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ANTELAO
IN PUNTA DI PIEDI
Il Re del Cadore in 150 anni di storia alpinistica
Marcello
Mason
Idea Montagna Editoria e Alpinismo
Via S. Antonio, 23
35037 Teolo PD
info@ideamontagna.it
www.ideamontagna.it
Prima edizione giugno 2010
ISBN 978-88-903275-8-2
Progetto grafico, ritocco fotografico e impaginazione:
Officina Creativa sas - Padova
Grafica di copertina: Rossella Benetollo
Stampa: Officina Creativa sas - Padova
Si ringraziano per i contributi iconografici:
Le Alpi Venete (p. 20-27-34-39-55-61-64-99-131-145-163-221); Arch. Francesco Cappellari
(p. 12-13-123-144-250-252); Arch. Ragni di Pieve di Cadore (p. 86-89-95-101-104-194-
232); Arch. Roberto Belli Codàn (p. 25-153); Antonio Berti, guida Dolomiti Orientali (p.
28-51-62-76-85-160-270); Arch. Andrea Sala (p. 35-271); Arch. ANA (p. 37); Arch. Italo
Zandonella Callegher (p. 46-133-); Arch. Carlo Gandini (p. 49-158); Arch. CAI Padova (p.
70-74-75-96-211-219-220); Arch. Mirco Gasparetto (p. 59); Arch. Capanna Pancera (p. 96);
Arch. Malita Menegus (p. 100-213); Arch. Marcello Bonafede (p. 100-202); Arch. Renato
Casarotto (p. 103); Arch. Andrea Spavento (p. 114-116); Arch. Franz Nicolini (p. 118);
Arch. Giovanni Piva (p. 124-241-255); Arch. Camillo Berti (p. 166-167); Arch. CAI Mestre
(p. 151-169); Arch. GISM (p. 175); Arch. Caprioli San Vito di Cadore (p. 181-191-229-253);
Arch. Silvana Rovis (p. 197-204-225); Arch. Renzo Secco (p. 276); Arch. Renzo Molin (p.
277); Alessandro Pianalto, Arch. storico Intraisass (p. 109); Arch. Francesco Pordon (p.
272); Fondazione Berti (p. 67); Arch. Redento Barcellan (p. 278).
Pagine a colori: Rossella Benetollo (p. I); Luca Visentini (p. II-III); Arch. Ragni di Pieve
di Cadore (p. IV, V, VI, VII, VIII, XI, XII, XIII, XVI, XXX, XXXI); Giovanni Piva (p. X,
XI, XVII); Francesco Cappellari (p. XI, XXV, XXVI, XXVII, XXIX); Francesco Pordon (p.
XIV, XV).
Le fotografie non citate sono di proprietà dell’Autore.
Secondo per altitudine, in Dolomiti, alla sola Marmolada, l’Antelao con la sua
forma piramidale riesce indubbiamente a stupire, da sempre, anche il più distrat-
to dei viaggiatori. È infatti sufficiente una sola occhiata al colosso cadorino perché
risulti poi pressoché impossibile cancellarne la memoria. Tuttavia un’osservazione
così affrettata avrà l’effetto di mortificare, in uguale misura, l’interessato quanto
il monte medesimo, perché in tal modo se ne sarà colta sì l’affascinante esteriorità,
senza però comprenderne l’anima.
Non si sarà capito, in altri termini, con quale entusiasmo, passione e sacrificio
tanti ardimentosi si siano cimentati su quelle rocce, inseguendo un loro sogno di
conquista. Spesso con successo, ma talora senza più far ritorno.
In centocinquant’anni di storia alpinistica, innumerevoli sono le avventure delle
quali questa montagna è stata muta spettatrice, a cominciare da quella del nostro
concittadino Matteo Ossi, che per primo ne raggiunse la cupola sommitale in un
ormai lontano giorno d’estate.
Fu l’inizio di un’epoca straordinaria, mai conclusa, che ebbe per protagonisti –
spesso umili e silenziosi – uomini giunti da ogni dove, di ogni ceto e condizione
sociale, destinati a scrivere sull’Antelao una personale ed irripetibile pagina, di
grande valenza alpinistica, ancorché umana.
Marcello Mason, alpinista e documentarista, da sempre profondamente legato
a San Vito di Cadore, ha voluto raccontare le vicende vissute dai tanti che nel
tempo hanno deciso di salire il monte, spesso per vie diverse, lungo itinerari di
crescente difficoltà. Il suo lavoro è tanto più apprezzabile in quanto risultato di
anni di pazienti ricerche, di testimonianze raccolte negli archivi, nelle biblioteche
e direttamente dai protagonisti o, in assenza, dai loro familiari, dai cui racconti
sono emersi episodi di grande valenza dei quali si rischiava di perdere persino il
ricordo.
Queste pagine hanno il particolare merito, quindi, di proporre il recupero della
grande stagione alpinistica del Re del Cadore, profondamente caratterizzata da
avvenimenti di rara intensità e umanità. Rievocati con scrupolo e rigore, essi ci re-
stituiscono, grazie anche allo spessore dei protagonisti, un mondo dai valori senza
tempo, che doloroso sarebbe stato smarrire.
Alla luce di tali testimonianze l’Antelao, autentico patrimonio del mondo,
ci appare oggi come un bene ancor più prezioso. Ci piace sperare perciò che su
questo monte l’uomo, guidato dal più profondo rispetto per un ambiente splen-
dido quanto delicato, possa continuare a coltivare i suoi sogni, vivendovi le più
profonde emozioni ed esperienze. Riconsegnandolo intatto, infine, alle generazioni
che verranno.
Ing. Gianpietro De Vido
Sindaco di San Vito di Cadore
2004 - 2009
5
http://www.ideamontagna.it/librimontagna/libro-alpinismo-montagna.asp?cod=12
I compilatori di guide dell’800 ed i pionieri del dolomitismo hanno versato sce-
nografici fiumi d’inchiostro sull’Antelao, appiccicandogli le più svariate etichette
elogiative. Però, per gli abitanti di Venezia e delle isole lagunari, l’Antelao è da
sempre stato l’icona nobile di casa, quella silhouette che, nelle limpide giornate
invernali, si propone stagliandosi fuori dall’orizzonte innevato che margina la
laguna. Esattamente così lo raffigurò quel raffinato esteta del gotico veneziano, il
londinese John Ruskin, che ne schizzò il profilo in un suo noto disegno. D’altronde
i naviganti che un tempo risalivano l’Alto Adriatico per raggiungere la Serenissi-
ma chi prendevano per punto di riferimento se non l’evidente Antelao?
Tanto forte dunque è la valenza metaforica esercitata da questa immagine su
Marcello Mason, veneziano (ora “emigrato” sulla gronda lagunare), per il quale
l’Antelao è così diventato la sua estatica allegoria della montagna. Chiaro che per
rimanerne in sintonia ha cominciato a “viverla”, anno dopo anno, stagione dopo
stagione, con passo attento e meditabondo (e con trasparente tenerezza), finché ha
sentito l’impulso (consequenziale) di giustificare le vibrazioni dei suoi pensieri e di
configurarli in un libro. Di aprire insomma il suo cuore raccontando la storia del
Grande Gigante e le storie delle formichine umane che in 150 anni hanno cercato
l’avventura sulle sue muraglie grigie e dei valligiani che ai suoi piedi ne hanno
spartito la quotidianità (e la sudditanza). E lo ha fatto Mason con quel suo pacato
modo di esprimersi depurato d’ogni orpello, ma non per questo dimesso. Acqua-
rellando luci ed ombre di vicende impresse sui mastodontici pallori della regale
croda, sui labirintici defluvi dei suoi ghiaioni, sulle creste che altere si inerpicano
a sfiorare il cielo.
Ma lo fa pure con quella sua attenzione, a volte signorile a volte familiare, di an-
dare un passo al di là della corteccia degli eventi, di penetrare nei loro interstizi,
di trasmettere, sorridendo, una commozione che dà calore a tutto. Ragion per cui
ad un certo momento il lettore, immedesimandosi nell’atmosfera del suo narrare,
si accorge di riscontrare la visione di un mondo che è divenuto anche il suo, con
tanta e tale suggestione Mason lo ha ricreato davanti ai suoi occhi.
Prendendo a modello un sostantivo del vocabolario che altro non può dirsi
che sensibilità, il buon Marcello quel sentimento lo ha spinto fino a farlo pensare
quasi al confine della realtà. Ma non è così. Ad una attenta analisi il suo Antelao,
è una proposta interpretativa di “circoscrivere” una montagna, quella montagna,
in termini ineludibili, ma per fortuna al di fuori della ancor frequente retorica
alpinistica.
E, dal buon cineasta e regista che è ed è stato, questo “gioco” l’ha ripreso con figu-
razioni di buona mano. Rispettando la realtà.
Armando Scandellari
Scrittore e Storico dell’alpinismo
6
Come Direttore dell’Istituto Ladin de la Dolomites, interessato a studiare e
valorizzare i fenomeni storico-culturali e linguistici legati all’Agordino, Cadore,
Comelico e Zoldo, ma specialmente come cultore delle vicende dell’alpinismo dolo-
mitico, sono lieto di premettere qualche riga a questo libro, che narra un secolo e
mezzo di storia della vetta che domina il Cadore. Il lavoro sarebbe in ritardo, se
diamo per assodato che l’Antelao fu salito nel 1851, perché il 150° ufficiale della
conquista si doveva ricordare qualche anno fa. Esso giunge comunque a fagiolo,
poiché fa da complemento ideale alla storia dell’altro gigante cadorino, il Pelmo,
edita nel 2007 dal CAI di San Vito a ricordo di John Ball, che il 19 settembre
1857 sul “Caregon” aprì le danze per la conquista delle Dolomiti. In “Antelao in
punta di piedi” l’autore, che “il Re” lo conosce bene, disegna un excursus stori-
co, alpinistico e sentimentale sulla massima vetta cadorina, che odora di vita e
di passione. Una storia di rocce e ghiacci, ma non solo; soprattutto una storia
dedicata a chi visse, lavorò e soffrì ed ancora oggi popola le pendici del monte, in
passato ne ebbe sventure (la frana di Taulen e Marceana!), ma anche selvaggina
per integrare i magri bilanci familiari, guadagno nel calcarne i versanti guidando
clienti facoltosi, ambizione e un po’ di gloria per aver legato nomi di cadorini a
canaloni, pareti e spigoli della montagna. Ovviamente oggi, l’Antelao custodisce
ancora una risorsa per il turismo cadorino, essendo uno dei “3000” dolomitici
più ambiti e frequentati; arricchito da rifugi, bivacchi, falesie e da qualche fune
metallica, ma severo e degno di rispetto come oltre un secolo fa. Al Nantelou è una
montagna del Cadore; come ampezzano e cultore della storia di Cortina, mi sia
concesso però pensarla anche un po’ “nostra”, giacché la prima salita turistica di
Paul Grohmann, pioniere della rivelazione dolomitica (1863), riuscì anche grazie
a due eccellenti guide d’Ampezzo: il vecchio Checo e il nipote Sandro da Meleres!
La quarta salita della Via Ossi-Grohmann (1868) si deve anch’essa ad un ampez-
zano: quel Santo da Sorabances, che fu per primo su almeno trenta vette delle Alpi
Orientali. Un paio di recenti, dure vie nuove sull’Antelao e i suoi satelliti, infine, è
ancora merito d’ampezzani. E anche chi scrive annovera la cima fra quelle salite
in gioventù... Le crode però non dovrebbero avere confini né padroni; sono comun-
que patrimonio di tutti, e a tutti i lettori che s’immergeranno in questo libro, da
cui traspare un amore autentico per una cima che non può mancare nel carnet
d’ogni alpinista, auguro di ripercorrere con piacere decenni di storia di crode e di
uomini.
Marcello ha scritto la biografia di un colosso sul quale si sono misurati audaci
cacciatori nell’800, arditi sestogradisti nel ‘900, atletici freeclimbers nel 2000, ma
allo stesso tempo anche migliaia di persone comuni d’ogni dove che, molto spesso
con grande fatica, hanno toccato l’alto culmine elevando un pensiero di lode a Chi
ha creato il mondo, le montagne e ci concede la possibilità di “andare per esse”.
Ernesto Majoni
7
21
Capitolo 1
Alla scoperta del monte
Le prime immagini dell’Antelao, oggi rimaste, sono probabilmente i di-
segni e le incisioni di illustri visitatori inglesi, quali, tra gli altri, Whymper,
Gilbert, Compton e la Edwards. O antiche fotografie che mostrano il monte
in lontananza, così come lo si poteva ammirare da una Cortina d’Ampezzo
ancora assai lontana dagli sviluppi urbanistici successivi e dai grandi flussi
turistici.
Anche San Vito di Cadore appare, in quelle riproduzioni ingiallite dal tem-
po, ben diversa, nella sua realtà di piccolo paese di montagna, attivo grazie
al poco che la terra poteva offrire e alla laboriosità dei suoi abitanti.
Il 21 aprile 1814 da un fianco dell’Antelao si stacca una gigantesca frana
che precipita sopra i due villaggi di Taulèn e Marceana, sulla riva destra del
torrente Boite, travolgendoli.
Quel giorno il tempo era tuttavia sembrato clemente, così i paesani s’eran
fatti coraggio, decisi a riprendere i lavori dei campi, ma era stata solo una
schiarita illusoria. Fu quindi avvertito un boato sinistro: una parte dell’An-
telao crollò con spaventoso fragore, spingendo in avanti i detriti lasciati da
una frana precedente, in direzione del Boite, il cui alveo non si rivelò suf-
ficiente a frenare una simile forza, tanto che quella massa di pietre e terra
salì la riva opposta, seppellendo in un momento Marceana e successiva-
mente Taulèn. A quel punto, risultando impedito il deflusso, le acque del
torrente si erano estese, formando un lago i cui argini erano stati presto
rotti, aumentando ulteriormente le dimensioni del disastro.
Il numero dei morti ammontò a 257 e circa 400 furono gli animali perduti.
Le cronache dell’epoca raccontano che tra gli scomparsi figuravano anche
undici abitanti di Borca, uno di San Vito, uno di Ampezzo e quattro fore-
stieri. Sopravvissero una sessantina di persone, per lo più donne e bambini
che erano stati prudentemente sfollati all’inizio del nubifragio.
Più volte, nei giorni immediatamente successivi, si erano udite strazian-
ti invocazioni d’aiuto provenire da sotto le macerie, ma benché i soccorsi
fossero stati il più possibile solleciti, nessun sepolto potè essere tratto in
salvo.
Il tragico avvenimento così fu commentato dal notaio Belli di San Vito di
Cadore: “Gli abitanti vicini a questo monte Antelau devono sempre du-
22
bitare qualche accidente e specialmente gli sottoposti di secolo in secolo
devono tremare”. Il 27 luglio 1868 tocca alla borgata di Cancìa, con nove
case travolte, nelle quali stavano riposando tredici persone…
Prima ancora, il 26 ottobre 1729 una frana era rovinata sulle abitazioni di
Borca verso San Vito, provocando forti danni, oltre che alle case, ai terre-
ni, ma almeno risparmiando gli abitanti. Un’altra volta, il 19 giugno 1736,
sempre dall’Antelao, la forza della natura si era espressa facendo precipi-
tare una gran massa di sabbia, sassi e fango - la classica frana per colata
- fortunatamente con tale lentezza da consentire agli abitanti di Sala di
Borca di abbandonare per tempo il loro piccolo villaggio, prima che questo
letteralmente scomparisse. Si riuscì anche a salvare parte degli arredi della
chiesa, inclusa la pala del Vecellio.
L’anno successivo, era il 7 luglio, una frana per crollo investiva nuova-
mente quella zona e Resinego, seppellendo molti edifici e le chiese di San
Canciano e dei Santi Simeone e Giuda, ma soprattutto provocando sette
vittime. A ricordare tristemente quel giorno, rimane oggi quanto scritto
da Prè Bortolo Zambelli, Pievano di San Vito: “Così in poco più d’un mo-
mento quella povera gente sbalordita e confusa rimase senza chiesa, senza
cimitero, senza campane, senza case, senza pascoli, senza boschi, senza
vitto e senza vestito, ritrovandosi in uno stato da muovere a compassione
perfino le pietre”.
Un altro grave dissesto risale poi al 25 gennaio 1348, pare a seguito di un
terremoto: più frane si sarebbero staccate dalle pendici dell’Antelao, cau-
sando diversi morti. Quella dolorosa pagina viene ricordata da Giuseppe
Ciani nella sua “Storia del Popolo Cadorino”: “Il popolo lieto in sulla sera,
svegliassi la mattina per piangere molti dei suoi fratelli in orrendo e mise-
revole modo spenti di vita”. Ma a preoccupare non poco i cadorini sono
anche i temporali violentissimi, spesso capaci di mettere in serio pericolo
tanto i pastori quanto i loro greggi. A causa infatti delle pioggie torrenziali,
intere distese di ghiaia si mettono in movimento, travolgendo ogni cosa.
Di quelle durissime esperienze rimane la testimonianza di una vecchina
del posto che così raccontava: “An grum (mucchio) de jara (ghiaia) jen do (
vien giù) can che jè na tempestada, e alora chesti pore pastor i cogne (devo-
no) scampasse e carche óta se ciapa soto (vanno sotto) anche fedes (pecore)
che no i les ciata (trovano) pì”.
Nel 1818 vede la luce la prima scuola pubblica di San Vito di Cadore.
Fatto degno di rilievo, vi sono ammessi solo i maschietti, mentre le bam-
bine dovranno attendere l’arrivo del 1908 per poter indossare a loro volta
il grembiule. Nel 1866 ha termine la dominazione austriaca e San Vito di
Cadore entra a far parte del Regno d’Italia.
23
Comprendere oggi come si svolgesse l’esistenza degli abitanti sottostanti
l’Antelao in quell’epoca, appare decisamente arduo, tanto diverse erano le
condizioni di vita e la realtà locale.
Fondamentalmente essa scorreva in modo assai regolare, secondo dei rit-
mi precisi e quasi sempre uguali, scanditi dalle stagioni. Si accompagna-
vano le bestie al pascolo, si lavoravano i campi, i prati venivano prepa-
rati per la fienagione estiva. Nei boschi, lungo i vecchi sentieri, fioriva il
contrabbando. Nelle case, a piano terra, si trovava la “Stua”, ossia il cuore
dell’abitazione: questa era generalmente rivestita in legno, spesso con una
panca attorno. In un angolo era collocato un mobile dove riporre qualche
libro, la bottiglia dell’acquavite, pochi preziosi (coralli, spille, l’orologio).
Al piano superiore si trovavano le camere, alle quali per lo più si accedeva
tramite scale esterne. Accanto alle porte delle stanze c’era l’acquasantiera
di ceramica e a capo del letto il Crocifisso e immagini di Santi.
L’installazione dell’acqua corrente nelle case era un’eventualità del tutto
inimmaginabile, che non troverà realizzazione prima del 1930. Pure l’ali-
mentazione risulta quanto mai povera: manca, ad esempio, il riso, mentre la
frutta era scarsa, costituita per lo più da mele, susine e prugne. Sono assenti
pure il caffè, il tè, il vino e la birra. Il sanvitese, per poter mangiare una bi-
stecca, deve spesso aspettare un avvenimento importante, quale può essere
un matrimonio. È insomma un’esistenza di stenti e fatiche, quella dei cado-
rini di allora, seppur vissuta con rassegnazione, fede e grande dignità.
In questa non certo facile realtà è comprensibile che i flussi migratori, con
meta l’America, divengano allora per molti un’autentica necessità. Si emi-
grava già verso la fine del 1700. Allora in direzione di Venezia, successiva-
mente fu la volta dell’Austria, la Romania e l’Ungheria.
La storia di San Vito e dei suoi abitanti, specie in quei duri anni, merite-
rebbe, da sola, una trattazione ben più ampia, esorbitante, tuttavia, dalle
finalità del presente volume, quale si potrà riscontrare in opere di gran-
de spessore storico e culturale, da tempo pubblicate, alle quali si rimanda
senz’altro il lettore. Tra queste è meritevole di segnalazione la “Guida di
San Vito di Cadore”, appassionato ed approfondito omaggio di Mario Fer-
ruccio Belli al paese natale.
Questi scarni dati potranno tuttavia aiutare, in qualche misura, ad inqua-
drare l’epoca in cui si inserisce la figura di Matteo Ossi, primo salitore
dell’Antelao. Prima però sarà interessante capire, sia pure a grandi linee,
quale fosse allora il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, tenendo presente che
mistici, poeti, scrittori ed artisti in genere - forse i primi ad aver compreso
realmente le componenti e le valenze estetiche e spirituali della montagna -
ne erano rimasti in realtà ai margini o persino profondamente distanti.
Limitandosi ad ammirare quei monti che, in cuor loro, si auguravano
24
rimanessero sempre incontaminati, come ai primordi, senza che alcuno
spirito d’avventura animasse l’uomo, sino al punto di volerli frequentare.
Perché questo nuovo vento timidamente si faccia strada, anche nello sce-
nario delle Dolomiti, bisogna attendere l’inizio del 1800, con l’apparizione,
a dorso di mulo, dei primi viaggiatori.
Allo stesso desiderio di evasione che contraddistingue i primi spostamenti,
non tarda a sovrapporsi una curiosità ben diversa, quel piacere della sco-
perta che si identificherà nell’alpinismo.
I più intraprendenti, i pionieri quindi, sono proprio gli inglesi, pronti ad
accettare tutti i pericoli e le non indifferenti difficoltà che questa nuova
attività avrebbe ben presto comportato. Ancorché privi di qualsiasi erudi-
zione sulla corretta progressione in cordata e persino sul giusto uso della
corda stessa, essi vagavano in una realtà che non è ancora in grado di offrir
loro rifugi alpini, ma che tuttavia vede già sorgere con sempre maggior
frequenza le locande e i primi alberghi.
Della scintilla che accende in loro questa irrefrenabile passione, va proba-
bilmente dato merito a Josiah Gilbert (1814-1892) e alla descrizione parti-
colareggiata e suadente del Cadore, della quale sono permeati i suoi scritti,
ma anche ai pregevoli disegni e dipinti.
O a George Chettham Churchill (1822-1906) che aveva viaggiato a lun-
go per le Dolomiti, raccontandole successivamente nel suo “The Dolomite
Mountains” pubblicato a Londra nel 1864.
Una sua annotazione riguarda, in particolare, proprio i colossi del Cadore:
“Ci piacerebbe che ogni viaggiatore futuro fosse in grado di apprezzare
queste due montagne, Pelmo ed Antelao, e le altre che le sono vicine: la
Croda Malcora (così la Croda Marcora veniva indicata nelle carte del R.
Lombardo Veneto, ndr) e la Tofana, ben degne di essere consapevolmente
osservate”.
Ed ancora: “In questo punto l’Antelao finisce completamente e magnifica-
mente in primo piano. A differenza sia del Pelmo che della Croda Malcora
i suoi lunghi e chiari contorni spiccano aguzzi ben marcati dalla neve. Che
posto meraviglioso è San Vito!”
Altra figura di spicco è l’irlandese John Ball (1818-1889) uomo politico e
naturalista, nonché primo presidente dell’Alpine Club: è lui, nel 1857, il
primo salitore del Pelmo (salvo precedenti ascensioni, comunque non do-
cumentate).
Spinto inizialmente da motivazioni quasi esclusivamente scientifiche, egli
non aveva tardato ad innamorarsi del mondo alpestre.
Nello scendere a valle l’uomo si sente naturalmente appagato dalla bella
conquista, ma pure, come gli stessi Churchill e Gilbert ricordano: “trovando
anche compenso alle sue fatiche nel ritrovamento di alcune piante rare”.
25
Doveroso è anche un accenno alla londinese Amelia Edwards (1831-1892)
e al fascino in lei suscitato dalle Dolomiti nel corso di quel suo romantico
pellegrinaggio, dalla stessa mirabilmente descritto nel libro “Untrodden
Peaks and Unfrequented Valleys - A Midsummer Ramble among Dolomi-
tes”, pubblicato nel 1873.
O a quanto raccontato da Francis Fox Tuckett (1834-1913), un uomo che
nel suo ciclo eroico delle avventure alpine “occuperà un posto simile a
quello dell’errabondo Ulisse nella leggenda greca o dell’invulnerabile Sig-
frido nella saga dei Nibelunghi”. Così come non aveva esitato a sottolineare
Leslie Stephen, critico letterario, filosofo e alpinista britannico.
Prima della salita di John Ball il Pel-
mo doveva aver verosimilmente cono-
sciuto altri visitatori, sia cadorini che
zoldani. Sembra che dei cacciatori, già
una quarantina d’anni prima, si fosse-
ro spinti molto in alto, tanto è vero che
nell’anfiteatro superiore furono trovati i
resti di una vecchia caldaia da polenta,
nonché, poco distante, lo scheletro di
un uomo. Niente di più facile, quindi,
che si trattasse proprio di un cacciatore
che aveva seguito le orme dei camosci
fin sulla vetta, o quasi, di quella monta-
gna.
Tuttavia, nonostante svariate voci siano
nel tempo circolate, nessuna prova certa
può dimostrare che l’irlandese sia stato
preceduto nella sua scalata.
Qualche anno più tardi, il 18 settembre
del 1863, è la volta dell’Antelao, la cui
cima viene raggiunta dal celebre alpini-
sta viennese Paul Grohmann, accompa-
gnato, in quella circostanza, dalle guide
ampezzane Francesco ed Alessandro
Lacedelli, nonché dal sanvitese Matteo
Ossi.
Quest’ultimo, cacciatore di camosci e uomo di grande coraggio, si era in
realtà spinto, anni prima, fin sui più impervi recessi del monte. Si sa, per
certo, che fosse sulle tracce di una preda, quando si inerpicò sulle rocce
della sua montagna.
Così Ossi, primo uomo al mondo, in quel lontano
giorno d’estate del 1850 (1851, 1852, secondo altre
fonti), superò gli ultimi passaggi dell’Antelao, arri-
vando sulla sommità della più alta vetta del Cadore.
Indice
Precisazioni e ringraziamenti Pag. 9
Un monte speciale Pag. 11
In vista dell’Antelao Pag. 14
STORIA ALPINISTICA
Cap. 1 Alla scoperta del monte Pag. 21
Cap. 2 La prima salita invernale Pag. 31
Cap. 3 Il canalone Menini Pag. 35
Cap. 4 Artmann - Innerkofler e Sinigaglia Pag. 39
Cap. 5 Phillimore e Raynor Pag. 43
Cap. 6 La variante Lindemann, i fratelli Fanton Pag. 49
e le solitarie di Olivo
Cap. 7 Stösser, Schütt e Stabile: Pag. 59
quinto grado sull’Antelao
Cap. 8 Canalone Oppel e altra variante alla via Menini Pag. 65
Cap. 9 L’era del sesto grado Pag. 67
Cap. 10 Cordate sulla Cima Fanton Pag. 93
Cap. 11 Altre cime e le salite degli anni Settanta Pag. 97
Cap. 12 Le salite degli anni Ottanta Pag. 101
Cap. 13 Le salite degli anni Novanta Pag. 109
Cap. 14 Le salite del Duemila Pag. 117
Cap. 15 L’Antelao d’inverno Pag. 121
Cap. 16 Verso la vetta. Piccole e grandi storie Pag. 125
Matteo Ossi Pag. 126
Paul Grohmann Pag. 131
Luigi Cesaletti Pag. 133
Pietro Paoletti Pag. 141
Giuseppe Pordon Pag. 145
Evan Mackenzie Pag. 147
Pietro Galassi Pag. 151
Angelo Del Favero “Aucèl” Pag. 153
Alberto Re dei Belgi Pag. 158
Giuseppe Mazzotti Pag. 163
I Fratelli Fanton Pag. 165
Marco Moretti Pag. 169
Alma Bevilacqua (Giovanna Zangrandi) Pag. 175
Gianni Bonafede Pag. 181
Lino Forcellini Pag. 187
Siegfried Mürle Pag. 189
Cent’anni dopo Pag. 191
La solitaria di Tita Pancera Pag. 193
Bianca Di Beaco Pag. 197
Un matrimonio sull’Antelao Pag. 201
Alessandro Masucci Pag. 204
Giulio Menegus Pag. 209
Tentativo sulla “Bettella-Scalco” Pag. 211
Natalino Menegus Pag. 213
Toni Gianese Pag. 219
Bruno Da Forno Pag. 224
Giuliano De Marchi Pag. 225
Gli uomini del Soccorso Alpino Pag. 229
I quattro amici Pag. 241
Bufera sulla cima Pag. 243
Sogno sull’Antelao Pag. 245
L’uomo dell’Antelao Pag. 255
Un angelo sulla “Phillimore-Raynor” Pag. 258
Cap. 17 Breve storia dei punti d’appoggio Pag. 271
Fonti bibliografiche consultate Pag. 284
286 287

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  • 1. ANTELAO IN PUNTA DI PIEDI Il Re del Cadore in 150 anni di storia alpinistica Marcello Mason
  • 2. Idea Montagna Editoria e Alpinismo Via S. Antonio, 23 35037 Teolo PD info@ideamontagna.it www.ideamontagna.it Prima edizione giugno 2010 ISBN 978-88-903275-8-2 Progetto grafico, ritocco fotografico e impaginazione: Officina Creativa sas - Padova Grafica di copertina: Rossella Benetollo Stampa: Officina Creativa sas - Padova Si ringraziano per i contributi iconografici: Le Alpi Venete (p. 20-27-34-39-55-61-64-99-131-145-163-221); Arch. Francesco Cappellari (p. 12-13-123-144-250-252); Arch. Ragni di Pieve di Cadore (p. 86-89-95-101-104-194- 232); Arch. Roberto Belli Codàn (p. 25-153); Antonio Berti, guida Dolomiti Orientali (p. 28-51-62-76-85-160-270); Arch. Andrea Sala (p. 35-271); Arch. ANA (p. 37); Arch. Italo Zandonella Callegher (p. 46-133-); Arch. Carlo Gandini (p. 49-158); Arch. CAI Padova (p. 70-74-75-96-211-219-220); Arch. Mirco Gasparetto (p. 59); Arch. Capanna Pancera (p. 96); Arch. Malita Menegus (p. 100-213); Arch. Marcello Bonafede (p. 100-202); Arch. Renato Casarotto (p. 103); Arch. Andrea Spavento (p. 114-116); Arch. Franz Nicolini (p. 118); Arch. Giovanni Piva (p. 124-241-255); Arch. Camillo Berti (p. 166-167); Arch. CAI Mestre (p. 151-169); Arch. GISM (p. 175); Arch. Caprioli San Vito di Cadore (p. 181-191-229-253); Arch. Silvana Rovis (p. 197-204-225); Arch. Renzo Secco (p. 276); Arch. Renzo Molin (p. 277); Alessandro Pianalto, Arch. storico Intraisass (p. 109); Arch. Francesco Pordon (p. 272); Fondazione Berti (p. 67); Arch. Redento Barcellan (p. 278). Pagine a colori: Rossella Benetollo (p. I); Luca Visentini (p. II-III); Arch. Ragni di Pieve di Cadore (p. IV, V, VI, VII, VIII, XI, XII, XIII, XVI, XXX, XXXI); Giovanni Piva (p. X, XI, XVII); Francesco Cappellari (p. XI, XXV, XXVI, XXVII, XXIX); Francesco Pordon (p. XIV, XV). Le fotografie non citate sono di proprietà dell’Autore. Secondo per altitudine, in Dolomiti, alla sola Marmolada, l’Antelao con la sua forma piramidale riesce indubbiamente a stupire, da sempre, anche il più distrat- to dei viaggiatori. È infatti sufficiente una sola occhiata al colosso cadorino perché risulti poi pressoché impossibile cancellarne la memoria. Tuttavia un’osservazione così affrettata avrà l’effetto di mortificare, in uguale misura, l’interessato quanto il monte medesimo, perché in tal modo se ne sarà colta sì l’affascinante esteriorità, senza però comprenderne l’anima. Non si sarà capito, in altri termini, con quale entusiasmo, passione e sacrificio tanti ardimentosi si siano cimentati su quelle rocce, inseguendo un loro sogno di conquista. Spesso con successo, ma talora senza più far ritorno. In centocinquant’anni di storia alpinistica, innumerevoli sono le avventure delle quali questa montagna è stata muta spettatrice, a cominciare da quella del nostro concittadino Matteo Ossi, che per primo ne raggiunse la cupola sommitale in un ormai lontano giorno d’estate. Fu l’inizio di un’epoca straordinaria, mai conclusa, che ebbe per protagonisti – spesso umili e silenziosi – uomini giunti da ogni dove, di ogni ceto e condizione sociale, destinati a scrivere sull’Antelao una personale ed irripetibile pagina, di grande valenza alpinistica, ancorché umana. Marcello Mason, alpinista e documentarista, da sempre profondamente legato a San Vito di Cadore, ha voluto raccontare le vicende vissute dai tanti che nel tempo hanno deciso di salire il monte, spesso per vie diverse, lungo itinerari di crescente difficoltà. Il suo lavoro è tanto più apprezzabile in quanto risultato di anni di pazienti ricerche, di testimonianze raccolte negli archivi, nelle biblioteche e direttamente dai protagonisti o, in assenza, dai loro familiari, dai cui racconti sono emersi episodi di grande valenza dei quali si rischiava di perdere persino il ricordo. Queste pagine hanno il particolare merito, quindi, di proporre il recupero della grande stagione alpinistica del Re del Cadore, profondamente caratterizzata da avvenimenti di rara intensità e umanità. Rievocati con scrupolo e rigore, essi ci re- stituiscono, grazie anche allo spessore dei protagonisti, un mondo dai valori senza tempo, che doloroso sarebbe stato smarrire. Alla luce di tali testimonianze l’Antelao, autentico patrimonio del mondo, ci appare oggi come un bene ancor più prezioso. Ci piace sperare perciò che su questo monte l’uomo, guidato dal più profondo rispetto per un ambiente splen- dido quanto delicato, possa continuare a coltivare i suoi sogni, vivendovi le più profonde emozioni ed esperienze. Riconsegnandolo intatto, infine, alle generazioni che verranno. Ing. Gianpietro De Vido Sindaco di San Vito di Cadore 2004 - 2009 5 http://www.ideamontagna.it/librimontagna/libro-alpinismo-montagna.asp?cod=12
  • 3. I compilatori di guide dell’800 ed i pionieri del dolomitismo hanno versato sce- nografici fiumi d’inchiostro sull’Antelao, appiccicandogli le più svariate etichette elogiative. Però, per gli abitanti di Venezia e delle isole lagunari, l’Antelao è da sempre stato l’icona nobile di casa, quella silhouette che, nelle limpide giornate invernali, si propone stagliandosi fuori dall’orizzonte innevato che margina la laguna. Esattamente così lo raffigurò quel raffinato esteta del gotico veneziano, il londinese John Ruskin, che ne schizzò il profilo in un suo noto disegno. D’altronde i naviganti che un tempo risalivano l’Alto Adriatico per raggiungere la Serenissi- ma chi prendevano per punto di riferimento se non l’evidente Antelao? Tanto forte dunque è la valenza metaforica esercitata da questa immagine su Marcello Mason, veneziano (ora “emigrato” sulla gronda lagunare), per il quale l’Antelao è così diventato la sua estatica allegoria della montagna. Chiaro che per rimanerne in sintonia ha cominciato a “viverla”, anno dopo anno, stagione dopo stagione, con passo attento e meditabondo (e con trasparente tenerezza), finché ha sentito l’impulso (consequenziale) di giustificare le vibrazioni dei suoi pensieri e di configurarli in un libro. Di aprire insomma il suo cuore raccontando la storia del Grande Gigante e le storie delle formichine umane che in 150 anni hanno cercato l’avventura sulle sue muraglie grigie e dei valligiani che ai suoi piedi ne hanno spartito la quotidianità (e la sudditanza). E lo ha fatto Mason con quel suo pacato modo di esprimersi depurato d’ogni orpello, ma non per questo dimesso. Acqua- rellando luci ed ombre di vicende impresse sui mastodontici pallori della regale croda, sui labirintici defluvi dei suoi ghiaioni, sulle creste che altere si inerpicano a sfiorare il cielo. Ma lo fa pure con quella sua attenzione, a volte signorile a volte familiare, di an- dare un passo al di là della corteccia degli eventi, di penetrare nei loro interstizi, di trasmettere, sorridendo, una commozione che dà calore a tutto. Ragion per cui ad un certo momento il lettore, immedesimandosi nell’atmosfera del suo narrare, si accorge di riscontrare la visione di un mondo che è divenuto anche il suo, con tanta e tale suggestione Mason lo ha ricreato davanti ai suoi occhi. Prendendo a modello un sostantivo del vocabolario che altro non può dirsi che sensibilità, il buon Marcello quel sentimento lo ha spinto fino a farlo pensare quasi al confine della realtà. Ma non è così. Ad una attenta analisi il suo Antelao, è una proposta interpretativa di “circoscrivere” una montagna, quella montagna, in termini ineludibili, ma per fortuna al di fuori della ancor frequente retorica alpinistica. E, dal buon cineasta e regista che è ed è stato, questo “gioco” l’ha ripreso con figu- razioni di buona mano. Rispettando la realtà. Armando Scandellari Scrittore e Storico dell’alpinismo 6 Come Direttore dell’Istituto Ladin de la Dolomites, interessato a studiare e valorizzare i fenomeni storico-culturali e linguistici legati all’Agordino, Cadore, Comelico e Zoldo, ma specialmente come cultore delle vicende dell’alpinismo dolo- mitico, sono lieto di premettere qualche riga a questo libro, che narra un secolo e mezzo di storia della vetta che domina il Cadore. Il lavoro sarebbe in ritardo, se diamo per assodato che l’Antelao fu salito nel 1851, perché il 150° ufficiale della conquista si doveva ricordare qualche anno fa. Esso giunge comunque a fagiolo, poiché fa da complemento ideale alla storia dell’altro gigante cadorino, il Pelmo, edita nel 2007 dal CAI di San Vito a ricordo di John Ball, che il 19 settembre 1857 sul “Caregon” aprì le danze per la conquista delle Dolomiti. In “Antelao in punta di piedi” l’autore, che “il Re” lo conosce bene, disegna un excursus stori- co, alpinistico e sentimentale sulla massima vetta cadorina, che odora di vita e di passione. Una storia di rocce e ghiacci, ma non solo; soprattutto una storia dedicata a chi visse, lavorò e soffrì ed ancora oggi popola le pendici del monte, in passato ne ebbe sventure (la frana di Taulen e Marceana!), ma anche selvaggina per integrare i magri bilanci familiari, guadagno nel calcarne i versanti guidando clienti facoltosi, ambizione e un po’ di gloria per aver legato nomi di cadorini a canaloni, pareti e spigoli della montagna. Ovviamente oggi, l’Antelao custodisce ancora una risorsa per il turismo cadorino, essendo uno dei “3000” dolomitici più ambiti e frequentati; arricchito da rifugi, bivacchi, falesie e da qualche fune metallica, ma severo e degno di rispetto come oltre un secolo fa. Al Nantelou è una montagna del Cadore; come ampezzano e cultore della storia di Cortina, mi sia concesso però pensarla anche un po’ “nostra”, giacché la prima salita turistica di Paul Grohmann, pioniere della rivelazione dolomitica (1863), riuscì anche grazie a due eccellenti guide d’Ampezzo: il vecchio Checo e il nipote Sandro da Meleres! La quarta salita della Via Ossi-Grohmann (1868) si deve anch’essa ad un ampez- zano: quel Santo da Sorabances, che fu per primo su almeno trenta vette delle Alpi Orientali. Un paio di recenti, dure vie nuove sull’Antelao e i suoi satelliti, infine, è ancora merito d’ampezzani. E anche chi scrive annovera la cima fra quelle salite in gioventù... Le crode però non dovrebbero avere confini né padroni; sono comun- que patrimonio di tutti, e a tutti i lettori che s’immergeranno in questo libro, da cui traspare un amore autentico per una cima che non può mancare nel carnet d’ogni alpinista, auguro di ripercorrere con piacere decenni di storia di crode e di uomini. Marcello ha scritto la biografia di un colosso sul quale si sono misurati audaci cacciatori nell’800, arditi sestogradisti nel ‘900, atletici freeclimbers nel 2000, ma allo stesso tempo anche migliaia di persone comuni d’ogni dove che, molto spesso con grande fatica, hanno toccato l’alto culmine elevando un pensiero di lode a Chi ha creato il mondo, le montagne e ci concede la possibilità di “andare per esse”. Ernesto Majoni 7
  • 4. 21 Capitolo 1 Alla scoperta del monte Le prime immagini dell’Antelao, oggi rimaste, sono probabilmente i di- segni e le incisioni di illustri visitatori inglesi, quali, tra gli altri, Whymper, Gilbert, Compton e la Edwards. O antiche fotografie che mostrano il monte in lontananza, così come lo si poteva ammirare da una Cortina d’Ampezzo ancora assai lontana dagli sviluppi urbanistici successivi e dai grandi flussi turistici. Anche San Vito di Cadore appare, in quelle riproduzioni ingiallite dal tem- po, ben diversa, nella sua realtà di piccolo paese di montagna, attivo grazie al poco che la terra poteva offrire e alla laboriosità dei suoi abitanti. Il 21 aprile 1814 da un fianco dell’Antelao si stacca una gigantesca frana che precipita sopra i due villaggi di Taulèn e Marceana, sulla riva destra del torrente Boite, travolgendoli. Quel giorno il tempo era tuttavia sembrato clemente, così i paesani s’eran fatti coraggio, decisi a riprendere i lavori dei campi, ma era stata solo una schiarita illusoria. Fu quindi avvertito un boato sinistro: una parte dell’An- telao crollò con spaventoso fragore, spingendo in avanti i detriti lasciati da una frana precedente, in direzione del Boite, il cui alveo non si rivelò suf- ficiente a frenare una simile forza, tanto che quella massa di pietre e terra salì la riva opposta, seppellendo in un momento Marceana e successiva- mente Taulèn. A quel punto, risultando impedito il deflusso, le acque del torrente si erano estese, formando un lago i cui argini erano stati presto rotti, aumentando ulteriormente le dimensioni del disastro. Il numero dei morti ammontò a 257 e circa 400 furono gli animali perduti. Le cronache dell’epoca raccontano che tra gli scomparsi figuravano anche undici abitanti di Borca, uno di San Vito, uno di Ampezzo e quattro fore- stieri. Sopravvissero una sessantina di persone, per lo più donne e bambini che erano stati prudentemente sfollati all’inizio del nubifragio. Più volte, nei giorni immediatamente successivi, si erano udite strazian- ti invocazioni d’aiuto provenire da sotto le macerie, ma benché i soccorsi fossero stati il più possibile solleciti, nessun sepolto potè essere tratto in salvo. Il tragico avvenimento così fu commentato dal notaio Belli di San Vito di Cadore: “Gli abitanti vicini a questo monte Antelau devono sempre du-
  • 5. 22 bitare qualche accidente e specialmente gli sottoposti di secolo in secolo devono tremare”. Il 27 luglio 1868 tocca alla borgata di Cancìa, con nove case travolte, nelle quali stavano riposando tredici persone… Prima ancora, il 26 ottobre 1729 una frana era rovinata sulle abitazioni di Borca verso San Vito, provocando forti danni, oltre che alle case, ai terre- ni, ma almeno risparmiando gli abitanti. Un’altra volta, il 19 giugno 1736, sempre dall’Antelao, la forza della natura si era espressa facendo precipi- tare una gran massa di sabbia, sassi e fango - la classica frana per colata - fortunatamente con tale lentezza da consentire agli abitanti di Sala di Borca di abbandonare per tempo il loro piccolo villaggio, prima che questo letteralmente scomparisse. Si riuscì anche a salvare parte degli arredi della chiesa, inclusa la pala del Vecellio. L’anno successivo, era il 7 luglio, una frana per crollo investiva nuova- mente quella zona e Resinego, seppellendo molti edifici e le chiese di San Canciano e dei Santi Simeone e Giuda, ma soprattutto provocando sette vittime. A ricordare tristemente quel giorno, rimane oggi quanto scritto da Prè Bortolo Zambelli, Pievano di San Vito: “Così in poco più d’un mo- mento quella povera gente sbalordita e confusa rimase senza chiesa, senza cimitero, senza campane, senza case, senza pascoli, senza boschi, senza vitto e senza vestito, ritrovandosi in uno stato da muovere a compassione perfino le pietre”. Un altro grave dissesto risale poi al 25 gennaio 1348, pare a seguito di un terremoto: più frane si sarebbero staccate dalle pendici dell’Antelao, cau- sando diversi morti. Quella dolorosa pagina viene ricordata da Giuseppe Ciani nella sua “Storia del Popolo Cadorino”: “Il popolo lieto in sulla sera, svegliassi la mattina per piangere molti dei suoi fratelli in orrendo e mise- revole modo spenti di vita”. Ma a preoccupare non poco i cadorini sono anche i temporali violentissimi, spesso capaci di mettere in serio pericolo tanto i pastori quanto i loro greggi. A causa infatti delle pioggie torrenziali, intere distese di ghiaia si mettono in movimento, travolgendo ogni cosa. Di quelle durissime esperienze rimane la testimonianza di una vecchina del posto che così raccontava: “An grum (mucchio) de jara (ghiaia) jen do ( vien giù) can che jè na tempestada, e alora chesti pore pastor i cogne (devo- no) scampasse e carche óta se ciapa soto (vanno sotto) anche fedes (pecore) che no i les ciata (trovano) pì”. Nel 1818 vede la luce la prima scuola pubblica di San Vito di Cadore. Fatto degno di rilievo, vi sono ammessi solo i maschietti, mentre le bam- bine dovranno attendere l’arrivo del 1908 per poter indossare a loro volta il grembiule. Nel 1866 ha termine la dominazione austriaca e San Vito di Cadore entra a far parte del Regno d’Italia. 23 Comprendere oggi come si svolgesse l’esistenza degli abitanti sottostanti l’Antelao in quell’epoca, appare decisamente arduo, tanto diverse erano le condizioni di vita e la realtà locale. Fondamentalmente essa scorreva in modo assai regolare, secondo dei rit- mi precisi e quasi sempre uguali, scanditi dalle stagioni. Si accompagna- vano le bestie al pascolo, si lavoravano i campi, i prati venivano prepa- rati per la fienagione estiva. Nei boschi, lungo i vecchi sentieri, fioriva il contrabbando. Nelle case, a piano terra, si trovava la “Stua”, ossia il cuore dell’abitazione: questa era generalmente rivestita in legno, spesso con una panca attorno. In un angolo era collocato un mobile dove riporre qualche libro, la bottiglia dell’acquavite, pochi preziosi (coralli, spille, l’orologio). Al piano superiore si trovavano le camere, alle quali per lo più si accedeva tramite scale esterne. Accanto alle porte delle stanze c’era l’acquasantiera di ceramica e a capo del letto il Crocifisso e immagini di Santi. L’installazione dell’acqua corrente nelle case era un’eventualità del tutto inimmaginabile, che non troverà realizzazione prima del 1930. Pure l’ali- mentazione risulta quanto mai povera: manca, ad esempio, il riso, mentre la frutta era scarsa, costituita per lo più da mele, susine e prugne. Sono assenti pure il caffè, il tè, il vino e la birra. Il sanvitese, per poter mangiare una bi- stecca, deve spesso aspettare un avvenimento importante, quale può essere un matrimonio. È insomma un’esistenza di stenti e fatiche, quella dei cado- rini di allora, seppur vissuta con rassegnazione, fede e grande dignità. In questa non certo facile realtà è comprensibile che i flussi migratori, con meta l’America, divengano allora per molti un’autentica necessità. Si emi- grava già verso la fine del 1700. Allora in direzione di Venezia, successiva- mente fu la volta dell’Austria, la Romania e l’Ungheria. La storia di San Vito e dei suoi abitanti, specie in quei duri anni, merite- rebbe, da sola, una trattazione ben più ampia, esorbitante, tuttavia, dalle finalità del presente volume, quale si potrà riscontrare in opere di gran- de spessore storico e culturale, da tempo pubblicate, alle quali si rimanda senz’altro il lettore. Tra queste è meritevole di segnalazione la “Guida di San Vito di Cadore”, appassionato ed approfondito omaggio di Mario Fer- ruccio Belli al paese natale. Questi scarni dati potranno tuttavia aiutare, in qualche misura, ad inqua- drare l’epoca in cui si inserisce la figura di Matteo Ossi, primo salitore dell’Antelao. Prima però sarà interessante capire, sia pure a grandi linee, quale fosse allora il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, tenendo presente che mistici, poeti, scrittori ed artisti in genere - forse i primi ad aver compreso realmente le componenti e le valenze estetiche e spirituali della montagna - ne erano rimasti in realtà ai margini o persino profondamente distanti. Limitandosi ad ammirare quei monti che, in cuor loro, si auguravano
  • 6. 24 rimanessero sempre incontaminati, come ai primordi, senza che alcuno spirito d’avventura animasse l’uomo, sino al punto di volerli frequentare. Perché questo nuovo vento timidamente si faccia strada, anche nello sce- nario delle Dolomiti, bisogna attendere l’inizio del 1800, con l’apparizione, a dorso di mulo, dei primi viaggiatori. Allo stesso desiderio di evasione che contraddistingue i primi spostamenti, non tarda a sovrapporsi una curiosità ben diversa, quel piacere della sco- perta che si identificherà nell’alpinismo. I più intraprendenti, i pionieri quindi, sono proprio gli inglesi, pronti ad accettare tutti i pericoli e le non indifferenti difficoltà che questa nuova attività avrebbe ben presto comportato. Ancorché privi di qualsiasi erudi- zione sulla corretta progressione in cordata e persino sul giusto uso della corda stessa, essi vagavano in una realtà che non è ancora in grado di offrir loro rifugi alpini, ma che tuttavia vede già sorgere con sempre maggior frequenza le locande e i primi alberghi. Della scintilla che accende in loro questa irrefrenabile passione, va proba- bilmente dato merito a Josiah Gilbert (1814-1892) e alla descrizione parti- colareggiata e suadente del Cadore, della quale sono permeati i suoi scritti, ma anche ai pregevoli disegni e dipinti. O a George Chettham Churchill (1822-1906) che aveva viaggiato a lun- go per le Dolomiti, raccontandole successivamente nel suo “The Dolomite Mountains” pubblicato a Londra nel 1864. Una sua annotazione riguarda, in particolare, proprio i colossi del Cadore: “Ci piacerebbe che ogni viaggiatore futuro fosse in grado di apprezzare queste due montagne, Pelmo ed Antelao, e le altre che le sono vicine: la Croda Malcora (così la Croda Marcora veniva indicata nelle carte del R. Lombardo Veneto, ndr) e la Tofana, ben degne di essere consapevolmente osservate”. Ed ancora: “In questo punto l’Antelao finisce completamente e magnifica- mente in primo piano. A differenza sia del Pelmo che della Croda Malcora i suoi lunghi e chiari contorni spiccano aguzzi ben marcati dalla neve. Che posto meraviglioso è San Vito!” Altra figura di spicco è l’irlandese John Ball (1818-1889) uomo politico e naturalista, nonché primo presidente dell’Alpine Club: è lui, nel 1857, il primo salitore del Pelmo (salvo precedenti ascensioni, comunque non do- cumentate). Spinto inizialmente da motivazioni quasi esclusivamente scientifiche, egli non aveva tardato ad innamorarsi del mondo alpestre. Nello scendere a valle l’uomo si sente naturalmente appagato dalla bella conquista, ma pure, come gli stessi Churchill e Gilbert ricordano: “trovando anche compenso alle sue fatiche nel ritrovamento di alcune piante rare”. 25 Doveroso è anche un accenno alla londinese Amelia Edwards (1831-1892) e al fascino in lei suscitato dalle Dolomiti nel corso di quel suo romantico pellegrinaggio, dalla stessa mirabilmente descritto nel libro “Untrodden Peaks and Unfrequented Valleys - A Midsummer Ramble among Dolomi- tes”, pubblicato nel 1873. O a quanto raccontato da Francis Fox Tuckett (1834-1913), un uomo che nel suo ciclo eroico delle avventure alpine “occuperà un posto simile a quello dell’errabondo Ulisse nella leggenda greca o dell’invulnerabile Sig- frido nella saga dei Nibelunghi”. Così come non aveva esitato a sottolineare Leslie Stephen, critico letterario, filosofo e alpinista britannico. Prima della salita di John Ball il Pel- mo doveva aver verosimilmente cono- sciuto altri visitatori, sia cadorini che zoldani. Sembra che dei cacciatori, già una quarantina d’anni prima, si fosse- ro spinti molto in alto, tanto è vero che nell’anfiteatro superiore furono trovati i resti di una vecchia caldaia da polenta, nonché, poco distante, lo scheletro di un uomo. Niente di più facile, quindi, che si trattasse proprio di un cacciatore che aveva seguito le orme dei camosci fin sulla vetta, o quasi, di quella monta- gna. Tuttavia, nonostante svariate voci siano nel tempo circolate, nessuna prova certa può dimostrare che l’irlandese sia stato preceduto nella sua scalata. Qualche anno più tardi, il 18 settembre del 1863, è la volta dell’Antelao, la cui cima viene raggiunta dal celebre alpini- sta viennese Paul Grohmann, accompa- gnato, in quella circostanza, dalle guide ampezzane Francesco ed Alessandro Lacedelli, nonché dal sanvitese Matteo Ossi. Quest’ultimo, cacciatore di camosci e uomo di grande coraggio, si era in realtà spinto, anni prima, fin sui più impervi recessi del monte. Si sa, per certo, che fosse sulle tracce di una preda, quando si inerpicò sulle rocce della sua montagna. Così Ossi, primo uomo al mondo, in quel lontano giorno d’estate del 1850 (1851, 1852, secondo altre fonti), superò gli ultimi passaggi dell’Antelao, arri- vando sulla sommità della più alta vetta del Cadore.
  • 7. Indice Precisazioni e ringraziamenti Pag. 9 Un monte speciale Pag. 11 In vista dell’Antelao Pag. 14 STORIA ALPINISTICA Cap. 1 Alla scoperta del monte Pag. 21 Cap. 2 La prima salita invernale Pag. 31 Cap. 3 Il canalone Menini Pag. 35 Cap. 4 Artmann - Innerkofler e Sinigaglia Pag. 39 Cap. 5 Phillimore e Raynor Pag. 43 Cap. 6 La variante Lindemann, i fratelli Fanton Pag. 49 e le solitarie di Olivo Cap. 7 Stösser, Schütt e Stabile: Pag. 59 quinto grado sull’Antelao Cap. 8 Canalone Oppel e altra variante alla via Menini Pag. 65 Cap. 9 L’era del sesto grado Pag. 67 Cap. 10 Cordate sulla Cima Fanton Pag. 93 Cap. 11 Altre cime e le salite degli anni Settanta Pag. 97 Cap. 12 Le salite degli anni Ottanta Pag. 101 Cap. 13 Le salite degli anni Novanta Pag. 109 Cap. 14 Le salite del Duemila Pag. 117 Cap. 15 L’Antelao d’inverno Pag. 121 Cap. 16 Verso la vetta. Piccole e grandi storie Pag. 125 Matteo Ossi Pag. 126 Paul Grohmann Pag. 131 Luigi Cesaletti Pag. 133 Pietro Paoletti Pag. 141 Giuseppe Pordon Pag. 145 Evan Mackenzie Pag. 147 Pietro Galassi Pag. 151 Angelo Del Favero “Aucèl” Pag. 153 Alberto Re dei Belgi Pag. 158 Giuseppe Mazzotti Pag. 163 I Fratelli Fanton Pag. 165 Marco Moretti Pag. 169 Alma Bevilacqua (Giovanna Zangrandi) Pag. 175 Gianni Bonafede Pag. 181 Lino Forcellini Pag. 187 Siegfried Mürle Pag. 189 Cent’anni dopo Pag. 191 La solitaria di Tita Pancera Pag. 193 Bianca Di Beaco Pag. 197 Un matrimonio sull’Antelao Pag. 201 Alessandro Masucci Pag. 204 Giulio Menegus Pag. 209 Tentativo sulla “Bettella-Scalco” Pag. 211 Natalino Menegus Pag. 213 Toni Gianese Pag. 219 Bruno Da Forno Pag. 224 Giuliano De Marchi Pag. 225 Gli uomini del Soccorso Alpino Pag. 229 I quattro amici Pag. 241 Bufera sulla cima Pag. 243 Sogno sull’Antelao Pag. 245 L’uomo dell’Antelao Pag. 255 Un angelo sulla “Phillimore-Raynor” Pag. 258 Cap. 17 Breve storia dei punti d’appoggio Pag. 271 Fonti bibliografiche consultate Pag. 284 286 287