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A brief history of approaches,
methods and techniques of urban
 regeneration of historic centres
 related to their territories: the
           Italian case




     F. Selicato, C. Ceppi, P. Loconte, C. Piscitelli, F. Rotondo
1. Gli anni venti e trenta
Gli sventramenti del periodo fascista finalizzati ad esaltare gli episodi
edilizi monumentali, in maniera peraltro coerente con la retorica del
regime tesa ad esaltare la monumentalità e a riappropriarsi della
“romanità”.
2. Gli anni trenta
L’insegnamento di Giovannoni nella Scuola di Architettura di Roma
dà l’avvio a teorie tendenti a limitare il peso degli sventramenti nel
tessuto storico delle città.

Giovannoni propone il metodo del diradamento, consistente
nell’alleggerire l’originario addensamento dell’edilizia esistente
mediante l’eliminazione di parti ritenute “superfle”.
3. Il primo dopoguerra
Il dopoguerra vede un risveglio del dibattito sulle modalità di
intervento nella città antica: vanno precisandosi i termini e i modi
della conservazione e, pur in presenza di nuovi e violenti assalti al
tessuto storico, si formalizzano e si sperimentano attraverso piani
urbanistici di nuova concezione, i termini di un diverso approccio.

E’ questo un periodo di grande fermento culturale che si protrae
fino a tutti gli anni sessanta e settanta dovuto anche allo stato di
degrado fisico e di disagio sociale di molti centri storici.
Il convegno di Italia Nostra a Firenze del 1957, prima, e il convegno di
Gubbio del 1960 (promosso da G. Astengo), dopo, stabiliscono il
principio della salvaguardia integrale del centro storico. Il convegno di
Gubbio porta alla fondazione dell'ANCSA (Associazione Nazionale
Centri Storici Artistici). A valle dello stesso convegno viene promulgata
la Carta di Gubbio ove si dichiara l'importanza nazionale della
questione dei centri storici e la necessità di inserire nei Prg norme
specifiche la città antica, facendola oggetto di un “Piano di
risanamento conservativo”, in attesa del quale deve vigere un vincolo
assoluto di salvaguardia.
4. Gli anni sessanta e settanta
Nel primo convegno dell’ANCSA tenutosi a Venezia nel 1962 viene
superata l’artificiosa elaborazione del concetto di “centro storico
artistico”, per giungere all’estensione dell’azione di tutela al centro
storico nella sua interezza.

Nel 1964, in occasione del secondo Congresso internazionale degli
architetti e dei tecnici dei monumenti tenutosi a Venezia, viene
costituito l'Icomos (International Council of Monuments and Sites) e
viene promulgata la Carta di Venezia (Carta internazionale per la
conservazione e il restauro dei monumenti e dei siti) nella quale si
afferma che la nozione di monumento va estesa a tutto l'ambiente
(urbano o paesistico) che testimonia una civiltà.
Le disposizioni normative relative alle “zone omogenee A”
introdotte dalla Legge 06.08.1967 n.765 introducono per la prima
volta la tutela dei centri storici con una impostazione che guarda,
non tanto al valore eccezionale dei singoli elementi architettonici
che li compongono, ma a tutto l’impianto urbanistico tradizionale,
che va conservato nella sua interezza in quanto testimonianza
materiale delle comunità insediate. Nella concezione normativa della
Legge n.765/1967 il tessuto storico, pur nella sua intera consistenza
che non pone distinzioni fra parti di maggiore o minore rilevanza
architettonica al suo interno, è riferito al tessuto edificato fino al
1860 (Circolare ministeriale n.3219/1967).

Nel 1972 viene messa a punto, dal Consiglio Superiore delle
Antichità e Belle Arti, la Carta italiana del Restauro costituita da
quattro distinte relazioni contenenti istruzioni – fra l’altro – anche
per la tutela dei centri storici.
Nel 1975 al convegno di Amsterdam dell’Icomos viene presentata la
Carta europea del patrimonio architettonico, successivamente
adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, che
sancisce il principio della "conservazione integrata".

Negli anni settanta in Italia diverse amministrazioni hanno ritenuto
di poter risolvere il problema della salvaguardia e della
riqualificazione dei centri storici attraverso interventi di recupero
finalizzati a garantire residenza pubblica ai sensi della Legge
18.04.1962 n. 167. Queste operazioni hanno consentito (nei casi in
cui ciò è stato possibile) di perseguire finalità sociali, venendo
incontro ai bisogni primari delle classi sociali più deboli.
Significative sono le esperienze progettuali di recupero e
risanamento di importanti centri antichi avviate in questi anni.

L’attenzione verso i caratteri morfologici (rapporto tra pieni e vuoti,
spazi aperti e chiusi, struttura e gerarchia delle parti, ecc.) assume
particolare rilievo nei piani di recupero di Assisi (Astengo, sul finire
degli anni cinquanta), di Urbino (De Carlo, primi anni sessanta), di
Pesaro (Aymonino, primi anni settanta), che si inseriscono nel solco
dei tradizionali studi delle scuole di architettura orientati a cogliere
tutte le possibili interazioni fra il progetto di architettura e il ruolo
del piano urbanistico.

Un ruolo a sé e di grande interesse assume il piano di recupero del
centro storico di Bologna (Cervellati), e per l’approfondita indagine
condotta sulle tipologie edilizie, e per aver concepito, prima, e
portato a termine, dopo, un ambizioso programma di recupero (ben
13 comparti) finalizzato alla realizzazione di unità abitative di tipo
pubblico (ai sensi della Legge n.167/1962). Il rigore dell’analisi
tipologica del piano di Bologna e delle corrispondenti categorie di
recupero, diede il via all’emanazione della Legge 05.08.1978 n. 457,
attraverso cui si definivano le modalità di intervento nelle azioni di
recupero del tessuto edificato esistente.
5. Gli anni ottanta e novanta
Sul finire degli anni settanta e per tutto il decennio successivo si
intensificano le esperienze progettuali, laddove di volta in volta si
approfondiscono modalità e concezioni secondo cui intendere e/o
gestire (laboratori di quartiere) il recupero, esplorando nuovi
percorsi e avvalendosi di nuovi strumenti (manuali di recupero).
A Palermo (con Samonà, De Carlo e Di Cristina, nei primi anni
ottanta), data anche la dimensione del contesto storico, si definisce
una sorta di “piano programma”, accompagnato da schede critiche
di lettura morfologica dei “sistemi spaziali architettonici chiusi e
aperti”. Si tratta di un vero e proprio documento programmatico di
base (che anticipa per certi versi le odierne esperienze) per la
successiva formazione dei piani di recupero. E sempre a Palermo,
sul finire degli anni ottanta, un nuovo piano (redatto da Benevolo e
Cervellati) assume una maggiore caratterizzazione tipologica, che
esplora i caratteri strutturali della città storica nella stratificazione
delle sue differenti fasi costruttive. Ad Ascoli Piceno (con Bernardo
Secchi nei primi anni novanta) si focalizza l’attenzione sul recupero
di suolo, dello spazio collettivo non edificato (le piazze, le strade, i
giardini), tanto da poter ritenere che il piano si caratterizzi come
“progetto di suolo”, investendo in tal modo tutto lo spazio pubblico
della città antica.
Accanto ad alcune esperienze-pilota come quelle citate, prosegue in
maniera diffusa comunque la redazione di piani di recupero, un po’
ovunque nel Paese, emulativi dell’esperienza bolognese.

Tutte queste esperienze sono accomunate da una robusta
dimensione analitica delle indagini – dirette (in molti contesti minori
addirittura “porta a porta”) e indirette – avviate sul territorio, e sul
versante delle componenti fisiche del tessuto urbano, e sul versante
delle componenti socio-economiche della struttura della
popolazione.

Controversi sono gli esiti prodotti a valle di tutta questa produzione
di piani di recupero soprattutto nel meridione del Paese.
Sul finire degli anni settanta (1979) si sperimenta a Otranto il primo
“laboratorio di quartiere” per i centri storici su progetto di Renzo
Piano (impresa Dioguardi) e con il patrocinio dell’UNESCO, cui
seguono – fra gli altri – il laboratorio di quartiere di Roma (1993) e
quello di Cosenza (1995). Le finalità di questi laboratori tendono a
facilitare le scelte decisionali relative alla riqualificazione fisica,
economica e sociale della città storica.

Negli anni novanta si consolida l’uso di strumenti tecnici di
accompagnamento dei piani di recupero costituiti da veri e propri
“manuali del recupero”. Fra i più interessati di tali strumenti
troviamo il “manuale di recupero di Roma” (1989), il “manuale di
recupero di Città di Castello” (1992), il “manuale di recupero della
città di Palermo” (1994). I manuali traducono la norma scritta in
concrete modalità operative di intervento, rappresentate
graficamente in maniera esemplificativa attraverso l’esplicitazione di
numerosi dettagli costruttivi.
Dalla metà degli anni novanta fino ai primi anni duemila si
consolidano, su scala nazionale, alcuni programmi complessi
(secondo una nuova e diversa concezione della strumentazione
urbanistica) comprendenti fra l’altro i “programmi di recupero
urbano”, i “programmi di riqualificazione urbana”, i “contratti di
quartiere”, aventi il fine di recuperare parti di città (anche, ma non
solo, del tessuto storico) con una prevalente attenzione al recupero
di unità abitative di tipo pubblico e alla dotazione di servizi. Il
carattere straordinario di questi programmi, la disponibilità di
risorse pubbliche messe a concorso attraverso meccanismi di
competitività e il concorso di risorse finanziarie pubbliche e private
rappresentano la novità di queste nuove forme di pianificazione.
6. Gli anni duemila
Prosegue a livello nazionale la sperimentazione dei programmi
complessi con i programmi di iniziativa comunitaria Urban, i cui esiti
in verità appaiono alquanto contradditori.

Si avvia in questi stessi anni una diffusa sperimentazione di
programmi di rigenerazione urbana e territoriale che vede
soprattutto la Puglia in posizione di avanguardia rispetto alle altre
regioni italiane.
La Puglia approva una legge regionale sulla rigenerazione urbana
(Legge Regionale 29.07.2008 n.21), che introduce il “documento
programmatico per la rigenerazione urbana”, attraverso il quale le
amministrazioni comunali sono chiamate a individuare gli ambiti da
privilegiare nelle operazioni di rigenerazione urbana garantendo, fra
l’altro, la tutela del patrimonio storico-culturale, paesaggistico e
ambientale. Gli strumenti di rigenerazione più recenti in Puglia
fanno riferimento ai Programmi integrati di rigenerazione urbana
(PIRU), ai Programmi integrati di sviluppo urbano (PISU), ai
Programmi integrati di sviluppo territoriale (PIST).

In tutti questi programmi le azioni principali sono volte alla
riqualificazione della città esistente e del suo patrimonio storico
culturale con una particolare attenzione, soprattutto nei programmi
a valenza territoriale, al rafforzamento delle trame di relazione che
connettono i sistemi dei centri urbani minori, con particolare
riguardo a quelli fortemente connessi dal punto di vista naturalistico
e storico-culturale.
La nuova dimensione territoriale delle odierne politiche di
rigenerazione del patrimonio storico trova piena legittimazione nel
Decreto Legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali),
secondo cui i beni culturali possono essere tutelati e valorizzati solo
se considerati nel proprio contesto territoriale che, in quanto tale,
assume di per sé una rilevanza paesaggistica.
7. La complessità delle odierne politiche di
rigenerazione urbana e territoriale
Le rigenerazioni urbane sono lunghe e complesse, richiedono
risorse finanziarie, risorse umane (intelligenze), saperi integrati (per
es. non solo di ingegneri o architetti: anche di economisti, politici,
esperti in discipline ambientali …), creatività, metodi incrementali
(piccoli passi) come anche interventi esemplari, visioni di dettaglio e
visioni di insieme, organizzazioni e strumentazioni specifiche
(agenzie tecniche comunali con sportelli informativi e di ausilio ai
cittadini e agli investitori, sistemi informativi ecc.), soluzioni
coerenti con i caratteri e le identità locali.


Il problema della rigenerazione di parti di una città non può
affrontarsi unicamente dall’attore pubblico o dall’attore privato, per
la rilevanza in genere dell’impegno necessario: di qui l’affermarsi di
un metodo di intervento partenariale, pubblico-privato, in cui
ognuno “fa la propria parte”.

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Italian history of historic centres urban regeneration

  • 1. A brief history of approaches, methods and techniques of urban regeneration of historic centres related to their territories: the Italian case F. Selicato, C. Ceppi, P. Loconte, C. Piscitelli, F. Rotondo
  • 2. 1. Gli anni venti e trenta Gli sventramenti del periodo fascista finalizzati ad esaltare gli episodi edilizi monumentali, in maniera peraltro coerente con la retorica del regime tesa ad esaltare la monumentalità e a riappropriarsi della “romanità”.
  • 3. 2. Gli anni trenta L’insegnamento di Giovannoni nella Scuola di Architettura di Roma dà l’avvio a teorie tendenti a limitare il peso degli sventramenti nel tessuto storico delle città. Giovannoni propone il metodo del diradamento, consistente nell’alleggerire l’originario addensamento dell’edilizia esistente mediante l’eliminazione di parti ritenute “superfle”.
  • 4. 3. Il primo dopoguerra Il dopoguerra vede un risveglio del dibattito sulle modalità di intervento nella città antica: vanno precisandosi i termini e i modi della conservazione e, pur in presenza di nuovi e violenti assalti al tessuto storico, si formalizzano e si sperimentano attraverso piani urbanistici di nuova concezione, i termini di un diverso approccio. E’ questo un periodo di grande fermento culturale che si protrae fino a tutti gli anni sessanta e settanta dovuto anche allo stato di degrado fisico e di disagio sociale di molti centri storici.
  • 5. Il convegno di Italia Nostra a Firenze del 1957, prima, e il convegno di Gubbio del 1960 (promosso da G. Astengo), dopo, stabiliscono il principio della salvaguardia integrale del centro storico. Il convegno di Gubbio porta alla fondazione dell'ANCSA (Associazione Nazionale Centri Storici Artistici). A valle dello stesso convegno viene promulgata la Carta di Gubbio ove si dichiara l'importanza nazionale della questione dei centri storici e la necessità di inserire nei Prg norme specifiche la città antica, facendola oggetto di un “Piano di risanamento conservativo”, in attesa del quale deve vigere un vincolo assoluto di salvaguardia.
  • 6. 4. Gli anni sessanta e settanta Nel primo convegno dell’ANCSA tenutosi a Venezia nel 1962 viene superata l’artificiosa elaborazione del concetto di “centro storico artistico”, per giungere all’estensione dell’azione di tutela al centro storico nella sua interezza. Nel 1964, in occasione del secondo Congresso internazionale degli architetti e dei tecnici dei monumenti tenutosi a Venezia, viene costituito l'Icomos (International Council of Monuments and Sites) e viene promulgata la Carta di Venezia (Carta internazionale per la conservazione e il restauro dei monumenti e dei siti) nella quale si afferma che la nozione di monumento va estesa a tutto l'ambiente (urbano o paesistico) che testimonia una civiltà.
  • 7. Le disposizioni normative relative alle “zone omogenee A” introdotte dalla Legge 06.08.1967 n.765 introducono per la prima volta la tutela dei centri storici con una impostazione che guarda, non tanto al valore eccezionale dei singoli elementi architettonici che li compongono, ma a tutto l’impianto urbanistico tradizionale, che va conservato nella sua interezza in quanto testimonianza materiale delle comunità insediate. Nella concezione normativa della Legge n.765/1967 il tessuto storico, pur nella sua intera consistenza che non pone distinzioni fra parti di maggiore o minore rilevanza architettonica al suo interno, è riferito al tessuto edificato fino al 1860 (Circolare ministeriale n.3219/1967). Nel 1972 viene messa a punto, dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti, la Carta italiana del Restauro costituita da quattro distinte relazioni contenenti istruzioni – fra l’altro – anche per la tutela dei centri storici.
  • 8. Nel 1975 al convegno di Amsterdam dell’Icomos viene presentata la Carta europea del patrimonio architettonico, successivamente adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, che sancisce il principio della "conservazione integrata". Negli anni settanta in Italia diverse amministrazioni hanno ritenuto di poter risolvere il problema della salvaguardia e della riqualificazione dei centri storici attraverso interventi di recupero finalizzati a garantire residenza pubblica ai sensi della Legge 18.04.1962 n. 167. Queste operazioni hanno consentito (nei casi in cui ciò è stato possibile) di perseguire finalità sociali, venendo incontro ai bisogni primari delle classi sociali più deboli.
  • 9. Significative sono le esperienze progettuali di recupero e risanamento di importanti centri antichi avviate in questi anni. L’attenzione verso i caratteri morfologici (rapporto tra pieni e vuoti, spazi aperti e chiusi, struttura e gerarchia delle parti, ecc.) assume particolare rilievo nei piani di recupero di Assisi (Astengo, sul finire degli anni cinquanta), di Urbino (De Carlo, primi anni sessanta), di Pesaro (Aymonino, primi anni settanta), che si inseriscono nel solco dei tradizionali studi delle scuole di architettura orientati a cogliere tutte le possibili interazioni fra il progetto di architettura e il ruolo del piano urbanistico. Un ruolo a sé e di grande interesse assume il piano di recupero del centro storico di Bologna (Cervellati), e per l’approfondita indagine condotta sulle tipologie edilizie, e per aver concepito, prima, e portato a termine, dopo, un ambizioso programma di recupero (ben 13 comparti) finalizzato alla realizzazione di unità abitative di tipo pubblico (ai sensi della Legge n.167/1962). Il rigore dell’analisi tipologica del piano di Bologna e delle corrispondenti categorie di recupero, diede il via all’emanazione della Legge 05.08.1978 n. 457, attraverso cui si definivano le modalità di intervento nelle azioni di recupero del tessuto edificato esistente.
  • 10. 5. Gli anni ottanta e novanta Sul finire degli anni settanta e per tutto il decennio successivo si intensificano le esperienze progettuali, laddove di volta in volta si approfondiscono modalità e concezioni secondo cui intendere e/o gestire (laboratori di quartiere) il recupero, esplorando nuovi percorsi e avvalendosi di nuovi strumenti (manuali di recupero).
  • 11. A Palermo (con Samonà, De Carlo e Di Cristina, nei primi anni ottanta), data anche la dimensione del contesto storico, si definisce una sorta di “piano programma”, accompagnato da schede critiche di lettura morfologica dei “sistemi spaziali architettonici chiusi e aperti”. Si tratta di un vero e proprio documento programmatico di base (che anticipa per certi versi le odierne esperienze) per la successiva formazione dei piani di recupero. E sempre a Palermo, sul finire degli anni ottanta, un nuovo piano (redatto da Benevolo e Cervellati) assume una maggiore caratterizzazione tipologica, che esplora i caratteri strutturali della città storica nella stratificazione delle sue differenti fasi costruttive. Ad Ascoli Piceno (con Bernardo Secchi nei primi anni novanta) si focalizza l’attenzione sul recupero di suolo, dello spazio collettivo non edificato (le piazze, le strade, i giardini), tanto da poter ritenere che il piano si caratterizzi come “progetto di suolo”, investendo in tal modo tutto lo spazio pubblico della città antica.
  • 12. Accanto ad alcune esperienze-pilota come quelle citate, prosegue in maniera diffusa comunque la redazione di piani di recupero, un po’ ovunque nel Paese, emulativi dell’esperienza bolognese. Tutte queste esperienze sono accomunate da una robusta dimensione analitica delle indagini – dirette (in molti contesti minori addirittura “porta a porta”) e indirette – avviate sul territorio, e sul versante delle componenti fisiche del tessuto urbano, e sul versante delle componenti socio-economiche della struttura della popolazione. Controversi sono gli esiti prodotti a valle di tutta questa produzione di piani di recupero soprattutto nel meridione del Paese.
  • 13. Sul finire degli anni settanta (1979) si sperimenta a Otranto il primo “laboratorio di quartiere” per i centri storici su progetto di Renzo Piano (impresa Dioguardi) e con il patrocinio dell’UNESCO, cui seguono – fra gli altri – il laboratorio di quartiere di Roma (1993) e quello di Cosenza (1995). Le finalità di questi laboratori tendono a facilitare le scelte decisionali relative alla riqualificazione fisica, economica e sociale della città storica. Negli anni novanta si consolida l’uso di strumenti tecnici di accompagnamento dei piani di recupero costituiti da veri e propri “manuali del recupero”. Fra i più interessati di tali strumenti troviamo il “manuale di recupero di Roma” (1989), il “manuale di recupero di Città di Castello” (1992), il “manuale di recupero della città di Palermo” (1994). I manuali traducono la norma scritta in concrete modalità operative di intervento, rappresentate graficamente in maniera esemplificativa attraverso l’esplicitazione di numerosi dettagli costruttivi.
  • 14. Dalla metà degli anni novanta fino ai primi anni duemila si consolidano, su scala nazionale, alcuni programmi complessi (secondo una nuova e diversa concezione della strumentazione urbanistica) comprendenti fra l’altro i “programmi di recupero urbano”, i “programmi di riqualificazione urbana”, i “contratti di quartiere”, aventi il fine di recuperare parti di città (anche, ma non solo, del tessuto storico) con una prevalente attenzione al recupero di unità abitative di tipo pubblico e alla dotazione di servizi. Il carattere straordinario di questi programmi, la disponibilità di risorse pubbliche messe a concorso attraverso meccanismi di competitività e il concorso di risorse finanziarie pubbliche e private rappresentano la novità di queste nuove forme di pianificazione.
  • 15. 6. Gli anni duemila Prosegue a livello nazionale la sperimentazione dei programmi complessi con i programmi di iniziativa comunitaria Urban, i cui esiti in verità appaiono alquanto contradditori. Si avvia in questi stessi anni una diffusa sperimentazione di programmi di rigenerazione urbana e territoriale che vede soprattutto la Puglia in posizione di avanguardia rispetto alle altre regioni italiane.
  • 16. La Puglia approva una legge regionale sulla rigenerazione urbana (Legge Regionale 29.07.2008 n.21), che introduce il “documento programmatico per la rigenerazione urbana”, attraverso il quale le amministrazioni comunali sono chiamate a individuare gli ambiti da privilegiare nelle operazioni di rigenerazione urbana garantendo, fra l’altro, la tutela del patrimonio storico-culturale, paesaggistico e ambientale. Gli strumenti di rigenerazione più recenti in Puglia fanno riferimento ai Programmi integrati di rigenerazione urbana (PIRU), ai Programmi integrati di sviluppo urbano (PISU), ai Programmi integrati di sviluppo territoriale (PIST). In tutti questi programmi le azioni principali sono volte alla riqualificazione della città esistente e del suo patrimonio storico culturale con una particolare attenzione, soprattutto nei programmi a valenza territoriale, al rafforzamento delle trame di relazione che connettono i sistemi dei centri urbani minori, con particolare riguardo a quelli fortemente connessi dal punto di vista naturalistico e storico-culturale.
  • 17. La nuova dimensione territoriale delle odierne politiche di rigenerazione del patrimonio storico trova piena legittimazione nel Decreto Legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali), secondo cui i beni culturali possono essere tutelati e valorizzati solo se considerati nel proprio contesto territoriale che, in quanto tale, assume di per sé una rilevanza paesaggistica.
  • 18. 7. La complessità delle odierne politiche di rigenerazione urbana e territoriale Le rigenerazioni urbane sono lunghe e complesse, richiedono risorse finanziarie, risorse umane (intelligenze), saperi integrati (per es. non solo di ingegneri o architetti: anche di economisti, politici, esperti in discipline ambientali …), creatività, metodi incrementali (piccoli passi) come anche interventi esemplari, visioni di dettaglio e visioni di insieme, organizzazioni e strumentazioni specifiche (agenzie tecniche comunali con sportelli informativi e di ausilio ai cittadini e agli investitori, sistemi informativi ecc.), soluzioni coerenti con i caratteri e le identità locali. Il problema della rigenerazione di parti di una città non può affrontarsi unicamente dall’attore pubblico o dall’attore privato, per la rilevanza in genere dell’impegno necessario: di qui l’affermarsi di un metodo di intervento partenariale, pubblico-privato, in cui ognuno “fa la propria parte”.