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primavera araba

n°755 / 2012

primavera araba
2012

Il Calendario del Popolo

www.calendariodelpopolo.it
www.sandrotetieditore.it

Poste Italiane Spa - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1, comma 1, Aut. C/RM/44/2011 In caso di mancato recapito si prega di restituire al Mittente CMP Romanina detentore del conto. € 9.00

	

Linda sutto - La primavera non bussa
Alain Gresh - Il cammino della libertà
Alessandro Politi - La rivoluzione araba al punto di svolta
Vittorio Ianari - La vittoria sulla paura
Vincenzo Mattei - L'utopia di Tahrir
Farid Adly - La maledizione del petrolio
Botros Fahim Awad hanna - Il dialogo mancato
Said chaibi - La Primavera in me
Ayachi hammami - La battaglia di Tunisi
David sorani - La diffidenza di Israele
Mehmet paÇaci - In principio Ankara
Barbara meo evoli - Vista da Caracas
Marc innaro - Democrazie e comunicazione
Mario sai - La Primavera del Lavoro
Stefano volpicelli - Transiti mediterranei

Roberto ciccarelli - Che cos'è il Quinto Stato?
Sergio bellucci - Internet delle cose
Roberto livi - Il nuovo corso a Cuba
Alessandro politi - Sopravvivere al futuro

numero 755/2012

La Primavera Araba è una stagione carica di aspettative ma anche di
pericoli. Dalle strade di Tunisi a Piazza Tahrir, dal deserto libico alle
acque del Mediterraneo, le rivoluzioni iniziate nel 2011 sono
un evento epocale che Il Calendario racconta attraverso straordinarie
immagini e inediti punti di vista, provenienti da tutto il mondo.
Il tema centrale è il grande sforzo di comprensione che spetta
all'Occidente di fronte alla lotta degli shabab, i giovani arabi:
una battaglia dagli esiti ancor oggi imprevedibili, tra i quali la
Democrazia non è purtroppo il più scontato.

755

Rivista di Cultura
fondata nel 1945
la primavera non bussa
di Linda Sutto
Immergo il dito indice nell’inchiostro rosso.
Tra un istante − piccolo, quasi
insignificante − lo appoggerò su
un foglio e lascerò la mia identità
impressa, come una grande conquista. Guardo il mio polpastrello
tingersi e diventare il disegno che
stamperò sul mio primo voto. In
fila con me altre centinaia di persone, con la suggestione d’avere
tra le mani − in questo gesto, quasi
da nulla − la possibilità di scegliere.
L’inchiostro scivola sulle minuscole linee della mia pelle, osservo attentamente: ogni piccolo solco mi
sembra d’improvviso uno dei passi
che mi hanno condotto qui. Seguo
il colore spargersi veloce, non lo
perdo di vista un secondo, come
se potesse riportarmi all’inizio di
tutto e dirmi chi sono oggi. Come
se potessi trovarci scritta una spiegazione a quel che è successo, una
spiegazione da dare almeno a me
stesso.
Ogni minuscola linea è una storia.
Il rosso vi scorre sopra, come fossero piccoli fiumi, o le strade del
Cairo, che si riempivano fino a non
essere più strade, ma folla, non un
ammasso di persone, ma un popolo unito, energia pura, un’onda
che straripava, traboccava da un
cuore all’altro, trascinando con sé
i sentimenti di tutti, anche miei.
Nascosti seppelliti e repressi da
generazioni, forse, erano nell’aria,
erano nel fondo, nello stomaco…

1
2
da dove venivano?
È complicato per me comprendere come sia accaduto esattamente.
Fu come se d’improvviso la rabbia
e la miseria non fossero più capaci
di nascondersi, iniziarono a uscire
attraverso gli sguardi, attraverso la voce, e attraverso i corpi; e
mentre le strade si riempivano
cambiavano, al riconoscersi occhi
negli occhi, la paura, la frustrazione, la rabbia, si trasformavano in
un groviglio informe e adrenalinico; fino a essere qualcosa di nuovo, ancora più forte: Speranza.
Travolgeva chiunque le capitasse
a tiro, una valanga di emozioni
cieca e implacabile, una freccia
scoccata con precisione, pronta
a conficcarmisi nel cuore, senza
chiedere permesso.
Se voi mi chiedeste cos’è la primavera, io risponderei che sono
le mie gambe che tremano, il mio
volto che suda, che è quell’orda di
sentimenti che mi si è rovesciata
addosso, mi è entrata nel sangue,
e ha iniziato a trasformarlo.
Io ero un militare. Mi hanno insegnato ad amare l’ordine, ad
amare il mio sovrano. Ho servito
il mio popolo, e ne ero contento,
mi sembrava che potesse essere
bene. Forse quello che realmente
sentivo era coperto dalla polvere
della rassegnazione, dimenticato
per il bisogno. Pensavo che difendere l’ordine costituito mi avrebbe reso onorevole di fronte alla famiglia, alla mia comunità e a Dio.
Così mi avevano insegnato, ed era
così necessario crederci, che vissi
per anni senza chiedermi se fosse
giusto o meno.
Fu quando la gente cominciò a
scender per le strade che iniziai a
esser pervaso da una confusione
endemica, sotterranea e inarrestabile. La piazza cantava, la piaz-

3
4
za ruggiva, migliaia di occhi, mani,
sogni, respiravano assieme: era un
animale vivo, che si muoveva verso di me.
Io in quel momento sono muscoli,
fibre, nervi tesi. Io militare, sono
lo Stato, l’ordine, la dittatura. Io
sono un ragazzo di venticinque
anni, nato a Tunaydah, figlio di un
panettiere, cresciuto tra la sabbia e
le lucertole, arruolato perché alto
e sano, perché nella vita si fa ciò
che si deve, perché è un ordine. Io,
davanti alla mia gente, in quella
piazza, non so più chi sono, chi il
mio popolo, chi il mio nemico. Il
mio compito era difendere la mia
terra, non colpire i miei fratelli.
Desidero, d’improvviso e da sempre, smettere di dover obbedire.
In quest’attimo in bilico tra ciò che
sono e ciò che posso – che forse
voglio – quel che credo – quel che
non potrei – barcollo di fronte alla
folla che urlando reclama Giustizia
sociale! Libertà! Dignità! Possibilità… Desidero esser capace di pensare autonomamente. Mi sembra di
non aver mai fatto qualcosa del
genere, di non esser mai stato così
libero – così solo – di fronte a un
pensiero, a una scelta. è una sensazione terribile, e affascinante.
Il mio corpo vibrava, le loro voci
mi attraversavano, mischiandosi segretamente ai miei pensieri.
Padre, capirai il perché? Potrai
comprendere questo? Non sono
una persona coraggiosa, tremavo. Madre, perdona se questo ti
provocherà dolore e angoscia. La
valanga sfrenata degli umori della folla mi entrava dentro. Dio, mi
giudicherai secondo quale Legge?
Gridano “Libertà, Libertà”, che
cos’è Dio? Che cos’è giusto? Quale
verità devo difendere?
Avrei voluto che qualcuno lo avesse fatto al mio posto, ma per ri-

5
6

spondere, c’ero solo io, metà uomo, metà soldato.
Quando diedero l’ordine di caricare non potei muovermi: fu il mio corpo a rifiutarsi d’obbedire.
Sono caduto spinto dagli altri, quasi senza comprendere cosa stesse succedendo, sono rimasto a terra e ho
atteso il caos.
Poi sono scappato, lungo le strade del Cairo in fiamme, giù per le periferie di baracche, tutta la notte ho
camminato, fino a dove non c’erano che palme da dattero, fino a che l’alba del giorno dopo mi ha sorpreso
e, con le prime luci del giorno, ho scoperto d’essere un
altro: un disertore.
Per giorni mi sono nascosto, ho bruciato la mia divisa
dove nessuno potesse vedere. Qualche chilometro più
in là qualcuno moriva, in nome chi di una cosa, chi
dell’altra. Per settimane il mio animo fu tormentato.
Per sempre è cambiato il mio destino.
Questa battaglia non s’è vinta né per mio merito né
per mio coraggio.
Non sento di aver contribuito a “fare la Storia”, semplicemente non potevo uccidere i miei fratelli. In queste vicende mi ci sono trovato dentro, così come mi
son trovato gettato nella vita, venticinque anni fa, in
un villaggio di sabbia e vento. L’unica differenza è che
questa volta, quasi per caso, ho scoperto di poter scegliere da che parte stare. Inciampando.
Se la mia scelta sia stata quella giusta non lo so ancora
dire, perché da quella volta ho perso le poche risposte
che mi permettevano di sopravvivere, in cambio di
una quantità infinita di domande che non mi lasciano
dormire la notte. Con gli occhi sbarrati nel buio mi
chiedo: in fondo che cosa abbiamo vinto?
Questa libertà di cos’è fatta, dov’è, a cosa serve?
Allora apro il Corano e prego. Ma ogni notte le domande ricominciano: chi sarò agli occhi dei miei figli,
un eroe o un colpevole?
Non sarebbe stato meglio lottare per qualcosa che
avesse anche una qualche consistenza e si potesse
masticare sotto i denti?

Che cos’è la democrazia, allora, è questo?
Quest'inchiostro rosso sulle mie dita?
I funzionari dell’ufficio elettorale mi richiamano alla
realtà, io riemergo dalle mie impronte digitali colorate con un’aria probabilmente un po’ stupida, un po’
sconvolta. Mi consegnano il pezzo di carta su cui votare, e mi abbandonano, una volta ancora, da solo con
le mie decisioni.
Allora eccomi qui, voto. Mi sento quasi bene a vedere
le mie impronte lì, impresse. E se la mia conquista, la
nostra conquista, non fosse altro che quest’illusione
di star meglio per aver lasciato il proprio segno da una
parte anziché dall’altra?
Per oggi basta domande, ya salam, mi concedo il piacere di credere.
SOMMARIO

1

La primavera non bussa

di Linda Sutto

9

Editoriale

di Sandro Teti	
di Redazione

12

Introduzione
		
Il cammino della libertà

14

La rivoluzione araba al punto di svolta

di Alessandro Politi

18

La vittoria sulla paura

di Vittorio Ianari

20

L'utopia di Tahrir

di Vincenzo Mattei

24

La maledizione del petrolio

di Farid Adly

29

di B. F. Awad Hanna

32

Il dialogo mancato
				
La primavera in me

36

La battaglia di Tunisi

di Ayachi Hammami

38

La diffidenza di Israele

di David Sorani

43

In principio Ankara

di Mehmet Paçaci

44

Vista da Caracas

di Barbara Meo Evoli

47

Democrazie e comunicazione

di Marc Innaro

51

La primavera del lavoro

di Mario Sai

58

Transiti mediterranei

di Stefano Volpicelli

68

Schede Paesi

69

Glossario

70

Che cos'è il Quinto Stato?

di Roberto Ciccarelli

73

Internet delle cose

di Sergio Bellucci

75

Il nuovo corso a Cuba

di Roberto Livi

77

Sopravvivere al futuro

di Alessandro Politi

79

Il popolo del Calendario

80

Elenco Sostenitori / Librerie

10

di Alain Gresh

(intervista)

(intervista)

di Said Chaibi
(intervista)

(intervista)

(intervista)
Direttori

Giulio Trevisani
dal 1945 al 1969

Carlo Salinari
dal 1969 al 1977

Comitato dei Garanti
Zhores Alferov
Piero Beldì
Sergio Bellucci
Luciano Canfora
Franco Cardini
Luciana Castellina
Dario Coletti
Guido Fanti
Franco Ferrarotti
Carlo Ghezzi
Margherita Hack
Emilio Isgrò
Milly Moratti
Diego Novelli
Piergiorgio Odifreddi
Mauro Olivi
Leoluca Orlando
Moni Ovadia
Valentino Parlato
Piercarlo Ravasio
Guido Rossi
Sergio Serafini
Nichi Vendola

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dal 1977 al 2010

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8

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Periodico associato
all’Unione Stampa
Periodica Italiana

Il Calendario del Popolo è
socio del Coordinamento
Riviste Italiane di Cultura

Fotografie
Le immagini sono di Luca Sola (Terni
1977) fotogiornalista che collabora con
prestigiose testate nazionali e internazionali. Si è interessato alle problematiche
legate al mondo del lavoro in Italia. Dopo
un’impegno pluriennale in Palestina e
in Israele, ha seguito sin dagli inizi gli
sviluppi della Primavera Araba vivendo e
lavorando in Egitto e in Libia durante tutto
il 2011. Attualmente Al Cairo sta portando
a termine il suo ultimo reportage sulla transizione politica dell’Egitto.

Ringraziamenti
Mario Castaldo
Emiliano Chiusa
Marisa Minoletti Teti
Alberto Muciaccia
Adriano Roccucci

Cari abbonati e cari lettori,
stiamo cercando di contattarvi tutti
telefonicamente, ma abbiamo difficoltà a
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Comunicateceli per favore ai numeri
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Stiamo lavorando alla creazione di
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Cerchiamo vecchie fotografie, anche non
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edizioni de Il Calendario, la Teti Editore
ed eventi a cui hanno partecipato
(feste de l’Unità, banchetti, convegni,
eccetera. Metteremo poi a disposizione,
anche attraverso Internet, tutti questi
materiali, che costituiscono la memoria
storica del Calendario.
Inoltre, se avete vecchi numeri de
Il Ca­endario e soprattutto degli
l
Almanacchi, vi preghiamo di mettervi in
contatto con la redazione, poiché stiamo
ricostruendo l’archivio di tutti i numeri
della rivista.
EDITORIALE
di Sandro Teti
Il Calendario del Popolo torna a occuparsi di assetti geopolitici e trasformazioni dello scenario internazionale. Lo fa un anno dopo i sommovimenti
che hanno scosso il Maghreb e il Medioriente con
un numero dedicato alla cosidetta Primavera Araba. Una miscela plurale di racconti, testimonianze,
riflessioni analitiche fissa i termini di un processo
aperto e tutto in divenire, carico di aspettative ma
ugualmente gravido di pericoli.
Dalle strade di Tunisi a piazza Tahrir, dal deserto libico alle acque del Mediterraneo, solcato dai
transiti migranti, le rivoluzioni del 2011 non sono
mai state un fatto esclusivo del mondo arabo, bensì
un evento epocale, i cui effetti riverberano sull’Occidente e investono gli equilibri politici mondiali.
Per questa ragione abbiamo offerto una molteplicità di punti di vista, alternando prospettive interne
a sguardi esterni, tra cui quello di Israele, convitato di pietra delle rivoluzioni, e della vicina Turchia,
cerniera sensibile tra due continenti.
Le storie raccolte in queste pagine dicono delle
profonde trasformazioni che hanno attraversato le
società arabe.
Ma prima ancora delle parole sono le immagini
a parlare: gli eloquenti scatti del fotogiornalista
Luca Sola restituiscono speranze, passioni e paure
sui volti d’insorti e combattenti nel nome dei diritti
e della libertà. La ricerca iconografica palesa, con
efficacia mimetica e sottile allusività, l’intreccio
di temi cruciali sollevati dalle rivoluzioni: il ruolo delle donne nelle mobilitazioni oceaniche contro i regimi, la diffusione delle nuove tecnologie di
comunicazione, la durezza dello scontro militare,
i riti e i simboli della religione insieme al grande
interrogativo costituito dall’evoluzione dell’Islam
politico. Abbiamo composto un numero ancora più
“aperto” e meno definitivo del solito, perché mai
come nel caso di questa Primavera gli esiti del cammino di liberazione sono affidati alle donne e agli
uomini in marcia.

Preservando il taglio monografico che caratterizza
la nuova serie de Il Calendario, abbiamo incrementato e irrobustito il numero di pagine dedicato
a temi di attualità, tra i quali il nuovo corso politico
a Cuba, la condizione del lavoro atipico, precario,
parasubordinato, e le inedite applicazioni della rete
telematica. Abbiamo dato spazio a critiche e suggerimenti di voi lettori, ripristinando la rubrica Il
Popolo del Calendario e, seguendo i vostri consigli,
abbiamo confermato la sezione dedicata alle recensioni librarie.
Stiamo procedendo a tappe forzate per recuperare
il ritardo con cui stiamo uscendo, e abbiamo quasi
terminato il prossimo numero, che sarà dedicato
alle stragi nazifasciste in Italia, i cui responsabili
sono stati protetti per decenni dai vertici dello Stato. Abbiamo avviato anche la lavorazione del numero ancora successivo, in cui si descrive il rapporto tra la città e le sue periferie, fisiche e mentali: un
monografico che affronta argomenti di sociologia,
architettura e urbanistica.
9
introduzione

10

«Primavera non bussa, lei entra sicura / Come il fumo
lei penetra in ogni fessura» cantava Fabrizio De André
in Non al denaro, non all’amore né al cielo. Correva il
1971.
Quarant’anni più tardi, i versi del cantautore genovese restituiscono l’irresistibile, trascinante impeto della
brezza che ha spazzato il mondo arabo dal Maghreb al
Medioriente. Sordi al montare della marea, ma lesti nel
coniare formule a effetto, i media occidentali l’hanno
battezzata Arab Spring. Stagione nuova di speranze
che ha mutato il corso della Storia. Brezza sostenuta dal
respiro collettivo di donne e uomini in lotta per la libertà. Marea incalzante di milioni di corpi che ha travolto regimi e spezzato il pugno di ferro dell’oppressione.
Eppure, sarebbe bastato tendere l’orecchio, osservare i
lenti, inesorabili mutamenti che agitavano il corpo sociale, liberarsi degli inveterati pregiudizi eurocentrici,
per cogliere l’approssimarsi del cambiamento. Del resto «You don’t need a weatherman / To know which
way the wind blows», volendo dirla con le parole di Bob
Dylan.
A più di quindici mesi dall’inizio della rivoluzione tunisina, la Primavera Araba si configura come cesura
epocale, occasione storica che chiama direttamente in
causa l’Occidente. La posta in gioco è lo sviluppo della
democrazia dopo gli anni Zero, dopo il cupo decennio
iniziato con l’ecatombe del World Trade Center, consumato all’insegna dello “scontro di civiltà”, bruciato nella
contrapposizione tra Terrore qaedista e unilateralismo
guerrafondaio dei neo-conservatori. Le rivoluzioni arabe indicano, pur nella loro complessità e al netto delle intrinseche differenze, una via per l’emancipazione
dei popoli che non coincide più con le rotte dei cacciabombardieri diretti a Kabul o a Baghdad. Riaffermano
il ruolo della donna in società troppo spesso narrate
sulla base di stereotipi. Testimoniano il diffondersi di
un senso comune critico e di una partecipazione che si
coagulano nelle strade delle città in rivolta come sulle
dorsali della rete telematica. Alludono a un’evoluzione
dell’Islam politico all’interno delle regole e delle procedure di un sistema democratico rideclinato in forme
inedite.
Di certo nulla è scontato e l’avvenire della Primavera
rimane confuso: a Damasco, dove la lotta continua, e al
Cairo, dove va definendosi lo sbocco istituzionale della
rivoluzione. Nel Marocco, attraversato da timidi fermenti, e sotto l’accecante sole algerino, che tutto sembra pietrificare, tra le ombre della memoria, nei ricordi
d’una sanguinosa guerra civile. La partita è aperta. Gli
scenari fluidi. Molti futuri sono ancora possibili.
Ai Paesi occidentali spetta un grande sforzo di comprensione, la spregiudicata pratica di altri punti di vista, la costruzione di nuovi legami tra le due sponde del
Mediterraneo. Occorre dismettere la retorica da “guardiani” dell’unica, vera democrazia, in una congiuntura
in cui – proprio nei confini della vecchia Europa – è la
stessa tenuta democratica a essere compromessa dai
diktat di un neo-liberismo in veste tecnocratica sopravvissuto alla propria bancarotta: al great crash del 2008.
Ai popoli arabi, invece, deve competere ancora il coraggio, perché la lotta per i diritti e la dignità non è finita.
Ed è una lotta dagli esiti imprevedibili, che può generare tutele autoritarie, controspinte conservatrici, radicalizzazioni intolleranti o costituire una decisiva opportunità di liberazione.
«Non serve essere un meteorologo per sapere da che
parte tira il vento», eppure anche la brezza più impetuosa può volgere bruscamente in bonaccia o trasmutare in un gelido soffio invernale. Nel calendario della
Storia le stagioni mutano all’improvviso e non c’è niente di certo, ma la Storia è sempre di chi sceglie di farla.

11
il cammino della libertà
di Alain Gresh

12

In poche settimane, al prezzo di un migliaio di morti complessivamente, in Tunisia e in Egitto i popoli si sono sbarazzati pacificamente dei rispettivi dittatori. Rapidamente,
il movimento si è esteso dal Marocco alla Siria, passando
per l’Arabia Saudita e l’Iraq. Dappertutto, una stessa aspirazione alla libertà, alla dignità, dappertutto una stessa
volontà di non cedere alla violenza. Nessun Paese arabo
è stato risparmiato, neppure i ricchi Emirati Arabi Uniti,
dove degli oppositori sono stati arrestati e un’associazione
di difesa dei diritti umani è stata posta sotto tutela. La rapidità con la quale si sono propagate le fiamme della rivolta,
diffuse in particolare dalla TV Al Jazeera, ha fatto nascere
delle illusioni: il cambiamento sarà rapido; i regimi cadranno gli uni dopo gli altri come dei castelli di carte; il domani,
in senso letterale, sarà radioso. Ma non è andata così. La
contro-rivoluzione ha colpito il Bahrain, con l’intervento
delle truppe del Golfo. La Libia è sprofondata in una guerra che ha permesso l’intervento della NATO. Il presidente
yemenita, Ali Abdullah Saleh, non molla il trono. Il potere siriano tenta di schiacciare l’opposizione. E quello che
deve essere fatto per gli egiziani e i tunisini è enorme, soprattutto in campo economico-sociale. Assisteremo, come
nel 1848 in Europa, alla repressione della “primavera dei
popoli”? Molti commentatori sono pessimisti: sia coloro
che pensano che gli arabi non saranno mai maturi per la
democrazia; sia coloro che agitano, una volta ancora, la minaccia islamista; sia coloro che si chiudono nei tempi dei
media: qualsiasi lotta che dura più di una settimana è in
un «vicolo cieco», qualsiasi crisi che dura più di un mese
si «impantana». Tuttavia, nel luglio 1790, un anno dopo
la presa della Bastiglia, la Francia era ancora un regno e
l’Europa sembrava immobile… Era senza dubbio ingenuo
pensare che dei dittatori, rinchiusi da decenni nei loro fortini, si sarebbero arresi senza resistenza. O anche che la loro
caduta avrebbe significato un cambiamento di sistema
sociale. I poteri in carica dispongono di potenti e terribili
mezzi di repressione, anche se il ricorso a questi metodi
non ha fatto né tacere i cittadini né ha riportato l’«ordine».
Ed è ancora più allarmante il fatto che questi regimi non si
fermino di fronte all’utilizzazione di una temibile risorsa.

In Medioriente regna una infinita diversità: curdi e arabi,
cristiani e musulmani, ortodossi e cattolici, sunniti e sciiti
vivono, da tempo, fianco a fianco, sovente in pace tra loro,
a volte come rivali, in alcuni casi arrivano allo scontro. Ma
da molto tempo il confessionalismo e le identità nazionali
sono state strumentalizzate sia dalle potenze coloniali, sia
dai regimi nati dalle indipendenze che “dividono per regnare”; in Egitto, per esempio, Hosni Mubarak ha sfruttato
la questione copta, mantenendo la minoranza cristiana in
una situazione di inferiorità pur presentandosi contemporaneamente come lo scudo che li difendeva dall’islamismo.
Queste manovre non sono cessate con lo scoppio della
rivolta araba. La dinastia regnante (sunnita) in Bahrain,
dove la maggioranza della popolazione è sciita, ha mobilitato su base confessionale. Strumentalizzando le paure,
la nuova stagione
13

la famiglia reale ha imposto lo stato d’emergenza, e fatto
appello alle truppe dei suoi alleati del Golfo, in primo luogo
l’Arabia Saudita. Una campagna di una xenofobia particolarmente disgustosa ha accusato i manifestanti, alcuni dei
quali sunniti, di essere al soldo dell’Iran. In seguito, tutti i
Paesi del Golfo hanno seguito questa strada, accentuando le divisioni cresciute già con l’intervento americano in
Iraq e l’insediamento di partiti sciiti alla testa del governo
a Baghdad. Fin dal 2004, il re di Giordania aveva messo
in guardia contro la creazione di un “arco sciita”, dall’Iran al Libano passando per gli emirati del Golfo. In Siria,
il regime del Baas, incapace di rispondere alle aspirazioni
popolari, ha armato la minoranza alauita di cui fa parte,
mentre alcuni gruppi salafiti sunniti tentano di trasformare il movimento di protesta in lotta contro gli “infedeli”. La

volontà unitaria dei manifestanti e le loro rivendicazioni
civiche di libertà, giustizia sociale e democrazia, hanno in
parte permesso di smascherare queste manovre di diversione, di continuare ad andare avanti, di approfondire le
conquiste. La “primavera dei popoli” non è finita, mentre i
discorsi più estremisti sono stati marginalizzati. Al-Qaeda
è stata spiazzata dalle mobilitazioni e la morte di Osama
Bin Laden segna simbolicamente la fine di un’epoca e di un
discorso che, all’inizio del secolo, trovava ancora una certa
eco nel mondo musulmano. Le strade della libertà e della
dignità, aperte dal popolo tunisino e poi intraprese dagli
altri popoli arabi, permangono incerte. Ma, ormai, tornare indietro è impossibile. «Quando la libertà è esplosa una
volta nell’anima di un uomo, gli dei non possono più nulla
contro quest’uomo» (Jean-Paul Sartre, Le Mosche).
la rivoluzione araba al punto di svolta
di Alessandro Politi

14

Smettiamo di chiamarla Primavera Araba, è un nome
che, per quanto emotivo e noto alla nostra storia eurolandcentrica, ha un finale jettatorio: Alexander Dubček,
il comunista dal volto umano, era tanto caruccio, ma
poi “per fortuna” arrivarono i carri armati sovietici a
riportare l’ordine a Manama (pardon, Praga).
Chiamiamola per quello che è realmente: Rivoluzione
Araba. Per i conservatori e i cosiddetti Realpolitiker nel
mondo è un incubo, per i riformatori è una grande speranza e per i rivoluzionari e tutti in genere è un enigma
dal finale ancora molto aperto e rischioso. Nel mese
d’aprile questa rivoluzione è a un punto di svolta perché le rivoluzioni riuscite devono affrontare l’incognita
della costruzione di un nuovo sistema politico e perché
simbolicamente la Siria è l’evento che può aumentare la
spinta rivoluzionaria in Asia e Africa oppure smorzarla
significativamente.
Il clamore politico e mediatico intorno a Damasco non
dovrebbe farci dimenticare che in molti posti la situazione è “tranquilla”:
- Iran, Iraq, Palestina, Giordania, Algeria non sembrano mostrare molto al mondo;
- Libano e Marocco hanno dei fremiti politici;
- Arabia Saudita e Oman sono in coma da petrodollari e
paternalismo consolidato;
- Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar: praticamente nulla.
I motivi specifici per cui questi Paesi si ritrovano insieme sono diversi, ma sono accomunati da una forza di
gravità che è la paura del cambiamento dal basso e l’incapacità relativa delle differenti classi dirigenziali di capirlo, interpretarlo e gestirlo. All’interno del gruppo c’è
poi la netta separazione tra (petro)monarchie del Golfo
e Paesi reduci di guerra.
Quanto ai primi, è dai tempi della Santa Alleanza che
i re non amano particolarmente le rivoluzioni e fanno
lega per schiacciarle, anche se oggi, e qui, la dimensione
specifica è in larga misura quella del petrolio e della diversificazione dalla petroeconomia. Queste monarchie
hanno presto ritrovato i loro interessi comuni ancor più
nel reprimere i cittadini del Bahrain e nell’aprire il club

a monarchie fuori regione come Giordania e Marocco,
che non nel resistere all’influenza iraniana.
Poi vi sono i Paesi dove lo sfruttamento politico del
trauma da guerra civile o esterna continua a essere il
mezzo per bloccare gli assetti politici. L’Iran con la
guerra Iran-Iraq e il lungo duello con gli USA; l’Iraq
con le tre guerre del Golfo e la graduale uscita dall’occupazione statunitense e dalla guerra civile; la Palestina
e le sue catastrofi militari, terroristiche, diplomatiche,
politiche; la Giordania con le memorie del Settembre
Nero; l’Algeria e i suoi strascichi dei fantasmi della feroce guerra civile; il Libano con le cicatrici della ventennale guerra civile; il Marocco con un timido disgelo dagli
anni di piombo e una guerra bloccata nel Sahara Occidentale. Tutte situazioni geopolitiche le quali faticano a
lasciarsi dietro i confortevoli schemi amico-nemico per
entrare in una realtà più libera, fluida, contestabile.
Questi attori sono i migliori rivelatori delle ripercussioni che le tensioni visibili hanno sull’insieme degli
scacchieri dell’Oceano Indiano, dell’Africa e dell’Oceano Atlantico. Al di là dei tentativi più o meno sinceri
o cosmetici di cambiamento, tutti questi Stati avevano
progetti di rendita geopolitica, dall’Iraq che deve capitalizzare i prezzi pagati all’invasione e alla democratizzazione imposta, all’Iran che vuole espandere la sua
influenza sbandierando una rivoluzione rimasta sui
murales e truccata nelle urne, alla coppia israelo-palestinese le cui élite si rifanno il film del 1967 e variazioni
annesse.
Nel migliore dei casi forniranno ai processi rivoluzionari in corso la fiammata lunga per operare cambiamenti
sociali in profondità quando le rivolte saranno cronaca passata: il segno dei mutamenti non si può ancora
prevedere, ma la direzione generale costringerà tutti i
Paesi a fare i conti con il Risveglio Arabo, pena la decadenza. Nel peggiore dei casi sono il materiale inerte
che serve per flemmatizzare, sopire e troncare la spinta
al cambiamento, offrendo un bel condono tombale alle
responsabilità di classi dirigenti divorziate da ogni realtà che non sia la perpetuazione del potere.
la nuova stagione
Israele, intendendo la società israeliana, ha reagito in
modo arabo alle sollecitazioni del Maghreb. Certo che
la situazione sociale, politica ed economica è differente, ma la gioventù israeliana di tutti i ceti e orientamenti politici ha protestato contro un analogo furto di
futuro e una più sottile estrazione di valore. Il movimento delle tende, le quali oggi sono state fisicamente
smantellate dalle piazze e dalle strade, ha espresso la
sua opposizione contro una società sempre più diseguale, frammentata e libanizzata sotto lo spauracchio
del conflitto perenne.
Come in tutte le democrazie ricche e indebitate, basti
vedere gli Indignados, il movimento studentesco cileno e Occupy Wall Street, questo tipo di movimenti non riesce ad abbattere presto un ben più fragile
regime autoritario, ma può aver gettato i semi per
un cambiamento non meno necessario rispetto al
totalitarismo dolce delle oligarchie del capitalismo
finanziario.
La drammatica posta in gioco per i Paesi di Nordafrica, Levante e Golfo non è data tanto dalla distinzione tra sciiti e sunniti, ma tra minoranze al governo e
maggioranze prive di libertà. Dal lato delle minoranze
al potere abbiamo i casi dell’Iran sciita e dell’Afghanistan (come mostrano i brogli nel voto), quelli delle petromonarchie sunnite o della Giordania (dove i
palestinesi sono il 60%), della Palestina dei cacicchi
politici e familiari, della Siria degli alauiti, oppure
dell’Algeria dei generali in doppiopetto e del Marocco
con la sua monarchia sceriffiana. In forme diverse è
un problema che tocca anche Israele dove una minoranza di colonizzatori domina la maggioranza degli
arabi palestinesi e la maggioranza degli israeliani che
sono stufi di passare da un conflitto all’altro.
I Paesi di nuova democratizzazione hanno il problema di stabilire un quadro istituzionale che eviti una
dittatura della maggioranza e di avviare un cambiamento sociale che elimini i rischi assai concreti e persistenti di familismo, corruzione, fazionalismo e manipolazione della religione.

Quali sono i possibili futuri per Libia, Tunisia, Egitto e
Yemen nel prossimo quinquennio? Ve ne sono almeno
quattro:
- democrazia fragile (forte corruzione, incerto Stato di
diritto, faticoso sviluppo dei corpi politici e sociali);
- democrazia sotto tutela (i militari possono o non possono intervenire direttamente, ma condizionano pesantemente il gioco politico);
- democrazia autoritaria;
- golpe bianco o reale, controrivoluzione con dittatura
hard o soft.
Le possibilità finali, se si sopravvive a uno degli esiti citati, possono concretizzarsi o in una democrazia
emergente secondo parametri nuovi e completamente
sperimentali, vista la crisi delle democrazie della koinè
occidentale, o in una democrazia fittizia (che possiamo
definire democrablanda, democrazia annacquata). È
ovviamente troppo presto per tutti, protagonisti rivoluzionari inclusi, prevedere il risultato conclusivo di questi processi rivoluzionari.
Nel frattempo la situazione sta evolvendo con grande
rapidità anche a livello strategico. Nella scorsa primavera molto sembrava andare per il verso desiderato
dalle petromonarchie: la manovra controrivoluzionaria
sembrava aver contenuto elegantemente i disordini nel
resto del Nordafrica; Tunisia ed Egitto andavano considerati persi ma in Egitto lo SCAF (Supreme Council
of Armed Forces) stava pilotando la controrivoluzione;
in Bahrain la rivoluzione era stata soffocata mentre in
Libia era in corso un confuso conflitto interno dagli esiti
incerti.
E invece, mentre si proclamava su diversi media compiacenti l’arrivo di una torrida estate araba o addirittura
un gelido inverno (sempre in ossequio alla rassicurante
jella cecoslovacca), proprio nell’inverno del 2011 si consolidavano tre eventi di segno opposto.
In Yemen veniva cacciato il vecchio presidente ad vitam Saleh; la popolazione e l’establishment hanno temporaneamente accettato la reggenza del vicepresidente, una creatura del vecchio dittatore, in attesa di una

15
16

transizione che eviti gli orrori della guerra civile libica.
La soluzione vicepresidenziale è stata caldeggiata da
Riyadh, ma anche i sauditi sanno che è solo un guadagno di tempo, non una battuta d’arresto come quella in
Bahrain.
La campagna libica, sia pure in modo rocambolesco,
è stata vinta dalle forze rivoluzionarie, sostenute dalle
forze NATO, di Qatar e UAE, con la fine del regime del
colonnello Gheddafi. Il Paese è in pieno rimescolamento, il che suscita molti timori nelle cancellerie di medie
e grandi potenze, ma un altro regime dispotico è finito
e questo ha contribuito a dare vigore ai moti in Siria.
Per quel che riguarda la Siria è chiaro che il presidente
Bashar al-Assad ha abbandonato qualunque pretesa di
riforma e si sta preparando a liquidare l’insurrezione rivoluzionaria, prima rendendo impraticabile la protesta
pacifica e adesso cercando di distruggere i gruppi armati dell’Esercito Libero Siriano o dei comitati di difesa locale. Dera’a, Deir el-Zor, Homs, Jisr al-Shughour sono
stati gli epicentri di rastrellamenti governativi, che saranno forse complicati dall’accordo di tregua raggiunto
con la mediazione dell’inviato speciale dell’ONU, Kofi
Annan. È vero che a ogni massacro si scava il solco tra
gli spartiati alauiti e gli iloti sunniti, ma gli Assad sanno
che, se cedono, non avranno un futuro se non di esilio
e/o di processo per crimini umanitari.
La visione superficiale vede Iran e Hizb’Allah sostenere il regime siriano, Cina e Russia impedire interventi esterni in violazione alla sovranità di Damasco,
Arabia Saudita e Qatar aiutare gl’insorti e il resto
della comunità internazionale a fare da coro a favore
della democrazia.
La realtà è molto più complessa. L’Iran non vuole perdere l’alleato siriano, ma può continuare ad aver sponda in Libano anche senza Damasco. L’Arabia Saudita
vuole indebolire in modo decisivo l’influenza iraniana,
ma sa che un successo in Siria darà fiato ai fermenti
nel regno. Hizb’Allah avrà anche mandato dei combattenti a sostegno di Assad, ma deve pensare a un futuro
oscuro e sotto assedio se il regime cade, risparmiando

il massimo delle sue forze per parare un ritorno controffensivo da parte israeliana e/o di alcune grandi
fazioni libanesi. Israele è disperato per la caduta di un
autocrate ben conosciuto e preoccupato per l’ascesa di
un partito islamista meno neutrale nei fatti riguardo la
questione palestinese. Il Qatar vuole capitalizzare sui
successi di Al Jazeera nell’intera stagione rivoluzionaria, ma non vuole pensare nemmeno a una Costituzione ottriata per prevenire una pressione libertaria e non
vuole guastare le relazioni con Tehran. L’Iraq, ha certamente bisogno di pace e quiete lungo le sue frontiere,
17

tanto più che alcuni partiti hanno relazioni alquanto
strette con Tehran, ma al tempo stesso ha conti da regolare con Assad, ricordando che favorì il massiccio afflusso di jihadisti verso Baghdad per comprarsi stabilità
e ordine. Cina e Russia non hanno niente di personale
a favore della famiglia Assad, ma non vogliono l’artiglio
dell’aquila americana su Damasco attraverso un’altra
rivoluzione colorata o libica.
Per questo la Siria è sul filo del rasoio e in questi mesi
rappresenta il centro di gravità e il punto culminante
della lotta della Rivoluzione Araba: se Assad resta, ri-

schia una vittoria di Pirro in un Paese esausto e impoverito, ma offre altro tempo per chi non vuole il contagio; se a Damasco vince la rivoluzione, il primo governo
sotto tensione sarà quello di Amman e al tempo stesso
Algeria e Marocco risentiranno maggiormente della
circolazione d’idee libertarie. Nessuno ha in realtà il
controllo della situazione, da Washington a Latakia.
Come al solito, la storia non si fabbrica, si fa.
La vittoria sulla paura
intervista a Vittorio Ianari
Vittorio Ianari il mondo arabo lo conosce bene. Docente
di islamismo dal 1993 al 2000 presso l’Istituto di Scienze
Religiose dell’Università Lateranense, responsabile del
settore ecumenismo e dialogo della Conferenza Episcopale Italiana, è autore di numerose pubblicazioni dedicate alla storia dell’Islam contemporaneo tra cui Chiesa,
coloni e Islam. Religione e politica nella Libia italiana
(Torino, 1995) e Lo stivale nel mare. Italia, Mediterraneo, Islam: alle origini di una politica (Milano, 2006).
Sempre attento a tessere un ordito di legami tra le due

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sponde del mare nostrum, padre Ianari insiste sulla
grande occasione che la Primavera Araba rappresenta
per l’Occidente: «Dobbiamo puntare con convinzione e
pazienza sulle possibilità che si stanno dando nel mondo arabo, perché non è un processo destinato a chiudersi nell’arco di pochi mesi o di qualche anno. Vivremo il
futuro prossimo misurandoci con questi problemi e non
dobbiamo pensare che si tratti di novità di cui raccoglieremo i frutti rapidamente e senza traumi».
Un auspicio che, a debita distanza da triti pregiudizi e
rappresentazioni scontate, indica la strada di un avvenire comune per i popoli del bacino mediterraneo.

Quali sono, a suo avviso, gli attributi generali che caratterizzano il complesso fenomeno della Primavera
Araba, al di là delle specificità dei Paesi coinvolti nei
sommovimenti dello scorso anno?
Direi che possiamo individuare tre elementi. Il primo
aspetto è la vittoria sulla paura ed è legato all’inatteso
sviluppo della Primavera. Il superamento della paura,
in Paesi oppressi e costretti da questo sentimento, è un
fenomeno collettivo e, a livello mondiale, rappresenta
un aspetto significativo ancora tutto da decifrare.
Il secondo elemento è la dimostrazione che il cambiamento è possibile e risulta altrettanto importante perché veniamo da un quindicennio circa segnato da frustrazione, senso di realismo e rassegnazione. Nel 2003
le minacce d’intervento bellico nei confronti dell’Iraq
da parte dell’amministrazione americana avevano mobilitato nelle piazze d’Occidente, ma non solo, milioni
di persone. Quella voce popolare, evidente ed esplicita,
non fu ascoltata e il movimento si sciolse come neve
al sole.
Il terzo attributo è la fiducia e si ricollega sia alla questione della mentalità, sia al discorso politico. Mi sembra che dalle rivolte arabe siano emerse una grande
domanda e un’altrettanto grande offerta di fiducia fra
giovani e meno giovani, fra uomini e donne, fra musulmani e minoranze cristiane: perfino nei riguardi
dell’Occidente. È stato detto da più parti che i mezzi di
comunicazione hanno fatto la rivoluzione e senza dubbio sono stati un volano potente. Ma la vera domanda,
che tradisce un’aspirazione profonda, è se quei popoli
possano fidarsi dell’Occidente. Mi pare che si stiano facendo dei passi nella direzione di una certa reciprocità,
che – da parte nostra – presuppone la disponibilità a
fidarsi dei movimenti islamisti.
La manifestazione del 15 febbraio 2003 fu la manifestazione planetaria contro la guerra preventiva in
Iraq. Perché mette in relazione quella grande mobilitazione pacifista con la Primavera Araba?
Il Santo Padre ispirava quel movimento e le bandiere
della pace erano esposte in tutta Italia. È stato un fenomeno straordinario che, tuttavia, ha subito una pesante
sconfitta. Mi colpì profondamente il modo imprevedibile con cui si combinavano fattori molteplici, sia in
ambito locale sia a livello internazionale, nel segno della conservazione dello status quo. Otto anni più tardi è
stato dimostrato che la paura può esser vinta. Questo
mutamento epocale avrà conseguenze e ripercussioni
ben oltre i confini del mondo arabo. Non a caso richia-
A prosito di cambiamenti e trasformazioni, come
muta – dopo gli eventi del 2011 – il rapporto tra Islam
e politica?
L’Islam politico oggi, in Tunisia ed Egitto, è chiamato
a governare. Questo avrà delle conseguenze, perché un
conto è un Islam politico che riflette in termini teorici
dall’opposizione, altra cosa è praticare un’opzione di
governo e operare profonde mediazioni con la realtà
delle cose.
Cos’è cambiato, invece, sul piano del dialogo interreligioso?
Questo è un problema più complesso, a mio avviso
direttamente riferibile al rapporto con l’Occidente. E
la vera scommessa riguarda il futuro. Se assumerà responsabilità di governo, l’Islam politico dovrà costruire
un insieme di relazioni sia all’interno dei singoli Paesi,
sia in ambito internazionale. In questo senso può progredire ed evolvere anche il dialogo inter-religioso.

terzo millennio. È in questo quadro che s’inseriscono
le donne, dotate di una voce sorprendentemente forte.
Ma anche in questo caso la questione dirimente riguarda la maturazione dell’Islam politico, la trasformazione
della mentalità e il profondo mutamento culturale. Si
tratta d’un processo complesso e articolato.
Indichi almeno un attributo specifico per ciascun Paese coinvolto nella Primavera Araba.
Per la Tunisia il coraggio di averci creduto e reso possibile l’impossibile. Per l’Egitto, la tempistica: cioè l’aver
colto il momento giusto. Per la Libia, forse, una sintesi
fra questi due aspetti.
Quali prospettive e quali scenari si aprono a questo
punto?
Dal punto di vista dell’Occidente e dell’Europa, la vera
scommessa è non perdere quest’occasione irripetibile.
Ecco perché occorre rigettare gli sconsiderati atteggi-

Per l’Europa in crisi una democratizzazione del mondo arabo rappresenta una chance importante: soprattutto per l’area mediterranea...
Direi proprio di sì, e rappresenterebbe un’inversione di
tendenza rispetto al passato, agli anni in cui l’Europa ha
preferito interloquire con regimi che disconoscevano i
diritti e la democrazia. Non cogliere l’occasione che oggi
ci viene offerta sarebbe incredibilmente miope, anche
rispetto alla crisi europea.
Come giudica il ruolo delle donne nei movimenti della
Primavera Araba?
Queste società si sono dimostrate molto più mature di
quanto si potesse ritenere e perfino di quanto potessero
ritenere gli stessi attivisti per i diritti umani operanti nei
vari Paesi. L’anno scorso lo confermava anche un giornalista che, in Tunisia, si è speso molto nelle battaglie
democratiche. Avevamo una rappresentazione errata
delle giovani generazioni arabe. Credevamo che fossero ormai conquistate a un pallido benessere pagato con
la mancanza di libertà. In realtà si sono rivelate molto
consapevoli dal punto di vista politico, sociale e culturale. Hanno manifestato un amore nei riguardi dei propri
Paesi che sembra configurare un “nazionalismo” del

la nuova stagione

ma gli eventi che, nel 1989, portarono alla caduta dei
regimi socialisti. La Primavera, pur con tutte le sue ambiguità e incompiutezze, rappresenta una grande promessa di trasformazione.

19

menti di chiusura e disinteresse. Non lo dico solo per
l’attenzione e l’amore che mi legano a quei popoli, ma
anche – e soprattutto – per il ruolo che essi avranno nel
nostro futuro. Del resto, siamo accomunati dallo stesso
mare e dalla stessa Storia. Non dobbiamo dimenticarlo
mai.
l’utopia di tahrir
di Vincenzo Mattei

20

La sera dell’11 febbraio 2011 le dimissioni di Mubarak trasformarono le strade di tutto l’Egitto in un festeggiamento che andò avanti per tutta la notte. Durante le prime settimane dalla caduta del dittatore,
gli egiziani si sono riscoperti orgogliosi della propria
capacità di poter raddrizzare le sorti dell’ingiustizia
alle quali sembravano destinati. Nei taxi, nei negozi, nelle banche e negli uffici pubblici tutte le radio
erano sintonizzate su dibattiti politici invece che
sul solito sermone del Corano. Si poteva percepire
l’entusiasmo sui visi delle persone o camminando
per le strade, ovunque si respirava un’aria nuova;
parlando con la gente, sembrava che la rivoluzione
avesse messo d’accordo tutti gli egiziani, riscoprendone una nuova anima, dai professori agli alunni,
dai commercianti agli statali, dai ricchi ai poveri, dai
musulmani ai cristiani.
Le sensazioni descritte sopra si sarebbero andate
dissipando con il passare dei mesi, dietro una spirale
di accadimenti e provocazioni che alla lunga hanno
messo in ginocchio la volontà e la spinta popolare al
cambiamento. Infatti, era passato meno di un mese
che iniziarono i primi segni di reazione da parte del
vecchio regime: il 5 marzo veniva bruciata la chiesa
copta del quartiere povero di Embeba. Il fatto suscitò clamore e indignazione nella comunità cristiana
e nei media internazionali più che in quelli egiziani
che, ancora imbevuti della sbornia rivoluzionaria,
minimizzarono parzialmente l’accaduto. Ma non
passò inosservata la nuova occupazione di piazza
Tahrir da parte degli Shabab (giovani) il 9 aprile,
quando ci fu uno scontro con le forze dell’ordine e
molti mezzi civili e militari furono dati alle fiamme,
la piazza bloccata e recintata con filo spinato e bandoni dei vicini cantieri e con le carcasse bruciate degli autoveicoli.
Tale escalation di scontri diretti tra i due blocchi,
i militari e gli Shabab, si è andata ripetendo ciclicamente: a maggio 2011 i giovani hanno occupato
Tahrir; poi di nuovo a giugno quando hanno capi-
da Tunisi al Cairo
to che i militari non avevano nessuna intenzione
di mollare il potere; a settembre con la distruzione
dell’ambasciata israeliana al Cairo è stato il caos
nella capitale; a ottobre la carica dei blindo militari
sui cristiani copti che manifestavano con una marcia pacifica davanti alla TV di Stato ha provocato 23
vittime; a novembre con gli scontri in via Mohamed
Mahmud hanno perso la vita 43 persone; a dicembre
in via Qasr El Aini e a febbraio 2012 sono avvenuti
nuovi scontri in via Mohamed Mahmud dopo che
c’erano stati 73 morti allo stadio di Port Said a nord
del Paese. In tutti questi casi le sommosse sono state
causate da comportamenti e provocazioni della polizia militare e ordinaria che usavano la violenza per
sedare le dimostrazioni in strada, causando di conseguenza la reazione dei giovani. Eclatante è stato il
caso di via Mohamed Mahmud dove la polizia militare ha praticamente preso a bastonate donne, bambini e anziani che protestavano con un sit-in pacifico
per chiedere gli alimenti, di cui avevano diritto, per
i parenti morti a gennaio 2011, o di via Qasr el-Aini
dove una ragazza è stata letteralmente trascinata per
il velo, con il torace seminudo mentre un soldato le
dava calci sullo stomaco.
È incomprensibile come i militari non siano riusciti a gestire situazioni di ordinaria amministrazione
civile; se il loro atteggiamento poteva essere scusabile nei mesi iniziali del post-Mubarak, non poteva
essere meno tollerato dopo quasi un anno in cui si
trovavano praticamente a governare il Paese. Perché
tutte queste azioni destabilizzanti? Chi si nasconde
e manovra dietro le quinte? E soprattutto, perché i
militari non sono (o non vogliono essere) in grado
di fermare queste escalation di violenza? Quanto
l’esercito è colluso con i nostalgici appartenenti al
regime di Mubarak? Secondo il blogger Hossam elHamalawy, i militari controllano circa il 40% dell’economia egiziana, producendo dalla pasta ai missili
da guerra; una macchina così potente e ramificata
dentro il territorio egiziano quanto può essere inte-

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ressata ad abbandonare le leve del potere? I militari
egiziani sono da più di trent’anni i migliori interlocutori della politica estera americana, già prima degli accordi di Camp David, e ciò costituisce un altro
fattore di non secondaria importanza per il reale interesse a livello diplomatico internazionale a mantenere i generali al potere. L’Egitto è la chiave di volta
strategicamente troppo importante per la posizione
geografica: è al confine con Israele e gestisce le rotte
del canale di Suez.
La maggior parte degli attivisti non è disposta a iniziare discussioni o dibattiti sulla situazione politica
egiziana e sul possibile cammino democratico del
Paese fintanto che i generali sono al potere. Questa è
stata la causa principale del boicottaggio da parte di
moltissimi giovani alle elezioni generali tenute a novembre e terminate a metà marzo. Ovviamente questo loro atteggiamento radicale e intransigente ha di
fatto avvantaggiato quei partiti islamici e islamisti

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dei Fratelli Musulmani (FM) e dei salafiti, a discapito dei partiti laici e di sinistra. La posizione degli
Shabab è ferma, perché vedono nei metodi impiegati
dall’esercito lo stesso modo di rispondere che aveva la polizia segreta di Mubarak: arresto arbitrario
dei giovani in piazza, processi militari a civili, uso
indiscriminato della violenza per reprimere le manifestazioni… tutti mezzi che riportano alla memoria i
sistemi usati dal vecchio regime.
I giovani hanno continuamente rifiutato e osteggiato
i vari governi imposti di volta in volta dai militari,
domandando la formazione di un governo di unità
nazionale capeggiato dalle figure politiche più cari-

smatiche e con l’adesione di tutte le forze politiche
presenti nel territorio. Un governo in grado di condurre il Paese durante il periodo di transizione per
confluire verso vere elezioni libere e la redazione di
una nuova Costituzione. Gli Shabab, già subito dopo
la caduta di Mubarak, avevano chiesto immediate
elezioni politiche da tenere a marzo del 2011; per
loro qualsiasi partito avesse vinto le elezioni sarebbe
stato legato da un patto con la nazione per il proseguimento della spinta rivoluzionaria. Ora invece
i FM si propongono più come dei normalizzatori
dell’agitata situazione nel Paese.
Un altro fattore destabilizzatore, oltre gli scontri, è
stata ed è la crisi economica in cui versa il Paese, che
si trova sull’orlo della bancarotta. Se non ci fossero
stati aiuti finanziari dai Paesi del Golfo, dall’Arabia
Saudita e dagli USA, il Paese sarebbe già economicamente saltato. I vari governi nominati dai militari
non sono stati in grado né di trasmettere fiducia ai
giovani, che li hanno accusati di lentezza del processo democratico, né di raddrizzare la situazione economica. Questa stagnazione finanziaria, di congiunto con gli scontri ciclici in strada, sembra rientrare in
un piano studiato a tavolino per sgonfiare la spinta e
l’entusiasmo rivoluzionario. Infatti la maggior parte
degli egiziani sono estenuati dalla precaria situazione in cui si trova il Paese, vogliono che la vita torni
alla normalità e che si creino posti di lavoro piuttosto che assistere inermi agli scontri in piazza. Indubbiamente c’è consapevolezza che ci sono movimenti
controrivoluzionari che cercano di destabilizzare il
Paese, ma il popolo accusa soprattutto i giovani della situazione attuale, divenuti oggetto di una campagna denigratoria da parte degli apparati di stampa
(ancora pieni di simpatizzanti del vecchio regime e
facilmente corruttibili) che li indicano come i veri
responsabili degli scontri e in ultimo della crisi economica. Quindi di fatto la gente pensa che i giovani,
creando caos, impediscono il ritorno del turismo di
massa che costituiva ai tempi di Mubarak quasi il
30% delle entrate dello Stato.
La Primavera Araba si sta trasformando in un inverno perché il contesto internazionale è completamente diverso da quello che poteva esserci nel Novecento.
I giovani egiziani si sono mobilitati per rivendicare
il loro futuro, per avere una vita decente, per avere un lavoro rispettabile, per avere la possibilità di
comprare una casa, di sposarsi e di creare una famiglia, di avere buoni studi, una pensione, l’assistenza
quanto i militari saranno disposti a farsi da parte e
divenire con il tempo un ordinario esercito professionale, senza commistioni nella politica e nell’economia del Paese. La sfida è ardua, anche perché
gli egiziani sentono molto la religione e hanno una
concezione patriarcale della società che li rende più
conservatori che progressisti, tanto è vero che molti,
dopo mesi e mesi di stenti, incominciano ad avere
nostalgia del regime di Mubarak durante il quale rinunciando alla giustizia avevano la sicurezza.
L’utopia di Tahrir è durata 18 giorni, i ragazzi hanno vissuto come in una comune, dove ognuno era sé
stesso e dove non c’era distinzione di classe, di religione, di pelle; hanno vissuto sotto un tetto comune:
il cielo del mondo. Per questo Tahrir lascerà un’eredità importante e pesante, non solo per le future
generazioni egiziane, ma per tutto un movimento
sotterraneo che è emerso, da Los Indignados a Occupy Wall Street. Potrebbe essere l’inizio di un’era,

da Tunisi al Cairo

sanitaria… per avere una ripartizione più egalitaria
della ricchezza in un quadro di giustizia sociale che
sia veramente reale e non solo sulla carta. Ma in un
contesto internazionale permeato da politiche neoliberiste non sembra possibile attuare neanche politiche neo-keynesiane, in un quadro appunto in cui
lo Stato assume un comportamento attivo e presente
nell’economia del Paese, compensando le disfunzioni del settore privato. Senza entrare nella polemica
della crisi finanziaria del 2008, che è stata una crisi
di sistema, per fare in modo che la rivoluzione araba abbia successo, come qualsiasi altra rivoluzione
(sempre in un quadro di richiesta di libertà e non
nel senso classico di rivoluzione marxista) ci sarebbe
bisogno di una ri-discussione a livello internazionale
dei principi su cui si deve basare l’economia mondiale, per capire quali sono gli obiettivi e i fini che si
vogliono raggiungere non come nazione, ma come
specie umana, perché parafrasando lo scrittore egiziano Alaa al-Aswany: «La vita non è fatta di numeri, ma di persone».
Tahrir ha convogliato milioni di persone e ha vissuto un’utopia, dove la fratellanza e il senso comune
di appartenenza sovrastavano l’egoismo dell’individuo, non esistevano differenze di classe o di religione: quei milioni di individui erano un corpo unico,
che le emozioni facevano fluttuare, allontanando la
fatica dei lunghi giorni passati a dormire sui marciapiedi. Eppure durante l’ultimo anno si sono accentuate le divisioni e le fratture tra i diversi movimenti
politici e religiosi. L’interesse particolare del gruppo, o dell’organizzazione (con maggior riferimento
ai FM), ha prevaricato quello generale. Ora sarà da
capire come si muoveranno i Fratelli all’interno dello spazio concesso loro dalle elezioni e dai militari.
I FM, a differenza dei salafiti, sono dei veri e propri
politici che hanno affinato le loro capacità vivendo
nella semi-tolleranza dei vecchi regimi (Mubarak,
Sadat e Nasser), ora dovranno abituarsi a lavorare
allo scoperto e non nella clandestinità, dentro il quadro della dialettica politica democratica. Il loro compito non è facile, anche perché per risollevare le sorti
e le condizioni economiche in cui si trova il Paese ci
vorranno lustri, e sicuramente molte loro decisioni
porteranno scontento. Gli Shabeb, dovranno organizzarsi politicamente per poter competere nel medio-lungo periodo con i FM, questo vale anche per
tutti i partiti laici, sia di sinistra che di centro. Il processo democratico è solo agli inizi, bisognerà capire

23

di cui ancora è difficile definire i contorni, ma anche
nell’Ottocento i primi moti insurrezionali avevano la
caratteristica di sembrare solo fuochi di paglia, che
vivevano l’arco di una stagione; con il tempo quei
movimenti da eterogenei e divisi si sono coesi e organizzati, per poi portare a tutti quei cambiamenti e
rivendicazioni che il Novecento ha materializzato. I
tempi non sono ancora maturi per poter stilare delle
stime definitive, il cammino è ancora lungo, ma riuscire a fare una rivoluzione è più di un buon inizio, è
qualcosa di straordinario.
la maledizione del petrolio
di Farid Adly

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Molti sostengono che i libici sono tutti ricchi. Non è
così. La Libia è un Paese ricco. I libici invece sono,
nella stragrande maggioranza, poveri; hanno vissuto,
a causa della dittatura e del controllo dispotico sulle
risorse petrolifere, al di sotto delle straordinarie opportunità che il Paese offriva: grandi risorse con una
popolazione esigua.
Il male più oscuro che colpisce la gioventù libica è
quello della frustrazione a causa della disoccupazione. In Libia i giovani sotto i venticinque anni rappresentano il 47% della popolazione, e la percentuale dei
disoccupati è più alta che in Egitto. E come in tutti
gli altri Paesi arabi, per i giovani senza lavoro è difficile trovare una compagna con cui convolare a nozze e costituire una famiglia. A questo si aggiunga la
crescente crisi abitativa provocata dalla sempre più
consistente espropriazione dei terreni per destinare
grandi aree dei piani regolatori generali allo sviluppo turistico della famiglia Gheddafi. Non a caso, le
prime avvisaglie della rivolta in Libia si sono avute
a gennaio, assieme alla rivolta tunisina, all’occupazione di case popolari e all’assalto dei cantieri delle
ditte edilizie straniere operanti nel Paese, soprattutto sudcoreane. Per evitare lo sviluppo di questa protesta, il regime ha promesso di investire ventiquattro miliardi di dollari USA per un piano casa e per
lo sviluppo locale. Sempre in quel periodo il regime
ha cercato di correre al riparo e ha emesso una serie di provvedimenti per alleggerire il peso della crisi
economica che gravava sulle famiglie. Il 10 gennaio
2011, infatti, «sono state ridotte le tasse sulle derrate
alimentari e in particolare sul latte per bambini ed è
stato annunciato lo stanziamento di sei miliardi per il
sussidio per calmierare i prezzi dei prodotti di prima
necessità, compresi medicine e carburanti». Secondo
uno studio del Ministero libico delle Finanze e della Pianificazione, pubblicato nel febbraio 2011, poco
prima della Primavera libica quindi, il 29% delle famiglie vive sotto il livello di povertà. Lo studio determina il reddito minimo necessario per una famiglia

in 392 dinari (313 di dollari USA). Secondo l’agenzia
semiufficiale Libya Press, questo dato è in crescita
nel secondo decennio del nostro secolo: le persone
colpite dalla povertà sono passate da 605 mila unità
nel 1992 a 739 mila nel 2001 fino a circa due milioni
nel 2010.
L’altro dato preoccupante in un Paese petrolifero,
che gode di un reddito pro capite annuo tra i più alti
in Africa (13,800 di dollari USA), è quello sulla disoccupazione nel 2010: il 30% della forza lavoro. Paragonandolo ai dati degli altri Paesi arabi limitrofi è il
peggiore (Marocco 9,8%, Algeria 9,9%, Tunisia 14%,
Egitto 9,7%). Ecco perché la gioventù libica ha dato
via all’insurrezione contro la dittatura della famiglia
Gheddafi: “pane e libertà!”. Le frustrazioni originate
da quelle contraddizioni spiegano anche la virulenza
della rivoluzione libica rispetto alle altre Primavere
Arabe.
Il colonialismo italiano ha fatto male alla Libia e ai
libici. Sia nel periodo giolittiano sia in quello sanguinario fascista. Anche di recente nel dibattito specialistico si fa l’errore di relativizzare il colonialismo
italiano alla luce di quelli britannico e francese, sostenendo la legittimità dell’azione militare e colonialista per ottenere un posto al sole. È il prolungamento
di quel pensiero pascoliano espresso nel discorso La
grande proletaria si è mossa, pronunciato dal poeta
a Barga, il 26 novembre 1911, dove giustificava l’invasione della Libia in nome della povertà dell’Italia.
Nei mesi precedenti la guerra, per creare consenso,
stampa e Chiesa hanno avuto un ruolo di primo piano nel fornire e rendere popolare il pretesto ideologico che avallasse la conquista della Libia. Il Corriere
della Sera, per esempio, sosteneva che il territorio
libico fosse una miniera di grandi risorse naturali, e
che avrebbe potuto risolvere il problema della penuria di materie prime della nazione. A sostegno della
penetrazione commerciale e finanziaria italiana del
Banco di Roma, la stampa cattolica parlava della
guerra come una «crociata contro gli infedeli».
da Tunisi al Cairo
Questo «far male» è stato documentato da molti studiosi italiani, come dal collega Eric Salerno nel libro
Genocidio in Libia e dal professore Angelo Del Boca.
Ma i loro libri sono rimasti nella cerchia specialistica e le loro ricerche non sono diventate una presa di
coscienza collettiva nazionale: nel sentire generale è
rimasto, fissato e difficile da rimuovere, il luogo comune elevato a dogma: «Italiani brava gente».
Risuonano ancora nella mia mente le parole dello
storico libico Mohamed Mustafa Bazama, che da ragazzo è stato un balilla e ha potuto così studiare nelle scuole italiane e ottenere la licenza di quinta elementare, l’allora limite della scuola dell’obbligo: «A
Bengasi eravamo soltanto in tre libici ad aver conseguito la licenza elementare, perché le scuole italiane
erano aperte solo agli italiani e non alla popolazione
araba indigena. Molte delle famiglie naturalizzate,
però, hanno seguito i soldati italiani nella loro ritirata e sono partiti per Roma». Dopo l’indipendenza il
professor Bazama, con la sua licenza elementare italiana, ha ricoperto l’incarico di sottosegretario all’Istruzione, ha tradotto documenti dall’italiano e ha
pubblicato un’ottantina di libri, alcuni ancora in uso
presso le università libiche. Dopo il colpo di Stato di
Gheddafi, avendo rifiutato di collaborare, come molti
altri intellettuali è stato spedito all’estero dal nuovo
potere militare, dove si è occupato della direzione di
una casa editrice a Beirut e poi in Italia, a Milano e
a Cagliari. La chiusura mentale del «colonialismo
straccione» – come lo definiva Bazama – ha ridotto il
Paese a un’arretratezza peggiore rispetto a quella del
1911, al termine dell’occupazione turca. Nella prima
fase dell’indipendenza, la maggior parte della classe
dirigente del Paese era costituita da esuli che avevano studiato nelle università egiziane e tunisine, i due
Paesi arabi confinanti e che erano – e sono tuttora –
legati intimamente alla Libia.
Un’altra fonte che conferma questa tesi del «far
male» è la relazione della Commissione ONU sulla
Libia, che in un rapporto al segretario generale de-

cretò: «Il Paese non ha né la base economica né una
struttura amministrativa per sostenere il passaggio
all’indipendenza. Si rendono necessari almeno dieci
anni di amministrazione fiduciaria internazionale».
Il colonialismo italiano ha anche sbadatamente accantonato le ricerche petrolifere in Libia, malgrado
fosse stato proprio un italiano, Ardito Desio, il primo
a disegnare le cartine geologiche di quei luoghi. La
primigenia manifestazione della presenza di idrocarburi nella Libia italiana si è avuta nel 1914, quando
del greggio fuoriuscì durante uno scavo di un pozzo
d’acqua. Tra il 1926 e il 1940, Desio esplorò la Libia
a fondo, «a dorso di cammello» dicono le cronache
del tempo. Nel 1933 disegnò la prima carta geologica
della regione, che avrebbe aggiornato poi nel 1939.
La mancanza di fondi statali, l’arretratezza tecnologica dell’Italia di allora (che non possedeva trivelle per
scavi in profondità) e il disinteresse strategico del governo lo costrinsero però a interrompere molto presto la ricerca sistematica di petrolio. Quando, a metà
degli anni cinquanta, gli statunitensi e gli inglesi ottennero le prime concessioni, si avvalsero proprio
delle cartine di Desio, reperite negli archivi italiani.
La scoperta del petrolio alla fine degli anni cinquanta
e l’inizio delle esportazioni petrolifere hanno avviato
un processo di centralizzazione del potere nelle mani
di pochi, imponendo nella società libica un livello di
corruzione tale da minare le ragioni stesse della convivenza. Le trame internazionali e l’interesse di alcuni Paesi verso la Libia, allora come ora, sono legati
alle sue risorse e capacità finanziarie.
La manna dal cielo, come dicevano molti negli anni
sessanta, non è stata trasformata dai governi che si
sono succeduti in questo mezzo secolo, sia durante
la monarchia sia nell’era repubblicana, in politica di
sviluppo e occupazione per preservare il benessere
delle future generazioni, quando tra un mezzo secolo i pozzi di petrolio si esauriranno. La Libia era
diventata un Paese che attirava gli sciacalli da ogni
dove, i quali agivano con la tecnica del mordi e fug-

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26

gi, e una meta di questuanti che chiedevano aiuti e
sovvenzioni in cambio di un esercizio di salamelecchi
e genuflessioni di fronte al Qaid. Anche ai tempi della monarchia si era vista una volontà di utilizzare le
capacità finanziarie per dare al Paese un prestigio a
livello arabo. Durante la Conferenza del vertice arabo
del 1964, il principe ereditario, in rappresentanza del
re e con il suo consenso, ha elargito al fondo interarabo di solidarietà una somma equivalente a quella
messa a disposizione da Arabia Saudita e Kuwait
messi insieme. Il giorno dopo la divulgazione della
notizia, il quotidiano di Bengasi al-Haqiqa ha messo
in prima pagina la foto di un bambino libico di famiglia povera senza scarpe e con i vestiti stracciati,
con la didascalia eloquente: «Anche questo bambino
libico ha bisogno di solidarietà!». Il giornale è stato
chiuso per ordine della corte. Questa pratica di attirare sciami di questuanti era stata portata all’ennesima
potenza dal satrapo Gheddafi, con enormi sperperi di
denaro pubblico e con la chiusura di ogni orizzonte di
benessere per i libici.
Le manovre delle potenze egemoni in Libia negli
anni sessanta, Gran Bretagna e Stati Uniti, attorno al
futuro della monarchia erano volte a garantire i loro
interessi economici e soprattutto strategici. Il petrolio libico è più vicino ai Paesi di consumo e soprattutto è a ovest del canale di Suez, ma il fattore strategico
più importante era quello militare. La Libia poteva
essere una spina nel fianco del nascente nazionalismo arabo nasseriano, in ascesa in tutto il mondo
arabo. Le azioni diplomatiche e gli intrighi di palazzo che queste due potenze, ciascuna per conto suo e

qualche volta anche in contrasto, avevano posto in
essere negli anni sessanta hanno portato al colpo di
Stato del 1969. Una congiura orchestrata per garantire un passaggio di potere dall’anziano e malato re
al suo successore fantoccio, con un sistema repubblicano di facciata ordito da Londra, era stata dribblata
dal colpo di Stato degli Ufficiali liberi, il 1° settembre
1969, quattro giorni prima rispetto all’ora X del piano britannico. Uno scippo che spiega la mancata reazione negativa di Washington e Londra. Le grandi disponibilità garantite dalle entrate petrolifere hanno
rafforzato la tendenza al centralismo del sistema di
potere, per il quale il regime militare era perfetto. Ma
l’anomalia del sistema cosiddetto «jamahiriyano» è
la riduzione del sistema a una persona sola. Gheddafi, infatti, ha deliberatamente evitato, nei quattro
decenni di potere, la costituzione di istituzioni politiche e amministrative che potessero rappresentare
una cerniera tra la sua persona e la popolazione, per
distribuire la rendita petrolifera, trattenuta strettamente in suo esclusivo potere. Ed è questo il segreto
della sua longevità politica. Ma la nota da porre al
centro della discussione è un’altra. C’erano talmente tanti soldi provenienti dal petrolio che potevano
essere spesi per iniziare a far stare la gente meglio di
quanto stia oggi. Ciò che è incredibile è che qualcuno
sia rimasto al potere per quarant’anni e non l’abbia
fatto. È questo che pensano i nuovi dirigenti libici, di
formazione tecnica di alto livello e abituati a ragionare in termini di analisi strategiche studiate nelle stesse università statunitensi e britanniche. Un bagaglio
culturale che li renderà capaci di tenere testa a ogni
strategia di sfruttamento a senso unico.
In ogni caso la questione non è chiusa. La fine del
regime tirannico non significa la fine delle questioni
politiche. Il petrolio è stato una maledizione, per trasformarlo in benedizione sono necessarie politiche
razionali e coerenti che partano dagli interessi di tutti: quelli del popolo libico che vive sul territorio, delle
nazioni che contribuiscono con il loro know-how al
processo produttivo e dei Paesi consumatori. La permanenza del petrolio come risorsa strategica a livello
mondiale, specialmente in seguito ai recenti incidenti nucleari in Giappone, fa sì che i risvolti politici della ricchezza petrolifera in Libia siano positivi. In questo momento per la Libia la ricchezza petrolifera è un
fattore di unità e non produrrà azioni centrifughe.
Questo aspetto lo si poteva cogliere bene nelle minacce del figlio del Qaid, Sayf al-Islam, in un suo discor-
so famoso che molti insinuano gli sia costato, dopo
la sua cattura nel deserto libico, tre dita della mano
destra (nella foga retorica e per rendere più esplicita
la minaccia, aveva fatto roteare la mano, con l’indice puntato, a mo’ di manganello): «La Libia non è la
Tunisia né l’Egitto. La sua ricchezza più importante
è nel sottosuolo. Dovrete migrare dalla Libia perché
l’estrazione del petrolio si interromperà, le compagnie petrolifere lasceranno la Libia, gli stranieri lasceranno la Libia, i pozzi petroliferi si bloccheranno
e domani non ci sarà petrolio». La sua profezia non
si è avverata. La Libia è stata liberata dalla dittatura,
è unita, e i problemi che si evidenziano sono il frutto dell’inesperienza e delle difficoltà di interiorizzare
comportamenti democratici in un Paese che da secoli
non aveva sperimentato la democrazia, se non in un
brevissimo periodo dopo l’indipendenza.
L’interesse del mondo industrializzato per il petrolio libico, se ha mosso le diplomazie per l’intervento,
non lavorerà per la destabilizzazione né lascerà la
situazione in condizioni di anarchia. Il Paese è sotto la lente delle diplomazie e del mondo degli affari.
Nessuno degli osservatori esterni ha interesse alla
somalizzazione della Libia e questo è un bene, perché

non sempre le guerre civili sono l’espressione di contraddizioni interne; anzi sono quasi sempre la conseguenza di interferenze esterne. Il continente africano
è una palestra per questo sport del divide et impera. E di questo, credo, i libici sono tutti consapevoli. Dal 2004, anno del ritorno della Libia sulla scena
internazionale, dopo gli accordi per gli indennizzi ai
familiari delle vittime di Lockerbie e la rinuncia del
regime al proprio programma nucleare, le relazioni
con l’Europa funzionavano bene, grazie soprattutto
all’oro nero. In Africa, la Libia è il quarto produttore di petrolio. Ne esportava un milione e mezzo di
barili al giorno, di cui l’80% in Europa. L’acquirente
principale era l’Italia, seguita da Germania, Francia
e Spagna. Già alla fine del 2011 è stata raggiunta la
quota di metà della produzione precedente il 17 febbraio 2011.
Inoltre va sottolineato che più della metà del Prodotto Interno Lordo libico era assicurato dalle entrate
provenienti da petrolio e gas. Le esportazioni toccavano il 95% della produzione e paradossalmente
la Libia importava benzina e olii industriali. Le sue
riserve sono le più importanti del continente, il 3%
delle riserve mondiali. Le entrate petrolifere in Libia,

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secondo un rapporto della Banca Centrale Libica,
sono state nel 2010 di 40,5 miliardi di dinari (32,43
miliardi USA), con una crescita del 61% rispetto
all’anno precedente. Nel 2009, i proventi sono stati
di 25,1 miliardi di dinari (20 miliardi $ USA). Enormi
capacità finanziarie sono state sperperate in progetti
faraonici senza futuro e in armamenti inutili se non
per la difesa dell’ex famiglia regnante. Questa esclusiva dipendenza dalla produzione petrolifera imporrà presto il raggiungimento di un quadro politico di
stabilità. Chiunque tra le formazioni libiche decida
di lavorare in senso contrario non farebbe altro che
pestarsi i piedi. La ripresa rapida della produzione
petrolifera e del gas, molto prima del raggiungimento di una stabilità politica, è un altro segno dell’importanza del settore e della consapevolezza dei nuovi
dirigenti libici che la questione economica sia fondamentale per la stabilità.
In riferimento agli effetti dell’instabilità della situa-

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zione libica subito dopo la cruenta morte di Gheddafi, sono state pubblicate molte analisi di esperti internazionali sulla mancanza di un’identità nazionale
libica e su come a questa identità sia stata data forma
dal colonialismo italiano e su come questa sia stata
plasmata, in senso anticoloniale e antimperialista, da
Gheddafi: non ci sono fandonie più grandi di queste
affermazioni. La Libia era una provincia unica, con
capoluogo Tripoli, già sotto gli ottomani e ha vissuto
un’esperienza di autonomia da Istanbul con la dinastia Karamanly. In Libia la nascita di partiti nazionali risale a subito dopo la Seconda guerra mondiale e
quindi nessun merito, in questo frangente, va dato

all’ex dittatore. Il regime di Gheddafi è stato casomai
un elemento di divisione e di alimento per il fenomeno ridicolo del tribalismo, perfettamente funzionale
al mantenimento del potere nelle mani del defunto
Qaid. La mia conclusione è che la questione petrolifera sia un fattore di aggregazione e non di disgregazione. E questo lascia molto sperare in ripercussioni
positive sul processo politico in corso e nella rapida
normalizzazione delle relazioni internazionali del
Paese, sulla base dei principi della parità e dell’uguale dignità.
La società libica inoltre deve affrontare la questione
cruciale del futuro senza petrolio. Le riserve attuali
e il livello di produzione permetteranno alla Libia di
avere un reddito garantito dalle risorse energetiche
per altri ottanta, cento anni. Cosa fare dopo? Cosa si
lascerà alle future generazioni, visto che finora il regime tirannico ha sperperato i proventi in armi, lussi
per la famiglia regnante gheddafiana e in investimenti finanziari fallaci nelle economie dei Paesi industrializzati? Il Paese ha bisogno di pianificare una
politica economica orientata al futuro, volta a creare
occupazione e produzione, riservando alle energie
alternative, al turismo, all’artigianato e piccola industria, all’agricoltura e all’allevamento di base un ruolo centrale. Tornare alla Libia degli anni cinquanta
che esportava grano e bestiame non è una follia, ma
un ritorno alla realtà dopo l’ubriacatura da petrolio.
Una politica siffatta chiede anche di destinare una
consistente parte del Prodotto Interno Lordo alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte dalla folle
guerra voluta dal despota contro la sua gente, e soprattutto di non imbarcarsi in una politica di riarmo;
la Libia non ne ha bisogno, se non per garantire il
controllo e la sicurezza dei suoi vasti confini. Annullare tutte le commesse militari già firmate dal regime
e destinare quelle ingenti somme allo sviluppo civile
del Paese, garantendo un impiego dignitoso alla gioventù libica e a molti lavoratori di Paesi vicini, è il
miglior investimento che la Libia potrà fare per un
proprio futuro. Le condizioni economiche e finanziarie ci sono, bisogna frenare politicamente la voracità
degli affaristi nostrani che hanno lucrato sulla dipendenza del Paese dalle importazioni, e mettere un
limite alle aspettative delle potenze industrializzate
pronte a barattare le risorse energetiche con costosi
e dannosi arsenali.
intervista a Botros Fahim Awad Hanna

Responsabile della formazione sacerdotale presso il
seminario copto in Egitto, Monsignor Botros Fahim
Awad Hanna è stato ordinato vescovo copto-cattolico
nel 2006 dopo aver conseguito il dottorato in Teologia
Biblica a Roma. Attualmente è vescovo ausiliare del Patriarcato di Alessandria.
Come racconterebbe gli eventi egiziani del 2011?
Direi che i giovani – e le donne in particolare – sono
stati i grandi protagonisti del cambiamento, capaci di
mobilitare gran parte della popolazione. Vivere per tanti anni sotto una cappa oppressiva, ignorando piaghe
come l’analfabetismo dilagante e la povertà, è una cosa
durissima. Oggi possiamo finalmente parlare di questi
temi e godere di libertà d’espressione, anche se non basta e la strada sembra ancora molto lunga.

degli affari esteri. Il Papa aveva detto che era necessario
proteggere i cristiani in Iraq ed Egitto, e il governo del
Cairo ha risposto che non accettava interferenze straniere negli affari interni, ritirando per due settimane
l’ambasciatore presso la Santa Sede. Da quel momento
in poi, lo stesso Grande Imam ha congelato il dialogo
inter-religioso.
Quali scenari si aprono adesso per l’Egitto?
La mia impressione è che tutti i grandi nodi politici
siano ancora da sciogliere. Non basta svolgere libere
elezioni per il Parlamento. L’architettura istituzionale del Paese è ancora da definire e a livello economico
la situazione peggiora pesantemente. Confido che la
tornata elettorale per la carica presidenziale favorisca un’effettiva democratizzazione dell’Egitto. Oggi il
governo è nelle mani del consiglio militare che ha appoggiato la rivoluzione e, per questo, è stato accettato
dal popolo. Le cose, però, stanno cambiando: qualche

Com’è cambiata in Egitto la situazione dei cristiani
copti dopo la Primavera?
Semplicemente non è cambiata. Prima, la “tranquillità”
era garantita dal pugno di ferro. Adesso questo giogo si
è allentato, ma la paura resta. La paura è un sentimento
profondo, a cui ci si abitua troppo in fretta. Basti pensare agli attentati, alle chiese che bruciano e via dicendo.
Non è per niente facile, per questo la gente continua ad
aggrapparsi all’unico appiglio davvero certo: la fede.
E rispetto al dialogo inter-religioso ci sono stati dei
mutamenti?
Non solo non si registrano significativi progressi, ma –
per certi versi – la situazione è andata peggiorando. Il
grande imam di al-Azhar ha fondato un ente che avrebbe dovuto favorire il dialogo inter-religioso. Si tratta
della “Casa della famiglia egiziana”, preposta allo scioglimento e alla risoluzione delle controversie tra cristiani e musulmani. Questa istituzione è stata riconosciuta
anche dal governo. Tuttavia, le cose non sono mutate
nella sostanza. Le parole pronunciate dal Pontefice
dopo l’attentato nella chiesa di Tutti i Santi ad Alessandria sono state accolte con freddezza dal Ministro

da Tunisi al Cairo

il dialogo mancato

29

scollamento si sta producendo e la fiducia si assottiglia
progressivamente.
Rispetto all’area mediorientale come possono mutare i
rapporti politici con Israele?
Si tratta di una questione cruciale legata al ruolo delle correnti islamiche che hanno la maggioranza parlamentare. Se queste forze si troveranno a formare il
governo, avranno importanti responsabilità di politica
estera e dovranno ridefinire le relazioni diplomatiche
con Israele. È un passaggio delicatissimo e difficilmente prevedibile.
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la primavera in me
di Said Chaibi

Era il 20 febbraio 2011, ero appena tornato a casa da un
lunga assemblea di un collettivo studentesco del nordest in cui avevamo discusso di ciò che stava accadendo
nel Mediterraneo. La caduta di Ben Ali in Tunisia, l’allarme strumentale lanciato dall’allora governo Berlusconi
sugli esodi previsti a Lampedusa, la caduta di Mubarak
in Egitto e l’affermazione del popolo generazionale egiziano che era riuscito a creare un sentimento generale
di voglia di cambiamento, e ciò che stava accadendo in
Libia, erano solo pochi punti di mille riflessioni e acce-

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si dibattiti che avevamo portato avanti per ore. Entro a
casa e come faccio di solito leggo le notizie del giorno.
Quando mi imbatto in un flash che dice “Movimento
20 febbraio, manifestazioni in molte città del Marocco,
scontri a Rabat” e in quel momento non ho capito cosa
mi sia successo, ma per un attimo sono andato in tilt!
Il mio Paese d’origine, il Marocco, tutto d’un tratto non
era quello che conoscevo.
Il Marocco che ho conosciuto, un po’ attraverso le vacanze passate lì, ma soprattutto attraverso i racconti di mia
madre, era il racconto di un Paese che si era lasciato alle
spalle i postumi degli “anni di piombo” in un cui Hassan
II “eliminava” ogni forma di dissenso attraverso la vio-

lenza e che aveva trovato in Mohamed VI un re del popolo o meglio un re illuminato, che curava il suo popolo
ed era al suo servizio. Un Paese che mi veniva descritto
come un albero con le radici ben radicate nell’Africa, e
nella cultura musulmana, e con i suoi prosperosi rami
rivolti verso l’Europa e verso un progresso economico,
sociale e democratico. E basando, forse troppo in buona
fede, la mia costruzione identitaria su dei semplici racconti, anche perché quando andavamo giù era come vivere in una bolla di protezione visto il quartiere “perfetto” in cui risiedono i miei parenti, leggere quel flash mi
ha fatto crollare addosso tutto quello che pensavo fosse
il Paese dei miei genitori e delle mie origini.
Perché quei ragazzi manifestano? Cosa rivendicano?
Qual è la loro reale condizione? Questi erano alcuni dei
mille quesiti che mi passarono per la testa.
Da quel giorno volevo iniziare a comprendere meglio il
mio Paese d’origine, ad ascoltare il suo popolo che, sotto
un certo punto di vista, era ed è anche il mio. E così sono
partito per andare a conoscerlo meglio, per conoscermi
meglio.
Con uno zaino sulle spalle e tante domande nella testa
e nel cuore, eccomi arrivato a Tangeri, città di frontiera e luogo in cui si può iniziare ad assaporare, vedere e
sognare l’Europa, visto che dista soli tredici chilometri
dalla Spagna.
Un sogno che riempe le banchine del porto attirando
centinaia di giovani che si fermano incantati a guardare, non un semplice panorama, ma la prospettiva
di una vita migliore. «Sei fortunato te che vieni qui da
turista, prova a viverci qui!», mi disse un ragazzo che
sembrava ce l’avesse con il mondo, ma soprattutto con
quelli come me che sono nati e cresciuti in Europa.
Non ci feci caso, anche perché avevo ricevuto migliaia di raccomandazioni dai miei genitori, dicendomi:
«Non parlare troppo come al tuo solito» e quindi mi
feci scorrere tutto e non entrai nel merito, risposi semplicemente «non è così».
Muovendomi, con una media di circa cento chilometri al giorno e andando in tutte le più importanti città,
avevo visto e conosciuto la vera situazione sociale del
Paese. Un Paese senza ospedali per chilometri, ma che
non si fa mancare una copertura quasi totale della rete
per i telefoni mobili di ultima generazione. Contadini
senza nessuna copertura né ospedaliera né scolastica
che non sono mai usciti dal loro villaggio e che non
mandano i figli alla scuola primaria, dicendo che la
scuola costa troppo (cinque euro), ma intanto si comprano l’iPhone e magari non hanno neanche il credito
namento più ampio, più vicino alla realtà, in grado di affrontare le sfide globali in termini di diritti e di mercato.
In un Paese in cui chi è ricco e sempre più ricco e chi è
povero lo diventa sempre di più, noi non capiamo perché il governo del Marocco non voglia dare la possibilità
a tutti di essere partecipi alla vita del Paese. Vogliamo
una sanità pubblica visto che ancora oggi c’è gente che
non si può curare visto i costi delle cliniche private, in
cui addirittura se ti operano devi comprare anche l’ago
con cui ti ricuciono la ferita... assurdo. Vogliamo la scuola pubblica per tutti, non come adesso in cui la scuola
privata è l’unico strumento per poter accedere ai posti
di prestigio in tutti i settori. Vogliamo avere pari opportunità. Senza distinguo tra uomo e donna, tra famiglia
borghese e operaia. Questo è quello che vogliamo».
«Non c’è appena stato un referendum per dare più potere al Parlamento e alla popolazione? Introducendo
anche la libertà di espressione?» «Solo menzogne! Il
re aveva paura che succedesse ciò che era avvenuto in

da Tunisi al Cairo

per chiamare, perché non deve essere realmente utile
quel bene. È semplicemente uno status.
Un Paese in cui i giovani sono semplicemente appartenenti a un’altra cultura. Un’idea di cultura islamica
moderna, tollerante, aperta, che si scontra con l’Islam
ipocrita, radicale, tribale, e sotto un certo punto di vista, estremista sull’interpretazione del Corano, e sulla
propaganda fatta per portare avanti tesi che non stanno
sicuramente scritte in quel testo.
Un Paese in cui l’immobilismo sociale è più che evidente.
I figli della borghesia con una vita semplicemente uguale, se non maggiore in termini di consumo e opportunità, ai loro coetanei occidentali, poi i “figli del popolo”,
emarginati invece nel luogo della non possibilità. Non
possibilità che vi spiegherò meglio con questo dialogo
che ho avuto l’ultimo giorno del mio viaggio, a Marrakech in mezzo al souk della città. Era sera e tutto d’un
tratto incontro questo ragazzo molto gentile che mi offre
un tè. “Salam Alikom ena Youssef”. Un incontro strano
il nostro, ma sicuramente dettato dal destino. Dopo le
presentazioni abbiamo iniziato a parlare un po’ del Marocco, della sua enorme ricchezza celata in quei giovani
che vogliono far progredire non solo in senso economico, ma soprattutto sociale e in termini di diritti, il loro
Paese per far si che non debbano più emigrare. «Te cosa
fai nella vita?» gli chiesi, «studio Giurisprudenza all’università di Marrakech, lavoro e sono il coordinatore dei
giovani del movimento 20 febbraio». «È per questo che
hai i libri qui con te?» «Esatto, sennò non ho il tempo
materiale di studiare. Lavoro 10 ore al giorno per pagarmi gli studi e dare una mano a casa».«Perché avete sentito la necessità di manifestare? Noi abbiamo sempre
visto il Marocco come un laboratorio di crescita sociale
dei Paesi del Maghreb».
«A differenza di quello che hai sentito in giro, noi non
vogliamo far cadere il re! Noi abbiamo sentito la necessità di unirci ai ragazzi di piazza Tahrir. Una necessità
che deriva da anni di corruzione, di stato sociale assente
e di politica riservata a pochi. Noi non stiamo chiedendo o ancor peggio istigando il popolo marocchino contro il suo re, ma stiamo chiedendo al re di rinnovare la
struttura istituzionale, civile e democratica del Paese.
Noi pensiamo che la nostra nazione abbia bisogno di
un cambiamento radicale. La monarchia costituzionale
esistente è semplicemente uno specchio per le allodole,
perché sia il governo che il primo ministro non hanno
poteri decisionali ed esecutivi reali, visto che devono
sempre agire con il consenso del re. Noi vogliamo democrazia, perché in essa si cela la possibilità di un ragio-

33

Tunisia e Algeria. È stata un'operazione per metterci in
difficoltà e sedare il sentimento di cambiamento immediato, proponendogliene una istituzionale con la forma
del referendum. E purtroppo tanti dei nostri compagni
all’inizio, erano favorevoli, poi hanno visto come venivamo comunque repressi, sia socialmente, politicamente
che fisicamente».
«Spero di rincontrarti» gli dissi e ci abbracciammo
forte, come se fossimo sempre stati affianco a lottare.
Ci salutammo, e in cuor mio ero pieno di rabbia e di
tristezza per lui. Avevo incontrato un ragazzo identico
a me che rivendicava in un altro Paese ciò che rivendicavo io.
34

L’unica differenza era che io avevo avuto la possibilità
di crescere in un Paese più “civile”.
Tre ore dopo andai all’aeroporto per prendere il volo di
ritorno. Tornato a casa, iniziai a elaborare quello che
avevo vissuto e conosciuto in un mese.
Un Paese completamente differente da quello che conoscevo in cui realmente il disagio sociale non semplicemente esisteva, dilagava. Un Paese che dopo la sua indipendenza, purtroppo, non ha mai vissuto la libertà di
opinione, ma che anzi veniva costantemente represso.
Un Paese che ha visto traghettare la dittatura, perché di
questo si trattava, di Hassan II, in una monarchia leggera, democratica e vicina ai suoi cittadini, distogliendo
qualsiasi giovane e non più, dal ricercare il cambiamento dello stato di cose presenti.
Incominciai a informarmi soprattutto nei siti e blog in
giro per la rete, perché erano gli unici a fare informazione vera su ciò che accadeva in Marocco, visto che le

nostre “democrazie occidentali” erano amiche, e molto
di più con tutti i dittatori del Nordafrica. E li iniziai a capire qual era il nostro problema di comprensione su ciò
che stava accadendo in quei Paesi.
La questione era molto semplice. Quei ragazzi alla fine
sono differenti da noi? Una democrazia Islamica, è di
per sé una contraddizione in termini? Dobbiamo dargli
una mano a costruire il loro futuro democratico?
A tutti i quesiti la risposta era NO!
Quei ragazzi io li considero come me, ossia dei G2. G2
del mondo. Seconde generazioni figlie della globalizzazione, quella buona ovviamente. Seconde generazioni
che vorrebbero che al pari delle merci anche le persone
si possano spostare senza problemi, conoscere il mondo, evolvere in una società globale equa, sostenibile, al
passo coi tempi e poter essere elemento decisionale per
una generazione che in un momento di crisi vede la migrazione come unica via di salvezza.
E l’elemento di innovazione, rispetto alle vecchie letture,
è che nel loro Islam l’idea di laicità è ben radicata.Perché
nella nostra idea di democrazia, il fatto che i movimenti cattolici abbiano una rappresentanza forte sia culturalmente che istituzionalmente, sembra un elemento
di pluralità e di espressione di tutti, mentre definiamo
estremista e integralista qualsiasi movimento arabo?
La questione è semplice, soffriamo di Eurocentrismo.
“Noi abbiamo la democrazia, ce l’abbiamo da più tempo,
l’abbiamo inventata noi eccetera”.
Ecco io penso che in questa lettura si celi il problema.
È democrazia, il fatto che con il suo potere decisionale
la BCE abbia optato per l’austerity senza se e senza ma,
eliminando qualsiasi forma di stato sociale nei confronti
dei cittadini europei?
No, non lo è.
E la vera “bomba”, quella sociale, è esattamente inquadrata nella posizione geografica del Mediterraneo, con il

suo sud povero senza futuro, e il suo nord, che dista pochi chilometri di distanza, ricco e facente parte dell’Europa.
Oggi non possiamo più escludere quei ragazzi da un’elaborazione comune di uscita dalla crisi. Perché oggi non
vige solo una crisi economica, ma soprattutto identitaria
e sociale e se non si daranno risposte a questi giovani,
qualsiasi idea di modernità sparirà.
Qualsiasi ragionamento di uscita dalla crisi sociale ed
economica è destinato a morire se non sarà in grado di
elaborare politiche rivolte al Mediterraneo.
Ecco io penso che sia arrivato il momento, non tanto
perché i tempi sono maturi, ma perché c’è una voglia,
soprattutto generazionale, di cambiare il mondo. E questa voglia parte dai ragazzi cileni, e arriva sino ai ragazzi
siriani, utilizzando le stesse parole d’ordine: democrazia, welfare per tutti e libertà.

35
la battaglia di tunisi
intervista ad Ayachi Hammami
L’avvocato Ayachi Hammami è segretario generale
della sezione di Tunisi della Lega Tunisina dei diritti
dell’uomo e membro del Partito Iniziativa Democratica.

36

Come racconterebbe gli eventi epocali che hanno
segnato la Primavera Araba?
I popoli arabi hanno iniziato un profondo processo
di trasformazione e alcuni sono ancora in rivolta,
ad esempio in Siria e Bahrain. Spero che riescano a
conquistare la libertà. Purtroppo, però, la Storia ci
insegna che non sempre i democratici riescono a beneficiare di queste vittorie, di cui spesso approfittano gli estremisti. In Tunisia gli estremisti sono i salafiti, inclini all’uso della forza per una svolta politica
in direzione dell’Islam puro. Alla base c’è un problema sociale ed economico: ovvero la discrepanza tra
una élite, che vuole giocare la grande partita della
libertà, e il popolo che chiede lavoro e reddito senza
percepire l’inizio della rivoluzione. C’è poi l’annosa
questione della democrazia. La maggior parte dei
partiti politici crede che la democrazia si manifesti
attraverso le elezioni, nei meccanismi e nelle proce-

dure, e non nella condivisione di precisi valori come
l’uguaglianza tra i cittadini, la libertà di coscienza e
di religione, il rispetto dell’integrità fisica e morale.
Il punto è che, oggi, gli islamisti non hanno la nostra
stessa concezione di democrazia.
Quale è stato il ruolo delle donne nella rivoluzione
tunisina?
In Tunisia la donna gode di una posizione privilegiata rispetto al resto del mondo arabo. Dal 1956 è
in vigore uno statuto progressista che, ad esempio,
vieta la poligamia. La forza delle donne nella società
è cresciuta notevolmente. Hanno ottenuto la possibilità di svolgere ogni tipo di lavoro senza particolari
divieti ed esistono associazioni, forti e riconosciute, come quella delle Donne Democratiche, che ne
difendono i diritti: soprattutto in opposizione agli
islamisti. Aumenta anche il numero delle donne che
si iscrivono all’università e che partecipano alle manifestazioni di protesta, come si vede dalle immagini
dei cortei. Le donne hanno condotto lotte dure e non
vogliono perdere le libertà conquistate.
La legge elettorale, che abbiamo votato in Tunisia,
esige che le liste elettorali siano paritarie tra uomini
e donne, e nella selezione delle candidature entrambi i sessi devono essere equamente rappresentati.
Tuttavia, gli estremisti hanno presentato liste elettorali con una folta presenza di donne islamiche e,
dunque, le donne progressiste hanno vinto formalmente pur perdendo terreno nella sostanza.
Quale sarà lo scenario della Tunisia nei prossimi
anni?
Dopo le elezioni si è conclusa la prima parte della
transizione democratica, iniziata con la caduta di
Ben Ali. La seconda fase, invece, avrà luogo dopo le
elezioni dell’Assemblea Costituente che deve redigere una Costituzione e indire elezioni sulla base del
nuovo testo costituzionale. Gli islamisti puntano su
un regime parlamentare come quello italiano. Altre
da Tunisi al Cairo
forze invece sostengono un regime presidenziale.
Questa divergenza sta creando degli ostacoli nel processo di ridefinizione dell’architettura costituzionale
del Paese.
Il Partito Progressista ha dei legami con organizzazioni, partiti e sindacati europei?
Il partito di centrosinistra che è al potere ha una
normale interlocuzione politica con i partiti dell’Internazionale Socialista. In Tunisia i progressisti hanno un legame più forte con la società civile europea.
Quale è stato il ruolo del web nel processo rivoluzionario?
Facebook ha giocato un ruolo cruciale. Ha funzionato da volano della rivoluzione e incoraggiato i giovani, fornendogli informazioni utili su ciò che stava accadendo. Oggi, su dieci milioni di abitanti gli iscritti
a Facebook sono circa due milioni e mezzo. La lotta
politica si svolge anche su Facebook. Non a caso gli
islamisti aumentano la loro presenza sul social media. È un terreno decisivo.

Emittenti come al-Jazeera hanno diffuso – e diffondono tutt’ora – immagini di combattimenti, carneficine e uccisioni in Paesi come Arabia Saudita,
Siria, Qatar. Che posizione avete rispetto ai governi
di questi Stati?
Al-Jazeera sostiene la rivoluzione araba e gioca un
ruolo molto importante. In Arabia Saudita nessuno
crede che la politica sia interessata a far cadere il regime di Bashar al-Assad. Personalmente non credo
che il suo sia un regime democratico. Il governo tunisino è, con i sauditi e gli americani, contro il regime di Bashar al-Assad. In Tunisia esiste una frangia
politica, quella dei Nazionalisti Arabi, che ammette
il diritto alla libertà ma si oppone all’intervento straniero. Io sono a favore della libertà del popolo siriano ma contro l’intervento militare straniero.

37
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  • 2. la primavera non bussa di Linda Sutto Immergo il dito indice nell’inchiostro rosso. Tra un istante − piccolo, quasi insignificante − lo appoggerò su un foglio e lascerò la mia identità impressa, come una grande conquista. Guardo il mio polpastrello tingersi e diventare il disegno che stamperò sul mio primo voto. In fila con me altre centinaia di persone, con la suggestione d’avere tra le mani − in questo gesto, quasi da nulla − la possibilità di scegliere. L’inchiostro scivola sulle minuscole linee della mia pelle, osservo attentamente: ogni piccolo solco mi sembra d’improvviso uno dei passi che mi hanno condotto qui. Seguo il colore spargersi veloce, non lo perdo di vista un secondo, come se potesse riportarmi all’inizio di tutto e dirmi chi sono oggi. Come se potessi trovarci scritta una spiegazione a quel che è successo, una spiegazione da dare almeno a me stesso. Ogni minuscola linea è una storia. Il rosso vi scorre sopra, come fossero piccoli fiumi, o le strade del Cairo, che si riempivano fino a non essere più strade, ma folla, non un ammasso di persone, ma un popolo unito, energia pura, un’onda che straripava, traboccava da un cuore all’altro, trascinando con sé i sentimenti di tutti, anche miei. Nascosti seppelliti e repressi da generazioni, forse, erano nell’aria, erano nel fondo, nello stomaco… 1
  • 3. 2
  • 4. da dove venivano? È complicato per me comprendere come sia accaduto esattamente. Fu come se d’improvviso la rabbia e la miseria non fossero più capaci di nascondersi, iniziarono a uscire attraverso gli sguardi, attraverso la voce, e attraverso i corpi; e mentre le strade si riempivano cambiavano, al riconoscersi occhi negli occhi, la paura, la frustrazione, la rabbia, si trasformavano in un groviglio informe e adrenalinico; fino a essere qualcosa di nuovo, ancora più forte: Speranza. Travolgeva chiunque le capitasse a tiro, una valanga di emozioni cieca e implacabile, una freccia scoccata con precisione, pronta a conficcarmisi nel cuore, senza chiedere permesso. Se voi mi chiedeste cos’è la primavera, io risponderei che sono le mie gambe che tremano, il mio volto che suda, che è quell’orda di sentimenti che mi si è rovesciata addosso, mi è entrata nel sangue, e ha iniziato a trasformarlo. Io ero un militare. Mi hanno insegnato ad amare l’ordine, ad amare il mio sovrano. Ho servito il mio popolo, e ne ero contento, mi sembrava che potesse essere bene. Forse quello che realmente sentivo era coperto dalla polvere della rassegnazione, dimenticato per il bisogno. Pensavo che difendere l’ordine costituito mi avrebbe reso onorevole di fronte alla famiglia, alla mia comunità e a Dio. Così mi avevano insegnato, ed era così necessario crederci, che vissi per anni senza chiedermi se fosse giusto o meno. Fu quando la gente cominciò a scender per le strade che iniziai a esser pervaso da una confusione endemica, sotterranea e inarrestabile. La piazza cantava, la piaz- 3
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  • 6. za ruggiva, migliaia di occhi, mani, sogni, respiravano assieme: era un animale vivo, che si muoveva verso di me. Io in quel momento sono muscoli, fibre, nervi tesi. Io militare, sono lo Stato, l’ordine, la dittatura. Io sono un ragazzo di venticinque anni, nato a Tunaydah, figlio di un panettiere, cresciuto tra la sabbia e le lucertole, arruolato perché alto e sano, perché nella vita si fa ciò che si deve, perché è un ordine. Io, davanti alla mia gente, in quella piazza, non so più chi sono, chi il mio popolo, chi il mio nemico. Il mio compito era difendere la mia terra, non colpire i miei fratelli. Desidero, d’improvviso e da sempre, smettere di dover obbedire. In quest’attimo in bilico tra ciò che sono e ciò che posso – che forse voglio – quel che credo – quel che non potrei – barcollo di fronte alla folla che urlando reclama Giustizia sociale! Libertà! Dignità! Possibilità… Desidero esser capace di pensare autonomamente. Mi sembra di non aver mai fatto qualcosa del genere, di non esser mai stato così libero – così solo – di fronte a un pensiero, a una scelta. è una sensazione terribile, e affascinante. Il mio corpo vibrava, le loro voci mi attraversavano, mischiandosi segretamente ai miei pensieri. Padre, capirai il perché? Potrai comprendere questo? Non sono una persona coraggiosa, tremavo. Madre, perdona se questo ti provocherà dolore e angoscia. La valanga sfrenata degli umori della folla mi entrava dentro. Dio, mi giudicherai secondo quale Legge? Gridano “Libertà, Libertà”, che cos’è Dio? Che cos’è giusto? Quale verità devo difendere? Avrei voluto che qualcuno lo avesse fatto al mio posto, ma per ri- 5
  • 7. 6 spondere, c’ero solo io, metà uomo, metà soldato. Quando diedero l’ordine di caricare non potei muovermi: fu il mio corpo a rifiutarsi d’obbedire. Sono caduto spinto dagli altri, quasi senza comprendere cosa stesse succedendo, sono rimasto a terra e ho atteso il caos. Poi sono scappato, lungo le strade del Cairo in fiamme, giù per le periferie di baracche, tutta la notte ho camminato, fino a dove non c’erano che palme da dattero, fino a che l’alba del giorno dopo mi ha sorpreso e, con le prime luci del giorno, ho scoperto d’essere un altro: un disertore. Per giorni mi sono nascosto, ho bruciato la mia divisa dove nessuno potesse vedere. Qualche chilometro più in là qualcuno moriva, in nome chi di una cosa, chi dell’altra. Per settimane il mio animo fu tormentato. Per sempre è cambiato il mio destino. Questa battaglia non s’è vinta né per mio merito né per mio coraggio. Non sento di aver contribuito a “fare la Storia”, semplicemente non potevo uccidere i miei fratelli. In queste vicende mi ci sono trovato dentro, così come mi son trovato gettato nella vita, venticinque anni fa, in un villaggio di sabbia e vento. L’unica differenza è che questa volta, quasi per caso, ho scoperto di poter scegliere da che parte stare. Inciampando. Se la mia scelta sia stata quella giusta non lo so ancora dire, perché da quella volta ho perso le poche risposte che mi permettevano di sopravvivere, in cambio di una quantità infinita di domande che non mi lasciano dormire la notte. Con gli occhi sbarrati nel buio mi chiedo: in fondo che cosa abbiamo vinto? Questa libertà di cos’è fatta, dov’è, a cosa serve? Allora apro il Corano e prego. Ma ogni notte le domande ricominciano: chi sarò agli occhi dei miei figli, un eroe o un colpevole? Non sarebbe stato meglio lottare per qualcosa che avesse anche una qualche consistenza e si potesse masticare sotto i denti? Che cos’è la democrazia, allora, è questo? Quest'inchiostro rosso sulle mie dita? I funzionari dell’ufficio elettorale mi richiamano alla realtà, io riemergo dalle mie impronte digitali colorate con un’aria probabilmente un po’ stupida, un po’ sconvolta. Mi consegnano il pezzo di carta su cui votare, e mi abbandonano, una volta ancora, da solo con le mie decisioni. Allora eccomi qui, voto. Mi sento quasi bene a vedere le mie impronte lì, impresse. E se la mia conquista, la nostra conquista, non fosse altro che quest’illusione di star meglio per aver lasciato il proprio segno da una parte anziché dall’altra? Per oggi basta domande, ya salam, mi concedo il piacere di credere.
  • 8. SOMMARIO 1 La primavera non bussa di Linda Sutto 9 Editoriale di Sandro Teti di Redazione 12 Introduzione Il cammino della libertà 14 La rivoluzione araba al punto di svolta di Alessandro Politi 18 La vittoria sulla paura di Vittorio Ianari 20 L'utopia di Tahrir di Vincenzo Mattei 24 La maledizione del petrolio di Farid Adly 29 di B. F. Awad Hanna 32 Il dialogo mancato La primavera in me 36 La battaglia di Tunisi di Ayachi Hammami 38 La diffidenza di Israele di David Sorani 43 In principio Ankara di Mehmet Paçaci 44 Vista da Caracas di Barbara Meo Evoli 47 Democrazie e comunicazione di Marc Innaro 51 La primavera del lavoro di Mario Sai 58 Transiti mediterranei di Stefano Volpicelli 68 Schede Paesi 69 Glossario 70 Che cos'è il Quinto Stato? di Roberto Ciccarelli 73 Internet delle cose di Sergio Bellucci 75 Il nuovo corso a Cuba di Roberto Livi 77 Sopravvivere al futuro di Alessandro Politi 79 Il popolo del Calendario 80 Elenco Sostenitori / Librerie 10 di Alain Gresh (intervista) (intervista) di Said Chaibi (intervista) (intervista) (intervista)
  • 9. Direttori Giulio Trevisani dal 1945 al 1969 Carlo Salinari dal 1969 al 1977 Comitato dei Garanti Zhores Alferov Piero Beldì Sergio Bellucci Luciano Canfora Franco Cardini Luciana Castellina Dario Coletti Guido Fanti Franco Ferrarotti Carlo Ghezzi Margherita Hack Emilio Isgrò Milly Moratti Diego Novelli Piergiorgio Odifreddi Mauro Olivi Leoluca Orlando Moni Ovadia Valentino Parlato Piercarlo Ravasio Guido Rossi Sergio Serafini Nichi Vendola Franco della Peruta dal 1977 al 2010 Art Director Laura Peretti Capo redattore Tommaso De Lorenzis Coordinatore editoriale Paolo Bianchi Redazione Ulderico Iorillo Serena Tudisco Impaginazione Antonio Maglia Ufficio Stampa Daniela Primerano Lorenzo Chiavetta Ufficio Abbonamenti Teresa Colistra Blog e Social Network Tommaso Sabatini Proprietà editoriale © Nicola Teti & C. Editore 8 Direttore Responsabile Sandro Teti Archivio Digitale Piero Beldì Direzione, Redazione Amministrazione Piazza di Sant’Egidio, 9 Roma 00153 C.F. / P. IVA 00935990150 Tel.: 06.58179056 06.58334070 Fax: 06.233236789 info@calendariodelpopolo.it info@sandrotetieditore.it www.calendariodelpopolo.it www.sandrotetieditore.it ISSN: 0393-374 Distribuzione: JOO Distribuzione Stampa: Tipografia Facciotti Prezzo: € 9,00 Rivista Periodica Registrata presso il tribunale di Milano n.159 del 9/7/1948 Modalità pagamento: Bollettino Postale Versamento su c.c.p. n. 1005911076 intestato a Teti s.r.l. BONIFICO BANCARIO CC intestato a Teti s.r.l. Codice IBAN: IT81Z0100503214000000015958 Periodico associato all’Unione Stampa Periodica Italiana Il Calendario del Popolo è socio del Coordinamento Riviste Italiane di Cultura Fotografie Le immagini sono di Luca Sola (Terni 1977) fotogiornalista che collabora con prestigiose testate nazionali e internazionali. Si è interessato alle problematiche legate al mondo del lavoro in Italia. Dopo un’impegno pluriennale in Palestina e in Israele, ha seguito sin dagli inizi gli sviluppi della Primavera Araba vivendo e lavorando in Egitto e in Libia durante tutto il 2011. Attualmente Al Cairo sta portando a termine il suo ultimo reportage sulla transizione politica dell’Egitto. Ringraziamenti Mario Castaldo Emiliano Chiusa Marisa Minoletti Teti Alberto Muciaccia Adriano Roccucci Cari abbonati e cari lettori, stiamo cercando di contattarvi tutti telefonicamente, ma abbiamo difficoltà a reperire i vostri contatti. Comunicateceli per favore ai numeri 06.58334070 - 06.58179056, al fax 06.233236789 oppure via e-mail a: info@sandrotetieditore.it stampa@sandrotetieditore.it Stiamo lavorando alla creazione di un archivio fotografico, filmico e cartaceo de Il Calendario del Popolo. Cerchiamo vecchie fotografie, anche non professionali, volantini, appelli, annunci e manifesti riguardanti la rivista o le edizioni de Il Calendario, la Teti Editore ed eventi a cui hanno partecipato (feste de l’Unità, banchetti, convegni, eccetera. Metteremo poi a disposizione, anche attraverso Internet, tutti questi materiali, che costituiscono la memoria storica del Calendario. Inoltre, se avete vecchi numeri de Il Ca­endario e soprattutto degli l Almanacchi, vi preghiamo di mettervi in contatto con la redazione, poiché stiamo ricostruendo l’archivio di tutti i numeri della rivista.
  • 10. EDITORIALE di Sandro Teti Il Calendario del Popolo torna a occuparsi di assetti geopolitici e trasformazioni dello scenario internazionale. Lo fa un anno dopo i sommovimenti che hanno scosso il Maghreb e il Medioriente con un numero dedicato alla cosidetta Primavera Araba. Una miscela plurale di racconti, testimonianze, riflessioni analitiche fissa i termini di un processo aperto e tutto in divenire, carico di aspettative ma ugualmente gravido di pericoli. Dalle strade di Tunisi a piazza Tahrir, dal deserto libico alle acque del Mediterraneo, solcato dai transiti migranti, le rivoluzioni del 2011 non sono mai state un fatto esclusivo del mondo arabo, bensì un evento epocale, i cui effetti riverberano sull’Occidente e investono gli equilibri politici mondiali. Per questa ragione abbiamo offerto una molteplicità di punti di vista, alternando prospettive interne a sguardi esterni, tra cui quello di Israele, convitato di pietra delle rivoluzioni, e della vicina Turchia, cerniera sensibile tra due continenti. Le storie raccolte in queste pagine dicono delle profonde trasformazioni che hanno attraversato le società arabe. Ma prima ancora delle parole sono le immagini a parlare: gli eloquenti scatti del fotogiornalista Luca Sola restituiscono speranze, passioni e paure sui volti d’insorti e combattenti nel nome dei diritti e della libertà. La ricerca iconografica palesa, con efficacia mimetica e sottile allusività, l’intreccio di temi cruciali sollevati dalle rivoluzioni: il ruolo delle donne nelle mobilitazioni oceaniche contro i regimi, la diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione, la durezza dello scontro militare, i riti e i simboli della religione insieme al grande interrogativo costituito dall’evoluzione dell’Islam politico. Abbiamo composto un numero ancora più “aperto” e meno definitivo del solito, perché mai come nel caso di questa Primavera gli esiti del cammino di liberazione sono affidati alle donne e agli uomini in marcia. Preservando il taglio monografico che caratterizza la nuova serie de Il Calendario, abbiamo incrementato e irrobustito il numero di pagine dedicato a temi di attualità, tra i quali il nuovo corso politico a Cuba, la condizione del lavoro atipico, precario, parasubordinato, e le inedite applicazioni della rete telematica. Abbiamo dato spazio a critiche e suggerimenti di voi lettori, ripristinando la rubrica Il Popolo del Calendario e, seguendo i vostri consigli, abbiamo confermato la sezione dedicata alle recensioni librarie. Stiamo procedendo a tappe forzate per recuperare il ritardo con cui stiamo uscendo, e abbiamo quasi terminato il prossimo numero, che sarà dedicato alle stragi nazifasciste in Italia, i cui responsabili sono stati protetti per decenni dai vertici dello Stato. Abbiamo avviato anche la lavorazione del numero ancora successivo, in cui si descrive il rapporto tra la città e le sue periferie, fisiche e mentali: un monografico che affronta argomenti di sociologia, architettura e urbanistica. 9
  • 11. introduzione 10 «Primavera non bussa, lei entra sicura / Come il fumo lei penetra in ogni fessura» cantava Fabrizio De André in Non al denaro, non all’amore né al cielo. Correva il 1971. Quarant’anni più tardi, i versi del cantautore genovese restituiscono l’irresistibile, trascinante impeto della brezza che ha spazzato il mondo arabo dal Maghreb al Medioriente. Sordi al montare della marea, ma lesti nel coniare formule a effetto, i media occidentali l’hanno battezzata Arab Spring. Stagione nuova di speranze che ha mutato il corso della Storia. Brezza sostenuta dal respiro collettivo di donne e uomini in lotta per la libertà. Marea incalzante di milioni di corpi che ha travolto regimi e spezzato il pugno di ferro dell’oppressione. Eppure, sarebbe bastato tendere l’orecchio, osservare i lenti, inesorabili mutamenti che agitavano il corpo sociale, liberarsi degli inveterati pregiudizi eurocentrici, per cogliere l’approssimarsi del cambiamento. Del resto «You don’t need a weatherman / To know which way the wind blows», volendo dirla con le parole di Bob Dylan. A più di quindici mesi dall’inizio della rivoluzione tunisina, la Primavera Araba si configura come cesura epocale, occasione storica che chiama direttamente in causa l’Occidente. La posta in gioco è lo sviluppo della democrazia dopo gli anni Zero, dopo il cupo decennio iniziato con l’ecatombe del World Trade Center, consumato all’insegna dello “scontro di civiltà”, bruciato nella contrapposizione tra Terrore qaedista e unilateralismo guerrafondaio dei neo-conservatori. Le rivoluzioni arabe indicano, pur nella loro complessità e al netto delle intrinseche differenze, una via per l’emancipazione dei popoli che non coincide più con le rotte dei cacciabombardieri diretti a Kabul o a Baghdad. Riaffermano il ruolo della donna in società troppo spesso narrate sulla base di stereotipi. Testimoniano il diffondersi di un senso comune critico e di una partecipazione che si coagulano nelle strade delle città in rivolta come sulle dorsali della rete telematica. Alludono a un’evoluzione
  • 12. dell’Islam politico all’interno delle regole e delle procedure di un sistema democratico rideclinato in forme inedite. Di certo nulla è scontato e l’avvenire della Primavera rimane confuso: a Damasco, dove la lotta continua, e al Cairo, dove va definendosi lo sbocco istituzionale della rivoluzione. Nel Marocco, attraversato da timidi fermenti, e sotto l’accecante sole algerino, che tutto sembra pietrificare, tra le ombre della memoria, nei ricordi d’una sanguinosa guerra civile. La partita è aperta. Gli scenari fluidi. Molti futuri sono ancora possibili. Ai Paesi occidentali spetta un grande sforzo di comprensione, la spregiudicata pratica di altri punti di vista, la costruzione di nuovi legami tra le due sponde del Mediterraneo. Occorre dismettere la retorica da “guardiani” dell’unica, vera democrazia, in una congiuntura in cui – proprio nei confini della vecchia Europa – è la stessa tenuta democratica a essere compromessa dai diktat di un neo-liberismo in veste tecnocratica sopravvissuto alla propria bancarotta: al great crash del 2008. Ai popoli arabi, invece, deve competere ancora il coraggio, perché la lotta per i diritti e la dignità non è finita. Ed è una lotta dagli esiti imprevedibili, che può generare tutele autoritarie, controspinte conservatrici, radicalizzazioni intolleranti o costituire una decisiva opportunità di liberazione. «Non serve essere un meteorologo per sapere da che parte tira il vento», eppure anche la brezza più impetuosa può volgere bruscamente in bonaccia o trasmutare in un gelido soffio invernale. Nel calendario della Storia le stagioni mutano all’improvviso e non c’è niente di certo, ma la Storia è sempre di chi sceglie di farla. 11
  • 13. il cammino della libertà di Alain Gresh 12 In poche settimane, al prezzo di un migliaio di morti complessivamente, in Tunisia e in Egitto i popoli si sono sbarazzati pacificamente dei rispettivi dittatori. Rapidamente, il movimento si è esteso dal Marocco alla Siria, passando per l’Arabia Saudita e l’Iraq. Dappertutto, una stessa aspirazione alla libertà, alla dignità, dappertutto una stessa volontà di non cedere alla violenza. Nessun Paese arabo è stato risparmiato, neppure i ricchi Emirati Arabi Uniti, dove degli oppositori sono stati arrestati e un’associazione di difesa dei diritti umani è stata posta sotto tutela. La rapidità con la quale si sono propagate le fiamme della rivolta, diffuse in particolare dalla TV Al Jazeera, ha fatto nascere delle illusioni: il cambiamento sarà rapido; i regimi cadranno gli uni dopo gli altri come dei castelli di carte; il domani, in senso letterale, sarà radioso. Ma non è andata così. La contro-rivoluzione ha colpito il Bahrain, con l’intervento delle truppe del Golfo. La Libia è sprofondata in una guerra che ha permesso l’intervento della NATO. Il presidente yemenita, Ali Abdullah Saleh, non molla il trono. Il potere siriano tenta di schiacciare l’opposizione. E quello che deve essere fatto per gli egiziani e i tunisini è enorme, soprattutto in campo economico-sociale. Assisteremo, come nel 1848 in Europa, alla repressione della “primavera dei popoli”? Molti commentatori sono pessimisti: sia coloro che pensano che gli arabi non saranno mai maturi per la democrazia; sia coloro che agitano, una volta ancora, la minaccia islamista; sia coloro che si chiudono nei tempi dei media: qualsiasi lotta che dura più di una settimana è in un «vicolo cieco», qualsiasi crisi che dura più di un mese si «impantana». Tuttavia, nel luglio 1790, un anno dopo la presa della Bastiglia, la Francia era ancora un regno e l’Europa sembrava immobile… Era senza dubbio ingenuo pensare che dei dittatori, rinchiusi da decenni nei loro fortini, si sarebbero arresi senza resistenza. O anche che la loro caduta avrebbe significato un cambiamento di sistema sociale. I poteri in carica dispongono di potenti e terribili mezzi di repressione, anche se il ricorso a questi metodi non ha fatto né tacere i cittadini né ha riportato l’«ordine». Ed è ancora più allarmante il fatto che questi regimi non si fermino di fronte all’utilizzazione di una temibile risorsa. In Medioriente regna una infinita diversità: curdi e arabi, cristiani e musulmani, ortodossi e cattolici, sunniti e sciiti vivono, da tempo, fianco a fianco, sovente in pace tra loro, a volte come rivali, in alcuni casi arrivano allo scontro. Ma da molto tempo il confessionalismo e le identità nazionali sono state strumentalizzate sia dalle potenze coloniali, sia dai regimi nati dalle indipendenze che “dividono per regnare”; in Egitto, per esempio, Hosni Mubarak ha sfruttato la questione copta, mantenendo la minoranza cristiana in una situazione di inferiorità pur presentandosi contemporaneamente come lo scudo che li difendeva dall’islamismo. Queste manovre non sono cessate con lo scoppio della rivolta araba. La dinastia regnante (sunnita) in Bahrain, dove la maggioranza della popolazione è sciita, ha mobilitato su base confessionale. Strumentalizzando le paure,
  • 14. la nuova stagione 13 la famiglia reale ha imposto lo stato d’emergenza, e fatto appello alle truppe dei suoi alleati del Golfo, in primo luogo l’Arabia Saudita. Una campagna di una xenofobia particolarmente disgustosa ha accusato i manifestanti, alcuni dei quali sunniti, di essere al soldo dell’Iran. In seguito, tutti i Paesi del Golfo hanno seguito questa strada, accentuando le divisioni cresciute già con l’intervento americano in Iraq e l’insediamento di partiti sciiti alla testa del governo a Baghdad. Fin dal 2004, il re di Giordania aveva messo in guardia contro la creazione di un “arco sciita”, dall’Iran al Libano passando per gli emirati del Golfo. In Siria, il regime del Baas, incapace di rispondere alle aspirazioni popolari, ha armato la minoranza alauita di cui fa parte, mentre alcuni gruppi salafiti sunniti tentano di trasformare il movimento di protesta in lotta contro gli “infedeli”. La volontà unitaria dei manifestanti e le loro rivendicazioni civiche di libertà, giustizia sociale e democrazia, hanno in parte permesso di smascherare queste manovre di diversione, di continuare ad andare avanti, di approfondire le conquiste. La “primavera dei popoli” non è finita, mentre i discorsi più estremisti sono stati marginalizzati. Al-Qaeda è stata spiazzata dalle mobilitazioni e la morte di Osama Bin Laden segna simbolicamente la fine di un’epoca e di un discorso che, all’inizio del secolo, trovava ancora una certa eco nel mondo musulmano. Le strade della libertà e della dignità, aperte dal popolo tunisino e poi intraprese dagli altri popoli arabi, permangono incerte. Ma, ormai, tornare indietro è impossibile. «Quando la libertà è esplosa una volta nell’anima di un uomo, gli dei non possono più nulla contro quest’uomo» (Jean-Paul Sartre, Le Mosche).
  • 15. la rivoluzione araba al punto di svolta di Alessandro Politi 14 Smettiamo di chiamarla Primavera Araba, è un nome che, per quanto emotivo e noto alla nostra storia eurolandcentrica, ha un finale jettatorio: Alexander Dubček, il comunista dal volto umano, era tanto caruccio, ma poi “per fortuna” arrivarono i carri armati sovietici a riportare l’ordine a Manama (pardon, Praga). Chiamiamola per quello che è realmente: Rivoluzione Araba. Per i conservatori e i cosiddetti Realpolitiker nel mondo è un incubo, per i riformatori è una grande speranza e per i rivoluzionari e tutti in genere è un enigma dal finale ancora molto aperto e rischioso. Nel mese d’aprile questa rivoluzione è a un punto di svolta perché le rivoluzioni riuscite devono affrontare l’incognita della costruzione di un nuovo sistema politico e perché simbolicamente la Siria è l’evento che può aumentare la spinta rivoluzionaria in Asia e Africa oppure smorzarla significativamente. Il clamore politico e mediatico intorno a Damasco non dovrebbe farci dimenticare che in molti posti la situazione è “tranquilla”: - Iran, Iraq, Palestina, Giordania, Algeria non sembrano mostrare molto al mondo; - Libano e Marocco hanno dei fremiti politici; - Arabia Saudita e Oman sono in coma da petrodollari e paternalismo consolidato; - Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar: praticamente nulla. I motivi specifici per cui questi Paesi si ritrovano insieme sono diversi, ma sono accomunati da una forza di gravità che è la paura del cambiamento dal basso e l’incapacità relativa delle differenti classi dirigenziali di capirlo, interpretarlo e gestirlo. All’interno del gruppo c’è poi la netta separazione tra (petro)monarchie del Golfo e Paesi reduci di guerra. Quanto ai primi, è dai tempi della Santa Alleanza che i re non amano particolarmente le rivoluzioni e fanno lega per schiacciarle, anche se oggi, e qui, la dimensione specifica è in larga misura quella del petrolio e della diversificazione dalla petroeconomia. Queste monarchie hanno presto ritrovato i loro interessi comuni ancor più nel reprimere i cittadini del Bahrain e nell’aprire il club a monarchie fuori regione come Giordania e Marocco, che non nel resistere all’influenza iraniana. Poi vi sono i Paesi dove lo sfruttamento politico del trauma da guerra civile o esterna continua a essere il mezzo per bloccare gli assetti politici. L’Iran con la guerra Iran-Iraq e il lungo duello con gli USA; l’Iraq con le tre guerre del Golfo e la graduale uscita dall’occupazione statunitense e dalla guerra civile; la Palestina e le sue catastrofi militari, terroristiche, diplomatiche, politiche; la Giordania con le memorie del Settembre Nero; l’Algeria e i suoi strascichi dei fantasmi della feroce guerra civile; il Libano con le cicatrici della ventennale guerra civile; il Marocco con un timido disgelo dagli anni di piombo e una guerra bloccata nel Sahara Occidentale. Tutte situazioni geopolitiche le quali faticano a lasciarsi dietro i confortevoli schemi amico-nemico per entrare in una realtà più libera, fluida, contestabile. Questi attori sono i migliori rivelatori delle ripercussioni che le tensioni visibili hanno sull’insieme degli scacchieri dell’Oceano Indiano, dell’Africa e dell’Oceano Atlantico. Al di là dei tentativi più o meno sinceri o cosmetici di cambiamento, tutti questi Stati avevano progetti di rendita geopolitica, dall’Iraq che deve capitalizzare i prezzi pagati all’invasione e alla democratizzazione imposta, all’Iran che vuole espandere la sua influenza sbandierando una rivoluzione rimasta sui murales e truccata nelle urne, alla coppia israelo-palestinese le cui élite si rifanno il film del 1967 e variazioni annesse. Nel migliore dei casi forniranno ai processi rivoluzionari in corso la fiammata lunga per operare cambiamenti sociali in profondità quando le rivolte saranno cronaca passata: il segno dei mutamenti non si può ancora prevedere, ma la direzione generale costringerà tutti i Paesi a fare i conti con il Risveglio Arabo, pena la decadenza. Nel peggiore dei casi sono il materiale inerte che serve per flemmatizzare, sopire e troncare la spinta al cambiamento, offrendo un bel condono tombale alle responsabilità di classi dirigenti divorziate da ogni realtà che non sia la perpetuazione del potere.
  • 16. la nuova stagione Israele, intendendo la società israeliana, ha reagito in modo arabo alle sollecitazioni del Maghreb. Certo che la situazione sociale, politica ed economica è differente, ma la gioventù israeliana di tutti i ceti e orientamenti politici ha protestato contro un analogo furto di futuro e una più sottile estrazione di valore. Il movimento delle tende, le quali oggi sono state fisicamente smantellate dalle piazze e dalle strade, ha espresso la sua opposizione contro una società sempre più diseguale, frammentata e libanizzata sotto lo spauracchio del conflitto perenne. Come in tutte le democrazie ricche e indebitate, basti vedere gli Indignados, il movimento studentesco cileno e Occupy Wall Street, questo tipo di movimenti non riesce ad abbattere presto un ben più fragile regime autoritario, ma può aver gettato i semi per un cambiamento non meno necessario rispetto al totalitarismo dolce delle oligarchie del capitalismo finanziario. La drammatica posta in gioco per i Paesi di Nordafrica, Levante e Golfo non è data tanto dalla distinzione tra sciiti e sunniti, ma tra minoranze al governo e maggioranze prive di libertà. Dal lato delle minoranze al potere abbiamo i casi dell’Iran sciita e dell’Afghanistan (come mostrano i brogli nel voto), quelli delle petromonarchie sunnite o della Giordania (dove i palestinesi sono il 60%), della Palestina dei cacicchi politici e familiari, della Siria degli alauiti, oppure dell’Algeria dei generali in doppiopetto e del Marocco con la sua monarchia sceriffiana. In forme diverse è un problema che tocca anche Israele dove una minoranza di colonizzatori domina la maggioranza degli arabi palestinesi e la maggioranza degli israeliani che sono stufi di passare da un conflitto all’altro. I Paesi di nuova democratizzazione hanno il problema di stabilire un quadro istituzionale che eviti una dittatura della maggioranza e di avviare un cambiamento sociale che elimini i rischi assai concreti e persistenti di familismo, corruzione, fazionalismo e manipolazione della religione. Quali sono i possibili futuri per Libia, Tunisia, Egitto e Yemen nel prossimo quinquennio? Ve ne sono almeno quattro: - democrazia fragile (forte corruzione, incerto Stato di diritto, faticoso sviluppo dei corpi politici e sociali); - democrazia sotto tutela (i militari possono o non possono intervenire direttamente, ma condizionano pesantemente il gioco politico); - democrazia autoritaria; - golpe bianco o reale, controrivoluzione con dittatura hard o soft. Le possibilità finali, se si sopravvive a uno degli esiti citati, possono concretizzarsi o in una democrazia emergente secondo parametri nuovi e completamente sperimentali, vista la crisi delle democrazie della koinè occidentale, o in una democrazia fittizia (che possiamo definire democrablanda, democrazia annacquata). È ovviamente troppo presto per tutti, protagonisti rivoluzionari inclusi, prevedere il risultato conclusivo di questi processi rivoluzionari. Nel frattempo la situazione sta evolvendo con grande rapidità anche a livello strategico. Nella scorsa primavera molto sembrava andare per il verso desiderato dalle petromonarchie: la manovra controrivoluzionaria sembrava aver contenuto elegantemente i disordini nel resto del Nordafrica; Tunisia ed Egitto andavano considerati persi ma in Egitto lo SCAF (Supreme Council of Armed Forces) stava pilotando la controrivoluzione; in Bahrain la rivoluzione era stata soffocata mentre in Libia era in corso un confuso conflitto interno dagli esiti incerti. E invece, mentre si proclamava su diversi media compiacenti l’arrivo di una torrida estate araba o addirittura un gelido inverno (sempre in ossequio alla rassicurante jella cecoslovacca), proprio nell’inverno del 2011 si consolidavano tre eventi di segno opposto. In Yemen veniva cacciato il vecchio presidente ad vitam Saleh; la popolazione e l’establishment hanno temporaneamente accettato la reggenza del vicepresidente, una creatura del vecchio dittatore, in attesa di una 15
  • 17. 16 transizione che eviti gli orrori della guerra civile libica. La soluzione vicepresidenziale è stata caldeggiata da Riyadh, ma anche i sauditi sanno che è solo un guadagno di tempo, non una battuta d’arresto come quella in Bahrain. La campagna libica, sia pure in modo rocambolesco, è stata vinta dalle forze rivoluzionarie, sostenute dalle forze NATO, di Qatar e UAE, con la fine del regime del colonnello Gheddafi. Il Paese è in pieno rimescolamento, il che suscita molti timori nelle cancellerie di medie e grandi potenze, ma un altro regime dispotico è finito e questo ha contribuito a dare vigore ai moti in Siria. Per quel che riguarda la Siria è chiaro che il presidente Bashar al-Assad ha abbandonato qualunque pretesa di riforma e si sta preparando a liquidare l’insurrezione rivoluzionaria, prima rendendo impraticabile la protesta pacifica e adesso cercando di distruggere i gruppi armati dell’Esercito Libero Siriano o dei comitati di difesa locale. Dera’a, Deir el-Zor, Homs, Jisr al-Shughour sono stati gli epicentri di rastrellamenti governativi, che saranno forse complicati dall’accordo di tregua raggiunto con la mediazione dell’inviato speciale dell’ONU, Kofi Annan. È vero che a ogni massacro si scava il solco tra gli spartiati alauiti e gli iloti sunniti, ma gli Assad sanno che, se cedono, non avranno un futuro se non di esilio e/o di processo per crimini umanitari. La visione superficiale vede Iran e Hizb’Allah sostenere il regime siriano, Cina e Russia impedire interventi esterni in violazione alla sovranità di Damasco, Arabia Saudita e Qatar aiutare gl’insorti e il resto della comunità internazionale a fare da coro a favore della democrazia. La realtà è molto più complessa. L’Iran non vuole perdere l’alleato siriano, ma può continuare ad aver sponda in Libano anche senza Damasco. L’Arabia Saudita vuole indebolire in modo decisivo l’influenza iraniana, ma sa che un successo in Siria darà fiato ai fermenti nel regno. Hizb’Allah avrà anche mandato dei combattenti a sostegno di Assad, ma deve pensare a un futuro oscuro e sotto assedio se il regime cade, risparmiando il massimo delle sue forze per parare un ritorno controffensivo da parte israeliana e/o di alcune grandi fazioni libanesi. Israele è disperato per la caduta di un autocrate ben conosciuto e preoccupato per l’ascesa di un partito islamista meno neutrale nei fatti riguardo la questione palestinese. Il Qatar vuole capitalizzare sui successi di Al Jazeera nell’intera stagione rivoluzionaria, ma non vuole pensare nemmeno a una Costituzione ottriata per prevenire una pressione libertaria e non vuole guastare le relazioni con Tehran. L’Iraq, ha certamente bisogno di pace e quiete lungo le sue frontiere,
  • 18. 17 tanto più che alcuni partiti hanno relazioni alquanto strette con Tehran, ma al tempo stesso ha conti da regolare con Assad, ricordando che favorì il massiccio afflusso di jihadisti verso Baghdad per comprarsi stabilità e ordine. Cina e Russia non hanno niente di personale a favore della famiglia Assad, ma non vogliono l’artiglio dell’aquila americana su Damasco attraverso un’altra rivoluzione colorata o libica. Per questo la Siria è sul filo del rasoio e in questi mesi rappresenta il centro di gravità e il punto culminante della lotta della Rivoluzione Araba: se Assad resta, ri- schia una vittoria di Pirro in un Paese esausto e impoverito, ma offre altro tempo per chi non vuole il contagio; se a Damasco vince la rivoluzione, il primo governo sotto tensione sarà quello di Amman e al tempo stesso Algeria e Marocco risentiranno maggiormente della circolazione d’idee libertarie. Nessuno ha in realtà il controllo della situazione, da Washington a Latakia. Come al solito, la storia non si fabbrica, si fa.
  • 19. La vittoria sulla paura intervista a Vittorio Ianari Vittorio Ianari il mondo arabo lo conosce bene. Docente di islamismo dal 1993 al 2000 presso l’Istituto di Scienze Religiose dell’Università Lateranense, responsabile del settore ecumenismo e dialogo della Conferenza Episcopale Italiana, è autore di numerose pubblicazioni dedicate alla storia dell’Islam contemporaneo tra cui Chiesa, coloni e Islam. Religione e politica nella Libia italiana (Torino, 1995) e Lo stivale nel mare. Italia, Mediterraneo, Islam: alle origini di una politica (Milano, 2006). Sempre attento a tessere un ordito di legami tra le due 18 sponde del mare nostrum, padre Ianari insiste sulla grande occasione che la Primavera Araba rappresenta per l’Occidente: «Dobbiamo puntare con convinzione e pazienza sulle possibilità che si stanno dando nel mondo arabo, perché non è un processo destinato a chiudersi nell’arco di pochi mesi o di qualche anno. Vivremo il futuro prossimo misurandoci con questi problemi e non dobbiamo pensare che si tratti di novità di cui raccoglieremo i frutti rapidamente e senza traumi». Un auspicio che, a debita distanza da triti pregiudizi e rappresentazioni scontate, indica la strada di un avvenire comune per i popoli del bacino mediterraneo. Quali sono, a suo avviso, gli attributi generali che caratterizzano il complesso fenomeno della Primavera Araba, al di là delle specificità dei Paesi coinvolti nei sommovimenti dello scorso anno? Direi che possiamo individuare tre elementi. Il primo aspetto è la vittoria sulla paura ed è legato all’inatteso sviluppo della Primavera. Il superamento della paura, in Paesi oppressi e costretti da questo sentimento, è un fenomeno collettivo e, a livello mondiale, rappresenta un aspetto significativo ancora tutto da decifrare. Il secondo elemento è la dimostrazione che il cambiamento è possibile e risulta altrettanto importante perché veniamo da un quindicennio circa segnato da frustrazione, senso di realismo e rassegnazione. Nel 2003 le minacce d’intervento bellico nei confronti dell’Iraq da parte dell’amministrazione americana avevano mobilitato nelle piazze d’Occidente, ma non solo, milioni di persone. Quella voce popolare, evidente ed esplicita, non fu ascoltata e il movimento si sciolse come neve al sole. Il terzo attributo è la fiducia e si ricollega sia alla questione della mentalità, sia al discorso politico. Mi sembra che dalle rivolte arabe siano emerse una grande domanda e un’altrettanto grande offerta di fiducia fra giovani e meno giovani, fra uomini e donne, fra musulmani e minoranze cristiane: perfino nei riguardi dell’Occidente. È stato detto da più parti che i mezzi di comunicazione hanno fatto la rivoluzione e senza dubbio sono stati un volano potente. Ma la vera domanda, che tradisce un’aspirazione profonda, è se quei popoli possano fidarsi dell’Occidente. Mi pare che si stiano facendo dei passi nella direzione di una certa reciprocità, che – da parte nostra – presuppone la disponibilità a fidarsi dei movimenti islamisti. La manifestazione del 15 febbraio 2003 fu la manifestazione planetaria contro la guerra preventiva in Iraq. Perché mette in relazione quella grande mobilitazione pacifista con la Primavera Araba? Il Santo Padre ispirava quel movimento e le bandiere della pace erano esposte in tutta Italia. È stato un fenomeno straordinario che, tuttavia, ha subito una pesante sconfitta. Mi colpì profondamente il modo imprevedibile con cui si combinavano fattori molteplici, sia in ambito locale sia a livello internazionale, nel segno della conservazione dello status quo. Otto anni più tardi è stato dimostrato che la paura può esser vinta. Questo mutamento epocale avrà conseguenze e ripercussioni ben oltre i confini del mondo arabo. Non a caso richia-
  • 20. A prosito di cambiamenti e trasformazioni, come muta – dopo gli eventi del 2011 – il rapporto tra Islam e politica? L’Islam politico oggi, in Tunisia ed Egitto, è chiamato a governare. Questo avrà delle conseguenze, perché un conto è un Islam politico che riflette in termini teorici dall’opposizione, altra cosa è praticare un’opzione di governo e operare profonde mediazioni con la realtà delle cose. Cos’è cambiato, invece, sul piano del dialogo interreligioso? Questo è un problema più complesso, a mio avviso direttamente riferibile al rapporto con l’Occidente. E la vera scommessa riguarda il futuro. Se assumerà responsabilità di governo, l’Islam politico dovrà costruire un insieme di relazioni sia all’interno dei singoli Paesi, sia in ambito internazionale. In questo senso può progredire ed evolvere anche il dialogo inter-religioso. terzo millennio. È in questo quadro che s’inseriscono le donne, dotate di una voce sorprendentemente forte. Ma anche in questo caso la questione dirimente riguarda la maturazione dell’Islam politico, la trasformazione della mentalità e il profondo mutamento culturale. Si tratta d’un processo complesso e articolato. Indichi almeno un attributo specifico per ciascun Paese coinvolto nella Primavera Araba. Per la Tunisia il coraggio di averci creduto e reso possibile l’impossibile. Per l’Egitto, la tempistica: cioè l’aver colto il momento giusto. Per la Libia, forse, una sintesi fra questi due aspetti. Quali prospettive e quali scenari si aprono a questo punto? Dal punto di vista dell’Occidente e dell’Europa, la vera scommessa è non perdere quest’occasione irripetibile. Ecco perché occorre rigettare gli sconsiderati atteggi- Per l’Europa in crisi una democratizzazione del mondo arabo rappresenta una chance importante: soprattutto per l’area mediterranea... Direi proprio di sì, e rappresenterebbe un’inversione di tendenza rispetto al passato, agli anni in cui l’Europa ha preferito interloquire con regimi che disconoscevano i diritti e la democrazia. Non cogliere l’occasione che oggi ci viene offerta sarebbe incredibilmente miope, anche rispetto alla crisi europea. Come giudica il ruolo delle donne nei movimenti della Primavera Araba? Queste società si sono dimostrate molto più mature di quanto si potesse ritenere e perfino di quanto potessero ritenere gli stessi attivisti per i diritti umani operanti nei vari Paesi. L’anno scorso lo confermava anche un giornalista che, in Tunisia, si è speso molto nelle battaglie democratiche. Avevamo una rappresentazione errata delle giovani generazioni arabe. Credevamo che fossero ormai conquistate a un pallido benessere pagato con la mancanza di libertà. In realtà si sono rivelate molto consapevoli dal punto di vista politico, sociale e culturale. Hanno manifestato un amore nei riguardi dei propri Paesi che sembra configurare un “nazionalismo” del la nuova stagione ma gli eventi che, nel 1989, portarono alla caduta dei regimi socialisti. La Primavera, pur con tutte le sue ambiguità e incompiutezze, rappresenta una grande promessa di trasformazione. 19 menti di chiusura e disinteresse. Non lo dico solo per l’attenzione e l’amore che mi legano a quei popoli, ma anche – e soprattutto – per il ruolo che essi avranno nel nostro futuro. Del resto, siamo accomunati dallo stesso mare e dalla stessa Storia. Non dobbiamo dimenticarlo mai.
  • 21. l’utopia di tahrir di Vincenzo Mattei 20 La sera dell’11 febbraio 2011 le dimissioni di Mubarak trasformarono le strade di tutto l’Egitto in un festeggiamento che andò avanti per tutta la notte. Durante le prime settimane dalla caduta del dittatore, gli egiziani si sono riscoperti orgogliosi della propria capacità di poter raddrizzare le sorti dell’ingiustizia alle quali sembravano destinati. Nei taxi, nei negozi, nelle banche e negli uffici pubblici tutte le radio erano sintonizzate su dibattiti politici invece che sul solito sermone del Corano. Si poteva percepire l’entusiasmo sui visi delle persone o camminando per le strade, ovunque si respirava un’aria nuova; parlando con la gente, sembrava che la rivoluzione avesse messo d’accordo tutti gli egiziani, riscoprendone una nuova anima, dai professori agli alunni, dai commercianti agli statali, dai ricchi ai poveri, dai musulmani ai cristiani. Le sensazioni descritte sopra si sarebbero andate dissipando con il passare dei mesi, dietro una spirale di accadimenti e provocazioni che alla lunga hanno messo in ginocchio la volontà e la spinta popolare al cambiamento. Infatti, era passato meno di un mese che iniziarono i primi segni di reazione da parte del vecchio regime: il 5 marzo veniva bruciata la chiesa copta del quartiere povero di Embeba. Il fatto suscitò clamore e indignazione nella comunità cristiana e nei media internazionali più che in quelli egiziani che, ancora imbevuti della sbornia rivoluzionaria, minimizzarono parzialmente l’accaduto. Ma non passò inosservata la nuova occupazione di piazza Tahrir da parte degli Shabab (giovani) il 9 aprile, quando ci fu uno scontro con le forze dell’ordine e molti mezzi civili e militari furono dati alle fiamme, la piazza bloccata e recintata con filo spinato e bandoni dei vicini cantieri e con le carcasse bruciate degli autoveicoli. Tale escalation di scontri diretti tra i due blocchi, i militari e gli Shabab, si è andata ripetendo ciclicamente: a maggio 2011 i giovani hanno occupato Tahrir; poi di nuovo a giugno quando hanno capi-
  • 22. da Tunisi al Cairo to che i militari non avevano nessuna intenzione di mollare il potere; a settembre con la distruzione dell’ambasciata israeliana al Cairo è stato il caos nella capitale; a ottobre la carica dei blindo militari sui cristiani copti che manifestavano con una marcia pacifica davanti alla TV di Stato ha provocato 23 vittime; a novembre con gli scontri in via Mohamed Mahmud hanno perso la vita 43 persone; a dicembre in via Qasr El Aini e a febbraio 2012 sono avvenuti nuovi scontri in via Mohamed Mahmud dopo che c’erano stati 73 morti allo stadio di Port Said a nord del Paese. In tutti questi casi le sommosse sono state causate da comportamenti e provocazioni della polizia militare e ordinaria che usavano la violenza per sedare le dimostrazioni in strada, causando di conseguenza la reazione dei giovani. Eclatante è stato il caso di via Mohamed Mahmud dove la polizia militare ha praticamente preso a bastonate donne, bambini e anziani che protestavano con un sit-in pacifico per chiedere gli alimenti, di cui avevano diritto, per i parenti morti a gennaio 2011, o di via Qasr el-Aini dove una ragazza è stata letteralmente trascinata per il velo, con il torace seminudo mentre un soldato le dava calci sullo stomaco. È incomprensibile come i militari non siano riusciti a gestire situazioni di ordinaria amministrazione civile; se il loro atteggiamento poteva essere scusabile nei mesi iniziali del post-Mubarak, non poteva essere meno tollerato dopo quasi un anno in cui si trovavano praticamente a governare il Paese. Perché tutte queste azioni destabilizzanti? Chi si nasconde e manovra dietro le quinte? E soprattutto, perché i militari non sono (o non vogliono essere) in grado di fermare queste escalation di violenza? Quanto l’esercito è colluso con i nostalgici appartenenti al regime di Mubarak? Secondo il blogger Hossam elHamalawy, i militari controllano circa il 40% dell’economia egiziana, producendo dalla pasta ai missili da guerra; una macchina così potente e ramificata dentro il territorio egiziano quanto può essere inte- 21
  • 23. ressata ad abbandonare le leve del potere? I militari egiziani sono da più di trent’anni i migliori interlocutori della politica estera americana, già prima degli accordi di Camp David, e ciò costituisce un altro fattore di non secondaria importanza per il reale interesse a livello diplomatico internazionale a mantenere i generali al potere. L’Egitto è la chiave di volta strategicamente troppo importante per la posizione geografica: è al confine con Israele e gestisce le rotte del canale di Suez. La maggior parte degli attivisti non è disposta a iniziare discussioni o dibattiti sulla situazione politica egiziana e sul possibile cammino democratico del Paese fintanto che i generali sono al potere. Questa è stata la causa principale del boicottaggio da parte di moltissimi giovani alle elezioni generali tenute a novembre e terminate a metà marzo. Ovviamente questo loro atteggiamento radicale e intransigente ha di fatto avvantaggiato quei partiti islamici e islamisti 22 dei Fratelli Musulmani (FM) e dei salafiti, a discapito dei partiti laici e di sinistra. La posizione degli Shabab è ferma, perché vedono nei metodi impiegati dall’esercito lo stesso modo di rispondere che aveva la polizia segreta di Mubarak: arresto arbitrario dei giovani in piazza, processi militari a civili, uso indiscriminato della violenza per reprimere le manifestazioni… tutti mezzi che riportano alla memoria i sistemi usati dal vecchio regime. I giovani hanno continuamente rifiutato e osteggiato i vari governi imposti di volta in volta dai militari, domandando la formazione di un governo di unità nazionale capeggiato dalle figure politiche più cari- smatiche e con l’adesione di tutte le forze politiche presenti nel territorio. Un governo in grado di condurre il Paese durante il periodo di transizione per confluire verso vere elezioni libere e la redazione di una nuova Costituzione. Gli Shabab, già subito dopo la caduta di Mubarak, avevano chiesto immediate elezioni politiche da tenere a marzo del 2011; per loro qualsiasi partito avesse vinto le elezioni sarebbe stato legato da un patto con la nazione per il proseguimento della spinta rivoluzionaria. Ora invece i FM si propongono più come dei normalizzatori dell’agitata situazione nel Paese. Un altro fattore destabilizzatore, oltre gli scontri, è stata ed è la crisi economica in cui versa il Paese, che si trova sull’orlo della bancarotta. Se non ci fossero stati aiuti finanziari dai Paesi del Golfo, dall’Arabia Saudita e dagli USA, il Paese sarebbe già economicamente saltato. I vari governi nominati dai militari non sono stati in grado né di trasmettere fiducia ai giovani, che li hanno accusati di lentezza del processo democratico, né di raddrizzare la situazione economica. Questa stagnazione finanziaria, di congiunto con gli scontri ciclici in strada, sembra rientrare in un piano studiato a tavolino per sgonfiare la spinta e l’entusiasmo rivoluzionario. Infatti la maggior parte degli egiziani sono estenuati dalla precaria situazione in cui si trova il Paese, vogliono che la vita torni alla normalità e che si creino posti di lavoro piuttosto che assistere inermi agli scontri in piazza. Indubbiamente c’è consapevolezza che ci sono movimenti controrivoluzionari che cercano di destabilizzare il Paese, ma il popolo accusa soprattutto i giovani della situazione attuale, divenuti oggetto di una campagna denigratoria da parte degli apparati di stampa (ancora pieni di simpatizzanti del vecchio regime e facilmente corruttibili) che li indicano come i veri responsabili degli scontri e in ultimo della crisi economica. Quindi di fatto la gente pensa che i giovani, creando caos, impediscono il ritorno del turismo di massa che costituiva ai tempi di Mubarak quasi il 30% delle entrate dello Stato. La Primavera Araba si sta trasformando in un inverno perché il contesto internazionale è completamente diverso da quello che poteva esserci nel Novecento. I giovani egiziani si sono mobilitati per rivendicare il loro futuro, per avere una vita decente, per avere un lavoro rispettabile, per avere la possibilità di comprare una casa, di sposarsi e di creare una famiglia, di avere buoni studi, una pensione, l’assistenza
  • 24. quanto i militari saranno disposti a farsi da parte e divenire con il tempo un ordinario esercito professionale, senza commistioni nella politica e nell’economia del Paese. La sfida è ardua, anche perché gli egiziani sentono molto la religione e hanno una concezione patriarcale della società che li rende più conservatori che progressisti, tanto è vero che molti, dopo mesi e mesi di stenti, incominciano ad avere nostalgia del regime di Mubarak durante il quale rinunciando alla giustizia avevano la sicurezza. L’utopia di Tahrir è durata 18 giorni, i ragazzi hanno vissuto come in una comune, dove ognuno era sé stesso e dove non c’era distinzione di classe, di religione, di pelle; hanno vissuto sotto un tetto comune: il cielo del mondo. Per questo Tahrir lascerà un’eredità importante e pesante, non solo per le future generazioni egiziane, ma per tutto un movimento sotterraneo che è emerso, da Los Indignados a Occupy Wall Street. Potrebbe essere l’inizio di un’era, da Tunisi al Cairo sanitaria… per avere una ripartizione più egalitaria della ricchezza in un quadro di giustizia sociale che sia veramente reale e non solo sulla carta. Ma in un contesto internazionale permeato da politiche neoliberiste non sembra possibile attuare neanche politiche neo-keynesiane, in un quadro appunto in cui lo Stato assume un comportamento attivo e presente nell’economia del Paese, compensando le disfunzioni del settore privato. Senza entrare nella polemica della crisi finanziaria del 2008, che è stata una crisi di sistema, per fare in modo che la rivoluzione araba abbia successo, come qualsiasi altra rivoluzione (sempre in un quadro di richiesta di libertà e non nel senso classico di rivoluzione marxista) ci sarebbe bisogno di una ri-discussione a livello internazionale dei principi su cui si deve basare l’economia mondiale, per capire quali sono gli obiettivi e i fini che si vogliono raggiungere non come nazione, ma come specie umana, perché parafrasando lo scrittore egiziano Alaa al-Aswany: «La vita non è fatta di numeri, ma di persone». Tahrir ha convogliato milioni di persone e ha vissuto un’utopia, dove la fratellanza e il senso comune di appartenenza sovrastavano l’egoismo dell’individuo, non esistevano differenze di classe o di religione: quei milioni di individui erano un corpo unico, che le emozioni facevano fluttuare, allontanando la fatica dei lunghi giorni passati a dormire sui marciapiedi. Eppure durante l’ultimo anno si sono accentuate le divisioni e le fratture tra i diversi movimenti politici e religiosi. L’interesse particolare del gruppo, o dell’organizzazione (con maggior riferimento ai FM), ha prevaricato quello generale. Ora sarà da capire come si muoveranno i Fratelli all’interno dello spazio concesso loro dalle elezioni e dai militari. I FM, a differenza dei salafiti, sono dei veri e propri politici che hanno affinato le loro capacità vivendo nella semi-tolleranza dei vecchi regimi (Mubarak, Sadat e Nasser), ora dovranno abituarsi a lavorare allo scoperto e non nella clandestinità, dentro il quadro della dialettica politica democratica. Il loro compito non è facile, anche perché per risollevare le sorti e le condizioni economiche in cui si trova il Paese ci vorranno lustri, e sicuramente molte loro decisioni porteranno scontento. Gli Shabeb, dovranno organizzarsi politicamente per poter competere nel medio-lungo periodo con i FM, questo vale anche per tutti i partiti laici, sia di sinistra che di centro. Il processo democratico è solo agli inizi, bisognerà capire 23 di cui ancora è difficile definire i contorni, ma anche nell’Ottocento i primi moti insurrezionali avevano la caratteristica di sembrare solo fuochi di paglia, che vivevano l’arco di una stagione; con il tempo quei movimenti da eterogenei e divisi si sono coesi e organizzati, per poi portare a tutti quei cambiamenti e rivendicazioni che il Novecento ha materializzato. I tempi non sono ancora maturi per poter stilare delle stime definitive, il cammino è ancora lungo, ma riuscire a fare una rivoluzione è più di un buon inizio, è qualcosa di straordinario.
  • 25. la maledizione del petrolio di Farid Adly 24 Molti sostengono che i libici sono tutti ricchi. Non è così. La Libia è un Paese ricco. I libici invece sono, nella stragrande maggioranza, poveri; hanno vissuto, a causa della dittatura e del controllo dispotico sulle risorse petrolifere, al di sotto delle straordinarie opportunità che il Paese offriva: grandi risorse con una popolazione esigua. Il male più oscuro che colpisce la gioventù libica è quello della frustrazione a causa della disoccupazione. In Libia i giovani sotto i venticinque anni rappresentano il 47% della popolazione, e la percentuale dei disoccupati è più alta che in Egitto. E come in tutti gli altri Paesi arabi, per i giovani senza lavoro è difficile trovare una compagna con cui convolare a nozze e costituire una famiglia. A questo si aggiunga la crescente crisi abitativa provocata dalla sempre più consistente espropriazione dei terreni per destinare grandi aree dei piani regolatori generali allo sviluppo turistico della famiglia Gheddafi. Non a caso, le prime avvisaglie della rivolta in Libia si sono avute a gennaio, assieme alla rivolta tunisina, all’occupazione di case popolari e all’assalto dei cantieri delle ditte edilizie straniere operanti nel Paese, soprattutto sudcoreane. Per evitare lo sviluppo di questa protesta, il regime ha promesso di investire ventiquattro miliardi di dollari USA per un piano casa e per lo sviluppo locale. Sempre in quel periodo il regime ha cercato di correre al riparo e ha emesso una serie di provvedimenti per alleggerire il peso della crisi economica che gravava sulle famiglie. Il 10 gennaio 2011, infatti, «sono state ridotte le tasse sulle derrate alimentari e in particolare sul latte per bambini ed è stato annunciato lo stanziamento di sei miliardi per il sussidio per calmierare i prezzi dei prodotti di prima necessità, compresi medicine e carburanti». Secondo uno studio del Ministero libico delle Finanze e della Pianificazione, pubblicato nel febbraio 2011, poco prima della Primavera libica quindi, il 29% delle famiglie vive sotto il livello di povertà. Lo studio determina il reddito minimo necessario per una famiglia in 392 dinari (313 di dollari USA). Secondo l’agenzia semiufficiale Libya Press, questo dato è in crescita nel secondo decennio del nostro secolo: le persone colpite dalla povertà sono passate da 605 mila unità nel 1992 a 739 mila nel 2001 fino a circa due milioni nel 2010. L’altro dato preoccupante in un Paese petrolifero, che gode di un reddito pro capite annuo tra i più alti in Africa (13,800 di dollari USA), è quello sulla disoccupazione nel 2010: il 30% della forza lavoro. Paragonandolo ai dati degli altri Paesi arabi limitrofi è il peggiore (Marocco 9,8%, Algeria 9,9%, Tunisia 14%, Egitto 9,7%). Ecco perché la gioventù libica ha dato via all’insurrezione contro la dittatura della famiglia Gheddafi: “pane e libertà!”. Le frustrazioni originate da quelle contraddizioni spiegano anche la virulenza della rivoluzione libica rispetto alle altre Primavere Arabe. Il colonialismo italiano ha fatto male alla Libia e ai libici. Sia nel periodo giolittiano sia in quello sanguinario fascista. Anche di recente nel dibattito specialistico si fa l’errore di relativizzare il colonialismo italiano alla luce di quelli britannico e francese, sostenendo la legittimità dell’azione militare e colonialista per ottenere un posto al sole. È il prolungamento di quel pensiero pascoliano espresso nel discorso La grande proletaria si è mossa, pronunciato dal poeta a Barga, il 26 novembre 1911, dove giustificava l’invasione della Libia in nome della povertà dell’Italia. Nei mesi precedenti la guerra, per creare consenso, stampa e Chiesa hanno avuto un ruolo di primo piano nel fornire e rendere popolare il pretesto ideologico che avallasse la conquista della Libia. Il Corriere della Sera, per esempio, sosteneva che il territorio libico fosse una miniera di grandi risorse naturali, e che avrebbe potuto risolvere il problema della penuria di materie prime della nazione. A sostegno della penetrazione commerciale e finanziaria italiana del Banco di Roma, la stampa cattolica parlava della guerra come una «crociata contro gli infedeli».
  • 26. da Tunisi al Cairo Questo «far male» è stato documentato da molti studiosi italiani, come dal collega Eric Salerno nel libro Genocidio in Libia e dal professore Angelo Del Boca. Ma i loro libri sono rimasti nella cerchia specialistica e le loro ricerche non sono diventate una presa di coscienza collettiva nazionale: nel sentire generale è rimasto, fissato e difficile da rimuovere, il luogo comune elevato a dogma: «Italiani brava gente». Risuonano ancora nella mia mente le parole dello storico libico Mohamed Mustafa Bazama, che da ragazzo è stato un balilla e ha potuto così studiare nelle scuole italiane e ottenere la licenza di quinta elementare, l’allora limite della scuola dell’obbligo: «A Bengasi eravamo soltanto in tre libici ad aver conseguito la licenza elementare, perché le scuole italiane erano aperte solo agli italiani e non alla popolazione araba indigena. Molte delle famiglie naturalizzate, però, hanno seguito i soldati italiani nella loro ritirata e sono partiti per Roma». Dopo l’indipendenza il professor Bazama, con la sua licenza elementare italiana, ha ricoperto l’incarico di sottosegretario all’Istruzione, ha tradotto documenti dall’italiano e ha pubblicato un’ottantina di libri, alcuni ancora in uso presso le università libiche. Dopo il colpo di Stato di Gheddafi, avendo rifiutato di collaborare, come molti altri intellettuali è stato spedito all’estero dal nuovo potere militare, dove si è occupato della direzione di una casa editrice a Beirut e poi in Italia, a Milano e a Cagliari. La chiusura mentale del «colonialismo straccione» – come lo definiva Bazama – ha ridotto il Paese a un’arretratezza peggiore rispetto a quella del 1911, al termine dell’occupazione turca. Nella prima fase dell’indipendenza, la maggior parte della classe dirigente del Paese era costituita da esuli che avevano studiato nelle università egiziane e tunisine, i due Paesi arabi confinanti e che erano – e sono tuttora – legati intimamente alla Libia. Un’altra fonte che conferma questa tesi del «far male» è la relazione della Commissione ONU sulla Libia, che in un rapporto al segretario generale de- cretò: «Il Paese non ha né la base economica né una struttura amministrativa per sostenere il passaggio all’indipendenza. Si rendono necessari almeno dieci anni di amministrazione fiduciaria internazionale». Il colonialismo italiano ha anche sbadatamente accantonato le ricerche petrolifere in Libia, malgrado fosse stato proprio un italiano, Ardito Desio, il primo a disegnare le cartine geologiche di quei luoghi. La primigenia manifestazione della presenza di idrocarburi nella Libia italiana si è avuta nel 1914, quando del greggio fuoriuscì durante uno scavo di un pozzo d’acqua. Tra il 1926 e il 1940, Desio esplorò la Libia a fondo, «a dorso di cammello» dicono le cronache del tempo. Nel 1933 disegnò la prima carta geologica della regione, che avrebbe aggiornato poi nel 1939. La mancanza di fondi statali, l’arretratezza tecnologica dell’Italia di allora (che non possedeva trivelle per scavi in profondità) e il disinteresse strategico del governo lo costrinsero però a interrompere molto presto la ricerca sistematica di petrolio. Quando, a metà degli anni cinquanta, gli statunitensi e gli inglesi ottennero le prime concessioni, si avvalsero proprio delle cartine di Desio, reperite negli archivi italiani. La scoperta del petrolio alla fine degli anni cinquanta e l’inizio delle esportazioni petrolifere hanno avviato un processo di centralizzazione del potere nelle mani di pochi, imponendo nella società libica un livello di corruzione tale da minare le ragioni stesse della convivenza. Le trame internazionali e l’interesse di alcuni Paesi verso la Libia, allora come ora, sono legati alle sue risorse e capacità finanziarie. La manna dal cielo, come dicevano molti negli anni sessanta, non è stata trasformata dai governi che si sono succeduti in questo mezzo secolo, sia durante la monarchia sia nell’era repubblicana, in politica di sviluppo e occupazione per preservare il benessere delle future generazioni, quando tra un mezzo secolo i pozzi di petrolio si esauriranno. La Libia era diventata un Paese che attirava gli sciacalli da ogni dove, i quali agivano con la tecnica del mordi e fug- 25
  • 27. 26 gi, e una meta di questuanti che chiedevano aiuti e sovvenzioni in cambio di un esercizio di salamelecchi e genuflessioni di fronte al Qaid. Anche ai tempi della monarchia si era vista una volontà di utilizzare le capacità finanziarie per dare al Paese un prestigio a livello arabo. Durante la Conferenza del vertice arabo del 1964, il principe ereditario, in rappresentanza del re e con il suo consenso, ha elargito al fondo interarabo di solidarietà una somma equivalente a quella messa a disposizione da Arabia Saudita e Kuwait messi insieme. Il giorno dopo la divulgazione della notizia, il quotidiano di Bengasi al-Haqiqa ha messo in prima pagina la foto di un bambino libico di famiglia povera senza scarpe e con i vestiti stracciati, con la didascalia eloquente: «Anche questo bambino libico ha bisogno di solidarietà!». Il giornale è stato chiuso per ordine della corte. Questa pratica di attirare sciami di questuanti era stata portata all’ennesima potenza dal satrapo Gheddafi, con enormi sperperi di denaro pubblico e con la chiusura di ogni orizzonte di benessere per i libici. Le manovre delle potenze egemoni in Libia negli anni sessanta, Gran Bretagna e Stati Uniti, attorno al futuro della monarchia erano volte a garantire i loro interessi economici e soprattutto strategici. Il petrolio libico è più vicino ai Paesi di consumo e soprattutto è a ovest del canale di Suez, ma il fattore strategico più importante era quello militare. La Libia poteva essere una spina nel fianco del nascente nazionalismo arabo nasseriano, in ascesa in tutto il mondo arabo. Le azioni diplomatiche e gli intrighi di palazzo che queste due potenze, ciascuna per conto suo e qualche volta anche in contrasto, avevano posto in essere negli anni sessanta hanno portato al colpo di Stato del 1969. Una congiura orchestrata per garantire un passaggio di potere dall’anziano e malato re al suo successore fantoccio, con un sistema repubblicano di facciata ordito da Londra, era stata dribblata dal colpo di Stato degli Ufficiali liberi, il 1° settembre 1969, quattro giorni prima rispetto all’ora X del piano britannico. Uno scippo che spiega la mancata reazione negativa di Washington e Londra. Le grandi disponibilità garantite dalle entrate petrolifere hanno rafforzato la tendenza al centralismo del sistema di potere, per il quale il regime militare era perfetto. Ma l’anomalia del sistema cosiddetto «jamahiriyano» è la riduzione del sistema a una persona sola. Gheddafi, infatti, ha deliberatamente evitato, nei quattro decenni di potere, la costituzione di istituzioni politiche e amministrative che potessero rappresentare una cerniera tra la sua persona e la popolazione, per distribuire la rendita petrolifera, trattenuta strettamente in suo esclusivo potere. Ed è questo il segreto della sua longevità politica. Ma la nota da porre al centro della discussione è un’altra. C’erano talmente tanti soldi provenienti dal petrolio che potevano essere spesi per iniziare a far stare la gente meglio di quanto stia oggi. Ciò che è incredibile è che qualcuno sia rimasto al potere per quarant’anni e non l’abbia fatto. È questo che pensano i nuovi dirigenti libici, di formazione tecnica di alto livello e abituati a ragionare in termini di analisi strategiche studiate nelle stesse università statunitensi e britanniche. Un bagaglio culturale che li renderà capaci di tenere testa a ogni strategia di sfruttamento a senso unico. In ogni caso la questione non è chiusa. La fine del regime tirannico non significa la fine delle questioni politiche. Il petrolio è stato una maledizione, per trasformarlo in benedizione sono necessarie politiche razionali e coerenti che partano dagli interessi di tutti: quelli del popolo libico che vive sul territorio, delle nazioni che contribuiscono con il loro know-how al processo produttivo e dei Paesi consumatori. La permanenza del petrolio come risorsa strategica a livello mondiale, specialmente in seguito ai recenti incidenti nucleari in Giappone, fa sì che i risvolti politici della ricchezza petrolifera in Libia siano positivi. In questo momento per la Libia la ricchezza petrolifera è un fattore di unità e non produrrà azioni centrifughe. Questo aspetto lo si poteva cogliere bene nelle minacce del figlio del Qaid, Sayf al-Islam, in un suo discor-
  • 28. so famoso che molti insinuano gli sia costato, dopo la sua cattura nel deserto libico, tre dita della mano destra (nella foga retorica e per rendere più esplicita la minaccia, aveva fatto roteare la mano, con l’indice puntato, a mo’ di manganello): «La Libia non è la Tunisia né l’Egitto. La sua ricchezza più importante è nel sottosuolo. Dovrete migrare dalla Libia perché l’estrazione del petrolio si interromperà, le compagnie petrolifere lasceranno la Libia, gli stranieri lasceranno la Libia, i pozzi petroliferi si bloccheranno e domani non ci sarà petrolio». La sua profezia non si è avverata. La Libia è stata liberata dalla dittatura, è unita, e i problemi che si evidenziano sono il frutto dell’inesperienza e delle difficoltà di interiorizzare comportamenti democratici in un Paese che da secoli non aveva sperimentato la democrazia, se non in un brevissimo periodo dopo l’indipendenza. L’interesse del mondo industrializzato per il petrolio libico, se ha mosso le diplomazie per l’intervento, non lavorerà per la destabilizzazione né lascerà la situazione in condizioni di anarchia. Il Paese è sotto la lente delle diplomazie e del mondo degli affari. Nessuno degli osservatori esterni ha interesse alla somalizzazione della Libia e questo è un bene, perché non sempre le guerre civili sono l’espressione di contraddizioni interne; anzi sono quasi sempre la conseguenza di interferenze esterne. Il continente africano è una palestra per questo sport del divide et impera. E di questo, credo, i libici sono tutti consapevoli. Dal 2004, anno del ritorno della Libia sulla scena internazionale, dopo gli accordi per gli indennizzi ai familiari delle vittime di Lockerbie e la rinuncia del regime al proprio programma nucleare, le relazioni con l’Europa funzionavano bene, grazie soprattutto all’oro nero. In Africa, la Libia è il quarto produttore di petrolio. Ne esportava un milione e mezzo di barili al giorno, di cui l’80% in Europa. L’acquirente principale era l’Italia, seguita da Germania, Francia e Spagna. Già alla fine del 2011 è stata raggiunta la quota di metà della produzione precedente il 17 febbraio 2011. Inoltre va sottolineato che più della metà del Prodotto Interno Lordo libico era assicurato dalle entrate provenienti da petrolio e gas. Le esportazioni toccavano il 95% della produzione e paradossalmente la Libia importava benzina e olii industriali. Le sue riserve sono le più importanti del continente, il 3% delle riserve mondiali. Le entrate petrolifere in Libia, 27
  • 29. secondo un rapporto della Banca Centrale Libica, sono state nel 2010 di 40,5 miliardi di dinari (32,43 miliardi USA), con una crescita del 61% rispetto all’anno precedente. Nel 2009, i proventi sono stati di 25,1 miliardi di dinari (20 miliardi $ USA). Enormi capacità finanziarie sono state sperperate in progetti faraonici senza futuro e in armamenti inutili se non per la difesa dell’ex famiglia regnante. Questa esclusiva dipendenza dalla produzione petrolifera imporrà presto il raggiungimento di un quadro politico di stabilità. Chiunque tra le formazioni libiche decida di lavorare in senso contrario non farebbe altro che pestarsi i piedi. La ripresa rapida della produzione petrolifera e del gas, molto prima del raggiungimento di una stabilità politica, è un altro segno dell’importanza del settore e della consapevolezza dei nuovi dirigenti libici che la questione economica sia fondamentale per la stabilità. In riferimento agli effetti dell’instabilità della situa- 28 zione libica subito dopo la cruenta morte di Gheddafi, sono state pubblicate molte analisi di esperti internazionali sulla mancanza di un’identità nazionale libica e su come a questa identità sia stata data forma dal colonialismo italiano e su come questa sia stata plasmata, in senso anticoloniale e antimperialista, da Gheddafi: non ci sono fandonie più grandi di queste affermazioni. La Libia era una provincia unica, con capoluogo Tripoli, già sotto gli ottomani e ha vissuto un’esperienza di autonomia da Istanbul con la dinastia Karamanly. In Libia la nascita di partiti nazionali risale a subito dopo la Seconda guerra mondiale e quindi nessun merito, in questo frangente, va dato all’ex dittatore. Il regime di Gheddafi è stato casomai un elemento di divisione e di alimento per il fenomeno ridicolo del tribalismo, perfettamente funzionale al mantenimento del potere nelle mani del defunto Qaid. La mia conclusione è che la questione petrolifera sia un fattore di aggregazione e non di disgregazione. E questo lascia molto sperare in ripercussioni positive sul processo politico in corso e nella rapida normalizzazione delle relazioni internazionali del Paese, sulla base dei principi della parità e dell’uguale dignità. La società libica inoltre deve affrontare la questione cruciale del futuro senza petrolio. Le riserve attuali e il livello di produzione permetteranno alla Libia di avere un reddito garantito dalle risorse energetiche per altri ottanta, cento anni. Cosa fare dopo? Cosa si lascerà alle future generazioni, visto che finora il regime tirannico ha sperperato i proventi in armi, lussi per la famiglia regnante gheddafiana e in investimenti finanziari fallaci nelle economie dei Paesi industrializzati? Il Paese ha bisogno di pianificare una politica economica orientata al futuro, volta a creare occupazione e produzione, riservando alle energie alternative, al turismo, all’artigianato e piccola industria, all’agricoltura e all’allevamento di base un ruolo centrale. Tornare alla Libia degli anni cinquanta che esportava grano e bestiame non è una follia, ma un ritorno alla realtà dopo l’ubriacatura da petrolio. Una politica siffatta chiede anche di destinare una consistente parte del Prodotto Interno Lordo alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte dalla folle guerra voluta dal despota contro la sua gente, e soprattutto di non imbarcarsi in una politica di riarmo; la Libia non ne ha bisogno, se non per garantire il controllo e la sicurezza dei suoi vasti confini. Annullare tutte le commesse militari già firmate dal regime e destinare quelle ingenti somme allo sviluppo civile del Paese, garantendo un impiego dignitoso alla gioventù libica e a molti lavoratori di Paesi vicini, è il miglior investimento che la Libia potrà fare per un proprio futuro. Le condizioni economiche e finanziarie ci sono, bisogna frenare politicamente la voracità degli affaristi nostrani che hanno lucrato sulla dipendenza del Paese dalle importazioni, e mettere un limite alle aspettative delle potenze industrializzate pronte a barattare le risorse energetiche con costosi e dannosi arsenali.
  • 30. intervista a Botros Fahim Awad Hanna Responsabile della formazione sacerdotale presso il seminario copto in Egitto, Monsignor Botros Fahim Awad Hanna è stato ordinato vescovo copto-cattolico nel 2006 dopo aver conseguito il dottorato in Teologia Biblica a Roma. Attualmente è vescovo ausiliare del Patriarcato di Alessandria. Come racconterebbe gli eventi egiziani del 2011? Direi che i giovani – e le donne in particolare – sono stati i grandi protagonisti del cambiamento, capaci di mobilitare gran parte della popolazione. Vivere per tanti anni sotto una cappa oppressiva, ignorando piaghe come l’analfabetismo dilagante e la povertà, è una cosa durissima. Oggi possiamo finalmente parlare di questi temi e godere di libertà d’espressione, anche se non basta e la strada sembra ancora molto lunga. degli affari esteri. Il Papa aveva detto che era necessario proteggere i cristiani in Iraq ed Egitto, e il governo del Cairo ha risposto che non accettava interferenze straniere negli affari interni, ritirando per due settimane l’ambasciatore presso la Santa Sede. Da quel momento in poi, lo stesso Grande Imam ha congelato il dialogo inter-religioso. Quali scenari si aprono adesso per l’Egitto? La mia impressione è che tutti i grandi nodi politici siano ancora da sciogliere. Non basta svolgere libere elezioni per il Parlamento. L’architettura istituzionale del Paese è ancora da definire e a livello economico la situazione peggiora pesantemente. Confido che la tornata elettorale per la carica presidenziale favorisca un’effettiva democratizzazione dell’Egitto. Oggi il governo è nelle mani del consiglio militare che ha appoggiato la rivoluzione e, per questo, è stato accettato dal popolo. Le cose, però, stanno cambiando: qualche Com’è cambiata in Egitto la situazione dei cristiani copti dopo la Primavera? Semplicemente non è cambiata. Prima, la “tranquillità” era garantita dal pugno di ferro. Adesso questo giogo si è allentato, ma la paura resta. La paura è un sentimento profondo, a cui ci si abitua troppo in fretta. Basti pensare agli attentati, alle chiese che bruciano e via dicendo. Non è per niente facile, per questo la gente continua ad aggrapparsi all’unico appiglio davvero certo: la fede. E rispetto al dialogo inter-religioso ci sono stati dei mutamenti? Non solo non si registrano significativi progressi, ma – per certi versi – la situazione è andata peggiorando. Il grande imam di al-Azhar ha fondato un ente che avrebbe dovuto favorire il dialogo inter-religioso. Si tratta della “Casa della famiglia egiziana”, preposta allo scioglimento e alla risoluzione delle controversie tra cristiani e musulmani. Questa istituzione è stata riconosciuta anche dal governo. Tuttavia, le cose non sono mutate nella sostanza. Le parole pronunciate dal Pontefice dopo l’attentato nella chiesa di Tutti i Santi ad Alessandria sono state accolte con freddezza dal Ministro da Tunisi al Cairo il dialogo mancato 29 scollamento si sta producendo e la fiducia si assottiglia progressivamente. Rispetto all’area mediorientale come possono mutare i rapporti politici con Israele? Si tratta di una questione cruciale legata al ruolo delle correnti islamiche che hanno la maggioranza parlamentare. Se queste forze si troveranno a formare il governo, avranno importanti responsabilità di politica estera e dovranno ridefinire le relazioni diplomatiche con Israele. È un passaggio delicatissimo e difficilmente prevedibile.
  • 31. 30
  • 32. 31
  • 33. la primavera in me di Said Chaibi Era il 20 febbraio 2011, ero appena tornato a casa da un lunga assemblea di un collettivo studentesco del nordest in cui avevamo discusso di ciò che stava accadendo nel Mediterraneo. La caduta di Ben Ali in Tunisia, l’allarme strumentale lanciato dall’allora governo Berlusconi sugli esodi previsti a Lampedusa, la caduta di Mubarak in Egitto e l’affermazione del popolo generazionale egiziano che era riuscito a creare un sentimento generale di voglia di cambiamento, e ciò che stava accadendo in Libia, erano solo pochi punti di mille riflessioni e acce- 32 si dibattiti che avevamo portato avanti per ore. Entro a casa e come faccio di solito leggo le notizie del giorno. Quando mi imbatto in un flash che dice “Movimento 20 febbraio, manifestazioni in molte città del Marocco, scontri a Rabat” e in quel momento non ho capito cosa mi sia successo, ma per un attimo sono andato in tilt! Il mio Paese d’origine, il Marocco, tutto d’un tratto non era quello che conoscevo. Il Marocco che ho conosciuto, un po’ attraverso le vacanze passate lì, ma soprattutto attraverso i racconti di mia madre, era il racconto di un Paese che si era lasciato alle spalle i postumi degli “anni di piombo” in un cui Hassan II “eliminava” ogni forma di dissenso attraverso la vio- lenza e che aveva trovato in Mohamed VI un re del popolo o meglio un re illuminato, che curava il suo popolo ed era al suo servizio. Un Paese che mi veniva descritto come un albero con le radici ben radicate nell’Africa, e nella cultura musulmana, e con i suoi prosperosi rami rivolti verso l’Europa e verso un progresso economico, sociale e democratico. E basando, forse troppo in buona fede, la mia costruzione identitaria su dei semplici racconti, anche perché quando andavamo giù era come vivere in una bolla di protezione visto il quartiere “perfetto” in cui risiedono i miei parenti, leggere quel flash mi ha fatto crollare addosso tutto quello che pensavo fosse il Paese dei miei genitori e delle mie origini. Perché quei ragazzi manifestano? Cosa rivendicano? Qual è la loro reale condizione? Questi erano alcuni dei mille quesiti che mi passarono per la testa. Da quel giorno volevo iniziare a comprendere meglio il mio Paese d’origine, ad ascoltare il suo popolo che, sotto un certo punto di vista, era ed è anche il mio. E così sono partito per andare a conoscerlo meglio, per conoscermi meglio. Con uno zaino sulle spalle e tante domande nella testa e nel cuore, eccomi arrivato a Tangeri, città di frontiera e luogo in cui si può iniziare ad assaporare, vedere e sognare l’Europa, visto che dista soli tredici chilometri dalla Spagna. Un sogno che riempe le banchine del porto attirando centinaia di giovani che si fermano incantati a guardare, non un semplice panorama, ma la prospettiva di una vita migliore. «Sei fortunato te che vieni qui da turista, prova a viverci qui!», mi disse un ragazzo che sembrava ce l’avesse con il mondo, ma soprattutto con quelli come me che sono nati e cresciuti in Europa. Non ci feci caso, anche perché avevo ricevuto migliaia di raccomandazioni dai miei genitori, dicendomi: «Non parlare troppo come al tuo solito» e quindi mi feci scorrere tutto e non entrai nel merito, risposi semplicemente «non è così». Muovendomi, con una media di circa cento chilometri al giorno e andando in tutte le più importanti città, avevo visto e conosciuto la vera situazione sociale del Paese. Un Paese senza ospedali per chilometri, ma che non si fa mancare una copertura quasi totale della rete per i telefoni mobili di ultima generazione. Contadini senza nessuna copertura né ospedaliera né scolastica che non sono mai usciti dal loro villaggio e che non mandano i figli alla scuola primaria, dicendo che la scuola costa troppo (cinque euro), ma intanto si comprano l’iPhone e magari non hanno neanche il credito
  • 34. namento più ampio, più vicino alla realtà, in grado di affrontare le sfide globali in termini di diritti e di mercato. In un Paese in cui chi è ricco e sempre più ricco e chi è povero lo diventa sempre di più, noi non capiamo perché il governo del Marocco non voglia dare la possibilità a tutti di essere partecipi alla vita del Paese. Vogliamo una sanità pubblica visto che ancora oggi c’è gente che non si può curare visto i costi delle cliniche private, in cui addirittura se ti operano devi comprare anche l’ago con cui ti ricuciono la ferita... assurdo. Vogliamo la scuola pubblica per tutti, non come adesso in cui la scuola privata è l’unico strumento per poter accedere ai posti di prestigio in tutti i settori. Vogliamo avere pari opportunità. Senza distinguo tra uomo e donna, tra famiglia borghese e operaia. Questo è quello che vogliamo». «Non c’è appena stato un referendum per dare più potere al Parlamento e alla popolazione? Introducendo anche la libertà di espressione?» «Solo menzogne! Il re aveva paura che succedesse ciò che era avvenuto in da Tunisi al Cairo per chiamare, perché non deve essere realmente utile quel bene. È semplicemente uno status. Un Paese in cui i giovani sono semplicemente appartenenti a un’altra cultura. Un’idea di cultura islamica moderna, tollerante, aperta, che si scontra con l’Islam ipocrita, radicale, tribale, e sotto un certo punto di vista, estremista sull’interpretazione del Corano, e sulla propaganda fatta per portare avanti tesi che non stanno sicuramente scritte in quel testo. Un Paese in cui l’immobilismo sociale è più che evidente. I figli della borghesia con una vita semplicemente uguale, se non maggiore in termini di consumo e opportunità, ai loro coetanei occidentali, poi i “figli del popolo”, emarginati invece nel luogo della non possibilità. Non possibilità che vi spiegherò meglio con questo dialogo che ho avuto l’ultimo giorno del mio viaggio, a Marrakech in mezzo al souk della città. Era sera e tutto d’un tratto incontro questo ragazzo molto gentile che mi offre un tè. “Salam Alikom ena Youssef”. Un incontro strano il nostro, ma sicuramente dettato dal destino. Dopo le presentazioni abbiamo iniziato a parlare un po’ del Marocco, della sua enorme ricchezza celata in quei giovani che vogliono far progredire non solo in senso economico, ma soprattutto sociale e in termini di diritti, il loro Paese per far si che non debbano più emigrare. «Te cosa fai nella vita?» gli chiesi, «studio Giurisprudenza all’università di Marrakech, lavoro e sono il coordinatore dei giovani del movimento 20 febbraio». «È per questo che hai i libri qui con te?» «Esatto, sennò non ho il tempo materiale di studiare. Lavoro 10 ore al giorno per pagarmi gli studi e dare una mano a casa».«Perché avete sentito la necessità di manifestare? Noi abbiamo sempre visto il Marocco come un laboratorio di crescita sociale dei Paesi del Maghreb». «A differenza di quello che hai sentito in giro, noi non vogliamo far cadere il re! Noi abbiamo sentito la necessità di unirci ai ragazzi di piazza Tahrir. Una necessità che deriva da anni di corruzione, di stato sociale assente e di politica riservata a pochi. Noi non stiamo chiedendo o ancor peggio istigando il popolo marocchino contro il suo re, ma stiamo chiedendo al re di rinnovare la struttura istituzionale, civile e democratica del Paese. Noi pensiamo che la nostra nazione abbia bisogno di un cambiamento radicale. La monarchia costituzionale esistente è semplicemente uno specchio per le allodole, perché sia il governo che il primo ministro non hanno poteri decisionali ed esecutivi reali, visto che devono sempre agire con il consenso del re. Noi vogliamo democrazia, perché in essa si cela la possibilità di un ragio- 33 Tunisia e Algeria. È stata un'operazione per metterci in difficoltà e sedare il sentimento di cambiamento immediato, proponendogliene una istituzionale con la forma del referendum. E purtroppo tanti dei nostri compagni all’inizio, erano favorevoli, poi hanno visto come venivamo comunque repressi, sia socialmente, politicamente che fisicamente». «Spero di rincontrarti» gli dissi e ci abbracciammo forte, come se fossimo sempre stati affianco a lottare. Ci salutammo, e in cuor mio ero pieno di rabbia e di tristezza per lui. Avevo incontrato un ragazzo identico a me che rivendicava in un altro Paese ciò che rivendicavo io.
  • 35. 34 L’unica differenza era che io avevo avuto la possibilità di crescere in un Paese più “civile”. Tre ore dopo andai all’aeroporto per prendere il volo di ritorno. Tornato a casa, iniziai a elaborare quello che avevo vissuto e conosciuto in un mese. Un Paese completamente differente da quello che conoscevo in cui realmente il disagio sociale non semplicemente esisteva, dilagava. Un Paese che dopo la sua indipendenza, purtroppo, non ha mai vissuto la libertà di opinione, ma che anzi veniva costantemente represso. Un Paese che ha visto traghettare la dittatura, perché di questo si trattava, di Hassan II, in una monarchia leggera, democratica e vicina ai suoi cittadini, distogliendo qualsiasi giovane e non più, dal ricercare il cambiamento dello stato di cose presenti. Incominciai a informarmi soprattutto nei siti e blog in giro per la rete, perché erano gli unici a fare informazione vera su ciò che accadeva in Marocco, visto che le nostre “democrazie occidentali” erano amiche, e molto di più con tutti i dittatori del Nordafrica. E li iniziai a capire qual era il nostro problema di comprensione su ciò che stava accadendo in quei Paesi. La questione era molto semplice. Quei ragazzi alla fine sono differenti da noi? Una democrazia Islamica, è di per sé una contraddizione in termini? Dobbiamo dargli una mano a costruire il loro futuro democratico? A tutti i quesiti la risposta era NO! Quei ragazzi io li considero come me, ossia dei G2. G2 del mondo. Seconde generazioni figlie della globalizzazione, quella buona ovviamente. Seconde generazioni che vorrebbero che al pari delle merci anche le persone si possano spostare senza problemi, conoscere il mondo, evolvere in una società globale equa, sostenibile, al passo coi tempi e poter essere elemento decisionale per una generazione che in un momento di crisi vede la migrazione come unica via di salvezza.
  • 36. E l’elemento di innovazione, rispetto alle vecchie letture, è che nel loro Islam l’idea di laicità è ben radicata.Perché nella nostra idea di democrazia, il fatto che i movimenti cattolici abbiano una rappresentanza forte sia culturalmente che istituzionalmente, sembra un elemento di pluralità e di espressione di tutti, mentre definiamo estremista e integralista qualsiasi movimento arabo? La questione è semplice, soffriamo di Eurocentrismo. “Noi abbiamo la democrazia, ce l’abbiamo da più tempo, l’abbiamo inventata noi eccetera”. Ecco io penso che in questa lettura si celi il problema. È democrazia, il fatto che con il suo potere decisionale la BCE abbia optato per l’austerity senza se e senza ma, eliminando qualsiasi forma di stato sociale nei confronti dei cittadini europei? No, non lo è. E la vera “bomba”, quella sociale, è esattamente inquadrata nella posizione geografica del Mediterraneo, con il suo sud povero senza futuro, e il suo nord, che dista pochi chilometri di distanza, ricco e facente parte dell’Europa. Oggi non possiamo più escludere quei ragazzi da un’elaborazione comune di uscita dalla crisi. Perché oggi non vige solo una crisi economica, ma soprattutto identitaria e sociale e se non si daranno risposte a questi giovani, qualsiasi idea di modernità sparirà. Qualsiasi ragionamento di uscita dalla crisi sociale ed economica è destinato a morire se non sarà in grado di elaborare politiche rivolte al Mediterraneo. Ecco io penso che sia arrivato il momento, non tanto perché i tempi sono maturi, ma perché c’è una voglia, soprattutto generazionale, di cambiare il mondo. E questa voglia parte dai ragazzi cileni, e arriva sino ai ragazzi siriani, utilizzando le stesse parole d’ordine: democrazia, welfare per tutti e libertà. 35
  • 37. la battaglia di tunisi intervista ad Ayachi Hammami L’avvocato Ayachi Hammami è segretario generale della sezione di Tunisi della Lega Tunisina dei diritti dell’uomo e membro del Partito Iniziativa Democratica. 36 Come racconterebbe gli eventi epocali che hanno segnato la Primavera Araba? I popoli arabi hanno iniziato un profondo processo di trasformazione e alcuni sono ancora in rivolta, ad esempio in Siria e Bahrain. Spero che riescano a conquistare la libertà. Purtroppo, però, la Storia ci insegna che non sempre i democratici riescono a beneficiare di queste vittorie, di cui spesso approfittano gli estremisti. In Tunisia gli estremisti sono i salafiti, inclini all’uso della forza per una svolta politica in direzione dell’Islam puro. Alla base c’è un problema sociale ed economico: ovvero la discrepanza tra una élite, che vuole giocare la grande partita della libertà, e il popolo che chiede lavoro e reddito senza percepire l’inizio della rivoluzione. C’è poi l’annosa questione della democrazia. La maggior parte dei partiti politici crede che la democrazia si manifesti attraverso le elezioni, nei meccanismi e nelle proce- dure, e non nella condivisione di precisi valori come l’uguaglianza tra i cittadini, la libertà di coscienza e di religione, il rispetto dell’integrità fisica e morale. Il punto è che, oggi, gli islamisti non hanno la nostra stessa concezione di democrazia. Quale è stato il ruolo delle donne nella rivoluzione tunisina? In Tunisia la donna gode di una posizione privilegiata rispetto al resto del mondo arabo. Dal 1956 è in vigore uno statuto progressista che, ad esempio, vieta la poligamia. La forza delle donne nella società è cresciuta notevolmente. Hanno ottenuto la possibilità di svolgere ogni tipo di lavoro senza particolari divieti ed esistono associazioni, forti e riconosciute, come quella delle Donne Democratiche, che ne difendono i diritti: soprattutto in opposizione agli islamisti. Aumenta anche il numero delle donne che si iscrivono all’università e che partecipano alle manifestazioni di protesta, come si vede dalle immagini dei cortei. Le donne hanno condotto lotte dure e non vogliono perdere le libertà conquistate. La legge elettorale, che abbiamo votato in Tunisia, esige che le liste elettorali siano paritarie tra uomini e donne, e nella selezione delle candidature entrambi i sessi devono essere equamente rappresentati. Tuttavia, gli estremisti hanno presentato liste elettorali con una folta presenza di donne islamiche e, dunque, le donne progressiste hanno vinto formalmente pur perdendo terreno nella sostanza. Quale sarà lo scenario della Tunisia nei prossimi anni? Dopo le elezioni si è conclusa la prima parte della transizione democratica, iniziata con la caduta di Ben Ali. La seconda fase, invece, avrà luogo dopo le elezioni dell’Assemblea Costituente che deve redigere una Costituzione e indire elezioni sulla base del nuovo testo costituzionale. Gli islamisti puntano su un regime parlamentare come quello italiano. Altre
  • 38. da Tunisi al Cairo forze invece sostengono un regime presidenziale. Questa divergenza sta creando degli ostacoli nel processo di ridefinizione dell’architettura costituzionale del Paese. Il Partito Progressista ha dei legami con organizzazioni, partiti e sindacati europei? Il partito di centrosinistra che è al potere ha una normale interlocuzione politica con i partiti dell’Internazionale Socialista. In Tunisia i progressisti hanno un legame più forte con la società civile europea. Quale è stato il ruolo del web nel processo rivoluzionario? Facebook ha giocato un ruolo cruciale. Ha funzionato da volano della rivoluzione e incoraggiato i giovani, fornendogli informazioni utili su ciò che stava accadendo. Oggi, su dieci milioni di abitanti gli iscritti a Facebook sono circa due milioni e mezzo. La lotta politica si svolge anche su Facebook. Non a caso gli islamisti aumentano la loro presenza sul social media. È un terreno decisivo. Emittenti come al-Jazeera hanno diffuso – e diffondono tutt’ora – immagini di combattimenti, carneficine e uccisioni in Paesi come Arabia Saudita, Siria, Qatar. Che posizione avete rispetto ai governi di questi Stati? Al-Jazeera sostiene la rivoluzione araba e gioca un ruolo molto importante. In Arabia Saudita nessuno crede che la politica sia interessata a far cadere il regime di Bashar al-Assad. Personalmente non credo che il suo sia un regime democratico. Il governo tunisino è, con i sauditi e gli americani, contro il regime di Bashar al-Assad. In Tunisia esiste una frangia politica, quella dei Nazionalisti Arabi, che ammette il diritto alla libertà ma si oppone all’intervento straniero. Io sono a favore della libertà del popolo siriano ma contro l’intervento militare straniero. 37