi appartamenti» - dalla parte del cortile o dalla parte del giardino - va in realtà a
togliersi il trucco nel suo camerino”. Caratteristica dell’inquadratura cinematografica è invece la sua forza espansiva,
l’immagine fotografica viene percepita come colta attraverso un mascherino che nasconde i contorni dello spazio
inquadrato. Così, se un personaggio (che esso reciti o no) esce dall’inquadratura non andrà a togliersi il trucco nel suo
camerino ma lo ritroveremo subito dopo, ripreso da un carrello, da una panoramica o da un’altra inquadratura.
Potremmo dire che si tratta ancora di un gioco, ma di un gioco di prestigio che non rivela il trucco (e se lo fa, in effetti
celebra il carattere magico e illusorio del cinema, confermandolo): lo spettatore non è tenuto ad accettare alcuna
convenzione, è la sua esperienza ricettiva quotidiana ad essere stimolata ed eccitata. Non è un caso che su tale forza
espansiva si basino le grammatiche cinematografiche classiche, quella hollywoodiana per esempio, che sopravvive più
o meno intatta da quasi un secolo: non si darebbe campo-controcampo o piano sequenza senza questo speciale tipo
di percezione indotto dalla natura fotografica dell’inquadratura. Bazin afferma: “L’illusione non si fonda al cinema,
come a teatro, su convenzioni tacitamente ammesse dal pubblico, ma al contrario sul realismo imprescindibile di
quello che gli viene mostrato.” E lo spazio, “l’infrastruttura della nostra concezione dell’universo”, è il denominatore
comune tra le realtà che percepiamo dentro e fuori la sala cinematografica. E’ significativo che i film che intendono
svelare l’illusione del cinema lo facciano sforzandosi di sconvolgere le relazioni spaziali a cui lo spettatore si era
abituato (svelando le scenografie finte del set, per esempio). Siamo tornati alle immagini acheropoietiche, quelle che
devono la loro forza comunicativa all’assenza dell’uomo, alla registrazione meccanica: anche lo spazio cinematografico
deve ad esse i suoi effetti.

L’uomo torna dunque sempre al centro del problema delle relazioni tra cinema e teatro, nell’ambito della sua assenza
e della sua presenza e in virtù del diverso rapporto che lo spazio ha con il teatro e con il cinema. Secondo Bazin non
esiste teatro senza l’uomo, ma può facilmente esistere un cinema in cui l’uomo è ridotto a oggetto o manca del tutto.
Si tratta di una conseguenza del realismo fotografico e anche, per connessione logica, del ruolo dello spazio nei due
sistemi: da un lato finto, innaturale, prestato alla partecipazione ludica di attori e spettatori; dall’altra verosimile,
aderente o coerente rispetto all’esperienza spaziale della realtà quotidiana. Come dice Bazin in modo efficace, “la
macchina da presa offre al regista tutte le risorse del microscopio e del telescopio”: il cinema può mettere in scena “le
ultime fibre di una corda che sta per cedere come tutt’un esercito che prende d’assalto una collina”. L’uomo cessa di
essere nel cinema il cuore del dispositivo drammatico, può esserlo naturalmente ma non necessariamente: una corda
o un esercito possono raggiungere al cinema il massimo effetto drammatico. Inoltre, l’uomo al cinema diventa
facilmente oggetto, come accade per esempio nel sistema della suspense: lo spettatore sa ciò che il personaggio non
può sapere, quest’ultimo agisce inconsapevolmente, ma sono il montaggio, la messa in scena, il decoupage a rendere
pregnante e credibile la scena, solo in ultimo l’uomo che vediamo. A teatro, di fronte all’attore in carne ed ossa, di
fronte all’uomo, la stessa struttura non ha lo stesso effetto drammatico: la tensione lascia il posto all’evidenza
dell’artificio. E’ questo un punto nodale nel discorso di Bazin che infatti scrive: “Tale inversione dei poli drammatici è
di una importanza decisiva e interessa l’essenza stessa della regia”. Sullo schermo l’uomo diventa una parte del
mondo, cessando di esserne il cuore. Le relazioni spaziali della realtà vengono tutte addossate sull’uomo quando
questi è sul palcoscenico, ma possono essere ricondotte a loro stesse quando siamo al cinema: non c’è bisogno che
una foresta sia evocata con un albero di cartone al cinema, essa è alla sua portata e una scena può svolgersi dentro,
sopra o in prossimità di una foresta vera. L’uomo è liberato dal compito, fondamentale a teatro, di partecipare alla
costruzione dell’illusione dello spazio.

Il problema che si pone il cineasta intento a portare sullo schermo un’opera teatrale è quello di un testo scritto per
uno spazio non cinematografico e del suo adeguamento ad un altro sistema drammatico. Secondo Bazin, volendo
rispettare il testo, il regista deve “riconvertire uno spazio orientato verso la sola dimensione interna, dallo spazio
chiuso della recitazione teatrale a una finestra sul mondo”. Le soluzioni possibili al paradosso dello spazio sono
molteplici e interessanti, come dimostrano i lavori di Cocteau, Olivier e Welles intorno agli anni ’40, e rivelano come
un “cinema impuro” non faccia male né al cinema, né al teatro (e nemmeno al romanzo, alla pittura...): “il nostro
pregiudizio dell’«arte pura» è una nozione critica relativamente moderna”. La riflessione sulle specifiche
caratteristiche del teatro e del cinema, cui il lavoro di passaggio dall’uno all’altro costringe, è salutare: il cinema salva il
teatro perché dimostra, senza farne “teatro in conserva” ma al contrario facendo del “teatro filmato” un innovativo
“teatro cinematografico”, che esso non potrà mai sostituirlo; il teatro va in aiuto del cinema poiché fornisce alla
macchina da presa un patrimonio storico-artistico straordinario e al contempo motivazioni immense per indagare su
se stessa.

Il realismo ontologico del cinema, derivante dall’immagine fotografica, mostra che non si tratta “di portare sullo
schermo l’elemento drammatico *...+ di un’opera teatrale, ma, inversamente, la teatralità del dramma”. In altre parole,
non è l’ingenua traduzione del mythos da un linguaggio ad un altro, ma la riproduzione rivelatrice dell’intero
spettacolo in quanto porzione del reale, che porta il film a non tradire l’essenza realistica del cinema.
Neorealismo

Il miglior testo per comprendere lo spirito con cui venne accolta, fuori d'Italia, la nuova corrente cinematografica
rimane ancor oggi l'articolo di André Bazin Le réalismecinématographique et l'écoleitalienne de la Libération apparso
nel 1948 nella rivista "Esprit" (Bazin 1958-1962, trad. it. 1972:275-303). In questo saggio, Bazin si sofferma ad
analizzare soprattutto la tecnica narrativa, cercando di definire il rapporto tra cinepresa (tipo di inquadratura e di
raccordi tra inquadrature, movimenti di macchina) e fatti narrati, ambiente, oggetti. Servendosi di paragoni con la
tecnica del romanzo americano (DosPassos, Hemingway, Steinbeck) e della pittura francese (Matisse), Bazin cerca di
dimostrare che la cinepresa è diventata tutt'uno con l'occhio e la mano che la guidano.In tal modo, secondo il critico
francese, il racconto, che nasce da una necessità biologica ancor prima che drammatica, "germoglia e cresce con la
verosimiglianza e la libertà della vita".(A.Costa).Il ‘’Tutt’uno’’ sta proprio ad indicare un occhio che guarda non un
montaggio da fare a posteriori una impostazione per capirci ‘’Documentaristica’’ ma nel senso cinematografico vale a
dire che racconta e ci trasmette una realtà altra diversa Sociale (esterni),quotidiana ma anche interiore.È soprattutto
in un film come Paisà che Bazin vede realizzarsi un radicale mutamento nella costruzione del racconto
cinematografico:L'unità del racconto cinematografico in Paisà non è tanto la generica inquadratura, punto di vista
astratto sulla realtà che si analizza, ma il "fatto". Frammento di realtà bruta , multiplo e equivoco, il cui "senso" viene
fuori a posteriori, grazie ad altri fatti tra i quali si viene a stabilire un rapporto. Senza dubbio il regista ha ben scelto
tra queste sequenze, ma rispettando la loro integrità

<< l'unità del racconto cinematografico in Paisà non è l'inquadratura, punto di vista della realtà che si analizza, ma il
"fatto". Frammento di realtà bruta , in se stesso multiplo ed equivoco, il cui senso viene solo a posteriori grazie ad altri
"fatti" tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti>>[AndrèBazin]

con queste parole Bazin proponeva un nuovo tipo di immagine che è l'immagine fatto che caratterizzò tutto il
neorealismo italaino. questo tipo di corrente che si sviluppò in italia grazie a De Sica , Visconti e Rossellini invece di
rappresentare un reale già decifrato, mirava a un reale da decifrare sempre ambiguo; per questo il piano- sequenza
tendeva a sostituire il montaggio classico dell'immagine movimento. Nel neorealismo abbiamo una continua crescita
di situazioni ottico sonore pure (Deleuze a tal proposito nel primo capitolo dell'immagine tempo fa riferimento alla
famosissima e celebre sequenza del film Umberto D cioè quella in cui la servetta al mattino entra in cucina e compie
una serie di gesti meccanici e stanchi) che si distinguono sostanzialmente dalle situaizoni senso - motorie
dell'immagine azione del vecchio realismo.

come dice deleuze nel suo libro "il personaggio è diventato una specie di spettatore. Ha un bel muoversi, correre,
agitarsi, la situazione nella quale si trova supera da ogni parte le sue capacità motorie e gli fa vedere e sentire quel che
non può essere teoricamente giustificato da una risposta o da una azione." come possiamo vedere secondo Deleuze il
personaggio più che agire registra e subisce l'azione. questo elemento è molto importnateperchè mette in crisi
l'immagine azione. secondo deleuze un altro elemento di crisi è la forma della Ballade (andare a zonzo), i clichè e gli
avventimenti che allentano i legami senso motori.

un ruolo molto importante in questi film è sicuramente quello del bambinom, infatti come dice Deleuze il bambino
soffre di una certa impotenza motoria, che lo rende però ancora più capacee di vedere e di sentire, e quindi di essere
più veggente di tutti gli altri personaggi vediamo cosa dice Bazin a proposito del ruolo del bambino nel film ladri di
biciclette di De sica:

" la trovata del bambino è un colpo di genio di cui non si sa se è in ultima analisi di sceneggiatura o di regia, tanto
questa distizione perde in questo caso di senso. E' il bambino a dare all'avventura dell'operaio la sua dimensione etica
e a scavare una prospettiva morale individuale in questo dramma che potrebbe essere solo sociale. toglietelo e la
storia resta sostanzialmente identica; la prova : la riassumereste alla stessa maniera."

la situazione senso - motoria ha come spazio un ambiente ben definito e presuppone un azione che la sveli, o susciti
una reazione che vi si adatti o la modifichi. una situazione senso puramente ottica invece si sviluppa in quello che
Deleuze chiama uno "spazio qualsiasi". la vita quotidiana e la banalità stessa della quotidianetà lascia sussistere
soltanto legami senso - motori deboli e sostituisce l'immagine azione con immagini ottiche sonore pure. queste
situazioni rendono sensibili il tempo, il pensiero tanto da renderli visivi e sonori.

questa situazione puramente ottico sonora risveglia una funzione di veggenza , in cui il personaggio è uno spettatore
che si limita a guardare ed assistere a questa realtà quotidanasubento l'azione. queste situazioni hanno subordinato il
movimento e si legano direttaente all'immagine tempo. la situazione secondo Deleuze deve essere "letta" in quando è
in uno stato di veggenza dove si perdono tutti i movimenti senso – motori.

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A. bazin

  • 1. Bazin AndrèBazin vide nel cinema il “linguaggio della realtà” e coniò la definizione di “realismo ontologico”. E’ vero -sostiene Bazin- che il film è costruito, progettato, sceneggiato, illuminato ecc…, ma ciò che si imprime sulla pellicola, “l’impronta digitale del mondo” che si deposita sull’emulsione della pellicola è, senza ombra di dubbio, realtà. Tramite il “complesso della mummia” Bazin afferma che il cinema soddisfa la necessità psicologica dell’uomo di “salvare l’essere mediante l’apparenza”, imbalsamando non solo porzioni di mondo (prerogativa già presente nella pittura e più tardi nella fotografia) ma anche il “tempo” in tutta la sua enigmatica e gravosa presenza . Queste considerazioni di Bazin consentiranno ad un grande regista, oltre che grande intellettuale italiano, come Pier Paolo Pasolini, di parlare per il cinema di “lingua scritta della realtà”. Fondatore insieme a Jacques Doniol-Valcroze dei "Cahiers DuCinéma" nel 1951, Bazin costituisce una delle figure principali della riflessione teorica sull’essenza della settima arte condotta nel secondo dopoguerra. Il cinema, secondo il teorico francese, partecipa al reale grazie ad un bisogno psicologico che aveva già portato gli antichi ad imbalsamare le apparenze degli esseri umani mediante il ricorso alla scultura e alla pittura, con l’obiettivo di non arrendersi all’ineluttabile scorrere del tempo e all’incombenza della morte. Ricorrendo alla psicanalisi, infatti, alle origini della nascita delle arti plastiche ci sarebbe il “complesso della mummia”, che spingerebbe gli uomini a conservare le fattezze di ciò che è destinato a scomparire. A questo riguardo, la scoperta della fotografia e del suo prolungamento, ovvero il cinema, contribuiscono a ravvivare l’illusione di sconfiggere la morte grazie ad una riproduzione meccanica oggettiva che, pur raffigurando il soggetto come altro da sè, offre una registrazione integrale e prossima della realtà fenomenica. Da qui la sua convinzione che il realismo sia il principio di fondo a cui il cinema deve obbedire, conscio della sua inimitabile potenzialità che si esplicita nella pregnanza di quanto appare sullo schermo. Il destino del cinema è quello di sciogliersi nel mondo in una stretta connessione tra realtà e immagine. Non può quindi sorprendere che Bazin diventasse il mentore di quel gruppo di artisti decisi a segnare una frattura e proporre finalmente dei nuovi canoni interpretativi per una modifica radicale delle prassi condivise fino ad allora. All’interno del nucleo di indagine di Bazin vanno ricercati i veri e propri capisaldi della teoria cinematografica come l’elogio del piano-sequenza in cui il tempo della narrazione coincide con quello della realtà; emblematica scelta estetica che asseconda al meglio la vocazione a perseguire la comunione con la realtà stessa. Al contrario sono da considerare tabù quelle scelte che reprimono le peculiarità dell’arte filmica, tanto che Bazin formula la definizione di “montaggio proibito” per tutti quei casi in cui il trucco ottico falsificherebbe l’obiettività ottenuta dalla macchina da presa. Separare la belva minacciosa dall’uomo minacciato ricorrendo agli stacchi di montaggio vuol dire minare alla base la credibilità intrinseca del cinema. Ma vietata secondo Bazin è anche la rappresentazione di una situazione talmente esclusiva ed intima da non poter essere registrata. E’ il caso dell’amore che “si vive e non si rappresenta” e della morte, la cui riproduzione costituisce un’imperdonabile offesa di natura metafisica. Ma quando un operatore affronta il rischio tangibile della propria vita per catturare una realtà estrema, come nei documentari di guerra in cui l’occhio della cinepresa si mischia ai mirini dei fucili, il cinema, secondo Bazin, raggiunge uno dei suoi vertici più alti e sublimi. “L’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela”. Questo il concetto basilare espresso da Bazin all’interno dei suoi interventi sui ‘Cahiers duCinéma’ e nelle pagine della sua opera più famosa: “Che cos’è il cinema”.
  • 2. Realismo "Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé (...) ma perché è lo splendore del vero". Così Jean-Luc Godard a proposito, e certo non a caso, di Rossellini. I presupposti del discorso teorico sul realismo nel Cinema in fondo sono qui: l'immagine non è bella in quanto tale, non è autosufficiente, ma è bella in quanto costante rinvio a quell'esterno, a quel fuori, a quel mondo di cui diviene la "splendida" ripresa. Splendida appunto perché in questa riproduzione vi è insita la riscoperta, talvolta persino la sublimazione del vero. Per comprendere bene cosa significhi tutto ciò è necessario rifarsi all'antefatto del Cinema, ovvero alla fotografia. L'idea di "riproduzione fotografica" per molti studiosi di estetica e per Benedetto Croce avanti agli altri, avanti sia nelle convinzioni che nelle attitudini persuasive, fu infatti il primo serio ostacolo per poter definire "Arte" il Cinema. Cinema che appunto, per dirla in breve, si limiterebbe a copiare meccanicamente il reale e dunque mancherebbe di ogni funzione autenticamente creativa, che poi è o dovrebbe essere quella propria della produzione artistica. Tuttavia questo presunto limite del Cinema come "Arte", viene ribaltato e letto come specifico positivo da due dei più lucidi e significativi teorici del secondo dopoguerra: André Bazin e SigfriedKracauer. Entrambi muovono i loro primi passi appunto da un esame della riproduzione fotografica, per seguire poi, nell'ambito del realismo, percorsi assolutamente distanti: da un lato quello che è stato definito il "realismo ontologico" di Bazin, altrove il "realismo fisico" di Kracauer. Per Bazin, uno dei fondatori dei "ChaiersduCinéma" e padre riconosciuto della "nouvelle vague", i caratteri forti della fotografia sono proprio gli stessi che costituivano un impaccio ai teorici di impostazione crociana. Ovvero l'oggettività riproduttiva e l'assenza dell'uomo, dell'uomo come autore e interprete del reale, che di una tale oggettività è conseguenza diretta. "Tutte le arti - scrive appunto Bazin - sono fondate sulla presenza dell'uomo; solo nella fotografia ne godiamo l'assenza". Egli parla a questo proposito di "complesso della mummia": "una psicoanalisi delle arti plastiche - dice - potrebbe considerare la pratica dell'imbalsamazione come fatto fondamentale della loro genesi; all'origine della pittura e della scultura si troverebbe il complesso della mummia". In altre parole alla base delle arti figurative vi sarebbe l'idea di difendersi contro il tempo, che corrompe le cose e i corpi, e in parallelo il sogno di vincere la morte: "fissare artificialmente le apparenze carnali dell'essere - così ancora Bazin - vuol dire strapparlo dal flusso della durata: ricondurlo alla vita". Ne deriva un'ossessione riproduttiva che viene prima di ogni esigenza estetica: prima dell'esprimersi di un artista viene "il desiderio tutto psicologico di rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio (...), l'istinto di salvare l'essere mediante le apparenze". La fotografia, lasciando quindi libere le altre arti figurative di percorrere vie differenti, realizza questo "complesso della mummia" e, seguendo il discorso di André Bazin, non si può che affermare con lui che il Cinema porta a compimento questo processo interno alla Storia delle Arti, aggiungendo alla possibilità di riprodurre immagini anche quella di riprodurre il tempo. In questo senso il Cinema è legato ontologicamente alla realtà e dunque non si limita a riprodurre la realtà, ma nel riprodurla si fa realtà e, insieme, si fa ciò che si potrebbe definire una "realtà rituale", dotata dunque di un forte spessore simbolico e anagogico. Una realtà che si interroga sul proprio significato e perciò sul senso stesso di quel mondo che riproduce e replica e di cui si fa riflesso, frammento che sfugge alle leggi del tempo, a patto di indagare, proprio attraverso le apparenze, ciò che si cela oltre il mondo sensibile. Partendo da questi presupposti Bazin sente l'esigenza di stabilire delle regole formali che non contraddicano il carattere di realismo ontologico specifico del Cinema, insomma una sorta di etica cinematografica che renda possibile la realizzazione in atto della sua morale cinematografica e che, di fatto, si tramuta in stile, in forma esteriore. Da qui nasce il suo celebre "montaggio proibito" che coinvolge, fra l'altro, il campo e il controcampo, tipico dei "serial", ma inaccettabile per la totale mancanza di credibilità e di naturalezza. Fino a giungere poi all'idea della "oscenità metafisica", così la chiama, della rappresentazione della morte, non rappresentabile perché momento intimo e supremo (ricordate in questa direzione "Nick's movie" di Wenders sulla malattia di Nicholas Ray? Bene, l'impostazione è baziniana osservante) e non rappresentabile perché in un Cinema che si fa realtà, la rappresentazione della morte è l'assurdità di morire due volte. La morte, egli dice, può essere solo raccontata, mai mostrata. Proprio come in una tragedia greca.
  • 3. L'idea di fondo di Bazin, il suo punto d'arrivo, è dunque quello di un Cinema che, prima ancora di rappresentare la realtà, se ne fa partecipe, vi si intreccia al punto tale da confondervisi, da divenirne lo specchio identificatorio che ne esibisce l'assenza. In questa idea di Cinema-verità, vi è il desiderio di cogliere il senso intimo del reale, di svelare i suoi meccanismi. Vi è, appunto, quel "realismo ontologico" che finisce con l'andare molto oltre la semplice idea di "riproduzione meccanica del reale" da cui si è prese le mosse, giungendo all'idea di un Cinema-verità che nulla ha di documentaristico, ma che è tale perché svela o comunque indaga il senso dell'esistere. Montaggio proibito Il cinema deve essere arte che sintetizza un profondo legame tra la realtà e l’immagine. La necessità di realismo comporta delle soluzioni estetiche e narrative molto forti e radicali: Bazin individua ad esempio nel piano-sequenza uno dei capisaldi della sua teoria cinematografica, in quanto nel piano-sequenza il tempo della narrazione coincide con quello della realtà. Al contrario vanno evitati quegli artifici estetici che possono minare il realismo della messa in scena cinematografica. Bazin formula la definizione di “montaggio proibito”, da applicarsi a tutti quei casi in cui il trucco ottico ha una funzione di falsificazione, facendo venir meno l’obiettività ottenuta dalla macchina da presa. Quando l’essenziale di un avvenimento dipende dalla presenza di due o più fattori, allora il montaggio è proibito. Quindi, separare la belva minacciosa dall’uomo ricorrendo agli stacchi di montaggio, per esempio, vuol dire minare la credibilità del cinema e far venir meno il principio di realismo : "Une Féepascommelesautres" di Jean Touran. Analizzando il film "Ballon rouge" di Albert Lamorisse, Bazin sostiene che in questo caso il film non deve niente al montaggio perché il pallone fa veramente i movimenti che gli vediamo fare. Si tratta di un trucco che non deve niente al cinema, l’illusione nasce nella realtà. Noi possiamo credere nella realtà degli avvenimenti pur sapendo che sono truccati. Il racconto ritrova la realtà se un’inquadratura riunisce gli elementi dispersi dal montaggio: generi a cui si applica questa legge sono film documentari (ma non didattici, il cui proposito non è la rappresentazione ma la spiegazione dell’evento), d’attualità (ricostruite), film di finzione. Esemplare è "Nanook of the north" di Flaherty, documentario appena romanzato che acquista senso solo attraverso la realtà integrata all’immaginario e il montaggio deve ubbidire agli aspetti della realtà; poi ci sono i film di puro racconto dove il montaggio è necessario. Certi tipi di azione, invece, rifiutano il montaggio, certe situazioni esistono solo se l’unità spaziale è messa in evidenza (specialmente comiche tra uomo e oggetti). Il teatro al cinema I concetti espressi nella sorprendente teoria dell’immagine fotografica di André Bazin si trovano disseminati e implicati parzialmente o implicitamente in tutte le sue successive riflessioni sul cinema (decine di articoli e saggi prodotti tra il 1945, anno di “Ontologia dell’immagine fotografica”, e il 1958) e costituiscono le fondamenta della sua visione dei rapporti tra cinema e realtà, nonché tra cinema e altre arti. In ultima analisi, sostiene Bazin in poche righe e arrivando subito al dunque, la storia dell’evoluzione delle arti plastiche deriva dal “complesso della mummia”, un espediente difensivo escogitato dall’uomo nei confronti del tempo e quindi dei limiti temporali della vita: l’uomo ha sempre cercato di riprodurre la realtà per rispondere a questo bisogno psicologico fondamentale. Ma non si tratta per il “padre spirituale” della Nouvelle Vague di un estetismo universale o di una tensione idealistica consapevole, bensì di un bisogno profondo di salvare gli scomparsi “da una seconda morte spirituale” o, anche in chiave meno antropocentrica, di creare “un universo ideale a immagine del reale e dotato di un destino temporale autonomo”. Da Niepce ai fratelli Lumière, passando per Muybridge e molti altri pionieri, la storia delle origini della fotografia (e del cinema, sua evoluzione nell’ambito del tempo) sembra caratterizzata dalla fantasia e dall’operosità di “monomani” guidati da un’unica ossessione: la “rappresentazione totale e integrale della realtà”. Il desiderio di coloro che approcciarono per primi il paradosso delle immagini acheropoietiche (dal greco: fatte senza la mano dell'uomo) era tanto sensibilmente concreto, lo scopo ultimo così semplice ed evidente, che oltrepassava le stesse possibilità offerte dalle tecniche loro contemporanee: è normalissimo in effetti, prendendo in esame gli appunti, le memorie e gli stessi
  • 4. apparecchi dei grandi precursori dell’Ottocento, imbattersi in visioni, sogni e speranze che prefigurano il cinema, l’arte del Novecento, ma un “cinema totale”, capace di ricreare ogni aspetto sensibile del reale, l’immagine a colori, il suono, il rilievo. Chi ci ha donato il cinema, “i fanatici, i maniaci, i pionieri disinteressati”, dice Bazin, è “gente posseduta dalla propria immaginazione”, dal mito di una riproduzione totale della realtà. E riferendosi all’introduzione del sonoro, delle pellicole pancromatiche, del colore negli anni ’30 e ’40 (ma approfittando anche dell’occasione per confutare le argomentazioni dei detrattori dell’innovazione tecnica nel cinema), Bazin afferma: “Tutti i perfezionamenti che assomma il cinema non possono dunque paradossalmente che avvicinarlo alle sue origini. Il cinema non è ancora stato inventato!” . L’interesse formidabile che l’umanità ha riservato alla fotografia trova dunque la principale motivazione nella sua relativa indipendenza dall’uomo (laddove per le altre arti la dipendenza è al contrario totale), nelle immagini della realtà che sono tali proprio grazie alla sua assenza. Nel 1839 Talbot, uno dei più importanti pionieri inglesi della fotografia, a proposito di uno dei suoi “disegni fotogenici” raffigurante la sua casa di campagna, scrive: “Ritengo che questo sia il primo esempio nella storia di una casa che abbia fatto il proprio ritratto”. A quasi due secoli di distanza, partecipiamo ancora a questa illusione (anche se le immagini digitali, le cosiddette immagini sintetiche e “fotorealistiche”, stanno introducendo problemi del tutto nuovi). Bazin paragona il sogno di una riproduzione totale della realtà sensibile al mito di Icaro, quello di volare: “ha dovuto attendere il motore a scoppio...”. Rivolgendosi finalmente allo specifico fenomeno del cinema, Bazin arriva così a postulare una essenziale, naturale, ontologica predisposizione dell’arte (o tecnica) cinematografica nei confronti del realismo, da non intendersi come realismo a tutti i livelli ma certamente contraddistinto, come è stato osservato, da un carattere che sembra manifestarsi in tre ambiti: psicologico, tecnico e poetico. I primi due li abbiamo già incontrati: il realismo psicologico proviene da quel profondo bisogno umano cui Bazin si riferisce attraverso la metafora del “complesso della mummia”, bisogno assorbito dalle altre arti plastiche (da cui le libera da un lato, sconvolgendole dall’altro); il realismo tecnico riguarda l’appropriarsi dell’obiettivo e dell’obiettività riproduttiva dell’immagine fotografica, l’ontologia realistica della fotografia moltiplicata per “24 volte al secondo”. Il terzo, il carattere poetico del realismo cinematografico, l’aspetto più controverso (e motivo di interpretazioni affrettate) della teoria di Bazin, riguarda la valorizzazione dei bisogni psicologici a cui il cinema risponde e delle sue caratteristiche tecniche: il cinema raggiunge questo obiettivo facendosi rivelatore della realtà. Limitiamoci a ricordare la semplice ma efficace distinzione che Bazin propone tra “i registi che credono nell’immagine e quelli che credono nella realtà”, dove per immagine intende “tutto ciò che alla cosa rappresentata può aggiungere la sua rappresentazione sullo schermo”: è sui secondi che concentra l’attenzione, quelli per cui “l’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela”. Ecco l’ontologia del cinema di Bazin, una delle risposte al suo “Qu’est-ce que le cinéma?”. E’ questo il cuore della teoria baziniana, quello da cui prende vita la sua idea di “realismo ontologico” del cinema, e deriva, come si è visto, da una riflessione sull’ontologia dell’immagine fotografica e dalla connessione tra questa e l’assenza dell’uomo. “Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne godiamo l’assenza.” Le conseguenze che l’introduzione della fotografia e del cinema provocano sul preesistente mondo dell’arte non possono che impressionare: la fotografia costringerà la pittura e la scultura ad una violenta serie di rivoluzioni poetiche di cui Picasso diverrà il simbolo più fortunato e celebrato; il cinema, che soffrirà per molto tempo di un complesso di inferiorità nei confronti del teatro (percepibile sia nella teoria che nella pratica cinematografica) e vivrà con esso una sorta di sfida estetica, finirà per sconvolgerlo e fornirgli motivazioni e idee per il suo rinnovamento. Tuttavia Bazin non si concentra sugli effetti che il cinema produce sull’arte drammatica più antica, ma piuttosto sul processo inverso che a partire dagli anni ’40, a suo avviso, si manifesta in maniera particolarmente significativa e innovativa: il cinema smette di nascondere, camuffare, minimizzare, evitare le sue relazioni e i suoi rapporti di dipendenza con il teatro cominciando a filmare ciò che il teatro è prima di ogni altra cosa, il teatro. Un fenomeno che ricorda le tautologie godardiane (“il cinema è il cinema”) e che potrebbe tradursi con l’eccentrica definizione “il teatro è il teatro, anche al cinema”. Sarebbe tuttavia semplicistico e, ovviamente, del tutto ingenuo ridurre la riflessione di Bazin ad una battuta, che ha qui solo una funzione evocativa: i problemi della relazione tra teatro e cinema individuati dal teorico francese seguono un percorso molto ricco e articolato come cercheremo ora di descrivere.
  • 5. In un saggio del 1951 Bazin si concentra sui rapporti tra teatro e cinema privilegiando la riflessione sul momento del passaggio da un sistema estetico, il teatro, all’altro, il cinema. Così facendo, parlando cioè di qualcosa che sta a cavallo tra teatro e cinema, che rischia di confondersi o restare un ibrido indefinito, che suscita timori di eresie artistiche inaccettabili e ingenue (il “cinema impuro”, che Bazin al contrario auspica), egli fornisce una serie di spunti per una riflessione lucidissima e profonda sull’uno e sull’altro. Il “drammatico” non è per Bazin una prerogativa esclusiva del teatro, esso esercita piuttosto una influenza immensa sulle altre arti e “il cinema è l’ultima delle arti che possa sfuggirgli”: la storia mostra quanto il cinema sia stato, per molti generi teatrali minori o abbandonati, una sorta di continuazione, se non addirittura il momento di massimo splendore (vale l’esempio che Bazin propone della farsa classica, riesumata e sviluppata da Buster Keaton, Laurel e Hardy, Chaplin, il cinema comico degli anni ’10, ma anche quello della commedia americana anni ’20 e si potrebbe aggiungere il filo che lega l’evoluzione del melodramma teatrale ottocentesco al cinema tout-court). Il rapporto tra il teatro e il cinema non si limita quindi al temibile orrore del cosiddetto “teatro filmato”, l’operazione di sterile registrazione dell’immagine della scena (“teatro in conserva”), ma è ben più profondo e riguarda generi che sono stati considerati come miti di purezza cinematografica. Il problema del testo drammatico (dove ne esiste uno) è invece centrale, secondo Bazin, perché nel teatro classico e contemporaneo esso si difende mediante la sua specifica dipendenza dalle convenzioni della scena teatrale: il testo contiene, almeno in parte, lo spettacolo teatrale. Tale sistema di regole, posto in relazione al carattere dell’immagine fotografica mostra le specificità dei due sistemi, cinema e teatro, che riguardano lo spazio e l’uomo. Sembrerebbe a questo punto liquidata la nozione classica di “presenza” (intesa come compresenza di spettatori e attori) dall’insieme delle possibili differenze ontologiche tra cinema e teatro: secondo Bazin infatti anche lo schermo è in grado di mettere lo spettatore in presenza dell’attore, ma lo fa come uno specchio e in maniera differita. L’immagine fotografica, è vero, non è che una traccia, ma ottenuta da un’impronta sulla pellicola che veicola l’identità dell’oggetto riprodotto. Ad una lettura più attenta capiamo però che Bazin conferma, forse in modo non consapevole, la fondatezza del concetto di “presenza” (con una lieve variante) nel momento in cui la ritrova analizzando la psicologia dello spettatore, il suo modo cioè di percepire la “presenza” nella scena e nello schermo. A teatro lo spettatore e l’attore sono reciprocamente consapevoli della loro compresenza, ciò stesso motiva la partecipazione dello spettatore al “gioco” dell’attore. Lo spettatore cinematografico è invece “solo”, di fronte a sé ha uno schermo dove si agitano le tracce luminose lasciate da un evento che lo ignora, nessuno si cura di lui durante la proiezione. Questo stato di cose difficilmente contestabile comporta, in Bazin, atteggiamenti psicologici ovviamente diversi. Da un lato lo spettatore partecipa allo spettacolo nel suo tempo biografico, ne è un elemento costitutivo che accetta le regole del gioco; dall’altro egli è un individuo di fronte ad un mondo “altro”, indipendente, che viene accolto come continuazione della realtà esterna. Ecco dunque la variante rispetto alla nozione comune di “presenza”: non è tanto la presenza dell’attore ad essere determinante nello svelare le diverse dinamiche che fondano teatro e cinema, ma una diversa presenza dello spazio e dell’uomo nella “mente” dello spettatore. Il teatro esibisce un gioco, il cinema la realtà. Tuttavia, l’atteggiamento psicologico dello spettatore non nasce magicamente o per pura convenzione. Cosa lo scatena? Il luogo drammatico del teatro è per definizione uno spazio innaturale. Esso si fonda, l’abbiamo visto, sulla coscienza reciproca dei presenti e si pone, con la recitazione dell’attore, come elemento fondamentale del gioco teatrale. I limiti del palcoscenico sono anche i confini che tengono distinto lo spazio del gioco da quello della realtà: “Nessuno ignora che l’attore che si «ritira nei suoi appartamenti» - dalla parte del cortile o dalla parte del giardino - va in realtà a togliersi il trucco nel suo camerino”. Caratteristica dell’inquadratura cinematografica è invece la sua forza espansiva, l’immagine fotografica viene percepita come colta attraverso un mascherino che nasconde i contorni dello spazio inquadrato. Così, se un personaggio (che esso reciti o no) esce dall’inquadratura non andrà a togliersi il trucco nel suo camerino ma lo ritroveremo subito dopo, ripreso da un carrello, da una panoramica o da un’altra inquadratura. Potremmo dire che si tratta ancora di un gioco, ma di un gioco di prestigio che non rivela il trucco (e se lo fa, in effetti celebra il carattere magico e illusorio del cinema, confermandolo): lo spettatore non è tenuto ad accettare alcuna convenzione, è la sua esperienza ricettiva quotidiana ad essere stimolata ed eccitata. Non è un caso che su tale forza espansiva si basino le grammatiche cinematografiche classiche, quella hollywoodiana per esempio, che sopravvive più
  • 6. o meno intatta da quasi un secolo: non si darebbe campo-controcampo o piano sequenza senza questo speciale tipo di percezione indotto dalla natura fotografica dell’inquadratura. Bazin afferma: “L’illusione non si fonda al cinema, come a teatro, su convenzioni tacitamente ammesse dal pubblico, ma al contrario sul realismo imprescindibile di quello che gli viene mostrato.” E lo spazio, “l’infrastruttura della nostra concezione dell’universo”, è il denominatore comune tra le realtà che percepiamo dentro e fuori la sala cinematografica. E’ significativo che i film che intendono svelare l’illusione del cinema lo facciano sforzandosi di sconvolgere le relazioni spaziali a cui lo spettatore si era abituato (svelando le scenografie finte del set, per esempio). Siamo tornati alle immagini acheropoietiche, quelle che devono la loro forza comunicativa all’assenza dell’uomo, alla registrazione meccanica: anche lo spazio cinematografico deve ad esse i suoi effetti. L’uomo torna dunque sempre al centro del problema delle relazioni tra cinema e teatro, nell’ambito della sua assenza e della sua presenza e in virtù del diverso rapporto che lo spazio ha con il teatro e con il cinema. Secondo Bazin non esiste teatro senza l’uomo, ma può facilmente esistere un cinema in cui l’uomo è ridotto a oggetto o manca del tutto. Si tratta di una conseguenza del realismo fotografico e anche, per connessione logica, del ruolo dello spazio nei due sistemi: da un lato finto, innaturale, prestato alla partecipazione ludica di attori e spettatori; dall’altra verosimile, aderente o coerente rispetto all’esperienza spaziale della realtà quotidiana. Come dice Bazin in modo efficace, “la macchina da presa offre al regista tutte le risorse del microscopio e del telescopio”: il cinema può mettere in scena “le ultime fibre di una corda che sta per cedere come tutt’un esercito che prende d’assalto una collina”. L’uomo cessa di essere nel cinema il cuore del dispositivo drammatico, può esserlo naturalmente ma non necessariamente: una corda o un esercito possono raggiungere al cinema il massimo effetto drammatico. Inoltre, l’uomo al cinema diventa facilmente oggetto, come accade per esempio nel sistema della suspense: lo spettatore sa ciò che il personaggio non può sapere, quest’ultimo agisce inconsapevolmente, ma sono il montaggio, la messa in scena, il decoupage a rendere pregnante e credibile la scena, solo in ultimo l’uomo che vediamo. A teatro, di fronte all’attore in carne ed ossa, di fronte all’uomo, la stessa struttura non ha lo stesso effetto drammatico: la tensione lascia il posto all’evidenza dell’artificio. E’ questo un punto nodale nel discorso di Bazin che infatti scrive: “Tale inversione dei poli drammatici è di una importanza decisiva e interessa l’essenza stessa della regia”. Sullo schermo l’uomo diventa una parte del mondo, cessando di esserne il cuore. Le relazioni spaziali della realtà vengono tutte addossate sull’uomo quando questi è sul palcoscenico, ma possono essere ricondotte a loro stesse quando siamo al cinema: non c’è bisogno che una foresta sia evocata con un albero di cartone al cinema, essa è alla sua portata e una scena può svolgersi dentro, sopra o in prossimità di una foresta vera. L’uomo è liberato dal compito, fondamentale a teatro, di partecipare alla costruzione dell’illusione dello spazio. Il problema che si pone il cineasta intento a portare sullo schermo un’opera teatrale è quello di un testo scritto per uno spazio non cinematografico e del suo adeguamento ad un altro sistema drammatico. Secondo Bazin, volendo rispettare il testo, il regista deve “riconvertire uno spazio orientato verso la sola dimensione interna, dallo spazio chiuso della recitazione teatrale a una finestra sul mondo”. Le soluzioni possibili al paradosso dello spazio sono molteplici e interessanti, come dimostrano i lavori di Cocteau, Olivier e Welles intorno agli anni ’40, e rivelano come un “cinema impuro” non faccia male né al cinema, né al teatro (e nemmeno al romanzo, alla pittura...): “il nostro pregiudizio dell’«arte pura» è una nozione critica relativamente moderna”. La riflessione sulle specifiche caratteristiche del teatro e del cinema, cui il lavoro di passaggio dall’uno all’altro costringe, è salutare: il cinema salva il teatro perché dimostra, senza farne “teatro in conserva” ma al contrario facendo del “teatro filmato” un innovativo “teatro cinematografico”, che esso non potrà mai sostituirlo; il teatro va in aiuto del cinema poiché fornisce alla macchina da presa un patrimonio storico-artistico straordinario e al contempo motivazioni immense per indagare su se stessa. Il realismo ontologico del cinema, derivante dall’immagine fotografica, mostra che non si tratta “di portare sullo schermo l’elemento drammatico *...+ di un’opera teatrale, ma, inversamente, la teatralità del dramma”. In altre parole, non è l’ingenua traduzione del mythos da un linguaggio ad un altro, ma la riproduzione rivelatrice dell’intero spettacolo in quanto porzione del reale, che porta il film a non tradire l’essenza realistica del cinema.
  • 7. Neorealismo Il miglior testo per comprendere lo spirito con cui venne accolta, fuori d'Italia, la nuova corrente cinematografica rimane ancor oggi l'articolo di André Bazin Le réalismecinématographique et l'écoleitalienne de la Libération apparso nel 1948 nella rivista "Esprit" (Bazin 1958-1962, trad. it. 1972:275-303). In questo saggio, Bazin si sofferma ad analizzare soprattutto la tecnica narrativa, cercando di definire il rapporto tra cinepresa (tipo di inquadratura e di raccordi tra inquadrature, movimenti di macchina) e fatti narrati, ambiente, oggetti. Servendosi di paragoni con la tecnica del romanzo americano (DosPassos, Hemingway, Steinbeck) e della pittura francese (Matisse), Bazin cerca di dimostrare che la cinepresa è diventata tutt'uno con l'occhio e la mano che la guidano.In tal modo, secondo il critico francese, il racconto, che nasce da una necessità biologica ancor prima che drammatica, "germoglia e cresce con la verosimiglianza e la libertà della vita".(A.Costa).Il ‘’Tutt’uno’’ sta proprio ad indicare un occhio che guarda non un montaggio da fare a posteriori una impostazione per capirci ‘’Documentaristica’’ ma nel senso cinematografico vale a dire che racconta e ci trasmette una realtà altra diversa Sociale (esterni),quotidiana ma anche interiore.È soprattutto in un film come Paisà che Bazin vede realizzarsi un radicale mutamento nella costruzione del racconto cinematografico:L'unità del racconto cinematografico in Paisà non è tanto la generica inquadratura, punto di vista astratto sulla realtà che si analizza, ma il "fatto". Frammento di realtà bruta , multiplo e equivoco, il cui "senso" viene fuori a posteriori, grazie ad altri fatti tra i quali si viene a stabilire un rapporto. Senza dubbio il regista ha ben scelto tra queste sequenze, ma rispettando la loro integrità << l'unità del racconto cinematografico in Paisà non è l'inquadratura, punto di vista della realtà che si analizza, ma il "fatto". Frammento di realtà bruta , in se stesso multiplo ed equivoco, il cui senso viene solo a posteriori grazie ad altri "fatti" tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti>>[AndrèBazin] con queste parole Bazin proponeva un nuovo tipo di immagine che è l'immagine fatto che caratterizzò tutto il neorealismo italaino. questo tipo di corrente che si sviluppò in italia grazie a De Sica , Visconti e Rossellini invece di rappresentare un reale già decifrato, mirava a un reale da decifrare sempre ambiguo; per questo il piano- sequenza tendeva a sostituire il montaggio classico dell'immagine movimento. Nel neorealismo abbiamo una continua crescita di situazioni ottico sonore pure (Deleuze a tal proposito nel primo capitolo dell'immagine tempo fa riferimento alla famosissima e celebre sequenza del film Umberto D cioè quella in cui la servetta al mattino entra in cucina e compie una serie di gesti meccanici e stanchi) che si distinguono sostanzialmente dalle situaizoni senso - motorie dell'immagine azione del vecchio realismo. come dice deleuze nel suo libro "il personaggio è diventato una specie di spettatore. Ha un bel muoversi, correre, agitarsi, la situazione nella quale si trova supera da ogni parte le sue capacità motorie e gli fa vedere e sentire quel che non può essere teoricamente giustificato da una risposta o da una azione." come possiamo vedere secondo Deleuze il personaggio più che agire registra e subisce l'azione. questo elemento è molto importnateperchè mette in crisi l'immagine azione. secondo deleuze un altro elemento di crisi è la forma della Ballade (andare a zonzo), i clichè e gli avventimenti che allentano i legami senso motori. un ruolo molto importante in questi film è sicuramente quello del bambinom, infatti come dice Deleuze il bambino soffre di una certa impotenza motoria, che lo rende però ancora più capacee di vedere e di sentire, e quindi di essere più veggente di tutti gli altri personaggi vediamo cosa dice Bazin a proposito del ruolo del bambino nel film ladri di biciclette di De sica: " la trovata del bambino è un colpo di genio di cui non si sa se è in ultima analisi di sceneggiatura o di regia, tanto questa distizione perde in questo caso di senso. E' il bambino a dare all'avventura dell'operaio la sua dimensione etica e a scavare una prospettiva morale individuale in questo dramma che potrebbe essere solo sociale. toglietelo e la storia resta sostanzialmente identica; la prova : la riassumereste alla stessa maniera." la situazione senso - motoria ha come spazio un ambiente ben definito e presuppone un azione che la sveli, o susciti una reazione che vi si adatti o la modifichi. una situazione senso puramente ottica invece si sviluppa in quello che
  • 8. Deleuze chiama uno "spazio qualsiasi". la vita quotidiana e la banalità stessa della quotidianetà lascia sussistere soltanto legami senso - motori deboli e sostituisce l'immagine azione con immagini ottiche sonore pure. queste situazioni rendono sensibili il tempo, il pensiero tanto da renderli visivi e sonori. questa situazione puramente ottico sonora risveglia una funzione di veggenza , in cui il personaggio è uno spettatore che si limita a guardare ed assistere a questa realtà quotidanasubento l'azione. queste situazioni hanno subordinato il movimento e si legano direttaente all'immagine tempo. la situazione secondo Deleuze deve essere "letta" in quando è in uno stato di veggenza dove si perdono tutti i movimenti senso – motori.