1. C’era una volta il reportage. E la pellicola.
A guardare la storia del reportage fotogiornalistico, penso sia innegabile che
il bianco e nero sia stato il colore dei sentimenti e degli avvenimenti. Il
reportage, il fotogiornalismo è nato con il bianco e nero, il bianco e nero
chimico, quello della camera oscura, delle bruciature e delle mascherature in
fase di stampa, le stesse che i programmi di ritocco fotografico propongono
in maniera digitale. A me il digitale comincia a darmi un po’ sui nervi, perché
il fotoritocco digitale (quello spinto), il fotomontaggio tolgono realtà alla
fotografia, la rendono meno incisiva. La fotografia è reale: nel senso che
quello che fotografi esiste nella realtà, non è un sogno, un’astrazione, un
prodotto della fantasia, c’è, esiste: il fotografo si limita a raccogliere. Questo
fa il fotografo: attende e raccoglie, come se fosse (si fa per dire) al servizio
della realtà. Certo è un’attesa consapevole, attenta, mai noiosa, anche se poi
scopre che ci sono scatti che non sa neanche lui come sono saltati fuori. Lui
era lì. E questo basta. Fotografare, in fondo, è un tentativo di raccontare
storie. C’è chi lo fa con le parole, chi con i cortometraggi, chi con i fumetti e
chi con un libro fotografico. Ma qualunque modo si voglia usare per dire una
cosa sul mondo bisogna «possedere» un minimo l’idea di quel che si fa,
avere in mano il progetto. Perché la fotografia si fa sul campo, sporcandosi le
mani, mettendosi in gioco, faticando. «Ottica fissa e stai sul posto», dicevano
i vecchi fotografi, ponendo l’accento sull’attesa che precedeva lo scatto. Non
si tratta di fare i nostalgici: raccontare storie è un mestiere duro. Lo sanno
bene i giornalisti, i romanzieri, gli sceneggiatori, i registi, i fumettisti.
Speriamo in tempi più autentici, senza troppi effetti speciali, perché il vero
effetto speciale deve trovarlo chi racconta, nel soggetto.
Luca Pelusi