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Master di I livello in Metodologie Didattiche, Psicologiche,
Antropologiche e Teoria e metodi di progettazione.
A.A.2017/2018
Saggio finale
Titolo:
Gli Artefatti Cognitivi
Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco
Di
Gianfranco Pulitano
Nel nostro sistema scolastico, la memoria è stata a lungo (e forse lo è ancora) dissociata dalla comprensione. Per tanti
anni, gli allievi sono stati invitati a non studiare a memoria, bensì ad applicarsi per “capire” il senso delle cose. Come se
la memoria servisse solo come contenitore passivo, amorfo, privo di connessioni semantiche e di comprensione. Di
fatto, non è così e questa impostazione ha generato generazioni di studenti prive di qualsiasi appiglio: perché purtroppo
i concetti e i dati non usati vengono progressivamente cancellati dalla memoria, anche se quando li abbiamo appresi ci
sembravano così evidenti e chiari, che li pensavamo acquisiti per sempre.
Di fatto, quello che è assimilato potenzialmente “per sempre” (o meglio: anche indipendentemente dal richiamo e da
una continua ripetizione) è la dimensione legata all’attività, al fare, cioè alla memoria procedurale. I processi cerebrali
attivati per imparare a fare qualcosa sono infatti diversi e coinvolgono aree cerebrali diverse rispetto all’apprendimento
semantico (memoria dichiarativa), queste ultime caratterizzate da maggiore labilità. Questo comporta – per rifarci al
sapere comune – che una volta che hai imparato ad andare in bicicletta, difficilmente te ne dimenticherai. Il proverbio
“impara un’arte e mettila da parte” contiene una parte di verità:
il fare è un bagaglio di sapere su cui puoi contare con maggiore sicurezza.
Dal punto di vista pratico, questo può e deve suggerirci alcune strategie mirate per lo studio. Se dobbiamo imparare
qualcosa, dovremmo cercare di legarlo quanto più possibile ad una competenza pratica, al “fare”. Facciamo un
esempio:
Per superare le difficoltà di memorizzazione di tutti gli elementi del cervello e delle relative interconnessioni e funzioni,
possiamo armarci di “Plastilina” (ma può trattarsi anche di creta, cartapesta o qualsiasi altro materiale plasmabile) e
costruire un modellino di cervello: dal tronco encefalico (cervelletto, talamo ed ipotalamo), alle parti interne (gangli
della base, ippocampo e amigdala), fino alla corteccia ben suddivisa per colore (lobi frontali, temporali, occipitale).
Costruirlo materialmente, oltre a fornirci uno strumento utile per il ripasso e lo studio, gratifica la creatività e ci fà
davvero entrare nella logica costitutiva dell’encefalo. Sono stati numerosi gli studiosi, dal grande pedagogo John
Dewey, che teorizzò l’importanza della sperimentazione all’interno delle scuola americane (il cosiddetto learning by
doing) all’artista e designer italiano Bruno Munari, che soleva citare le parole del filosofo cinese Confucio a tutti i
bambini:
“se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”.
Soffermandoci sull’ultima parte del detto SE FACCIO CAPISCO: tale affermazione non è solo un semplice
incoraggiamento a darsi da fare ma è qualcosa di più profondo che attribuisce alla pratica un obiettivo ben preciso: il
raggiungimento di un livello superiore di conoscenza. Non è solo pensare che una cosa sia giusta ma è la sua
sperimentazione a diventare il fulcro del discorso: la conoscenza viene interiorizzata non è più un semplice aspetto
astratto ma un qualcosa di concreto, una realtà vissuta su ciascuno di noi, toccata con mano da ognuno di noi.
Munari, nei laboratori, intende promuovere la conoscenza e la comprensione delle tecniche dell'espressione e della
comunicazione artistica, affinchè si possa fruirne con maggiore consapevolezza e spirito critico. Obiettivo di Munari e
portare l’allievo a chiedersi Come si fa ? infatti lui diceva "Capire che cos'è l'arte è una preoccupazione (inutile)
dell'adulto. Capire come si fa a farla è invece un interesse autentico del bambino". In questa riflessione Alberto Munari,
docente di psicologia dell'educazione all' Università di Ginevra oltre che artista, indica il principio essenziale del
metodo. Le idee non vengono proposte dagli adulti, nascono dalla sperimentazione, secondo il principio didattico: "Non
dire cosa fare, ma come". Il metodo si basa sul fare affinchè i bambini possano esprimersi liberamente senza
l'interferenza degli adulti, diventando indipendenti e imparando a risolvere i problemi da soli. "Aiutami a fare da me" è
anche il motto di Maria Montessori (un'educatrice, pedagogista, filosofa, medico, neuropsichiatra infantile e scienziata
italiana, internazionalmente nota per il metodo educativo che prende il suo nome). Fare didattica per questi specialisti
significa portare l’allievo in un laboratorio o trasformare l’aula in laboratorio. Ma Che cos’è il Laboratorio? Il
laboratorio è dunque un luogo di creatività e conoscenza, di sperimentazione, scoperta e autoapprendimento attraverso
il gioco: è il luogo privilegiato del fare per capire, dove si fa "ginnastica mentale" e si costruisce il sapere. E´ anche un
luogo di incontro educativo, formazione e collaborazione. Uno spazio dove sviluppare la capacità di osservare con gli
occhi e con le mani per imparare a guardare la realtà con tutti i sensi e conoscere di più, dove stimolare la creatività e il
"pensiero progettuale creativo" fin dall'infanzia. Oggi però, gli alunni non sono più quelli di Munari o della Montessori.
Scrutiamo lo scenario culturale degli studenti nati tra gli anni ’70 e ’80: costoro, alcuni dei quali oggi probabilmente
docenti, erano assolutamente meno esposti, rispetto alle attuali generazioni, ad un “regime iconografico” così pervasivo
e costante come quello odierno; allo stesso tempo essi avevano strumenti di formazione ancora essenzialmente legati al
paradigma lineare del libro di testo; infine erano dotati di un immaginario meno “colonizzato” dal dominio
dell’autorappresentazione social, in altre parole erano meno esposti al giudizio esterno che non fosse quello dei loro pari
“reali” e non “virtuali”, vivevano cioè in “piazze reali”, decisamente meno popolate di quelle attuali tipiche dei social
network. Pensiamo che tutto ciò non abbia inciso in modo irreversibile sui loro pattern mentali?
Quello che spesso si finge di non capire è che internet ha cambiato in modo radicale, irreversibile e velocissimo un
sistema culturale che, sotto certi aspetti, era fermo da decenni se non da secoli. È successo quello che è accaduto con la
stampa, ma con la differenza che è avvenuto in un poco più che un decennio. Noi docenti non possiamo non considerare
questo fenomeno ogni qual volta entriamo in classe a tenere una lezione. Ed eccoci arrivati al punto nodale: può, in
questo scenario, la lezione frontale ancora sopravvivere? Certo, ma solo se affiancata ad altre strategie che possiamo
chiamare “metodologie attive”. Dicevamo, ci troviamo difronte ad uno scenario diverso quello dei Natividigitali
(espressione coniata da Mark Prensky nel suo articolo Digital Natives, Digital Immigrants, pubblicato nel 2001). Una
generazione nata dopo il 1990 che crescerebbe in una società multischermo e considererebbe le tecnologie come un
elemento naturale, non provando alcun disagio nel manipolarle e interagire con esse.
In questo contesto di società digitale la figura più importante e di riferimento per una didattica alternativa è Seymour
Papert, nato nel 1928, un matematico sudafricano i cui contributi interessano anche le scienze dell’educazione. Grande
studioso internazionale delle modalità attraverso le quali i bambini possono utilizzare i computer e le tecnologie digitali,
per migliorare lo studio e l’apprendimento. La sua fama in Italia è diffusa purtroppo solo tra gli specialisti, mentre è
molto vasta negli Stati Uniti. Papert è stato, ad esempio, consulente di Carter e Clinton all’interno dei programmi di
introduzione delle nuove tecnologie nella scuola primaria. Papert, inoltre, è stato il primo studioso a comprendere tra gli
anni Sessanta e Settanta quale sarebbe stato il ruolo rivoluzionario delle tecnologie digitali nel campo dell’educazione e
della didattica. Secondo questo studioso l’apprendimento è un processo di costruzione di modelli mentali, che è più
efficace se realizzato per mezzo d’oggetti fisici. Questa teoria prende il nome di “costruzionismo” e postula che ogni
apprendimento è facilitato dall’utilizzo di materiali concreti, che Papert chiama “artefatti cognitivi”.
Ma coso intendiamo per artefatti? Chi, nato fra gli anni 70/80, non ha visto in tv da piccolo Fred e Wilma, protagonisti,
assieme a Barney e Betty, degli Antenati. Come ben descritto su Wikipedia, nel mondo di Fred e Wilma gli uomini
delle caverne fanno largo utilizzo di tecnologie simili a quelle attuali ma basate sull'utilizzo di vari animali: guidano
automobili fatte di pietra o legno; gli aeroplani consistono in giganteschi pterodattili sul cui dorso sono sistemati i sedili
per i passeggeri; gli ascensori sono mossi dai brontosauri. questi artefatti, moderni ma di pietra, sono uno dei punti di
forza del cartone. Se vogliamo raccontare la storia degli artefatti dall'inizio, dobbiamo partire proprio da loro, dagli
uomini dell'Età della Pietra. Periodo che deve il nome ai chopper, pietre scheggiate dai primi ominidi ed utilizzate,
presumibilmente, per cacciare, combattere e produrre altri utensili di legno o di ossa. I chopper sono i primi esempi di
artefatti, e costituiscono, assieme alla postura eretta, alla mano prensile ed allo sviluppo del lobo frontale, le
caratteristiche che segnano il passaggio dagli ominidi agli esseri umani. Infatti, sebbene altri primati siano capaci di
utilizzare degli oggetti dell'ambienti come strumenti, soltanto gli esseri umani hanno la capacità di modificare un
oggetto pre-esistente per renderlo più utile nel realizzare uno scopo. questa capacità implica l'attitudine a rappresentarsi
mentalmente lo stato finale dell'oggetto e le azioni necessarie per trasformarlo. Nei chopper vediamo un bisogno:
cacciare, per procurarsi del cibo, e difendersi. Vediamo degli strumenti capaci di ampliare le possibilità degli individui
che li usano. Vediamo, infine, il grado zero della progettazione: un processo, contemporaneamente cognitivo e
manuale, finalizzato a realizzare uno strumento immaginato (o copiato). Insomma, l'antenato del design. Tanto che
potremmo dire che l'uomo nasce designer. Per avere traccia del primo artefatto cognitivo, però, dobbiamo aspettare
centinaia di migliaia di anni. Il Codice di Ur-Nammu, risalente al 2100 a.C., ad esempio, costituisce il primo codice
legale tramandatoci. Fred e Wilma ci ricordano che, da allora, tutto è cambiato: nei paesi occidentali comuni chiamo
con cellulari, computer e internet, viaggiamo in aereo, treno, automobile, e siamo circondati da oggetti e tecnologie che
ci permettono una vita agiata, sebbene a costo di un crescente inquinamento. Anche i bisogni di un individuo del terzo
millennio sono diversi da quelli dei primi Homo Faber. I bisogni di base, però, sono universali. Abbiamo bisogno di
quelle risorse che ci permettono di sopravvivere, di sicurezza, di relazioni sociali, affettive. Per l'uomo preistorico le
risorse erano il cibo, l'acqua, la sicurezza era un luogo dove riposarsi al riparo dai predatori. Per noi le risorse sono il
denaro, che ci permette di acquistare tutto il resto, la sicurezza è la casa, il servizio sanitario, le forze dell'ordine. La
tecnologia corre veloce: quand'è stata l'ultima volta che hai usato un floppy disk? Uno dei primi calcolatori, il
Commodore 128, salvava i dati sulle musicassette a nastro.
La soluzione tecnica cambia rapidamente, diventa più efficiente, più potente, più sicura, ma il bisogno rimane quello dei
nastri del Commodore o delle schede perforate dei primi calcolatori: salvare le informazioni. Ai tempi di Ur-Nammu le
leggi venivano codificate su pietra e su papiro, ma il bisogno era lo stesso: salvare le informazioni e comunicarle.
Apparentemente, per correre veloci, dobbiamo concentrarci sulle tecnologie. L'enfasi sulle tecnologie, però, ci porta a
concentrarci sull'esistente, oppure a tentare delle previsioni spesso difficili. Focalizzarsi sui bisogni, al contrario, ci
porta a previsioni certe. Perché i bisogni cambiano lentamente, ed alcuni bisogni rimangono gli stessi. In secondo
luogo, concentrarsi sui bisogni permette di non rimanere focalizzati sulle soluzioni note, rimanendo intrappolati nella
fissità funzionale che ci impedisce di immaginare soluzioni innovative.
Torniamo a parlare dell’artefatto cognitivo di Papert, è un oggetto o un processo concreto che permette la costruzione di
modelli mentali validi, proprio perché su di esso si può operare. Ad esempio secondo Papert la lentezza nello sviluppo
di un concetto da parte di un bambino è dovuta al fatto che egli non possa operare su di un artefatto cognitivo che renda
quel concetto tangibile. Questa teoria dell’apprendimento ha in comune con il costruttivismo l’idea che la conoscenza è
una costruzione personale. Imparare, infatti, non consiste in una semplice trasmissione di informazioni da una persona
all’altra. Questa era anche l’idea di Jean Piaget, con il quale Papert lavorò negli anni 60 a Ginevra.
Tale concetto raggruppa gli oggetti e i dispositivi che facilitano lo sviluppo di specifici apprendimenti. Ciò è necessario
perché, rispetto al costruttivismo, il costruzionismo prevede che il processo di apprendimento sia un processo di
costruzione di rappresentazioni più o meno corrette e funzionali del mondo con cui si interagisce. L'idea di base del
concetto degli artefatti cognitivi è che la mente per apprendere ha bisogno di costruire oggetti e dispositivi, di
maneggiare materiali reali. Ciò vale a qualunque età, si sia bambini, adolescenti o adulti. Il procedimento che si usa
deriva quindi dal bisogno di procedere per prove ed errori, attraverso una serie di tentativi di rappresentazione del
mondo che ci circonda. L'apprendimento si sviluppa quindi con la discussione, l'analisi, il confronto, l'esposizione, il
sondaggio, l'ammirazione, la costruzione e lo smontaggio e la ricostruzione degli artefatti cognitivi. La genesi dell'idea
dell'artefatto cognitivo si deve all'osservazione da parte di Papert delle attività di alcune tribù africane in cui i bambini
costruivano delle case in scala o altri piccoli manufatti in giunco. Prendendo spunto da questa osservazione, Papert
sviluppa l'idea che anche la mente, come il costruttore generico, ha bisogno di materiali appropriati per poter generare
un'idea. Il concetto degli artefatti cognitivi trova la sua più ovvia applicazione nel campo dell'insegnamento. In
particolare, oltre all'insegnamento classico, uno dei percorsi più tipici di applicazione degli artefatti cognitivi è l' e-
learning e in particolare l'analisi, la creazione e l'uso delle interfacce uomo-macchina o, più in particolare, delle
interfacce studente-sistema di autoapprendimento, ne parleremo meglio in seguito. Gli artefatti cognitivi possono però
essere riutilizzati come metodologia creativa e comunicativa, come il già citato learning by doing, nei più disparati
campi delle relazioni umane, anche in un campo che potrebbe sembrare lontano come la cucina per esempio. Il
concetto dell'artefatto cognitivo è anche l'idea base per gli studi per lo sviluppo dell'OLPC (One Laptop per Child), poi
rielaborati di Alan Kay e completati da Nicholas Negroponte. Oltre Papert infatti sono tantissimi gli studiosi che
condividono queste teorie, secondo Donald Norman gli artefatti cognitivi sono strumenti di pensiero che completano
le capacità della nostra mente rafforzandone i poteri. Anche secondo Jerome Bruner l'artefatto cognitivo è necessario
all'apprendimento. Oltre all'apprendimento, Bruner lo lega anche alla conoscenza in senso lato, indicando come
artefatti cognitivi gli appunti dei notes, i brani sottolineati nei libri, le informazioni memorizzate nel computer e così
via. Parlando di artefatti cognitivi, torniamo ad approfondire il costruzionismo. Parte dalla teoria costruttivista in cui
viene data grande rilevanza all’utilizzo degli artefatti. Il costruttivismo è una posizione filosofica ed epistemologica
che considera la rappresentazione della realtà, e quindi il mondo in cui viviamo, come il risultato dell'attività
costruttrice delle nostre strutture cognitive, assumendo una prospettiva spesso relativistica e soggettivista. Seppur molti
costruttivisti, di matrice più razionalista, affermino l'esistenza di una realtà oggettiva e fisica e di alcuni principi morali,
quello che conta ai loro occhi, nell'interazione tra il mondo e i soggetti, è solo e unicamente la realtà percepita da
costoro. La vita è un processo cognitivo: vivere significa conoscere e conoscere significa vivere. È attraverso il
processo cognitivo, che nasce dall'esperienza individuale, che ogni essere vivente genera il proprio mondo. L'esperienza
vissuta è il punto di partenza di ogni conoscenza e l'uomo compie le proprie esperienze attraverso il proprio corpo
avente struttura determinata. Soggetti diversi rispondono in maniera diversa ad uno stesso stimolo e la risposta sarà
determinata dal modo in cui l'osservatore è strutturato. È la struttura dell'osservatore che determina come esso si
comporterà e non l'informazione ricevuta. L'informazione in sé non ha significato se non quello che le attribuisce il
sistema con cui interagisce, perciò la sua stessa esistenza, e la stessa realtà oggettiva, può essere messa «tra parentesi»,
secondo un'espressione utilizzata da Husserl. Tutte quelle proprietà che si credeva facessero parte delle cose, si rivelano
così proprietà dell'osservatore, per cui l'oggettività che conta non è quella esterna e indipendente dal soggetto, ma quella
data dall'obiettivo (mentale) verso cui si dirige ogni atto intenzionale del pensiero. Gli esiti di questa concezione sono
diversi. Da un lato, se ogni soggetto costruisce la propria realtà quale i suoi sensi gli presentano (soggettivismo), e se
questa realtà è mutevole nel tempo e nello spazio in ragione dello stato in cui egli stesso e l'oggetto osservato si trovano,
si aprirebbero le porte del relativismo, in base al quale non esisterebbe più alcuna vera differenza tra ciò che si conosce
e ciò che è, dato che ogni essere senziente ha il proprio mondo personale (il principio di non contraddizione viene a
decadere). D'altro lato, non mancano posizioni critiche nei confronti del relativismo stesso, che rilevano come esso cada
in una palese contraddizione in termini quando pretende di negare ogni possibilità di conoscenza oggettiva da un punto
di vista oggettivo, o di affermare la relatività del tutto facendone una tesi assoluta. Husserl, ad esempio, contestando lo
psicologismo, sosteneva che le leggi della logica esprimono una necessità assoluta, su cui si basa la possibilità stessa del
conoscere e del pensare. Il costruttivismo così definito, per vari cambiamenti sul piano culturale, filosofico e della
ricerca tecnologica, nasce come un nuovo quadro teorico negli anni '70 e 80. Esso scaturisce dal crollo dell'idea che la
conoscenza possa essere oggettivamente appresa. Nasce soprattutto come esigenza di abbandonare un cognitivismo H.
I. P. (Human Information Processing) che non ha mai del tutto rinunciato ad alcune componenti meccanicistiche proprie
del comportamentismo. I concetti principali che caratterizzano l'attuale costruttivismo sono i seguenti: 1. la
conoscenza è prodotto di una costruzione attiva del soggetto, 2. la conoscenza ha carattere "situato", ancorato nel
contesto concreto, 3. la conoscenza si svolge attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale. In
primo piano viene posta la "costruzione del significato" sottolineando il carattere attivo, polisemico, non
predeterminabile di tale attività. La teoria della conoscenza (gnoseologia) dei costruttivisti postula che il conoscere
sia: 1 il prodotto di una costruzione attiva da parte del soggetto; 2 strettamente collegato alla situazione concreta in
cui avviene l'apprendimento; 3 nascente dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale. Nel
costruttivismo si assume che la formazione sia un'esperienza situata in uno specifico contesto: il soggetto, spinto dai
propri interessi, costruisce attivamente una propria concezione della realtà attraverso un processo di integrazione di
molteplici prospettive offerte. Didatticamente il costruttivismo recupera alcuni concetti del positivismo e del
neopositivismo: la conoscenza come costruzione attiva del soggetto, è un concetto presente in gran parte della ricerca di
questo secolo. Dewey, Piaget e Vygotskij possono essere considerati costruttivisti. L'apprendimento non è visto solo
come un'attività personale, ma come il risultato di una dimensione collettiva d'interpretazione della realtà. La nuova
conoscenza si costruisce non solo in base a ciò che è stato acquisito in passate esperienze ma anche e soprattutto
attraverso la condivisione e negoziazione di significati espressi da una "comunità di interpreti". Esso è anche un
nuovo quadro di riferimento learning centered che pone, cioè, il soggetto che apprende al centro del processo
formativo, in alternativa ad un approccio educativo teaching centered, basato sulla centralità dell'insegnante, unico e
indiscusso detentore di un sapere universale, astratto e indipendente dal contesto di riferimento. Nelle scuola digitale e
innovativa tutte le teorie costruttivistiche stanno riscuotendo grande interesse ne è un ottimo esempio la Peer
Education, che costituisce una proposta educativa in base al quale alcuni membri di un gruppo vengono formati per
svolgere un ruolo di educatore e tutor per il gruppo dei propri pari. Nasce come progetto educativo teso a promuovere
un rapporto tra giovani e adulti nel quale ognuno possa preservare la propria identità ed il proprio ruolo. Il rapporto
educativo viene inteso come un'esperienza democratica, nella quale l'interazione fra educatori ed "allievi" viene regolata
dalla simmetria, dall'eguaglianza, dalla complementarità e dal mutuo controllo (laddove invece il rapporto educativo
classico risulta essere asimmetrico, ed il potere che vi si concentra tende a collocarsi da una sola parte). Questo non
indica che la Peer Education intenda mettere in discussione i metodi tradizionali di insegnamento, né che pretenda di
sostituirsi ad essi: l'educazione tra pari punta invece ad affiancare il consueto modello di rapporto insegnante/allievo,
limitandosi ad intervenire in settori definiti. Il terreno di intervento della Peer Education, dal punto di vista dei
contenuti, è individuabile nell’ambito del "comportamento consapevole": l'educazione tra pari ha insomma lo scopo di
trasferire informazioni ma soprattutto consapevolezza, e si basa sul principio convenuto che i modelli di comportamento
dei giovani vengono appresi più facilmente all'interno di gruppi di coetanei che nel tradizionale rapporto educativo
genitore-figlio o insegnante-allievo, e che dunque l'efficacia dell'influenza dei pari, anche su argomenti importanti sia di
gran lunga migliore a quella prodotta dagli interventi degli adulti.
La Peer Education, in questo senso, risulta essere un'esperienza particolarmente valido soprattutto per coloro che
decidono di diventare dei Peer Educators. Nel rivestire il ruolo di educatori, infatti, i ragazzi hanno un'importante
occasione per sospendere gli abiti consueti dello studente (inteso come il semplice destinatario dell'insegnamento degli
adulti) e per assumere un ruolo responsabile e propositivo, nel quale ciascuno possa misurare le proprie capacità di
comunicazione e nel confrontarsi con le risposte che gli vengono dai compagni in modo da verificare gli effetti concreti
del proprio lavoro. La Peer Education, tende dunque a favorire la crescita dell’individuo attraverso lo sviluppo del senso
critico, della coscienza di sé e della propria generazione: l'apprendimento di queste competenze inizia col favorire le
condizioni perché i Peer Educators siano indotti a costruire un gruppo di lavoro, a produrre iniziative condivise, a
sviluppare un progetto affidandosi esclusivamente a se stessi. Ma il costruttivismo, oltre che nella didattica e nella
filosofia generale, ha prodotto contributi principalmente nella forma epistemologica, nella psicologia (specialmente la
psicologia sistemica, la psicoterapia strategica e quella cognitivo-comportamentale, con influssi di quella Ericksoniana,
nonché nella disciplina non riconosciuta della programmazione neuro linguistica) e nella sociologia (costruttivismo
sociale e costruzionismo) oltre che in matematica e in cibernetica, linguistica e arte (da non confondere con il
costruttivismo artistico sorto nel 1913, che rappresenta un movimento a sé stante) e finanche in scienza politica. Dal
rapido sviluppo tecnologico, che ha portato ad una società multischermo digitale, scaturisce una grande interesse per
una evoluzione dal costruttivismo al costruzionismo e Papert in questo modo sposta anche l’attenzione dagli stadi di
sviluppo cognitivo piagetiani allo studio dei contesti in cui si apprende. Questa è anche una presa di distanza da una
cultura che privilegia il pensiero formale, astratto, per ridare valore al pensiero concreto. Negli anni 60 Papert è al MIT
dove s’interessa d’intelligenza artificiale.
Lo sviluppo del pensiero e della riflessione di Papert è segnato da due grandi incontri intellettuali e personali, quello
con Jean Piaget, che avviene all’Università di Ginevera, dove lavora tra il 1958 e il 1963 e quello con Marvin Minsky,
con il quale incessantemente lavora al MIT, ritornato negli USA a partire del 1963. La collaborazione con Piaget è
quella a cui si deve l’interesse di Papert, giovane matematico di formazione, per lo sviluppo cognitivo dei bambini.
Negli anni Sessanta Papert, si colloca ancora all’interno dei una visione computazionalista della mente e del paradigma
cibernetico cognitivista, e il suo lavoro con Piaget si focalizza sul tentativo di utilizzare una modellizzazione
matematica delle modalità dello sviluppo cognitivo dei bambini. Negli anni Sessanta Papert, si colloca ancora
all’interno dei una visione computazionalista della mente e del paradigma cibernetico cognitivista, e il suo lavoro con
Piaget si focalizza sul tentativo di utilizzare una modellizzazione matematica delle modalità dello sviluppo cognitivo
dei bambini. La ricerca di Papert prosegue all’M.I.T. di Boston sotto la guida di Marvin Minsky nel 1963 insieme ai
suoi collaboratori, anch’egli all’epoca fautore della cibernetica cognitivista. Insieme a Minsky è, infatti, tra i fondatori
del Artificial Intelligence Laboratory e lavora con il team che contribuisce ad adattare il linguaggio di programmazione
LISP3 per la creazione dei primi sistemi di intelligenza artificiale. E’ in quest’epoca che sviluppa l’idea di un
linguaggio programmazione che possa essere utilizzato dai bambini per “programmare” i calcolatori, si tratta di una
variante semplificata del LISP, il LOGO ™.
Questo linguaggio di programmazione è basato sull’idea che i bambini possano comprendere meglio i principi della
programmazione imparando direttamente a programmare in maniera semplice. In particolare nel caso del LOGO, si
tratta di far muovere sullo schermo, attraverso semplici righe di codice, una l’icona di una tartaruga sullo schermo, in
modo da poter costruire figure geometriche e disegni. L’intuizione che generò il LOGO è la prima idea rivoluzionaria di
Papert nel campo delle tecnologie didattiche dal momento che in quegli anni, sotto l’influsso del comportamentismo di
Skinner, l’ipotesi più accreditata intendeva i computer come vere e proprie macchine per insegnare “istruzionali”.
Erano le macchine, che avrebbero dovuto “programmare” i bambini e addirittura sostituire gli insegnanti, mentre Papert
ribaltava questa impostazione sostenendo che i computer debbano essere usati in modo ludico e costruttivo per liberare
la creatività dei bambini e per potenziare le loro “intelligenze multiple”. Con la crisi del programma di ricerca
dell’Intelligenza artificiale “forte”, e cioè con il fallimento anche sperimentale dell’ipotesi secondo la quale la mente
possa “funzionare” come un computer e che quindi le dinamiche del pensiero possano essere compreso e descritto
attraverso gli strumenti della logica formale si afferma la svolta “connessionista”. Il connessionismo ribalta l’ipotesi
cibernetico-cognitivista nella proposta di spiegazione delle dinamiche di funzionamento della mente. Le strutture
logico-formali del cognitivismo cibernetico sono sostituite da operazioni numeriche anche molto complesse (equazioni
differenziali ad esempio) che permettono di mappare e descrivere gli stati del sistema a partire da elementi semplici (sul
modello dei neuroni del cevello) e dalle loro connessioni, via via più complesse, nella loro evoluzione genetica nel
tempo. Il connessionismo rovescia, dunque l’assunto della cibernetica cognitivista, sostenendo che sono i computer a
dover tentare di emulare il funzionamento, infinitamente più complesso e ricco della mente umana e non viceversa. Sia
Minsky che Papert nell’aderire alla svolta connessionista modificano radicalmente la loro impostazione epistemologica.
Cominciano, infatti, a ipotizzare che la dinamiche dei processi cognitivi, il funzionamento del pensiero e
dell’apprendimento nascano dell’interazione “sociale” di un molteplicità di elementi semplici, i neuroni e le
aggregazioni di neuroni. La mente e i processi di apprendimento possono essere quindi compresi solo leggendo le
interazioni “sociali”, appunto, che si svolgono all’interno della mente e nei rapporti tra la mente e l’ambiente proprio
come se si dovesse sviluppare un’analisi sociale delle dinamiche cognitive. Si tratta della “società della mente” o “delle
menti”, appunto, riprendendo alla lettera il titolo del fondamentale volume di Marvin Misky.
Minsky analizzando lo sviluppo dell’intelligenza e delle capacità di apprendimento nei bambini afferma come sia
importante studiare non solo il manifestarsi e lo svilupparsi, attraverso opportuni esperimenti, delle varie fasi dello
sviluppo della cognizione – il metodo inaugurato da Piaget -, ma anche provare, come suggerito da Papert, a
comprendere il modo in cui, a livello neurale, avvenga lo slittamento da una modalità cognitiva all’altra, chiarire cioè la
strategia cognitiva che è sottesa al paradigma dell’epistemologia genetica. Quali sono, quindi, le strategie del passaggio
da una fase cognitiva all’altra e come possiamo aiutare i bambini a rendere più creativo e ricco lo sviluppo dinamico
delle capacità cognitive. Afferma a questo proposito Minsky: “(…) Questa spiegazione della differenza tra bambini
piccoli e grandi fu proposta per la prima volta da Seymor Papert, negli anni Sessanta, quando cominciammo a esplorare
insieme l’idea di una società della mente. Le teorie precedenti avevano per lo più tentato di spiegare gli esperimenti di
Piaget (N.d.A. relativi alle differenti modalità della cognizione nelle diverse fasi dello sviluppo) ipotizzando che i
bambini sviluppino con il tempo modi di ragionare diversi. Questo è certamente vero, ma l’importanza della concezione
di Papert sta nel sottolineare non soltanto gli ingredienti del ragionamento, ma anche il modo in cui essi sono
organizzati: una mente non può crescere molto se si limita ad accumulare conoscenze (secondo il metodo istruzionistia
NdC). Deve anche inventare modi migliori per usare ciò che già sa. Questo principio merita un nome. Principio di
Papert. Alcuni tra gli stadi più cruciali sullo sviluppo mentale sono basati non sulla semplice acquisizione di nuove
abilità, bensì sull’acquisizione di nuovi metodi di amministrazione per usare ciò che già si conosce.”5. Proprio
sviluppando questo principio nel sul primo volume dedicato a questo tema Mindstorms: bambini, computers e creatività
del 1986, Papert sostiene come l’uso e la pratica con la programmazione dei computer, intesi come strumenti per
apprendere – tools e non tutor - , come strumenti per aiutare a costruire una maggior rete di relazione tra la vita
quotidiana e l’esperienza didattica, possa redendere più concreti e soprattutto manipolabili, concetti che nella
tradizionale pratica scolastica - “istruzionista”, cioè fondata sul metodo dell’accumulazione delle conoscenze - restano
spesso astratti e lontani dall’esperienza dei bambini. Ad esempio nel caso della matematica molti concetti, se “costruiti”
al computer dai bambini e rappresentati da loro attraverso lo strumento del Logo in maniera visuale – ad esempio nel
caso delle frazioni attraverso la suddivisione in fette di una torta sullo schermo – possono avvicinarsi maggiormente alla
loro esperienza. Essere protagonisti della costruzione del sapere e dei concetti, può inoltre permettere ai bambini di
“accomodare” nuove conoscenze all’interno della “società delle loro menti individuali” e in quella del gruppo classe
all’interno del quale sono inseriti. Inoltre la programmazione attraverso il Logo si svolge attraverso una serie di
esperimenti euristici e di progressivi tentativi di soluzione di un problema che permettono al bambino di comprendere
come non esista un’unica soluzione, un’unica via, un’unica intelligenza – ricollegandosi qui alla riflessione di Gardner
sulle intelligenze multiple – ma come gli stili cognitivi e le modalità stesse di apprendere siano strutturalmente plurali.
La riflessione di Papert non si ferma ad analizzare lo sviluppo delle capacità di apprendere del singolo individuo, ma
coerentemente con l’impostazione “sociale” della sua riflessione su “Bambini e computer” nel suo volume del 1990 I
Bambini e il Computer analizza un ricca messe di casi sperimentali di un didattica “costruzionista” all’interno della
scuola. Papert, ha, infatti nel frattempo avviato e sviluppato a fondo una serie di sperimentazioni legate all’applicazione
delle successive versioni del programma Logo e della didattica costruttiva ad essa legata nella scuola. Sperimentazioni
che negli Stati Uniti hanno coinvolto, direttamente o indirettamente decine di migliaia di insegnanti e centinaia di
miglia di Bambini. In particolare Papert ne “I bambini e il computer” si sofferma sull’analisi di come all’interno
dell’istituzione scolastica fino alla “rivoluzione digitale” sia prevalsa un sola forma di alfabettizazione la “literacy” del
libro. Come abbiamo notato più sopra, invece, per Papert esistono una grande quantità di tipologie di alfabettizzazione
così come esistono una pluralità di stili di apprendimento e di insegnamento e una pluralità di modalità di conoscenza.
Da questo punto di vista la pluralità di codici comunicativi che vengono veicolati dai PC e dalle reti telematiche sono la
più chiara dimostrazione di questo assunto. Il problema oggi è paradossalmente il fatto che nella cultura occidentale
abbia vinto il modello gutenberghiano, e che un’unica tipologia di alfabetizzazione, di modalità di apprendere e di
conoscere si è affermata decisamente sulle altre. Per secoli la scuola, la cultura e il sapere si sono identificare con il
libro e si sono riferite solamente alla cultura scritta e soprattutto al modello uno-molto di diffusione e “traslocazione
delle conoscenze” incarnato dal libro e dagli altri media gutemberghiani, la radio, la televisione ecc. Si tratta di un
modello fondato sulla strutturale asimmetria tra chi insegna e chi apprende e sul modello accumulativi – istruzionale di
immagazzinamento del sapere. Papert, ritiene che i nostri figli “siano
a rischio” nel momento in cui si perpetua questa tipologia di alfabetizzazione monologica e monocodicale. Il mondo
contemporaneo è complesso stratificato e strutturalemte multicodicali, la sua “tecnologia caratterizzante” non è più il
libro e non solo il libro; per questo perpetuare esclusivamente il modello gutemberghiano di trasmissione del sapere
all’interno della famiglia, così come dell’istituzione scolastica, vorrebbe dire aprire uno iato molto pericoloso tra noi
“figli del libro”, e la tradizione culturale di cui siamo portatori e i nostri figli. Secondo Papert, forse fin troppo ottimista
in questa sua convinzione, un ambiente formativo esteso che integri le modalità tradizionali con quelle rese possibili
dalle nuove tecnologie digitali, insieme all’utilizzo del metodo attivo e “costruzionisita” nella didattica, permetterebbe,
di offrire ai bambini (soprattutto nel passaggio dalla famiglia alla scuola) uno stile di apprendimento più personale, più
interattivo e negoziale, più graduale e più armonizzato con il contesto macro-sociale che li circonda. La criticità della
proposta di Papert è chiara, in questo modello sarebbe necessario che le differenze di alfabettizzazione digitale e le
differenti possibilità di “accesso” tra le diverse famiglie, così come le differenze locali e sistemiche tra i singoli istituti
scolasti e i sistemi dell’istruzione nei differenti paesi venissero “per magia” abbattute. Famiglia, scuola sistema sociale
e istituzionale dovrebbero cioè muoversi in secondo una logica completamente sincronica che è evidentemente un solo
un modello ideale – direbbe Weber idealtipico cui tendere - ma che rischia di non poter mai essere implementato in
concreto. Inoltre Papert tende a sottovalutare i rischi che una digitalizzazione “selvaggia” e guidata esclusivamente dal
mercato della formazione e della didattica così come degli strumenti di trasmissione del sapere potrebbe comportare.
Tuttavia, nonostante il suo carattere “utopico”, la proposta papertiana rappresenta una provocazione intellettuale molto
interessante e uno stimolo a promuovere una reale interazione cooperativa tra famiglia e scuola che certamente può
essere mediata ed agevolata dalle nuove tecnologie dell’apprendimento. Come detto finora, Papert fù un precursore dei
sistemi didattici alternativi, il suo progetto Logo è un linguaggio di programmazione per computer, sviluppatosi nel
tempo in più versioni, molto utilizzato per l’apprendimento dei bambini. Grazie ad esso gli alunni s’impegnano in
attività per mezzo delle quali possono imparare diverse discipline in modo coinvolgente e divertente. Programmare in
Logo, infatti, permette ai più piccoli di “produrre” qualcosa (ad esempio un disegno, ma anche un testo o una musica)
sperimentando regole logiche ed ottenere artefatti cognitivi tangibili. L’esempio più noto di questo linguaggio di
programmazione è l’ambiente geometrico in cui si opera con un cursore a forma di tartaruga, cui si danno istruzioni sul
movimento. Così facendo, è possibile guidare il cursore e costruire figure geometriche anche complesse, imparando
quali sono i meccanismi che le hanno generate. Il bambino può apprendere ad esempio, le proprietà di un quadrato,
guidando la tartaruga sempre ad angoli di 90° indipendentemente dalla posizione iniziale del lato. In rete, è anche
possibile trovare versioni gratuite di questo ambiente di programmazione.
Negli anni 90 Mitchel Resnick del MIT collabora con la LEGO rendendo programmabili in LOGO i celebri mattoncini
colorati. Nasce il Lego/logo, cioè una serie di kit di costruzioni per bambini in cui i mattoncini della Lego sono
controllati da un PC. Grazie a questi giochi, che nel tempo hanno conosciuto vari sviluppi (il più famoso è LEGO
Mindstorms), i bambini possono costruire e programmare piccoli robot. I mattoncini programmabili permettono in
questo modo, di esplorare in modo divertente tecnologie avanzate. Questi sviluppi ribadiscono l’idea costruzionista
secondo la quale l’apprendimento efficace è realizzato per mezzo di qualcosa che può essere “mostrato, discusso,
esaminato, sondato e ammirato.” La teoria costruzionista e l’uso del computer in educazione permettono secondo Papert
di perseguire l’obiettivo di “insegnare in modo tale da offrire il maggiore apprendimento col minimo
d’insegnamento”. Alla luce dell’analisi fatta fino a questo momento al fine di arrivare alla conclusione di questo testo,
dovremmo chiederci: ma la scuola dell'obbligo deve insegnare "conoscenze" o "competenze"? La domanda
apparentemente è astratta, ma dalla risposta discendono conseguenze concrete, perché ne dipendono i contenuti e i
metodi dell'insegnamento. Fino a pochi decenni or sono era considerato ovvio che la scuola dovesse impartire nozioni.
Ma oggi il mondo è cambiato. Si riscontra sempre più spesso che le conoscenze non servono a chi non è in grado di
usarle per risolvere problemi nuovi, soprattutto nel settore digitale. E sono soprattutto le aziende a insistere sul dare il
via a una svolta radicale. «Oggi le aziende non sono più disposte a insegnare il mestiere per anni e si aspettano piena
efficienza sin dal primo giorno di lavoro. E i lavori cambiano: non sono più uno o due nell'arco della vita ma 10-15, e
saranno sempre di più. Non serve "sapere" ma "saper imparare"». Chi parla è Charles Fadel, responsabile Global
Education della Cisco, autore del best seller XXI Century Skills e cofondatore del P21 (Partnership for XXI Century
Skills): un gruppo che comprende 40 fra grandi aziende e altri enti, e che ha convinto 14 stati Usa, tra cui il
Massachusetts, ad adottare il proprio progetto educativo. Il presidente Obama ha proclamato che «nel XXI secolo le
abilità fondamentali saranno il pensiero critico, l'intraprendenza e la creatività». Per svilupparle la scuola dovrà
insegnare in modo nuovo. La produttività degli individui dipenderà sempre più dalla capacità di adattarsi, innovare,
lavorare in gruppo, pensare in modo critico. «Se un dottore di ricerca cinese costa cinque volte meno di un europeo o un
americano – continua Fadel – quest'ultimo dovrà essere cinque volte più produttivo, o finirà fuori mercato». È questa la
premessa della svolta pedagogica «dalle conoscenze alle competenze», cioè a un sapere conquistato in modo attivo
attraverso la soluzione di problemi tratti dalla vita reale. «Attenzione però, sottolinea Fadel: non bisogna contrapporre
conoscenze a competenze, bensì sviluppare le seconde dalle prime». L'insegnamento di base non va abbandonato, va
potenziato. Restano validi gli obiettivi tradizionali: ridurre l'abbandono scolastico, accrescere il numero dei laureati,
rafforzare le conoscenze nelle lingue, in matematica, scienze, storia, educazione civica, ma dobbiamo assolutamente
inserire lo studio del coding (la programmazione) già dalle scuole primarie, del pensiero computazionale e della
robotica. potenziare i laboratori e introdurre sempre più sistemi digitali che permettano ai ragazzi di avere un sistema
cognitivo più congeniale ai loro sistemi di comunicazione per un uso consapevole delle tecnologie.
Bibliografia
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Bruno Munari, (2°edizione 2017), Arte come mestiere: Laterza
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Artefatti Cognitivi (se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco)

  • 1.
  • 2. Master di I livello in Metodologie Didattiche, Psicologiche, Antropologiche e Teoria e metodi di progettazione. A.A.2017/2018 Saggio finale Titolo: Gli Artefatti Cognitivi Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco Di Gianfranco Pulitano
  • 3. Nel nostro sistema scolastico, la memoria è stata a lungo (e forse lo è ancora) dissociata dalla comprensione. Per tanti anni, gli allievi sono stati invitati a non studiare a memoria, bensì ad applicarsi per “capire” il senso delle cose. Come se la memoria servisse solo come contenitore passivo, amorfo, privo di connessioni semantiche e di comprensione. Di fatto, non è così e questa impostazione ha generato generazioni di studenti prive di qualsiasi appiglio: perché purtroppo i concetti e i dati non usati vengono progressivamente cancellati dalla memoria, anche se quando li abbiamo appresi ci sembravano così evidenti e chiari, che li pensavamo acquisiti per sempre. Di fatto, quello che è assimilato potenzialmente “per sempre” (o meglio: anche indipendentemente dal richiamo e da una continua ripetizione) è la dimensione legata all’attività, al fare, cioè alla memoria procedurale. I processi cerebrali attivati per imparare a fare qualcosa sono infatti diversi e coinvolgono aree cerebrali diverse rispetto all’apprendimento semantico (memoria dichiarativa), queste ultime caratterizzate da maggiore labilità. Questo comporta – per rifarci al sapere comune – che una volta che hai imparato ad andare in bicicletta, difficilmente te ne dimenticherai. Il proverbio “impara un’arte e mettila da parte” contiene una parte di verità: il fare è un bagaglio di sapere su cui puoi contare con maggiore sicurezza. Dal punto di vista pratico, questo può e deve suggerirci alcune strategie mirate per lo studio. Se dobbiamo imparare qualcosa, dovremmo cercare di legarlo quanto più possibile ad una competenza pratica, al “fare”. Facciamo un esempio: Per superare le difficoltà di memorizzazione di tutti gli elementi del cervello e delle relative interconnessioni e funzioni, possiamo armarci di “Plastilina” (ma può trattarsi anche di creta, cartapesta o qualsiasi altro materiale plasmabile) e costruire un modellino di cervello: dal tronco encefalico (cervelletto, talamo ed ipotalamo), alle parti interne (gangli della base, ippocampo e amigdala), fino alla corteccia ben suddivisa per colore (lobi frontali, temporali, occipitale). Costruirlo materialmente, oltre a fornirci uno strumento utile per il ripasso e lo studio, gratifica la creatività e ci fà davvero entrare nella logica costitutiva dell’encefalo. Sono stati numerosi gli studiosi, dal grande pedagogo John Dewey, che teorizzò l’importanza della sperimentazione all’interno delle scuola americane (il cosiddetto learning by doing) all’artista e designer italiano Bruno Munari, che soleva citare le parole del filosofo cinese Confucio a tutti i bambini: “se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”. Soffermandoci sull’ultima parte del detto SE FACCIO CAPISCO: tale affermazione non è solo un semplice incoraggiamento a darsi da fare ma è qualcosa di più profondo che attribuisce alla pratica un obiettivo ben preciso: il raggiungimento di un livello superiore di conoscenza. Non è solo pensare che una cosa sia giusta ma è la sua sperimentazione a diventare il fulcro del discorso: la conoscenza viene interiorizzata non è più un semplice aspetto astratto ma un qualcosa di concreto, una realtà vissuta su ciascuno di noi, toccata con mano da ognuno di noi.
  • 4. Munari, nei laboratori, intende promuovere la conoscenza e la comprensione delle tecniche dell'espressione e della comunicazione artistica, affinchè si possa fruirne con maggiore consapevolezza e spirito critico. Obiettivo di Munari e portare l’allievo a chiedersi Come si fa ? infatti lui diceva "Capire che cos'è l'arte è una preoccupazione (inutile) dell'adulto. Capire come si fa a farla è invece un interesse autentico del bambino". In questa riflessione Alberto Munari, docente di psicologia dell'educazione all' Università di Ginevra oltre che artista, indica il principio essenziale del metodo. Le idee non vengono proposte dagli adulti, nascono dalla sperimentazione, secondo il principio didattico: "Non dire cosa fare, ma come". Il metodo si basa sul fare affinchè i bambini possano esprimersi liberamente senza l'interferenza degli adulti, diventando indipendenti e imparando a risolvere i problemi da soli. "Aiutami a fare da me" è anche il motto di Maria Montessori (un'educatrice, pedagogista, filosofa, medico, neuropsichiatra infantile e scienziata italiana, internazionalmente nota per il metodo educativo che prende il suo nome). Fare didattica per questi specialisti significa portare l’allievo in un laboratorio o trasformare l’aula in laboratorio. Ma Che cos’è il Laboratorio? Il laboratorio è dunque un luogo di creatività e conoscenza, di sperimentazione, scoperta e autoapprendimento attraverso il gioco: è il luogo privilegiato del fare per capire, dove si fa "ginnastica mentale" e si costruisce il sapere. E´ anche un luogo di incontro educativo, formazione e collaborazione. Uno spazio dove sviluppare la capacità di osservare con gli occhi e con le mani per imparare a guardare la realtà con tutti i sensi e conoscere di più, dove stimolare la creatività e il "pensiero progettuale creativo" fin dall'infanzia. Oggi però, gli alunni non sono più quelli di Munari o della Montessori. Scrutiamo lo scenario culturale degli studenti nati tra gli anni ’70 e ’80: costoro, alcuni dei quali oggi probabilmente docenti, erano assolutamente meno esposti, rispetto alle attuali generazioni, ad un “regime iconografico” così pervasivo e costante come quello odierno; allo stesso tempo essi avevano strumenti di formazione ancora essenzialmente legati al paradigma lineare del libro di testo; infine erano dotati di un immaginario meno “colonizzato” dal dominio dell’autorappresentazione social, in altre parole erano meno esposti al giudizio esterno che non fosse quello dei loro pari “reali” e non “virtuali”, vivevano cioè in “piazze reali”, decisamente meno popolate di quelle attuali tipiche dei social network. Pensiamo che tutto ciò non abbia inciso in modo irreversibile sui loro pattern mentali? Quello che spesso si finge di non capire è che internet ha cambiato in modo radicale, irreversibile e velocissimo un sistema culturale che, sotto certi aspetti, era fermo da decenni se non da secoli. È successo quello che è accaduto con la stampa, ma con la differenza che è avvenuto in un poco più che un decennio. Noi docenti non possiamo non considerare questo fenomeno ogni qual volta entriamo in classe a tenere una lezione. Ed eccoci arrivati al punto nodale: può, in questo scenario, la lezione frontale ancora sopravvivere? Certo, ma solo se affiancata ad altre strategie che possiamo chiamare “metodologie attive”. Dicevamo, ci troviamo difronte ad uno scenario diverso quello dei Natividigitali (espressione coniata da Mark Prensky nel suo articolo Digital Natives, Digital Immigrants, pubblicato nel 2001). Una generazione nata dopo il 1990 che crescerebbe in una società multischermo e considererebbe le tecnologie come un elemento naturale, non provando alcun disagio nel manipolarle e interagire con esse.
  • 5. In questo contesto di società digitale la figura più importante e di riferimento per una didattica alternativa è Seymour Papert, nato nel 1928, un matematico sudafricano i cui contributi interessano anche le scienze dell’educazione. Grande studioso internazionale delle modalità attraverso le quali i bambini possono utilizzare i computer e le tecnologie digitali, per migliorare lo studio e l’apprendimento. La sua fama in Italia è diffusa purtroppo solo tra gli specialisti, mentre è molto vasta negli Stati Uniti. Papert è stato, ad esempio, consulente di Carter e Clinton all’interno dei programmi di introduzione delle nuove tecnologie nella scuola primaria. Papert, inoltre, è stato il primo studioso a comprendere tra gli anni Sessanta e Settanta quale sarebbe stato il ruolo rivoluzionario delle tecnologie digitali nel campo dell’educazione e della didattica. Secondo questo studioso l’apprendimento è un processo di costruzione di modelli mentali, che è più efficace se realizzato per mezzo d’oggetti fisici. Questa teoria prende il nome di “costruzionismo” e postula che ogni apprendimento è facilitato dall’utilizzo di materiali concreti, che Papert chiama “artefatti cognitivi”. Ma coso intendiamo per artefatti? Chi, nato fra gli anni 70/80, non ha visto in tv da piccolo Fred e Wilma, protagonisti, assieme a Barney e Betty, degli Antenati. Come ben descritto su Wikipedia, nel mondo di Fred e Wilma gli uomini delle caverne fanno largo utilizzo di tecnologie simili a quelle attuali ma basate sull'utilizzo di vari animali: guidano automobili fatte di pietra o legno; gli aeroplani consistono in giganteschi pterodattili sul cui dorso sono sistemati i sedili per i passeggeri; gli ascensori sono mossi dai brontosauri. questi artefatti, moderni ma di pietra, sono uno dei punti di forza del cartone. Se vogliamo raccontare la storia degli artefatti dall'inizio, dobbiamo partire proprio da loro, dagli uomini dell'Età della Pietra. Periodo che deve il nome ai chopper, pietre scheggiate dai primi ominidi ed utilizzate, presumibilmente, per cacciare, combattere e produrre altri utensili di legno o di ossa. I chopper sono i primi esempi di artefatti, e costituiscono, assieme alla postura eretta, alla mano prensile ed allo sviluppo del lobo frontale, le caratteristiche che segnano il passaggio dagli ominidi agli esseri umani. Infatti, sebbene altri primati siano capaci di utilizzare degli oggetti dell'ambienti come strumenti, soltanto gli esseri umani hanno la capacità di modificare un
  • 6. oggetto pre-esistente per renderlo più utile nel realizzare uno scopo. questa capacità implica l'attitudine a rappresentarsi mentalmente lo stato finale dell'oggetto e le azioni necessarie per trasformarlo. Nei chopper vediamo un bisogno: cacciare, per procurarsi del cibo, e difendersi. Vediamo degli strumenti capaci di ampliare le possibilità degli individui che li usano. Vediamo, infine, il grado zero della progettazione: un processo, contemporaneamente cognitivo e manuale, finalizzato a realizzare uno strumento immaginato (o copiato). Insomma, l'antenato del design. Tanto che potremmo dire che l'uomo nasce designer. Per avere traccia del primo artefatto cognitivo, però, dobbiamo aspettare centinaia di migliaia di anni. Il Codice di Ur-Nammu, risalente al 2100 a.C., ad esempio, costituisce il primo codice legale tramandatoci. Fred e Wilma ci ricordano che, da allora, tutto è cambiato: nei paesi occidentali comuni chiamo con cellulari, computer e internet, viaggiamo in aereo, treno, automobile, e siamo circondati da oggetti e tecnologie che ci permettono una vita agiata, sebbene a costo di un crescente inquinamento. Anche i bisogni di un individuo del terzo millennio sono diversi da quelli dei primi Homo Faber. I bisogni di base, però, sono universali. Abbiamo bisogno di quelle risorse che ci permettono di sopravvivere, di sicurezza, di relazioni sociali, affettive. Per l'uomo preistorico le risorse erano il cibo, l'acqua, la sicurezza era un luogo dove riposarsi al riparo dai predatori. Per noi le risorse sono il denaro, che ci permette di acquistare tutto il resto, la sicurezza è la casa, il servizio sanitario, le forze dell'ordine. La tecnologia corre veloce: quand'è stata l'ultima volta che hai usato un floppy disk? Uno dei primi calcolatori, il Commodore 128, salvava i dati sulle musicassette a nastro. La soluzione tecnica cambia rapidamente, diventa più efficiente, più potente, più sicura, ma il bisogno rimane quello dei nastri del Commodore o delle schede perforate dei primi calcolatori: salvare le informazioni. Ai tempi di Ur-Nammu le leggi venivano codificate su pietra e su papiro, ma il bisogno era lo stesso: salvare le informazioni e comunicarle. Apparentemente, per correre veloci, dobbiamo concentrarci sulle tecnologie. L'enfasi sulle tecnologie, però, ci porta a concentrarci sull'esistente, oppure a tentare delle previsioni spesso difficili. Focalizzarsi sui bisogni, al contrario, ci porta a previsioni certe. Perché i bisogni cambiano lentamente, ed alcuni bisogni rimangono gli stessi. In secondo luogo, concentrarsi sui bisogni permette di non rimanere focalizzati sulle soluzioni note, rimanendo intrappolati nella fissità funzionale che ci impedisce di immaginare soluzioni innovative. Torniamo a parlare dell’artefatto cognitivo di Papert, è un oggetto o un processo concreto che permette la costruzione di modelli mentali validi, proprio perché su di esso si può operare. Ad esempio secondo Papert la lentezza nello sviluppo di un concetto da parte di un bambino è dovuta al fatto che egli non possa operare su di un artefatto cognitivo che renda quel concetto tangibile. Questa teoria dell’apprendimento ha in comune con il costruttivismo l’idea che la conoscenza è una costruzione personale. Imparare, infatti, non consiste in una semplice trasmissione di informazioni da una persona all’altra. Questa era anche l’idea di Jean Piaget, con il quale Papert lavorò negli anni 60 a Ginevra. Tale concetto raggruppa gli oggetti e i dispositivi che facilitano lo sviluppo di specifici apprendimenti. Ciò è necessario perché, rispetto al costruttivismo, il costruzionismo prevede che il processo di apprendimento sia un processo di
  • 7. costruzione di rappresentazioni più o meno corrette e funzionali del mondo con cui si interagisce. L'idea di base del concetto degli artefatti cognitivi è che la mente per apprendere ha bisogno di costruire oggetti e dispositivi, di maneggiare materiali reali. Ciò vale a qualunque età, si sia bambini, adolescenti o adulti. Il procedimento che si usa deriva quindi dal bisogno di procedere per prove ed errori, attraverso una serie di tentativi di rappresentazione del mondo che ci circonda. L'apprendimento si sviluppa quindi con la discussione, l'analisi, il confronto, l'esposizione, il sondaggio, l'ammirazione, la costruzione e lo smontaggio e la ricostruzione degli artefatti cognitivi. La genesi dell'idea dell'artefatto cognitivo si deve all'osservazione da parte di Papert delle attività di alcune tribù africane in cui i bambini costruivano delle case in scala o altri piccoli manufatti in giunco. Prendendo spunto da questa osservazione, Papert sviluppa l'idea che anche la mente, come il costruttore generico, ha bisogno di materiali appropriati per poter generare un'idea. Il concetto degli artefatti cognitivi trova la sua più ovvia applicazione nel campo dell'insegnamento. In particolare, oltre all'insegnamento classico, uno dei percorsi più tipici di applicazione degli artefatti cognitivi è l' e- learning e in particolare l'analisi, la creazione e l'uso delle interfacce uomo-macchina o, più in particolare, delle interfacce studente-sistema di autoapprendimento, ne parleremo meglio in seguito. Gli artefatti cognitivi possono però essere riutilizzati come metodologia creativa e comunicativa, come il già citato learning by doing, nei più disparati campi delle relazioni umane, anche in un campo che potrebbe sembrare lontano come la cucina per esempio. Il concetto dell'artefatto cognitivo è anche l'idea base per gli studi per lo sviluppo dell'OLPC (One Laptop per Child), poi rielaborati di Alan Kay e completati da Nicholas Negroponte. Oltre Papert infatti sono tantissimi gli studiosi che condividono queste teorie, secondo Donald Norman gli artefatti cognitivi sono strumenti di pensiero che completano le capacità della nostra mente rafforzandone i poteri. Anche secondo Jerome Bruner l'artefatto cognitivo è necessario all'apprendimento. Oltre all'apprendimento, Bruner lo lega anche alla conoscenza in senso lato, indicando come artefatti cognitivi gli appunti dei notes, i brani sottolineati nei libri, le informazioni memorizzate nel computer e così via. Parlando di artefatti cognitivi, torniamo ad approfondire il costruzionismo. Parte dalla teoria costruttivista in cui viene data grande rilevanza all’utilizzo degli artefatti. Il costruttivismo è una posizione filosofica ed epistemologica che considera la rappresentazione della realtà, e quindi il mondo in cui viviamo, come il risultato dell'attività costruttrice delle nostre strutture cognitive, assumendo una prospettiva spesso relativistica e soggettivista. Seppur molti costruttivisti, di matrice più razionalista, affermino l'esistenza di una realtà oggettiva e fisica e di alcuni principi morali, quello che conta ai loro occhi, nell'interazione tra il mondo e i soggetti, è solo e unicamente la realtà percepita da costoro. La vita è un processo cognitivo: vivere significa conoscere e conoscere significa vivere. È attraverso il processo cognitivo, che nasce dall'esperienza individuale, che ogni essere vivente genera il proprio mondo. L'esperienza vissuta è il punto di partenza di ogni conoscenza e l'uomo compie le proprie esperienze attraverso il proprio corpo avente struttura determinata. Soggetti diversi rispondono in maniera diversa ad uno stesso stimolo e la risposta sarà determinata dal modo in cui l'osservatore è strutturato. È la struttura dell'osservatore che determina come esso si comporterà e non l'informazione ricevuta. L'informazione in sé non ha significato se non quello che le attribuisce il sistema con cui interagisce, perciò la sua stessa esistenza, e la stessa realtà oggettiva, può essere messa «tra parentesi», secondo un'espressione utilizzata da Husserl. Tutte quelle proprietà che si credeva facessero parte delle cose, si rivelano così proprietà dell'osservatore, per cui l'oggettività che conta non è quella esterna e indipendente dal soggetto, ma quella data dall'obiettivo (mentale) verso cui si dirige ogni atto intenzionale del pensiero. Gli esiti di questa concezione sono diversi. Da un lato, se ogni soggetto costruisce la propria realtà quale i suoi sensi gli presentano (soggettivismo), e se questa realtà è mutevole nel tempo e nello spazio in ragione dello stato in cui egli stesso e l'oggetto osservato si trovano, si aprirebbero le porte del relativismo, in base al quale non esisterebbe più alcuna vera differenza tra ciò che si conosce e ciò che è, dato che ogni essere senziente ha il proprio mondo personale (il principio di non contraddizione viene a
  • 8. decadere). D'altro lato, non mancano posizioni critiche nei confronti del relativismo stesso, che rilevano come esso cada in una palese contraddizione in termini quando pretende di negare ogni possibilità di conoscenza oggettiva da un punto di vista oggettivo, o di affermare la relatività del tutto facendone una tesi assoluta. Husserl, ad esempio, contestando lo psicologismo, sosteneva che le leggi della logica esprimono una necessità assoluta, su cui si basa la possibilità stessa del conoscere e del pensare. Il costruttivismo così definito, per vari cambiamenti sul piano culturale, filosofico e della ricerca tecnologica, nasce come un nuovo quadro teorico negli anni '70 e 80. Esso scaturisce dal crollo dell'idea che la conoscenza possa essere oggettivamente appresa. Nasce soprattutto come esigenza di abbandonare un cognitivismo H. I. P. (Human Information Processing) che non ha mai del tutto rinunciato ad alcune componenti meccanicistiche proprie del comportamentismo. I concetti principali che caratterizzano l'attuale costruttivismo sono i seguenti: 1. la conoscenza è prodotto di una costruzione attiva del soggetto, 2. la conoscenza ha carattere "situato", ancorato nel contesto concreto, 3. la conoscenza si svolge attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale. In primo piano viene posta la "costruzione del significato" sottolineando il carattere attivo, polisemico, non predeterminabile di tale attività. La teoria della conoscenza (gnoseologia) dei costruttivisti postula che il conoscere sia: 1 il prodotto di una costruzione attiva da parte del soggetto; 2 strettamente collegato alla situazione concreta in cui avviene l'apprendimento; 3 nascente dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale. Nel costruttivismo si assume che la formazione sia un'esperienza situata in uno specifico contesto: il soggetto, spinto dai propri interessi, costruisce attivamente una propria concezione della realtà attraverso un processo di integrazione di molteplici prospettive offerte. Didatticamente il costruttivismo recupera alcuni concetti del positivismo e del neopositivismo: la conoscenza come costruzione attiva del soggetto, è un concetto presente in gran parte della ricerca di questo secolo. Dewey, Piaget e Vygotskij possono essere considerati costruttivisti. L'apprendimento non è visto solo come un'attività personale, ma come il risultato di una dimensione collettiva d'interpretazione della realtà. La nuova conoscenza si costruisce non solo in base a ciò che è stato acquisito in passate esperienze ma anche e soprattutto attraverso la condivisione e negoziazione di significati espressi da una "comunità di interpreti". Esso è anche un nuovo quadro di riferimento learning centered che pone, cioè, il soggetto che apprende al centro del processo formativo, in alternativa ad un approccio educativo teaching centered, basato sulla centralità dell'insegnante, unico e indiscusso detentore di un sapere universale, astratto e indipendente dal contesto di riferimento. Nelle scuola digitale e innovativa tutte le teorie costruttivistiche stanno riscuotendo grande interesse ne è un ottimo esempio la Peer Education, che costituisce una proposta educativa in base al quale alcuni membri di un gruppo vengono formati per svolgere un ruolo di educatore e tutor per il gruppo dei propri pari. Nasce come progetto educativo teso a promuovere un rapporto tra giovani e adulti nel quale ognuno possa preservare la propria identità ed il proprio ruolo. Il rapporto educativo viene inteso come un'esperienza democratica, nella quale l'interazione fra educatori ed "allievi" viene regolata dalla simmetria, dall'eguaglianza, dalla complementarità e dal mutuo controllo (laddove invece il rapporto educativo classico risulta essere asimmetrico, ed il potere che vi si concentra tende a collocarsi da una sola parte). Questo non indica che la Peer Education intenda mettere in discussione i metodi tradizionali di insegnamento, né che pretenda di sostituirsi ad essi: l'educazione tra pari punta invece ad affiancare il consueto modello di rapporto insegnante/allievo, limitandosi ad intervenire in settori definiti. Il terreno di intervento della Peer Education, dal punto di vista dei contenuti, è individuabile nell’ambito del "comportamento consapevole": l'educazione tra pari ha insomma lo scopo di trasferire informazioni ma soprattutto consapevolezza, e si basa sul principio convenuto che i modelli di comportamento dei giovani vengono appresi più facilmente all'interno di gruppi di coetanei che nel tradizionale rapporto educativo genitore-figlio o insegnante-allievo, e che dunque l'efficacia dell'influenza dei pari, anche su argomenti importanti sia di gran lunga migliore a quella prodotta dagli interventi degli adulti.
  • 9. La Peer Education, in questo senso, risulta essere un'esperienza particolarmente valido soprattutto per coloro che decidono di diventare dei Peer Educators. Nel rivestire il ruolo di educatori, infatti, i ragazzi hanno un'importante occasione per sospendere gli abiti consueti dello studente (inteso come il semplice destinatario dell'insegnamento degli adulti) e per assumere un ruolo responsabile e propositivo, nel quale ciascuno possa misurare le proprie capacità di comunicazione e nel confrontarsi con le risposte che gli vengono dai compagni in modo da verificare gli effetti concreti del proprio lavoro. La Peer Education, tende dunque a favorire la crescita dell’individuo attraverso lo sviluppo del senso critico, della coscienza di sé e della propria generazione: l'apprendimento di queste competenze inizia col favorire le condizioni perché i Peer Educators siano indotti a costruire un gruppo di lavoro, a produrre iniziative condivise, a sviluppare un progetto affidandosi esclusivamente a se stessi. Ma il costruttivismo, oltre che nella didattica e nella filosofia generale, ha prodotto contributi principalmente nella forma epistemologica, nella psicologia (specialmente la psicologia sistemica, la psicoterapia strategica e quella cognitivo-comportamentale, con influssi di quella Ericksoniana, nonché nella disciplina non riconosciuta della programmazione neuro linguistica) e nella sociologia (costruttivismo sociale e costruzionismo) oltre che in matematica e in cibernetica, linguistica e arte (da non confondere con il costruttivismo artistico sorto nel 1913, che rappresenta un movimento a sé stante) e finanche in scienza politica. Dal rapido sviluppo tecnologico, che ha portato ad una società multischermo digitale, scaturisce una grande interesse per una evoluzione dal costruttivismo al costruzionismo e Papert in questo modo sposta anche l’attenzione dagli stadi di sviluppo cognitivo piagetiani allo studio dei contesti in cui si apprende. Questa è anche una presa di distanza da una cultura che privilegia il pensiero formale, astratto, per ridare valore al pensiero concreto. Negli anni 60 Papert è al MIT dove s’interessa d’intelligenza artificiale.
  • 10. Lo sviluppo del pensiero e della riflessione di Papert è segnato da due grandi incontri intellettuali e personali, quello con Jean Piaget, che avviene all’Università di Ginevera, dove lavora tra il 1958 e il 1963 e quello con Marvin Minsky, con il quale incessantemente lavora al MIT, ritornato negli USA a partire del 1963. La collaborazione con Piaget è quella a cui si deve l’interesse di Papert, giovane matematico di formazione, per lo sviluppo cognitivo dei bambini. Negli anni Sessanta Papert, si colloca ancora all’interno dei una visione computazionalista della mente e del paradigma cibernetico cognitivista, e il suo lavoro con Piaget si focalizza sul tentativo di utilizzare una modellizzazione matematica delle modalità dello sviluppo cognitivo dei bambini. Negli anni Sessanta Papert, si colloca ancora all’interno dei una visione computazionalista della mente e del paradigma cibernetico cognitivista, e il suo lavoro con Piaget si focalizza sul tentativo di utilizzare una modellizzazione matematica delle modalità dello sviluppo cognitivo dei bambini. La ricerca di Papert prosegue all’M.I.T. di Boston sotto la guida di Marvin Minsky nel 1963 insieme ai suoi collaboratori, anch’egli all’epoca fautore della cibernetica cognitivista. Insieme a Minsky è, infatti, tra i fondatori del Artificial Intelligence Laboratory e lavora con il team che contribuisce ad adattare il linguaggio di programmazione LISP3 per la creazione dei primi sistemi di intelligenza artificiale. E’ in quest’epoca che sviluppa l’idea di un linguaggio programmazione che possa essere utilizzato dai bambini per “programmare” i calcolatori, si tratta di una variante semplificata del LISP, il LOGO ™. Questo linguaggio di programmazione è basato sull’idea che i bambini possano comprendere meglio i principi della programmazione imparando direttamente a programmare in maniera semplice. In particolare nel caso del LOGO, si tratta di far muovere sullo schermo, attraverso semplici righe di codice, una l’icona di una tartaruga sullo schermo, in modo da poter costruire figure geometriche e disegni. L’intuizione che generò il LOGO è la prima idea rivoluzionaria di Papert nel campo delle tecnologie didattiche dal momento che in quegli anni, sotto l’influsso del comportamentismo di
  • 11. Skinner, l’ipotesi più accreditata intendeva i computer come vere e proprie macchine per insegnare “istruzionali”. Erano le macchine, che avrebbero dovuto “programmare” i bambini e addirittura sostituire gli insegnanti, mentre Papert ribaltava questa impostazione sostenendo che i computer debbano essere usati in modo ludico e costruttivo per liberare la creatività dei bambini e per potenziare le loro “intelligenze multiple”. Con la crisi del programma di ricerca dell’Intelligenza artificiale “forte”, e cioè con il fallimento anche sperimentale dell’ipotesi secondo la quale la mente possa “funzionare” come un computer e che quindi le dinamiche del pensiero possano essere compreso e descritto attraverso gli strumenti della logica formale si afferma la svolta “connessionista”. Il connessionismo ribalta l’ipotesi cibernetico-cognitivista nella proposta di spiegazione delle dinamiche di funzionamento della mente. Le strutture logico-formali del cognitivismo cibernetico sono sostituite da operazioni numeriche anche molto complesse (equazioni differenziali ad esempio) che permettono di mappare e descrivere gli stati del sistema a partire da elementi semplici (sul modello dei neuroni del cevello) e dalle loro connessioni, via via più complesse, nella loro evoluzione genetica nel tempo. Il connessionismo rovescia, dunque l’assunto della cibernetica cognitivista, sostenendo che sono i computer a dover tentare di emulare il funzionamento, infinitamente più complesso e ricco della mente umana e non viceversa. Sia Minsky che Papert nell’aderire alla svolta connessionista modificano radicalmente la loro impostazione epistemologica. Cominciano, infatti, a ipotizzare che la dinamiche dei processi cognitivi, il funzionamento del pensiero e dell’apprendimento nascano dell’interazione “sociale” di un molteplicità di elementi semplici, i neuroni e le aggregazioni di neuroni. La mente e i processi di apprendimento possono essere quindi compresi solo leggendo le interazioni “sociali”, appunto, che si svolgono all’interno della mente e nei rapporti tra la mente e l’ambiente proprio come se si dovesse sviluppare un’analisi sociale delle dinamiche cognitive. Si tratta della “società della mente” o “delle menti”, appunto, riprendendo alla lettera il titolo del fondamentale volume di Marvin Misky. Minsky analizzando lo sviluppo dell’intelligenza e delle capacità di apprendimento nei bambini afferma come sia importante studiare non solo il manifestarsi e lo svilupparsi, attraverso opportuni esperimenti, delle varie fasi dello sviluppo della cognizione – il metodo inaugurato da Piaget -, ma anche provare, come suggerito da Papert, a comprendere il modo in cui, a livello neurale, avvenga lo slittamento da una modalità cognitiva all’altra, chiarire cioè la strategia cognitiva che è sottesa al paradigma dell’epistemologia genetica. Quali sono, quindi, le strategie del passaggio da una fase cognitiva all’altra e come possiamo aiutare i bambini a rendere più creativo e ricco lo sviluppo dinamico delle capacità cognitive. Afferma a questo proposito Minsky: “(…) Questa spiegazione della differenza tra bambini piccoli e grandi fu proposta per la prima volta da Seymor Papert, negli anni Sessanta, quando cominciammo a esplorare insieme l’idea di una società della mente. Le teorie precedenti avevano per lo più tentato di spiegare gli esperimenti di Piaget (N.d.A. relativi alle differenti modalità della cognizione nelle diverse fasi dello sviluppo) ipotizzando che i bambini sviluppino con il tempo modi di ragionare diversi. Questo è certamente vero, ma l’importanza della concezione di Papert sta nel sottolineare non soltanto gli ingredienti del ragionamento, ma anche il modo in cui essi sono
  • 12. organizzati: una mente non può crescere molto se si limita ad accumulare conoscenze (secondo il metodo istruzionistia NdC). Deve anche inventare modi migliori per usare ciò che già sa. Questo principio merita un nome. Principio di Papert. Alcuni tra gli stadi più cruciali sullo sviluppo mentale sono basati non sulla semplice acquisizione di nuove abilità, bensì sull’acquisizione di nuovi metodi di amministrazione per usare ciò che già si conosce.”5. Proprio sviluppando questo principio nel sul primo volume dedicato a questo tema Mindstorms: bambini, computers e creatività del 1986, Papert sostiene come l’uso e la pratica con la programmazione dei computer, intesi come strumenti per apprendere – tools e non tutor - , come strumenti per aiutare a costruire una maggior rete di relazione tra la vita quotidiana e l’esperienza didattica, possa redendere più concreti e soprattutto manipolabili, concetti che nella tradizionale pratica scolastica - “istruzionista”, cioè fondata sul metodo dell’accumulazione delle conoscenze - restano spesso astratti e lontani dall’esperienza dei bambini. Ad esempio nel caso della matematica molti concetti, se “costruiti” al computer dai bambini e rappresentati da loro attraverso lo strumento del Logo in maniera visuale – ad esempio nel caso delle frazioni attraverso la suddivisione in fette di una torta sullo schermo – possono avvicinarsi maggiormente alla loro esperienza. Essere protagonisti della costruzione del sapere e dei concetti, può inoltre permettere ai bambini di “accomodare” nuove conoscenze all’interno della “società delle loro menti individuali” e in quella del gruppo classe all’interno del quale sono inseriti. Inoltre la programmazione attraverso il Logo si svolge attraverso una serie di esperimenti euristici e di progressivi tentativi di soluzione di un problema che permettono al bambino di comprendere come non esista un’unica soluzione, un’unica via, un’unica intelligenza – ricollegandosi qui alla riflessione di Gardner sulle intelligenze multiple – ma come gli stili cognitivi e le modalità stesse di apprendere siano strutturalmente plurali. La riflessione di Papert non si ferma ad analizzare lo sviluppo delle capacità di apprendere del singolo individuo, ma coerentemente con l’impostazione “sociale” della sua riflessione su “Bambini e computer” nel suo volume del 1990 I Bambini e il Computer analizza un ricca messe di casi sperimentali di un didattica “costruzionista” all’interno della scuola. Papert, ha, infatti nel frattempo avviato e sviluppato a fondo una serie di sperimentazioni legate all’applicazione delle successive versioni del programma Logo e della didattica costruttiva ad essa legata nella scuola. Sperimentazioni che negli Stati Uniti hanno coinvolto, direttamente o indirettamente decine di migliaia di insegnanti e centinaia di miglia di Bambini. In particolare Papert ne “I bambini e il computer” si sofferma sull’analisi di come all’interno dell’istituzione scolastica fino alla “rivoluzione digitale” sia prevalsa un sola forma di alfabettizazione la “literacy” del libro. Come abbiamo notato più sopra, invece, per Papert esistono una grande quantità di tipologie di alfabettizzazione così come esistono una pluralità di stili di apprendimento e di insegnamento e una pluralità di modalità di conoscenza. Da questo punto di vista la pluralità di codici comunicativi che vengono veicolati dai PC e dalle reti telematiche sono la più chiara dimostrazione di questo assunto. Il problema oggi è paradossalmente il fatto che nella cultura occidentale abbia vinto il modello gutenberghiano, e che un’unica tipologia di alfabetizzazione, di modalità di apprendere e di conoscere si è affermata decisamente sulle altre. Per secoli la scuola, la cultura e il sapere si sono identificare con il libro e si sono riferite solamente alla cultura scritta e soprattutto al modello uno-molto di diffusione e “traslocazione delle conoscenze” incarnato dal libro e dagli altri media gutemberghiani, la radio, la televisione ecc. Si tratta di un modello fondato sulla strutturale asimmetria tra chi insegna e chi apprende e sul modello accumulativi – istruzionale di immagazzinamento del sapere. Papert, ritiene che i nostri figli “siano a rischio” nel momento in cui si perpetua questa tipologia di alfabetizzazione monologica e monocodicale. Il mondo contemporaneo è complesso stratificato e strutturalemte multicodicali, la sua “tecnologia caratterizzante” non è più il libro e non solo il libro; per questo perpetuare esclusivamente il modello gutemberghiano di trasmissione del sapere all’interno della famiglia, così come dell’istituzione scolastica, vorrebbe dire aprire uno iato molto pericoloso tra noi “figli del libro”, e la tradizione culturale di cui siamo portatori e i nostri figli. Secondo Papert, forse fin troppo ottimista
  • 13. in questa sua convinzione, un ambiente formativo esteso che integri le modalità tradizionali con quelle rese possibili dalle nuove tecnologie digitali, insieme all’utilizzo del metodo attivo e “costruzionisita” nella didattica, permetterebbe, di offrire ai bambini (soprattutto nel passaggio dalla famiglia alla scuola) uno stile di apprendimento più personale, più interattivo e negoziale, più graduale e più armonizzato con il contesto macro-sociale che li circonda. La criticità della proposta di Papert è chiara, in questo modello sarebbe necessario che le differenze di alfabettizzazione digitale e le differenti possibilità di “accesso” tra le diverse famiglie, così come le differenze locali e sistemiche tra i singoli istituti scolasti e i sistemi dell’istruzione nei differenti paesi venissero “per magia” abbattute. Famiglia, scuola sistema sociale e istituzionale dovrebbero cioè muoversi in secondo una logica completamente sincronica che è evidentemente un solo un modello ideale – direbbe Weber idealtipico cui tendere - ma che rischia di non poter mai essere implementato in concreto. Inoltre Papert tende a sottovalutare i rischi che una digitalizzazione “selvaggia” e guidata esclusivamente dal mercato della formazione e della didattica così come degli strumenti di trasmissione del sapere potrebbe comportare. Tuttavia, nonostante il suo carattere “utopico”, la proposta papertiana rappresenta una provocazione intellettuale molto interessante e uno stimolo a promuovere una reale interazione cooperativa tra famiglia e scuola che certamente può essere mediata ed agevolata dalle nuove tecnologie dell’apprendimento. Come detto finora, Papert fù un precursore dei sistemi didattici alternativi, il suo progetto Logo è un linguaggio di programmazione per computer, sviluppatosi nel tempo in più versioni, molto utilizzato per l’apprendimento dei bambini. Grazie ad esso gli alunni s’impegnano in attività per mezzo delle quali possono imparare diverse discipline in modo coinvolgente e divertente. Programmare in Logo, infatti, permette ai più piccoli di “produrre” qualcosa (ad esempio un disegno, ma anche un testo o una musica) sperimentando regole logiche ed ottenere artefatti cognitivi tangibili. L’esempio più noto di questo linguaggio di programmazione è l’ambiente geometrico in cui si opera con un cursore a forma di tartaruga, cui si danno istruzioni sul movimento. Così facendo, è possibile guidare il cursore e costruire figure geometriche anche complesse, imparando quali sono i meccanismi che le hanno generate. Il bambino può apprendere ad esempio, le proprietà di un quadrato, guidando la tartaruga sempre ad angoli di 90° indipendentemente dalla posizione iniziale del lato. In rete, è anche possibile trovare versioni gratuite di questo ambiente di programmazione. Negli anni 90 Mitchel Resnick del MIT collabora con la LEGO rendendo programmabili in LOGO i celebri mattoncini colorati. Nasce il Lego/logo, cioè una serie di kit di costruzioni per bambini in cui i mattoncini della Lego sono controllati da un PC. Grazie a questi giochi, che nel tempo hanno conosciuto vari sviluppi (il più famoso è LEGO Mindstorms), i bambini possono costruire e programmare piccoli robot. I mattoncini programmabili permettono in questo modo, di esplorare in modo divertente tecnologie avanzate. Questi sviluppi ribadiscono l’idea costruzionista secondo la quale l’apprendimento efficace è realizzato per mezzo di qualcosa che può essere “mostrato, discusso,
  • 14. esaminato, sondato e ammirato.” La teoria costruzionista e l’uso del computer in educazione permettono secondo Papert di perseguire l’obiettivo di “insegnare in modo tale da offrire il maggiore apprendimento col minimo d’insegnamento”. Alla luce dell’analisi fatta fino a questo momento al fine di arrivare alla conclusione di questo testo, dovremmo chiederci: ma la scuola dell'obbligo deve insegnare "conoscenze" o "competenze"? La domanda apparentemente è astratta, ma dalla risposta discendono conseguenze concrete, perché ne dipendono i contenuti e i metodi dell'insegnamento. Fino a pochi decenni or sono era considerato ovvio che la scuola dovesse impartire nozioni. Ma oggi il mondo è cambiato. Si riscontra sempre più spesso che le conoscenze non servono a chi non è in grado di usarle per risolvere problemi nuovi, soprattutto nel settore digitale. E sono soprattutto le aziende a insistere sul dare il via a una svolta radicale. «Oggi le aziende non sono più disposte a insegnare il mestiere per anni e si aspettano piena efficienza sin dal primo giorno di lavoro. E i lavori cambiano: non sono più uno o due nell'arco della vita ma 10-15, e saranno sempre di più. Non serve "sapere" ma "saper imparare"». Chi parla è Charles Fadel, responsabile Global Education della Cisco, autore del best seller XXI Century Skills e cofondatore del P21 (Partnership for XXI Century Skills): un gruppo che comprende 40 fra grandi aziende e altri enti, e che ha convinto 14 stati Usa, tra cui il Massachusetts, ad adottare il proprio progetto educativo. Il presidente Obama ha proclamato che «nel XXI secolo le abilità fondamentali saranno il pensiero critico, l'intraprendenza e la creatività». Per svilupparle la scuola dovrà insegnare in modo nuovo. La produttività degli individui dipenderà sempre più dalla capacità di adattarsi, innovare, lavorare in gruppo, pensare in modo critico. «Se un dottore di ricerca cinese costa cinque volte meno di un europeo o un americano – continua Fadel – quest'ultimo dovrà essere cinque volte più produttivo, o finirà fuori mercato». È questa la premessa della svolta pedagogica «dalle conoscenze alle competenze», cioè a un sapere conquistato in modo attivo attraverso la soluzione di problemi tratti dalla vita reale. «Attenzione però, sottolinea Fadel: non bisogna contrapporre conoscenze a competenze, bensì sviluppare le seconde dalle prime». L'insegnamento di base non va abbandonato, va potenziato. Restano validi gli obiettivi tradizionali: ridurre l'abbandono scolastico, accrescere il numero dei laureati, rafforzare le conoscenze nelle lingue, in matematica, scienze, storia, educazione civica, ma dobbiamo assolutamente inserire lo studio del coding (la programmazione) già dalle scuole primarie, del pensiero computazionale e della robotica. potenziare i laboratori e introdurre sempre più sistemi digitali che permettano ai ragazzi di avere un sistema cognitivo più congeniale ai loro sistemi di comunicazione per un uso consapevole delle tecnologie.
  • 15. Bibliografia Bruno Munari, (2°edizione 2017), Design e comunicazione visiva, contributo a una metodologia didattica: Laterza Bruno Munari, (2°edizione 2017), Arte come mestiere: Laterza Comoglio M., Cardoso M. A., Insegnare e apprendere in gruppo, LAS, Roma, 1996 Comoglio M., Il gruppo come luogo in cui apprendere a cooperare, Animazione Sociale Aprile 1996 p.23-54. Corallo, R. (2009). 9 volte intelligenti. Favole, giochi e attività per sviluppare le intelligenze multiple nella scuola dell’infanzia. Trento: Erickson. Corbella, S., Boria, G. (2000), Pensare e sognare di gruppo e in gruppo, «Quaderni dell’associazione italiana psicodrammatisti moreniani», IV, Aipsim. Cornoldi, C., De Beni, R., Gruppo MT (2002). Imparare a studiare 2. Trento: Erickson. Emilio Gattico, (20015), Costruttivismo e scienze dalla formazione: Unicopli Felice Corona, (2015), Autismi. Fenomenologia degli artefatti cognitivi. Archetipi inclusivi di didattica applicata: Aracne Francescato, D., Putton, A. Cudini, S. (1986), Star bene insieme a scuola, Roma: Carrocci Gardner, H. (1993), Educare al comprendere, Feltrinelli, Milano. Gentili, G. (2011). Intelligenze multiple in classe. Modelli, applicazioni, esperienze per una didattica efficace. Trento: Erickson. Gordon T. (1974), (tr. it) (1991), Insegnanti efficaci, Giunti e Lisciani: Teramo. Johnson D., Johnson R., Holubec E. (1996), Apprendimento cooperativo in classe, ERICKSON: TRENTO. Martinelli M., (2004), In gruppo si impara. Apprendimento cooperativo e personalizzazione dei processi didattici, SEI: Torino. Maslow, AH., 1954, Motivazione e personalità, tr. it. Armando, Roma, 1973. Polito M., (2000), Attivare le risorse del gruppo classe. Strategie per l’apprendimento reciproco e la crescita personale, Edizioni Erickson: Trento. Seymour Papert , P. Ferri , G. Santambrogio , A. Solidoro (2006), Connected family. Come aiutare genitori e bambini a comprendersi nell'era di internet, Mimesis: Seymour Papert , (2001), I bambini e il computer, nuove idee e nuovi strumenti per l’educazione, Rizzoli: Seymour Papert , (1984), Mindstorm, bambini, computer e creatività , Emme: Simonetti, C. (2016), Educazione famiglia e territorio: una triade educativa da riscoprire, in Mizar. Costellazione di pensieri, n. 2-3-2016, 109-123. Smorti, M., Tschiesner, R., Farneti, A. (2016). Psicologia per la Buona scuola. libreriauniversitaria.it Venza, G. (2007), Dinamiche di gruppo e tecniche di gruppo nel lavoro educativo e formativo, Franco Angeli: Milano.