1. La crocifissione nelle croci dipinte
Le croci dipinte, hanno sempre avuto una grande importanza come patrimonio culturale e storico. Per questo è fondamentale
ripercorrere la loro evoluzione nel tempo, attraverso le varie influenze ricevute.
Storia della croce
La croce da noi oggi conosciuta è il risultato di un lungo procedimento di evoluzione in campo religioso,sociale e iconografico.
Al tempo dei Romani erano in uso diverse forme di croci:
• Il patibolo (crux simplex))
• La croce a X (del martirio di sant'Andrea))
• La croce a T (crux commissa)
• La croce detta greca (con 4 bracci uguali)
Non esisteva ancora la croce divenuta poi simbolo del Cristianesimo.
Presso gli Assiri la crux simplex fu adoperata come forca mentre,presso i Romani,il palo fu utilizzato come patibolo per legare il
condannato. Questo è il caso anche di San Sebastiano,legato ad un albero e poi bersagliato.
Un complesso linguaggio simbolico iniziò a diffondersi. Confrontando l'immagine della crocifissione sulla crux simplex con i
lineamenti del pesce-delfino delle catacombe è subito riconoscibile il messaggio trasmetto.
Il pesce mimetizzava il patibulum con una decodificazione artistica.Per eludere ogni sospetto il delfino è stato raffigurato in
posizione naturale/orizzontale (tranne in qualche raro caso), cosicché «l'eloquente» pesce era ancor più silente. La scelta del
delfino, tra l'altro, ben si concilia con la pinna caudale spalancata sui due lobi che allude ai piedi divaricati dell'impalato.
Il segreto della metafora del pesce,in quanto trasmesso oralmente, si dissipò poi nel passaggio generazionale chiudendosi la fase di
clandestinità dei fedeli.Nessuno ebbe più bisogno di quel simbolo catacombale ormai trapassato e seppellito.
Successivamente, i testi biblici fecero da battistrada alle nuove icone plasmate sulla parola "croce", che diedero vita a molteplici
anagrammi e acrostici, discordanti tra loro, nonostante la prevalenza della croce a X.
Sino a quando, qualche secolo dopo (IV d.C.), venne concepita una prima immagine artisticamente valente: la croce a T.
Tuttavia,considerata inadeguata alla solennità di quella esecuzione, successivamente fu modificata sino a giungere all'attuale
simbolo con il vettore verticale che si allunga sopra la trave orizzontale. Per ottenere un'immagine impeccabile il vettore verticale
fu prolungato così da esaltare «l'effetto elevazione». Ovverosia, aggiungere apoteosi all'esecuzione capitale.
Con l’avvento di Costantino avviene il trionfo della croce cristiana, che egli aveva usato come vessillo della sua vittoria. Così la
croce cominciò il suo cammino trionfale,ma non un cammino iconografico,perché essa tarderà molto a comparire
nell’ìconografia,in quanto supplizio pagano.La croce infatti, oltre ad essere uno strumento di tortura, aveva funzione "deterrente"
per scoraggiare le rivolte e l'inosservanza delle leggi (vedesi l’episodio di Spartacus nel 71 aC sull’Appia).
La rappresentazione di Cristo è pressocchè identica in ogni raffigurazione: il Cristo veste uno specie di gonnelline, il colobium di
origine siriana,porta la barba,diversamente dall’iconografia del Cristo di origine ellenistica che era imberbe. La cultura ellenistica
era una cultura più estetizzante, quindi era più probabile che si raffigurasse un volto glabro,imberbe piuttosto che questo, realista.
Nel corso del tempo artisti e personaggi diedero il proprio contributo nella rappresentazione della crocifissione.
Nelle prime raffigurazioni troviamo un Cristo dal volto gioioso e con il capo ritto.Quel volto esprimeva il concetto di redenzione
nella beata sofferenza: il sublime appagamento per una morte attesa che doveva compiersi.
Dal Messia sereno si è passato al Messia delle sofferenze mediante il trapianto di una corona di spine che ha aggiunto maggior
evidenza ai triboli dell'espiazione, così da accrescerne la carica emotiva. Infatti per lungo tempo sul capo di Cristo troviamo
un'aureola, mentre solo più tardi comparirà la corona di dolenze.
Sull’espressività del volto di Cristo molte furono le discussioni nel corso del tempo.
2. La rappresentazione del divino
Quali sono le ragioni che dettano il passaggio dell’iconografia del Cristo vivo e trionfante sulla croce a quella del Cristo morto e
patiens sulla croce in Oriente e in Occidente? Ripercorriamo insieme l’evoluzione di questo aspetto fondamentale dell’arte
religiosa. Nel codice siriano, adottato in molte croci conservate negli Uffizi a Firenze, è da notare il realismo della raffigurazione,
in Cristo e di tutti i personaggi che compongono la scena: ad esempio il Cristo veste una specie di gonnellone, il colobium di origine
siriaca, porta la barba, diversamente dall’iconografia del Cristo di origine ellenistica che è imberbe. La cultura ellenistica è una
cultura più estetizzante, quindi era più probabile che si raffigurasse un volto glabro, imberbe piuttosto che questo, realista, come è
realista tutto quanto il cristianesimo di origine orientale.
Il sole e la luna compaiono spesso nelle raffigurazioni della crocifissione e hanno una precisa allusione al Vangelo di Luca, che
dice che «obscuratus est sol» nel momento della morte di Cristo. Potrebbe però essere anche associato ad iconografie più antiche,
pagane, proprio di area siriaca, che accompagnano la raffigurazione di alcune divinità, come Serapide o Iupiter Heliopolitanus o
Mitra, divinità legate al culto del sole, culto dal quale il cristianesimo recupera molti elementi.
Nei primi tre secoli l’arte cristiana è completamente aniconica, si basa unicamente su simbologie, e la croce poteva rappresentare,
proprio per la sua forma, un simbolo. Costantino, grazie alla sua vittoria, fa diffondere l’uso della croce. Nel monogramma di
Cristo comincia a comparire la croce con l’alfa e l’omega e il monogramma continua anche molto dopo l’epoca costantiniana.
Ma secondo lo stile artistico bizantino-romanico (XIII sec.) tutto è ridotto a geometrizzazione. Questo perché, nella storia della
Chiesa, molte furono le eresie connesse all’iconografia.
Una delle eresie più dure, che risale ai primi decenni del IV secolo è quella di Eutichio il quale negava la natura umana di Cristo,
lasciando in vita unicamente quella divina. In tal senso tutto ciò che potesse essere rappresentazione corporea di Dio veniva negato.
Si mette ordine nel problema piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si tiene un Concilio detto “in Trullo” nel quale si
esprime chiaramente il problema:
« È il pittore che deve prenderci per mano e condurci alla memoria di
Gesù vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e
conquista con la passione la redenzione del mondo »
Quindi finalmente si poteva lasciare assoluto spazio alla figurazione anche di Cristo in croce, a condizione che fosse rispettata la
sua sopravvivenza trionfale oltre la morte. Come giustificare questa figura “triumphans”?
Probabile che la spiegazione di Cristo oltre la morte si ritrovi nella risposta alla teoria eutichiana che venne promulgata durante il
Concilio di Calcedonia, nel V secolo, nel quale si affermò che nell’unica persona di Cristo erano compresenti la natura divina e la
natura umana. La compresenza di queste due nature doveva superare il problema del dolore di Cristo morto e anche superare, in
forma onnicomprensiva e sintetica, il concetto della passione.
L’iconografia di Cristo vivo in croce, trionfante, dura in Oriente fino all’XI secolo, in Occidente fino ai primi due decenni del XII
secolo.
Alla fine dell’ VII sec. Confluirono a Roma maestri di area orientale per una ragione storica molto semplice, storicamente
individuabile, ed è costituita dal grande movimento iconoclasta che si colloca fra il 730 e l’840 all’incirca, che aveva dato vita a
una vera e propria guerra di religione, contro tutto ciò che potesse essere immagine del Redentore.
Da che cosa nasceva questo movimento iconoclasta, appoggiato fondamentalmente dal Basileo e da gli ambienti intellettuali che si
muovevano intorno alla corte? Dal fatto che il realismo di una certa pittura popolare era considerato peccaminoso. Nacque, il
movimento iconoclasta, da un giudizio morale che immediatamente si convertì in un giudizio culturale di portata inaudita; fu una
rivoluzione che portò a eccidi. Alle origini del movimento iconoclasta ci fu un’influenza islamica.
L’arte islamica è aniconica, è pura decorazione, ma furono proprio la base di elementi popolari e gli ambienti monastici, ancora
una volta dell’Oriente cristiano, a conservare e custodire una iconografia sacra realistica, perché gli ambienti popolari volevano
una immagine davanti a sé, non un’idea.
Mentre in Occidente la raffigurazione di Cristo vivo in croce perdura fino al XIII secolo, in Oriente nei primi due decenni del Mille,
intorno al 1020, compare per la prima volta Cristo morto in croce su un codice ritrovato a Costantinopoli.
Cristo ha il capo reclinato, il suo corpo è arcuato, ha perso la fermezza, il tipo di ieraticità, di fissità come invece era fino a quel
momento, e la testa si appoggia sulla spalla.Gli occhi sono quasi completamente chiusi e Cristo è morto, benché non sia una morte
totalmente corporale e assomigli molto di più a un sonno, è una morte quasi disincarnata, è più un abbandono di una vita terrena
che una morte. Molte sono le ipotesi che hanno tentato di dare una risposta a tale cambiamento, ma solo una è la più attendibile.
Proprio nel monastero di Stoudios, verso la fine del X secolo un monaco, filosofo, Nichetas Sthetatos aveva cercato di mettere
ordine in questo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi, artistici ed espressivi: come giustificare che Dio potesse
morire in croce, una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere intatta la sua divinità pur da morto. Ed era
arrivato a questa soluzione teologica: morì, sì, in croce, il suo corpo morì, ma lo Spirito Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, sì
che pur morto viveva nello Spirito. Ciò toglieva ormai tutti gli ostacoli alla rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva
ancora continuare a confidare nella vita di Dio. Ma perché potesse il fedele essere ancora più certo che in un corpo morto, nel
corpo morto di Cristo, la vita ancora proseguisse, venne raffigurato per la prima volta il fiotto di sangue che sgorga dal costato.
La tradizione iconografica del Cristo vivo in croce non solo dura in Occidente, ma anche si diffonde in ambiente latino, in Spagna e
specialmente in Italia, dove iniziarono a diffondersi le croci dipinte su legno.
L’influenza bizantina è ancora molto forte, ma questa influenza bizantina si deve adattare, entrare nel vivo di una forza di
concretezza di immagine che è italiana; è vero che Cristo è raffigurato quasi impassibile, non colpito e non espressivamente segnato
dal dolore, ma è necessario espandersi e di trovare una forma nuova per esprimersi e diventare sempre più vero, lasciare la sua
condizione totemica che,nella sua inafferrabilità, è insufficiente ad appagare anche la pietas di chi vuole invece essere sempre più
3. vicino alla figura di Cristo. Nel suo sguardo così incantato c’è un senso di lontananza, di tristezza, di mestizia che non si avvicina al
fedele.
Croce di Rosano, XII secolo
Dal 1200 il volto di Cristo è lontano, “patiens”, oramai affondato dalla sofferenza, assolutamente morto, senza ombra di esitazione,
e così capace anche di coinvolgere lo spettatore, il devoto, di portarlo con sé, dai precedenti. Qualcosa di dirompente è accaduto.
Infatti nel pensiero e nella predicazione di san Francesco l’identificazione con Cristo morto è diventata uno dei cardini così di tutta
quanta la sua spiritualità, così della pietà, e da ciò ne è scaturito tutto quanto ne è conseguito poi sul piano figurativo. Vi è un
tentativo di umanizzare il sacro e di coinvolgere emotivamente l’osservatore in un clima di umile e fervente religiosità.
I francescani avevano compreso quanto l’arte potesse servire alla loro opera di apostolato spirituale.
Non c’è nulla di più efficace, di più eloquente, utile, a spiegare cos’è accaduto, delle parole di Jacopone da Todi, che in clima
francescano a un certo punto canta:
«Voglio me stesso renegare e la croce voglio portare»
Si è abbandonata la linearità ascensionale, tutto quanto è diventato come più concreto, fino all’estremo della sua verità
l’umanizzazione del sacro e quindi anche della figura di Cristo.
Certe resistenze antiche permangono, vedi appunto ancora l’illustrazione episodica dei tabelloni, con le storie di Cristo, e poi
l’alleggerimento della figura del Cristo morto che in qualche modo richiama al fatto, alla possibilità di lasciarlo come parzialmente,
impalpabilmente in vita.
Successivamente c’è qualcosa di nuovo, innanzitutto c’è un alleggerimento di certe parti, però non da intendersi come una volontà
di tornare al passato, nell’impalpabilità della figura, ma invece come una volontà faticosa di arrivare a quella umanizzazione del
sacro per cui Cristo potesse essere sempre più vero e il Mistero sempre più incarnato.
Per arrivare a questo ci vuole un’altra rivoluzione: simile a quella di san Francesco anche se proiettata su un altro piano. Proprio
in funzione della umanità dichiarata di Cristo, nella sua morte (ma questa volta è una morte fisica, umana fino in fondo e come tale
può essere anche attraversata da un fremito di vita), mai ci si è totalmente spinti in una corsa verso la modernità, e la sua
concentrazione di umano e divino è definitivamente decretata.
Cristo è infine morto, ma umano e divino.
4. Le croci dipinte
La croce dipinta è un oggetto figurativo a soggetto sacro caratteristico dell’arredo ecclesiastico.
Realizzate su legno o su fogli di pergamena applicati su tavole, il fenomeno della fioritura delle croci dipinte è italiano, ma non si sa
se la prima croce fosse italiana. Le croci erano di grandi dimensioni affinché potessero essere visibili dai fedeli anche da una certa
distanza.
Rispetto ai crocifissi lignei o in metallo la croce dipinta fu caratterizzata fin dall’inizio da una struttura di notevole complessità
fornita di terminazioni quadrangolari.
Realizzazione
Il legno usato per il supporto era generalmente il pioppo in Italia e nel sud d’Europa, la quercia nelle regioni nordiche.
Le tavole venivano accuratamente preparate dallo stesso pittore che, con la collaborazione di aiutanti e apprendisti, provvedeva a
tutte le fasi della lavorazione.
Il legno, che doveva essere uniforme e privo di nodi, era ridotto in tavole, che venivano poi spianate. Per raggiungere la dimensione
desiderata, si provvedeva a giuntare fra loro varie assi con colla e gesso, tasselli ad incastro, perni di legno e alcuni chiodi, tutti
posti sulla parte superiore,nella quale una struttura reticolare di travi rendeva la tavola più solida e adatta a subire spostamenti.
Sul dritto, le connessioni tra le varie assi venivano coperte con strisce di lino o pergamena stese a volte sulla tavola. Si provvedeva
poi all’imprimitura, una preparazione che rendeva il legno adat5to alla pittura. Consisteva in successivi strati di gesso e colla che,
una volta asciutti, venivano lisciati accuratamente. Gli strati potevano arrivare addirittura fino ad otto, così da rendere resistente,
levigata e compatta la superficie della tavola.
Per rendere meno assorbente e meno abbagliante lo strato di gesso, prima di dipingere si passava una mano di colore a tempera di
una tinta neutra. Sull’imprimitura asciutta veniva eseguito a carbone il disegno preparatorio.
La prima fase della lavorazione pittorica era la doratura, usata fino al Trecento per i fondi, gli ornamenti e le cornici. Consisteva
nell’applicare sottilissime, quasi impalpabili sfoglie d’oro ritagliate in precedenza nella forma richiesta dal disegno.
Le sfoglie erano preparate con la battura del metallo fra due strati di pelle dai “battitori”,artigiani specializzati in questo lavoro.
Per trattenere l’oro, la superficie era preparata a mordente (con un prodotto acido che corrodeva il metalo) oppure a bolo, una
terra untuosa mescolata con chiara d’uovo montata a neve. Su questa si premeva con cura l’oro, così da ottenere una perfetta
aderenza. Si procedeva poi con gli interventi decorativi a stampo e con la brunitura, una rifinitura ottenuta strofinando sulla
superficie denti di cane o lupo, o pietre durissime.
Per dipingere si usavano colori a tempera, mescolati con i leganti allora in uso, di solito il rosso d’uovo, il lattice di fico o la bava
di lumaca. Nel Duecento la stesura era data per campiture uniformi, con l’accostamento dei vari campi cromatici. Una volta che i
colori erano asciutti, si provvedeva con aggiunte successive a tracciare sulle figure i particolari e i chiaroscuri per mezzo di
5. sovrapposizioni di colori. Fra il Duecento e il Trecento vi fu un’evoluzione nella tecnica pittorica e assunse maggiori importanza il
disegno, nel quale erano già segnati tutti i particolari, le pieghe, a volte con i chiaroscuri. Si procedeva poi con le diverse tonalità di
colori, stendendoli sia per accostamento che per fusione con effetti di maggior rilievo e naturalezza delle figure rispetto alle tecniche
precedenti.
L’oro in alcune parti poteva essere applicato in polvere su base collante. Alcuni elementi in rilievo venivano decorati a “pastiglia”
mediante l’applicazione di pietre dure e vitree con i loro alveoli di metallo su abiti, aureole, corone, rendendoli così maggiormente
preziosi.
Storia
Nell'Italia centrale già dal XII secolo si sviluppa la tradizione delle croci dipinte su tavola, destinate ad essere appese nell'arco
trionfale delle chiese o al di sopra dell'iconostasi, ovvero la zona che separava la navata, adibita ai laici, dal presbitero adibito al
clero.
La storia della pittura nella penisola italiana di questo periodo è essenzialmente quella della scoperta dello spazio nell’arte e del
realismo. L’interesse dal divino si sposta al mondo reale.La pittura diviene più naturale, più umana.
Il fenomeno pittorico delle croci dipinte si affermò in tutta Italia, ma due possono essere considerate le scuole principali:
- La scuola Lucchese (quella più antica), che si distingue per la sagoma del calice a cui allude la parte inferiore del tabellone; la
forma si carica, così, di una forte simbologia della Passione;
- La scuola Pisana, che manca della forma a calice, anche se non esclude il ricorso alla simbologia della Passione e della
Resurrezione. La sagoma sembra essere dettata da ragioni “funzionali” alla liturgia. La cimasa presenta il clipeo(scene iscritte
in un cerchio) con l’effigie del Cristo Pantokratore (“onnipotente”, composto da pan = “tutto”, “ogni cosa” e da kratos =
“forza”, “potere”).
. Dal XIII al XVI secolo l’arte in Italia si può dividere in tre stili:
• Bizantino- romanico (XIII secolo);
• Gotico (XIV secolo)
• Rinascimentale (XV-XVI secolo)
In Italia, durante la prima metà del XIII secolo, l’arte segue uno stile bizantino. Le sue caratteristiche sono principalmente: il fondo
d’oro (che significa pura luce, annullamento dello spazio,mondo ultraterreno), figure piatte e senza volume,ieraticità. Questo perché
gli artisti bizantini volevano raffigurare i personaggi della religione come divinità,abitanti del paradiso, puri spiriti senza corpo.
Una delle eresie più dure, che risale ai primi decenni del IV secolo era quella che negava la natura umana di Cristo, lasciando in
vita unicamente quella divina. In tal senso tutto ciò che potesse essere rappresentazione corporea di Dio veniva negato.
L’iconografia di Cristo vivo in croce, triumphans, dura in Oriente fino all’XI secolo, in Occidente fino ai primi due decenni del XII
secolo.In queste croci il Cristo crocifisso, in posizione frontale con la testa eretta e gli occhi aperti, vivo sulla croce, è ritratto come
vincitore sulla morte, spesso attorniato da scene tratte dalla passione e altre figure intere o a mezzo busto. Questa influenza del
movimento iconoclasta dall’Oriente (vietante il culto delle immagini e ne propugnava la distruzione) tendeva alla geometrizzazione
e semplificazione.Il più antico esempio italiano proviene dal Duomo di Sarzana, vicino La Spezia e risale al 1138 ed è firmato da un
maestro di nome Guglielmo; attorno ad essa si raggruppano le croci di San Michele, dei Servi, di Santa Giulia a Lucca e altre che
formavano il primo nucleo della cosiddetta scuola Lucchese. L’iconografia seguita è quella del Cristo trionfante di derivazione
orientale.
Croce del Maestro Guglielmo di Sarzana, XII sec.
6. Scheda dell’opera
Oggetto: Croce dipinta con espansioni laterali, suppedanio, tabellario a calice e cimasa.
Autore: Maestro Guglielmo.
Ambito culturale: Scuola Lucchese.
Epoca: 1138 (la più antica croce pervenuta).
Soggetto: Cristo Triumphans affiancato dalla Madonna e San Giovanni Evangelista, con scene della Passione.
Materiali: Tempera a uovo su legno di castagno.
Misure: 3 x 2,10 m.
Collocazione: Sarzana, Duomo.
Stato di conservazione: Buono.
Restauri: Dal 1995 è sotto restauro a Firenze.
Indicazioni specifiche: Il corpo del Cristo probabilmente appartiene ad un altro artista sconosciuto.
Il Cristo è rappresentato eretto, vivente sulla croce, vincitore della morte fisica, secondo uno schema bizantino passato in Occidente
attraverso gli avori carolingi, detto Christus triumphans. L’origine culturale bizantina è visibile anche nella frontalità, ma il corpo è
accennato nei suoi valori anatomici e la linea di contorno, scura e netta, lo fa staccare dal fondo. I grandi occhi sbarrati non sono
privi di espressione, ma furono ritoccati, è probabile, quando, nel XIII sec., la testa e parte della figura vennero ridipinte, come
hanno rivelato, nel 1942 e nel 1946, degli esami radiografici. Sotto la pittura è possibile intravedere quella originale di più vigorosa
fattura che si accorda con le parti non manomesse del dipinto. Il crocifisso, invece che col colobium, come appare fino al IX sec., è
nudo, con i soli fianchi rivestiti dal perizoma, come sarà sempre rappresentato. I piedi sono disgiunti e forati come le mani tramite
chiodi.
A fiancheggiare il Cristo nel tabellone a calice sono raffigurati Maria e Giovanni, a figura intera, davanti alle pie..
Sotto i dolenti vi sono sei scene (le ultime due in basso però appaiono limitate dalla sagomatura del tabellone), in cui sono dipinti
episodi della Passione nel modo che poi fu adottato a Lucca e a Pisa.
Nella tabella dell’albero e nel sovrastante tondo è raffigurata, secondo l’uso bizantino, l’Ascensione con la Madonna posta sotto il
Redentore e isolata al centro della scena con le braccia aperte e non alzate al cielo come nelle composizioni successive.
Ai capicroce si trovano i simboli degli evangelisti e i profeti Geremia e Isaia.
Sotto il “titolo” accoglie, con la firma e la data, il distico “ANNO MILLENIO CENTENO TER QUOQ’DENO OCTAVO PINX
GUILUEM. ET H METRA FINX”.
Dal XIII secolo comincia a diffondersi un nuovo tipo di croce dipinta, quella con Cristo sofferente (Patiens) con il capo reclinato
sulla spalla, gli occhi chiusi, il corpo che perde la rigida frontalità degli esempi precedenti per inarcarsi dal dolore.
Nell’analisi della croce di Giunta Pisano realizzata per la Chiesa di San Domenico a Bologna nel 1254, perché è un esempio di
croce dipinta che segue l’iconografia del Cristus Patiens dove il pittore
Giunta drammatizza maggiormente la figura di Cristo.
Giunta Pisano usa l'iconografia drammatica del Christus Patiens, cioè
morto sulla croce, con il volto dolente a occhi chiusi e il corpo inarcato
lateralmente oltre il profilo del legno mentre il volto si contrae
dolorosamente e il corpo si fa livido e terreo.
La sua pittura fu sicuramente influenzata dal rinnovamento religioso
promosso dai francescani, come si può vedere dal tentativo di umanizzare
il sacro. Tipico dell’arte bizantina era dipingere Cristo sulla croce con gli
occhi aperti, mentre il nuovo Cristo di Giunta Pisano ha gli occhi chiusi.
Questo perché i bizantini sottolineano l’aspetto divino di Cristo, mentre i
romanici quello umano.
Giunta Pisano interpreta in modo drammatico ed esasperato la maestosità
delle figure bizantine.
Cristo è curvo,come un arco in tensione: si accentua il pathos del
personaggio, che non è più dio che vince la morte, ma uomo che soffre.
7. Croce di San Panierino, Giunta Pisano, 1250 circa
Scheda dell’opera
Oggetto: Croce dipinta con espansioni laterali, suppedanio, tabellario a calice,clipse e cimasa.
Autore: Giunta Pisano
Epoca: 1250-60 circa
Soggetto: Cristo Patiens affiancato dalla Madonna e da San Giovanni Evangelista, in alto il Redentore benedicente
Materiali: Tempera su tavola
Misure: 184 x 134 cm
Collocazione: Museo Nazionale di San Matteo, Pisa
La croce ha una forma sagomata ed è dotata di cimasa , tabelle laterali, tabelloni e suppedaneo . Al centro è il Cristo, di tipo
patiens, con la testa reclinata sulla spalla e il corpo, rivestito da perizoma bianco e azzurro, che si inarca leggermente dal fondo blu
della croce. Su quest'ultima si imposta il nimbo in rilievo con una croce inscritta che crea un particolare effetto prospettico. Nel
disco della cimasa è raffigurato il Redentore benedicente con ai lati le lettere alfa e omega, al di sotto compare l'iscrizione INRI.
Nelle tabelle laterali sono dipinte le figure, a mezzo busto e in atteggiamento dolente, della Madonna e del San Giovanni
Evangelista, accompagnate da iscrizioni che le identificano; i tabelloni laterali sono ornati, invece, con un motivo che imita la
decorazione di una stoffa, a losanghe intrecciate in oro, includenti un piccolo fiore anch'esso dorato. Nel suppedaneo è ancora in
parte leggibile la firma dell'artista: Iuncta / Pisanus / Me Fecit (Giunta Pisano mi fece).
La croce è una delle più importanti opere della pittura duecentesca italiana. Non sappiamo a quale chiesa appartenesse in origine,
ma le sue dimensioni fanno supporre che fosse destinata ad essere collocata al di sopra di un altare o di un' iconostasi . Del suo
autore, ci restano altri due crocifissi dipinti, l'uno conservato nel Museo della Basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, l'altro
nella chiesa di San Domenico a Bologna. Una quarta croce, pertinente alla basilica di San Francesco ad Assisi, firmata e datata
1236, è andata purtroppo perduta nel XVII secolo. Comune a tutte e tre le opere è una concezione molto umanizzata della sofferenza
di Cristo, che è espressa in maniera estremamente realistica e con toni fortemente drammatici. Tale concezione, che rappresenta
una vera e propria novità nell'ambito delle raffigurazioni di questo genere, è indicativa di una profonda adesione da parte del
pittore al nuovo modo di intendere la spiritualità cristiana promosso dall'ordine mendicante dei francescani.
Stilisticamente l'opera rappresenta il prodotto di quella cultura bizantineggiante che ebbe particolare fioritura a Pisa tra XII e XIII
secolo. Richiamano quest'ultima, ad esempio, l'impostazione generale della figura del Cristo ed il modo molto calligrafico di
delineare alcuni particolari del corpo. Del tutto innovativa rispetto a tale cultura è, però, la raffigurazione alquanto realistica e
drammatica della sofferenza del Crocifisso che è data dal corpo che si inarca e dalla testa quasi abbandonata sulla spalla destra.
All'interno del percorso stilistico di Giunta , la croce è da collocare in un momento di maggiore avvicinamento a modelli
neoellenistici. Rispetto agli altri esemplari giunteschi, essa si caratterizza, infatti, per un cromatismo più fuso e per un più attento
proporzionamento della figura umana.
L’evoluzione pittorica-iconografica prosegue con la croce di Cimabue ad Arezzo nella chiesa di San Domenico a Firenze, poiché
qui Cimabue concentra la sua attenzione maggiormente sulla figura DI Cristo, al quale cerca di dare un risalto plastico notevole,
8. attraverso un forte chiaroscuro, così da dare l’illusione che il corpo di Cristo non fosse solo un’immagine piatta dipinta, ma quasi
una scultura lignea.
E’ caratterizzato da un forte inarcamento molto accentuato della figura di Cristo per dare più risalto volumetrico e non solo
drammatico della figura.
Croce di San Domenico ad Arezzo, Cimabue, 1270 circa
Scheda dell’opera
Oggetto: Croce dipinta con espansioni laterali, suppedanio, tabellario, clipse e cimasa.
Autore: Cimabue (Cenni di Pepo)
Epoca:1270 circa
Soggetto: Cristo Patiens affiancato da Maria e San Giovanni, in alto il Redentore benedicente.
Materiali: tempera su tavola
Misure: 267 x 336 cm
Collocazione: Arezzo, San Domenico
In questa opera Cimabue si orientò verso le recenti rappresentazioni della Crocefissione con il Christus patiens dipinte verso il 1250
da Giunta Pisano, ma aggiornò l'iconografia arcuando ancora maggiormente il corpo del Cristo, che ormai debordava occupando
tutta la fascia alla sinistra della croce. Sempre ai modelli di Giunta rimandano le due figure nei tabelloni ai lati dei braccio della
croce (Maria e San Giovanni raffigurati a mezzo busto in posizione di compianto) e lo stile asciutto, quasi "calligrafico" della resa
anatomica del corpo del Cristo.La somiglianza con il modello giuntesco si spiega anche con un'esplicita richiesta dei domenicani
aretini, essendo il crocifisso di Giunta conservato nella chiesa principale dell'ordine, la basilica di San Domenico a Bologna.
Un'altra novità rispetto al modello fu l'uso delle striature d'oro nel panneggio che copre il corpo di Cristo o nelle vesti dei due
dolenti, un motivo usato per la prima volta, pare, da Coppo di Marcovaldo e derivato dalle icone bizantine e greche.
L’opera è considerata frutto della giovinezza dell’artista, eseguita probabilmente prima di un soggiorno a Roma.
L' iter sull’iconografia del Cristus patiens si conclude con il crocifisso di Giotto a Firenze nella chiesa di Santa Maria Novella dove
il maestro lavora per le istituzioni Domenicane.
Qui il Cristo, sempre patiens, non è più inarcato (come nei modelli precedenti), ma appeso alla croce, il capo pende verso il basso,
si percepisce il peso del corpo che si sostiene sulle braccia inchiodate alla croce, le ginocchia si piegano e i piedi sono uniti, forati
da un chiodo solo e così la sofferenza viene descritta non solo nella sua straziante intensità morale, ma anche nei suoi aspetti fisici
di tutto il corpo di cui Giotto ha una marcata attenzione anatomica e drammatica evidenziando la ferita del costato oltre a quella
dei piedi e della mani.
Giotto in seguito realizzerà altri crocifissi di questo tipo per chiesa di San Felice in Piazza a Firenze, e per il Tempio Malatestiano
di Rimini e un crocifisso per la cappella di Enrico Scrovegni di Padova oggi al Museo civico.
In conclusione, osservando l’opera, c’è da intendersi in Giotto una volontà forte di arrivare a quella estrema umanizzazione del
sacro per cui Cristo potesse essere sempre più vero e il Mistero sempre più incarnato, proprio in funzione della umanità dichiarata
9. di Cristo, nella sua morte e ci si è totalmente spinti in una corsa verso la modernità e la sua concentrazione di umano e divino è
decretata per svelare il mistero di Cristo in armonia con il pensiero francescano. La croce giottesca si trasforma da oggetto
liturgico a meditazione sulla terrena ed umana morte corporale.
Croce di Santa Maria Novella, Firenze, Giotto, 1300 circa
Scheda dell’opera
Oggetto: Croce dipinta con espansioni laterali, suppedaneo e tabellario
Autore: Giotto
Epoca: 1296-1300
Soggetto: Cristo patiens con Maria e San Giovanni.
Materiali: tempera su tavola
Misure: 578 x 406 cm
Collocazione: Firenze, Santa Maria Novella.
Restauri: nel 2001
Giotto cerca di isolare e sviluppare le componenti realistiche e classicheggianti dell'arte del maestro, Cimabue, portandosi verso
posizioni sempre più lontane dai modelli di memoria bizantina e inaugurando una stagione di grande arte gotica italiana.
Grazie anche all'influsso di Nicola Pisano, recupera la plasticità e la spazialità nella propria opera.
Ad un confronto con le croci precedenti, subito appare chiaro un elemento di discontinuità con il passato che Giotto propone: il
Cristo, sempre Patiens, non è più inarcato, ma appeso alla croce: il capo pende verso il basso, si percepisce il peso del corpo che si
sostiene sulle braccia inchiodate alla croce, tanto che il bacino rimane indietro, non si sporge lateralmente come nel Cristo di Santa
Croce; le ginocchia si piegano, ed i piedi sono uniti, forati da un chiodo solo.
La resa anatomica tende a diventare sempre più realistica grazie al chiaroscuro.
La croce è identica nello schema e nei colori a quella di Santa Croce, se non per il suppedaneo.
Durante il restauro dell'opera, conclusosi nell'autunno del 2001, sono state evidenziate alcune particolarità rimaste, fino ad allora,
sconosciute, tra cui l'estrema raffinatezza di una bottega che si avvaleva di maestranze esperte e raffinate e il cambiamento in corso
d'opera da parte di Giotto nella impostazione più allungata e reclinata della figura di Cristo (fatto che comportò un cambiamento
anche della struttura lignea già costruita).
Inoltre Giotto, come tutta la scuola di Cimabue, cambiò il numero di chiodi fino a un complessivo di 3, non più 4. I due piedi
accavallati furono retti da un unico chiodo in ossequio al significato allegorico, fors'anche esoterico, del numero 3.