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Matilde Marzotto Caotorta
Il Museo e l'opera d'arte
La riflessione di Quatrèmere de Quincy
eBook per l'arte
un'iniziativa
© 2011 eBook per l'Arte – Matilde Marzotto Caotorta
Prima Edizione 2011
Licenza
Creative Commons 3.0 – Attribuzione - Non commerciale – No opere
derivate
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/
In copertina
Hubert Robert, La Grande Galérie del Louvre
Parigi, Louvre
Introduzione
Nell’accostarmi al pensiero di Quatremere de Quincy, la mia inten-
zione è stata quella di individuare un filo rosso che mi permettesse di
mettere a fuoco i contorni della sua polemica nei confronti del museo,
attraverso l’analisi di tre opere: le Considérations sur les arts du des-
sin, le Lettres à Miranda e le Considérations morales sul la destina-
tion des ouvrages de l’art. Data la distanza, prima di tutto temporale,
che separa queste opere, scritte le prime due negli anni Novanta del
XVIII secolo, in un periodo in cui era ancora possibile, pur tra mille
contraddizioni, sperare in uno sbocco democratico della Rivoluzione
francese, e l’ultima dopo il Congresso di Vienna, quando lo stesso au-
tore sembra rinunciare ai propri ideali progressisti, in nome di un ri-
torno all’ordine che riguardava tanto la politica quanto la tradizione
culturale e artistica del paese; e date le differenze di stile e di tono che
le caratterizzano (tradizionali trattati di teoria artistica le due Consi-
dérations, quelle del 1791 e quelle del 1815, e saggio epistolare le Let-
tres à Miranda) il rischio era quello di una scelta arbitraria e, forse,
riduttiva all’interno della produzione di un autore ben altrimenti pro-
lifico. Non si trattava, cioè, di una forzatura teorica? Di un desiderio
di organicità e continuità sistematica che non trova riscontro nei te-
sti?
La puntualità con la quale Quatremère de Quincy interviene, con
queste tre opere, all’interno del dibattito culturale e artistico, che nel
periodo rivoluzionario assume sempre anche un significato politico,
mi sembra fornire una risposta adeguata a simili interrogativi. Con le
Considérations del 1791, egli si inseriva nel vivo del dibattito sulla ri-
forma delle accademie, con un trattato nel quale i temi della riflessio-
ne critica degli ultimi venticinque anni sono sapientemente orche-
strati e corretti alla luce dei nuovi principî rivoluzionari; cinque anni
dopo, la pubblicazione delle Lettres à Miranda costituì il punto cul-
minante di un’accesa polemica, scatenata dai sistematici saccheggi di
opere d’arte perpetrati dalle armate rivoluzionarie in tutta Europa e
dal degenerare delle teorie illuministiche fondate sul binomio arte-li-
4
bertà; infine, le Considérations morales, pur rinunciando a quell’atti-
vismo politico che non era ormai più possibile, mirano direttamente
al cuore delle opere d’arte, minacciate nella loro identità e considera-
te ora alla stregua di merci, ora di sacre reliquie. Sullo sfondo, la Ri-
voluzione francese con la sua forte carica ideologica e le sue molte
contraddizioni, il mito di un’Antichità ritrovata nelle utopie del Neo-
classicismo e, soprattutto, il sorgere e il progressivo affermarsi di
quella «cultura del museo»1
che costituisce il filo rosso delle mie ri-
flessioni.
Una «cultura del museo» che si è fatta strada in Francia a metà del
Settecento, fondandosi sul mito ellenistico del mouseion di Alessan-
dria, riformulato in chiave illuminista come aspirazione a un luogo di
insegnamento e di meditazione dedicato al culto delle arti e della me-
moria, che faceva proprie le ragioni del sentimento, della sua imme-
diatezza e universalità, difese dal partito degli «antichi» nel corso
della famosa querelle, e portava a compimento un processo inaugura-
to nel Rinascimento dai principi collezionisti e dalle loro «camere
delle meraviglie». L’apertura al pubblico e il diverso significato attri-
buito alle opere d’arte, oltre alla possibilità di un rapporto personale
con esse, costituiscono le principali novità del museo moderno, nato
formalmente con la Rivoluzione francese e non ancora morto, nono-
stante le reiterate critiche che gli sono state rivolte, a partire dallo
stesso Quatremère de Quincy fino ai nostri giorni.
Ma che cos’è il museo? Che cosa lo distingue ad un certo momento
dalle gallerie dei principi e dei ricchi collezionisti? Fino a che punto è
lecito affermare che il museo è stato creato dalla Rivoluzione? Non si
tratta, piuttosto, del frutto delle riflessioni «illuminate» che dall’ini-
zio del secolo avevano rischiarato il panorama intellettuale francese,
e non solo francese? Nel corso della mia ricerca, mi sono mossa lungo
le linee tracciate da questi interrogativi (e dai molti altri che si im-
pongono naturalmente a chiunque affronti l’argomento museo): rara-
mente ho trovato risposte univoche, piuttosto il mio filo rosso si è in-
trecciato in tessuto ricco di connessioni e di stimoli intellettuali.
1
E. Pommier, Les musées en Europe à la veille de l’ouverture du Louvre, Klinck-
sieck, Paris, 1995, Préface, pag. 13.
5
Il museo mi è apparso, innanzi tutto, come un luogo reale, una
«diversificazione specializzata dello spazio, che l’architettura progetta
come museo», e «che deve fare i conti, oltre che con la forma e con il
vuoto», come ogni costruzione architettonica, «con le collezioni che è
destinato a conservare e ad esporre»2
. Anche se molti dei grandi mu-
sei classici, primo fra tutti il Louvre, non sono nati come musei, ma
sono edifici adattati successivamente a una funzione diversa da quel-
la per cui erano stati costruiti, essi sono di per sé monumenti archi-
tettonici, espressioni di un linguaggio forte e altamente significante,
quello dell’architettura che, allora come oggi, ha trovato nel museo
un campo di applicazione estremamente ricco di possibilità. Penso ai
progetti presentati ai concorsi per il Prix de Rome, nei quali un recin-
to quadrato racchiude, quasi sempre, una croce greca con una roton-
da all’incrocio dei bracci: infinite variazioni sulle forme antiche del
Pantheon, della basilica, delle terme, ripensate alla luce della nuova
forma-museo. Il museo-tempio, dove è custodito il mistero dell’incar-
narsi dell’Idea nell’opera d’arte, come è stato realizzato in Germania
da Von Klenze e, soprattutto, da Schinkel, che ha ispirato i musei di
tante capitali europee dell’Ottocento. E nel nostro secolo, più che mai
eclettico e contraddittorio, il museo è contenitore culturale pluridisci-
plinare come al Beaubourg, disegnato per sottolineare il valore auto-
nomo, predominante e dirompente dell’immagine architettonica, in
modo tale che l’edificio in sé acquista un significato scultoreo, ma è
anche il Grand Louvre, al quale si accede attraverso la piramide di ve-
tro come attraverso lo specchio di Alice.
Eppure, questo luogo reale, questo spazio concreto e inequivocabi-
le, non esaurisce la realtà del museo e delle opere d’arte in esso espo-
ste, che si configura, invece, anche come mondo immaginario, vero e
proprio teatro della memoria. In tal senso, il museo sembra voler cri-
stallizzare il fluire del tempo, rendendo minimo al suo interno il sen-
so di annullamento del passato, il che significa, nelle parole di Ales-
sandra Mottola Molfino, che «si collezionano oggetti per sottrarli alla
vita e al tempo che fugge, per sfidare la morte e trattenere il tempo.
Dunque i temi della morte e del tempo sono sempre e ancora associa-
2
Jeorge Canestri, «Forme dei musei», in: Il piccolo Hans, Anno 21, n° w 81, pri-
mavera 1994, pag. 59.
6
ti al museo»3
. Sottratti al tempo, gli oggetti museali accedono a un al-
tro tipo di vita dalla quale, tuttavia, non è assente l’insidia della mor-
te e, allo stesso tempo, il museo sembra affidare alla memoria il com-
pito di creare nelle sue sale un luogo assoluto, idealmente fuori del
tempo, dove rinnovare attraverso gli oggetti raccolti ed esposti, una
sfida continua. Quatremère de Quincy fra i primi aveva avvertito tut-
ta l’ambiguità insita nel rapporto che il museo intrattiene con il tem-
po, dichiarando senza mezzi termini che rinchiudere le opere d’arte
in un museo significa «uccidere l’Arte per farne la storia, [anzi] l’epi-
taffio»4
.
Ma è proprio vero, come vorrebbe il nostro autore, che il museo
uccide la bella totalità dell’opera d’arte, e che separandola dal suo
contesto originario esso annulla ogni ulteriore possibilità comunicati-
va? Al contrario, a me sembra che quel circolo virtuoso di cui si parla
nelle Considérations morales, quella relazione artista-opera-spetta-
tore, all’interno della quale ogni elemento ha senso solo in relazione
agli altri due, possa essere formulata attraverso le infinite modalità
diverse, che si realizzano proprio grazie al museo e alla libertà che la-
scia allo spettatore5
.
Non si può dare a Quatremère de Quincy la colpa di non essersi sa-
puto liberare di uno dei massimi pregiudizi dell’epoca, quello che fa
risiedere il valore delle opere d’arte nella loro utilità: esse sono, ai
suoi occhi, gli «strumenti» della virtù e della morale e in quanto tali
non possono essere destinate a quel mondo altro, separato dal mon-
do reale, che è il museo. Eppure, se è vero, come sostiene Edouard
Pommier, che la bellezza è la grande assente dei discorsi sull’arte del-
3
A. Mottola Molfino, il libro dei musei, Allemandi, Torino, 1991, pag. 63.
4
A. C. Quatremère de Quincy, Considérations morales sur la destination des
ouvrages de l'art, testo ripubblicato recentemente in Corpus des oeuvres de
philosophie en langue française, a cura di Jean-Louis Deotte, Fayard, 1989,
pag. 48.
5
«Questa ‘opera aperta’ in cui consiste ogni esposizione dà luogo ad un repertorio
di appropriazioni diverse (dall’erudizione all’ignoranza, dall’incomprensione
all’irriverenza). L’autonomia del visitatore, e il suo corollario, un’etica della
visita personale, è, in fondo, la ‘rivoluzione’ del museo democratico» (D. Poulot,
«L’invention du musée en France», in: Les musées en Europe à la veille de l’ou-
verture du Louvre..., op. cit., pag. 85).
7
la Rivoluzione6
, Quatremère de Quincy acquisisce un grande merito,
quello di non aver trascurato la specificità «estetica» dell’opera d’ar-
te, che non può essere ridotta a merce né a bottino di guerra. Il lega-
me tra l’opera e la sua dimensione storico-culturale, nelle Lettres à
Miranda, è ciò che determina la fruibilità culturale stessa dell’opera,
la sua universalità, cioè il suo valore estetico. Recidere questo legame
significa ridurre l’opera a merce, all’interno di un processo di produ-
zione e di consumazione senza fine, che priva l’opera d’arte della sua
base filosofica e della sua realtà storica, del suo contesto, della sua
memoria.
«Questa concezione di una indivisibile organicità della cultura [...]
contiene tutti i germi di quella che possiamo definire un prima cultu-
ra della tutela»7
, di quella cultura, cioè, di cui il museo è depositario.
In primo luogo «l’opera d’arte non dovrà essere divisa da se stessa;
andrà quindi protetta da ogni manomissione e, in genere, da ogni mi-
naccia che ne offuschi l’identità originaria compromettendone l’unità.
[...] analogamente a quanto avviene per l’integrità delle singole opere,
la regola della non lacerazione andrà anche applicata al rapporto tra
l’opera d’arte e il suo ambito esterno: ambito artistico, prima di tutto,
ma anche culturale, storico, perfino fisico, nel quale essa è nata e del
quale è parte integrante»8
. I mille fili che collegano l’opera d’arte nel-
la realtà devono, cioè, potersi riprodurre anche nel pensiero che quel-
la realtà ordina, seleziona, discerne e che, nel museo, trova il luogo
della sua realizzazione.
Nei musei del XVIII e del XIX secolo, le infinite dispute sul modo
di allestire le collezioni hanno accompagnato il nascere della storia
dell’arte, che, abbandonata la biografia d’artista, si è occupata dell’e-
voluzione degli stili, del loro sorgere e del loro inevitabile tramonto
(passando attraverso stadi successivi dall’infanzia alla decadenza, pri-
ma di rinascere), secondo uno schema ciclico pienamente accettato
6
E. Pommier, L’art de la liberté. Doctrines et débats de la Révolution française,
Gallimard, Paris, 1989, Conclusion, pag. 468.
7
A. Pinelli, «Storia dell’arte e cultura della tutela. Le ‘Lettres à Miranda’ di Qua-
tremère de Quincy», in: Lo studio delle arti e il genio dell’Europa. Scritti di A.C.
Quatremère de Quincy e di Pio VII Chiaramonti, con un saggio di A. Pinelli,
intr. di A. Emiliani, trad. di M. Scolaro, pag. 45.
8
Ibid., pag. 45-46.
8
all’epoca. Il governo dei musei d’arte e di scultura antica infatti in
molti casi era affidato agli storici dell’arte e agli archeologi, i quali
avevano lo scopo di ordinare, catalogare e presentare le opere d’arte,
fornendo al pubblico, in questo modo, la propria chiave di lettura,
cioè quella della storia dell’arte ufficiale. Non dimentichiamo che uno
degli scopi dichiarati del museo era, all’epoca, quello di educare gli
artisti e istruire il popolo. Poiché il modo di presentare un’opera d’ar-
te non è mai oggettivo, esso rifletteva, e ancora riflette, le idee degli
organizzatori e i criteri di un’epoca, di una corrente di pensiero, in
definitiva, di una visione del mondo. Questo significa che «il museo è
la narrazione di un’idea e della sua realizzazione in permanente dia-
logo con le fantasie e con i vissuti del pubblico. [...] Ma non è necessa-
rio che la narrazione sia il risultato di una intenzione più o meno con-
sapevole del sistema museale (architettura, collezioni, curatori, orga-
nizzatori delle esposizioni, ecc.). [...] la proposta del museo
interagisce con le fantasie e i vissuti dei fruitori, che possono, dun-
que, elaborare una propria storia»9
.
Nelle pagine che seguono, i testi di Quatremère de Quincy sono ana-
lizzati facendo costante riferimento alla complessa situazione politica
della Francia di quegli anni e al clima di grande fermento culturale (e
non solo ideologico) che li caratterizza. Il museo, insieme ai problemi
della classificazione e disposizione degli oggetti, del modo di conser-
varli e di ordinarli secondo un criterio storico coerente, e la radicale
risignificazione delle opere d’arte che esso comporta costituiscono al-
trettanti temi discussi e articolati per la prima volta a Parigi durante
la seconda metà del XVIII secolo. Quella «cultura del museo», di cui
il pensiero di Quatremère de Quincy costituisce un capitolo essenzia-
le, che sembra fare da contrappunto all’irresistibile ascesa del Louvre,
e alla sua apoteosi come Musée Napoléon, e all’affascinante e singola-
re parabola del Musée des Monuments Français.
9
Jeorge Canestri, «Forme dei musei»…op. cit., pag. 67-70.
9
Indice
I. Una «cultura del Museo» 12
Il museo degli intellettuali e degli artisti:
presupposti storico-culturali della «cultura del museo»
in Francia a metà del Settecento 14
La galleria del Luxembourg (1750-1779) e
il progetto di d’Angiviller al Louvre 22
Il museo degli architetti:
tra suggestioni classiche e innovazione 28
Il museo «borghese» come veicolo
di una nuova identità comune 34
II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica
delle opere d'arte 40
L’ideale classico tra passato e futuro 42
L’«Istituto nazionale delle scienze, lettere e arti»
nelle Considérations sur les arts du dessin di
Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy 46
Il museo e la memoria della storia di Francia:
il Musée des Monuments français 55
III. La Francia, patria delle arti e della libertà 67
Il museo della Rivoluzione 67
Il patrimonio artistico della libertà 76
Le Lettres à Miranda e il «museo totale» di Roma 81
IV. La destinazione morale delle opere d'arte 92
Il tempo dei musei 94
Il museo e la «morte dell’arte»? 100
Conclusioni 108
Bibliografia 110
I. Una «cultura del Museo»
I. Una «cultura del Museo»
«In effetti, lo sapete, le arti e le scienze formano da lungo tempo,
in Europa, una repubblica, i cui membri, legati tra loro dall’amore e
dalla ricerca del bello e del vero, [...] tendono molto meno a isolarsi
nelle rispettive patrie che a ravvicinarne gli interessi, dal punto di vi-
sta così prezioso di una fraternità universale. [...] per una felice rivo-
luzione, le arti e le scienze appartengono a tutta l’Europa e non sono
più l’esclusiva proprietà di una nazione. È da mantenere, da favorire
e da aumentare questa comunità, vi devono tendere tutti i pensieri,
tutti gli sforzi della sana politica e della filosofia»10
. Quando, nel lu-
glio 1796, Quatremère de Quincy denunciava, con coraggio e lucidità,
l’ingiustizia della politica dei sequestri di opere d’arte, condotta im-
punemente dalle armate rivoluzionarie nei paesi conquistati, poteva
avere coscienza del fatto che i musei facevano già parte di quella co-
munità culturale europea11
che egli avrebbe voluto mettere al riparo
dai cosiddetti diritti della vittoria?
Il museo come istituzione e come spazio architettonico appropria-
to non era ancora nato, eppure una «cultura del museo»12
si era an-
data diffondendo nella Francia dei Lumi durante la seconda metà del
XVIII secolo, a partire dalla rivendicazione pubblica della creazione
di un museo nella Grande Galérie del Louvre da parte di La Font de
Saint Yenne, nel 1747, fino alla seconda apertura del Musée National,
il 18 novembre 1793, passando attraverso la pseudo-soluzione del pa-
lazzo del Luxembourg nel 1750, le molteplici iniziative del conte
d’Angiviller e la simbolica apertura del 10 agosto 1793. Interprete at-
tento e critico intransigente del proprio tempo, Quatremère de Quin-
10
A.C. Quatremère de Quincy, «Lettres sur le préjudice qu’occasionneroient aux
Arts et à la Science, le déplacement des monuments de l’art de l’Italie, le
démembrement des ses Ecoles, et la spoliation des ses Collections, Galéries,
Musées», Paris, 1796, in: Lo studio delle arti e il genio dell’Europa…, op. cit.,
pag. 114.
11
E. Pommier, Les musées en Europe à la veille de l’ouverture du Louvre…, op.
cit., Préface, pag. 13.
12
Ibid., pag. 14.
12
I. Una «cultura del Museo»
cy nutrì sempre un profondo sospetto nei confronti della nuova isti-
tuzione, che gli influenti amateurs della generazione precedente (Ba-
chaumont, Caylus, La Font de Saint Yenne) avevano invocato in
nome della necessità di preservare le opere d’arte appartenenti alla
Corona dal degrado cui sembravano votate. Da parte sua, il potere
politico aveva fatto del museo uno strumento in grado di incarnare
agli occhi del pubblico l’equazione tra buon governo e conservazione
del patrimonio artistico nazionale, equazione nata alla metà del seco-
lo con l’apertura della galleria del Luxembourg e che l’ideologia rivo-
luzionaria aveva fatto propria, accentuandone gli aspetti propagandi-
stici.
Sin dalle pagine delle sue Considérations sur les arts du dessin,
Quatremère de Quincy si era mostrato scettico di fronte all’ingenuo
ottimismo di chi aveva visto nel museo la possibilità di sostituire l’in-
segnamento tradizionale che l’Accademia impartiva ai giovani artisti,
esprimendo i propri dubbi al riguardo di «questo museo a perdita
d’occhio [...] questa accumulazione di tanti oggetti in un solo luogo»,
che egli paragonava con disprezzo ad un «magazzino»13
. Ma il proble-
ma fondamentale, che non cessò di preoccuparlo fino al momento in
cui ne fece l’oggetto delle sue Considérations morales, nel 1815, e che
nelle Lettres à Miranda accompagna e giustifica sul piano teorico la
condanna dei saccheggi, era quello della destinazione delle opere
d’arte. In nessun modo, questo appassionato difensore del legame
che unisce l’opera e il contesto (storico, culturale, simbolico) per il
quale essa è stata creata poteva accettare che il museo, divenuto luo-
go di destinazione finale delle opere d’arte, le spogliasse del proprio
significato originale. La sua voce era destinata a rimanere inascoltata,
date le enormi potenzialità politiche, oltre che storico-culturali, del
museo, che Quatremère de Quincy non seppe o non volle vedere. Di
là del rigido tradizionalismo che colora di sé l’uomo e la sua opera, la
lucidità di alcune critiche e le feconde intuizioni meritano, credo, la
nostra attenzione.
In questo primo capitolo ho cercato di tracciare le linee di fondo su
cui si basava la «cultura del museo» in Francia verso la metà del
13
A.C. Quatremère de Quincy, Considérations sur les arts du dessin en France,
Genève, Slatkine, 1970, fac-sim de l’éd. de Paris, Desenne, 1791, pag. 159-162.
13
I. Una «cultura del Museo»
XVIII secolo, i presupposti culturali cui essa faceva riferimento e i di-
versi significati di cui la nuova istituzione era investita (dagli intellet-
tuali, dagli artisti, dai governanti e, non ultimo, dal pubblico). L’avvi-
cendarsi dei progetti, il dibattito culturale a proposito dei modi di
esposizione delle opere d’arte, le diverse soluzioni architettoniche che
precedettero l’inaugurazione del Musée Central des Arts il 10 agosto
1793, sono analizzati, in queste pagine, al fine di chiarire le tappe fon-
damentali di un processo (non sempre lineare e qualche volta viziato
dal velleitarismo della politica) che si è dimostrato ricco di implica-
zioni culturali.
Il museo degli intellettuali e degli artisti: presupposti storico-
culturali della «cultura del museo» in Francia a metà del Settecento
Prima ancora che Quatremère de Quincy intervenisse nel dibattito
culturale della Francia rivoluzionaria, nell’atmosfera del Neoclassici-
smo, in cui si aspirava alla purezza di gusto in contrapposizione agli
eccessi barocchi, una parte importante degli ambienti artistici france-
si intraprese, verso la metà del secolo, una battaglia per l’accesso alle
collezioni reali, invocando gli antichi maestri quali modelli impre-
scindibili al risanamento dell’arte. Da parte loro, gli ultimi governi
dell’Antico regime si erano mostrati sempre più interessati a creare
un museo d’arte pubblico a Parigi, che costituisse un motivo d’orgo-
glio e di prestigio per la nazione, e di invidia per il resto dell’Europa.
Agli occhi di entrambi, artisti e governanti, il maestoso palazzo del
Louvre14
si presentava come l’ovvia dimora di un simile museo: collo-
14
Fatto costruire da Filippo Augusto, è solo con Carlo V che il Louvre divenne
dimora reale. In epoca rinascimentale, Francesco I affidò l’opera di ricostru-
zione del palazzo a Lescaut, mentre ulteriori ampliamenti furono apportati da
Enrico II e Caterina de’ Medici. Quest’ultima ne iniziò, nel 1563, il ricongiungi-
mento con le Tuileries. Nel XVII secolo Luigi XIII e Luigi XIV completarono la
Cour Carré e fecero costruire da Perrault la facciata est, occupata dalla famosa
Colonnade, costruita tra il 1667 e il 1673 con il contributo del Bernini. A metà
del XVIII secolo il Louvre, oltre ad essere sede delle Accademie reali, ospitava
nella Grande Galérie i plastici delle città fortificate. Nell’Encyclopédie di D’A-
lembert e Diderot, alla voce «Louvre», si legge: «L’achevement de ce majestueux
14
I. Una «cultura del Museo»
cato nel cuore della capitale, era allo stesso tempo un palazzo reale e
un durevole simbolo dell’ascendenza culturale francese sul resto
d’Europa; inoltre, era la sede della varie accademie reali, inclusa l’Ac-
cademia di pittura e scultura15
, il che avrebbe permesso, coerente-
mente con i principi dell’Illuminismo, di riunire tutte le branche del
sapere e dell’arte sotto uno stesso tetto.
L’aspirazione ad un luogo di insegnamento dove il contatto diretto
con i capolavori si facesse garante del risanamento dell’arte francese
si accompagnò, dunque, sia alla polemica antiaccademica degli arti-
sti, desiderosi di sottrarsi alla dittatura culturale dell’Accademia di
pittura e scultura, sia alla denuncia dell’inaccessibilità delle raccolte
reali. La Font de Saint Yenne16
, per primo, domandò che le collezioni
édifice [il Louvre], exécuté dans la plus grande magnificence, reste toujours à
désirer. On souhaiterait par exemple que tous les rez-de-chaussée de ce bati-
ment fussent nettoyés et rétablis en portiques. Ils serviroient ces portiques, à
ranger les plus belles statues du royaume, à rassembler ces sortes d’ouvrages
précieux, épars dans les jardins où on ne se promene plus, et où l’air, le temps,
et les saisons les perdent et les minent. Dans la partie située au midi, on pour-
rait placer tous les tableaux du roi, qui sont présentement entassés et confondus
ensemble dans des garde-meubles où personne n’en jouit» (Aa. Vv., Encyclopé-
die ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, voce «Lou-
vre», Paris, 1751-1772).
15
L’Accademia reale di pittura e scultura venne fondata nel 1648. Con Luigi XIV e
il suo ministro Colbert, essa vide consolidarsi il suo incontestabile ruolo di guida
nella formazione degli artisti e la sua funzione determinante nella gestione della
cultura ufficiale, in quanto, con concorsi ed esposizioni periodiche, si poneva
come unico tramite tra l’artista e i committenti. Malgrado la maggior apertura
per quel che riguarda le nuove ammissioni, evidente a partire dalla fine del Sei-
cento, esporre al Salon rimase un privilegio dei membri dell’Accademia fino al
1791, anno in cui l’Assemblea legislativa estese tale diritto a tutti gli artisti.
16
Etienne La Font de Saint Yenne (1688-1771) frequentò la corte di Versailles dal
1729 al 1737, dove ebbe occasione di familiarizzarsi con i dipinti della collezione
reale, oltre che di stringere amicizia con il primo pittore del re, François Le
Moyne. Non si sa molto sui suoi movimenti dopo che ebbe lasciato la corte, se
non che nel 1747 fece leggere a Pierre-Jean Mariette, incisore e amateur di un
certo prestigio, un manoscritto, che risulta non essere altro che le Réflexions sur
quelques causes de l’état présent de la peinture en France et sur les beaux-arts,
pubblicate qualche tempo dopo. Il tempismo col quale apparvero queste ultime
non fu certo una coincidenza: il loro intento, infatti, era quello di accelerare la
realizzazione di una pubblica esposizione di opere d’arte, in un momento in cui
15
I. Una «cultura del Museo»
reali fossero presentate in modo permanente al pubblico e rivendicò
il palazzo del Louvre come «luogo appropriato da eleggere a dimora
dei capolavori dei maggiori maestri d’Europa e di quelli di inestima-
bile pregio che compongono il gabinetto di quadri di Sua Maestà, oggi
ammucchiati e sepolti in piccole stanze mal illuminate e nascosti nel-
la città di Versailles, sconosciuti o indifferenti alla curiosità degli
estranei perché impossibili a vedersi»17
. Nelle intenzioni dell’autore,
si trattava di prevenire il degrado delle tele e di rafforzare agli occhi
dei visitatori stranieri il prestigio di una collezione che, per quanto
appartenesse al re, era già considerata nazionale ma, soprattutto, di
fornire agli artisti un insegnamento efficace. Infatti, benché si possa
affermare che a partire dal Rinascimento, con Alberti e soprattutto
con Vasari18
, l’insegnamento avesse assunto un ruolo centrale nella
teoria artistica, dal momento che aveva il compito di assicurare lo svi-
luppo dell’arte stessa attraverso la trasmissione delle regole e del loro
rispetto, era proprio questo ruolo educativo ciò che, nella Francia del
XVIII secolo, cominciava ad essere contestato all’Accademia, oppo-
nendo alla funzione coercitiva della norma l’evidenza del modello e
l’utilità didattica di una collezione di capolavori aperta al pubblico.
il governo stesso sembrava muoversi nella direzione di un maggior coinvolgi-
mento nella gestione e promozione delle belle arti.
17
E. La Font de Saint Yenne, Réflexions sur quelques causes de l’état présent de la
peinture en France et sur les beaux-arts, La Haye, 1747, pag. 229.
18
Vasari, nel Proemio alla seconda parte delle Vite, mette in luce come il suo
intento non fosse quello di «fare una nota degli artefici et uno inventario [...]
dell’opere loro», bensì di operare al modo degli «scrittori delle istorie», che
«non solo non si sono contentati di narrare semplicemente i casi seguiti, ma con
ogni diligenza e con maggior curiosità che hanno potuto, sono iti investigando i
modi et i mezzi e le vie che hanno usati i valenti uomini nel maneggiare l’im-
prese», e quindi «avendo preso a scrivere la istoria dei nobilissimi artefici» egli
stesso si sia ingegnato «non solo di dire quel che hanno fatto, ma di scegliere
ancora discorrendo il meglio dal buono, e l’ottimo dal migliore, e notare un poco
diligentemente i modi, le arie, le maniere, i tratti e le fantasie de’ pittori e degli
scultori; investigando, quanto più diligentemente ho saputo, di far conoscere a
quegli che questo per se stessi non sanno fare, le cause e le radici delle maniere e
del miglioramento e peggioramento delle arti accaduto in diversi tempi e diverse
persone» (G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, intr.
di M. Marini, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1993, pag. 267).
16
I. Una «cultura del Museo»
La Font de Saint Yenne aveva inoltre pubblicato, nel 1746, un’ope-
ra dal titolo Examen des principaux ouvrages exposés au Louvre le
mois d’aout 1746, nella quale, giudicando le opere d’arte, l’autore di-
chiara di interpretare i sentimenti di un pubblico «che si sbaglia rara-
mente, quando tutte le sue voci sono concordi sul merito o i difetti di
un’opera qualsiasi». Egli, richiamandosi esplicitamente all’unicità del
pubblico e all’universalità del sentimento, già difesi dall’abate Du
Bos, intendeva affermare la possibilità di una critica estranea, se non
antagonista, a quella ufficiale. Le dubosiane Riflessioni critiche sulla
poesia e la pittura avevano portato ad una definizione generale del
sapere artistico come sapere che si radica nel sentimento, condan-
nando duramente il rigido classicismo accademico del tempo, che
pretendeva di stabilire le regole del fare artistico e che riteneva il giu-
dizio di gusto prerogativa dello specialista, capace di riconoscere nel-
l’opera quelle stesse regole che ne sono alla base. Du Bos invece aveva
riconosciuto i diritti di un pubblico dotato di un «comune sentire», al
quale le opere d’arte si rivolgono e, quindi, in grado di esercitare il
giudizio di gusto nei loro confronti; si trattava dello stesso pubblico
che, trent’anni dopo, La Font de Saint Yenne poteva osservare al Sa-
lon19
, divenuto, a partire dal 1737 una manifestazione regolare, offerta
con l’intento di incoraggiare una prima risposta di tipo estetico in un
largo numero di persone.
È chiaro che un pubblico in senso moderno (articolato e indipen-
dente) si poneva fondamentalmente in disaccordo con il rigoroso ca-
rattere corporativo della cultura dell’epoca e stentava ad ottenere un
riconoscimento positivo, perché non trovava spazio nella stretta rete
di definizioni nella quale l’Accademia imbrigliava i valori e gli scopi
dell’arte20
. Eppure, l’esigenza di una maggiore pubblicità delle colle-
19
Il Salon fu la prima «mostra temporanea» di arte contemporanea. Organizzata
dal 1667 dall’Accademia reale di pittura e scultura, la manifestazione si tenne a
partire dal 1699 nella Grande Galérie del Louvre. Dal 1725 per più di un secolo,
la mostra venne allestita nel Salon Carré, da cui prese il nome, e dal 1737
divenne una manifestazione regolare, organizzata ogni due anni.
20
«L’emergere di questo pubblico nel corso del diciottesimo secolo è descrivibile
come una forza di distruzione e ricombinazione, assestantesi a intervalli, ma che
sempre eccede e sfida le categorie ricevute dalla cultura alta» (Th.E. Crow,
17
I. Una «cultura del Museo»
zioni continuava ad essere vivamente sottolineata da larga parte del-
l’ambiente intellettuale e artistico.
Queste iniziative mettono in luce come, nella seconda metà del
Settecento in Francia, l’ambiente degli artisti engagés e parte del
mondo intellettuale avvertissero vivamente l’esigenza del museo, in-
teso ora come luogo di insegnamento, ora come garanzia della con-
servazione e della pubblicità delle opere, ora quale motivo di presti-
gio e di orgoglio già nazionale. Allo stesso tempo si andavano chia-
rendo i fondamenti culturali su cui poggiava una tale istituzione, se
ne indagavano gli elementi costitutivi e se ne ricercavano i precedenti
storici.
In una società impregnata di cultura classica e di riferimenti agli
Antichi, come la società francese dell’epoca, chiunque si interessasse
di arte era marcato dalla lettura dei libri XXXV e XXXVI della Storia
naturale di Plinio il Vecchio ed è probabile che il discorso fondatore
della cultura del museo abbia trovato qui, nell’orazione di Marco
Agrippa, la propria giustificazione: «Almeno, di lui [Marco Agrippa]
resta un’orazione stupenda e degna del più grande dei cittadini intor-
no alla necessità di rendere di proprietà pubblica tutti i quadri e le
statue, il che sarebbe stato meglio che mandarli, quasi in esilio, nelle
ville»21
. Il tema dell’«esilio delle collezioni» fu fatto proprio dalla cri-
tica francese, che si serviva della denuncia di Plinio per rivendicare la
creazione del museo pubblico, facendone un atto di cultura politica:
l’abate Du Bos, La Font de Saint Yenne e il conte d’Angiviller, al quale
spetta il progetto del museo reale nella Grande Galérie del Louvre, si
riferirono ad esso in maniera più o meno esplicita22
.
Durante il secolo dei Lumi, inoltre, si mostrò di particolare interes-
se il mito di Alessandria e della sua biblioteca-museo, luogo ideale di
insegnamento e di ricerche fondate sui testi e sugli strumenti scienti-
fici ma anche luogo dove si conservava la memoria di coloro che si
Painters and Public Life in Eighteenth Century, Yale University Press, New
Haven and London, 1985, pag. 254).
21
Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, libro XXXV, trad. e note di A. Corso, R.
Mugellesi, G. Rosati, Torino, Einaudi, 1988, par. 26, pag. 321.
22
E. Pommier, Les musées en Europe…, op. cit., pag. 15.
18
I. Una «cultura del Museo»
erano distinti nelle attività dello spirito. I philosophes avevano a pro-
pria disposizione la Geografia di Strabone23
, primo storiografo del
mouseion, che ne parla come di una comunità di eruditi dediti allo
studio, perché dispensati dalle preoccupazioni materiali grazie al me-
cenatismo dei Tolomei (III-II secolo a.C.), che fecero di Alessandria il
principale centro intellettuale del periodo ellenistico. Strabone narra
come gli ispiratori del museo e della biblioteca furono gli ateniesi De-
metrio e Stratone24
, i quali portarono ad Alessandria d’Egitto i princi-
pî che animavano il Liceo di Aristotele e l’Accademia platonica per
renderli istituzioni ufficiali: i principî di una comunità totalmente de-
dita alla ricerca del vero, ossia al culto delle Muse.
23
Strabone, geografo e storiografo greco (63 a.C.-19 d.C.), visse a Roma, dove
compose i 17 libri della sua Geografia, che descrivono con accuratezza i paesi
allora noti dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, basandosi sia sulla personale
esperienza di viaggi dell’autore che su fonti attendibili, quali Apollodoro d’A-
tene, Posidonio, Artemidoro d’Efeso. Nel diciassettesimo libro egli traccia un
quadro di Alessandria d’Egitto all’inizio della nostra era e descrive l’immensità
dei palazzi reali costruiti per la dinastia dei Tolomei sin dalla fine del IV secolo;
fra queste mura colloca il mouseion. La Geografia di Strabone era nota agli
enciclopedisti, come risulta dalla voce «Musée» dell’Encyclopédie: «lieu de la
ville d’Alexandrie en Egypte, où l’on entretenoit, aux dépenses du publique, un
certain nombre de gens de lettres distingués par leur mérite [...]. Le nom des
muses, déesses et protectrices des beaux arts, étoit incontestablement la source
de celui du musée» (Aa. Vv., Encyclopédie…, voce «Musée», op. cit.).
24
Verso il 307 a.C., Demetrio Falereo, tiranno di Atene cacciato dalla propria città,
si rifugiò ad Alessandria d’Egitto e diventò consigliere del re Tolomeo Soter, «il
Salvatore». Ad Atene, Demetrio era stato il principale fautore del Liceo, la
scuola fondata da Aristotele. Qualche anno dopo, verso il 300 a.C., Soter chiamò
da Atene il fisico Stratone di Lampsaco, anch’egli discepolo di Aristotele, per
farne il tutore del figlio (il futuro Filadelfo), come Filippo di Macedonia aveva
chiamato Aristotele per educare il figlio Alessandro. Demetrio e Stratone, dun-
que, importarono ad Alessandria il modello del mouseion del Liceo di Aristotele,
che a sua volta aveva riprodotto quello dell’Accademia platonica, ma, a diffe-
renza di questi, la nuova istituzione nasceva all’ombra del potere politico, con la
specifica funzione di testimoniare la continuità tra il nuovo regno dei Tolomei e
l’impero di Alessandro.
19
I. Una «cultura del Museo»
Il riferimento alle Muse25
, figlie della Memoria, era ancora vivo in
quelle collezioni a vocazione universale che furono gli studioli e le
Kunst und Wurderkammern dei principi umanisti italiani e germani-
ci nel XV e XVI secolo, dove naturalia, artificialia e mirabilia si af-
fiancavano alle antichità e agli oggetti di valore storico26
. Quello che i
sovrani collezionisti cercavano di ricostruire tra le mura dei loro stu-
dioli era una sorta di microcosmo, un luogo delle meraviglie deputato
alla contemplazione e alla meditazione, in cui l’ambizione a dominare
lo spazio del mondo e il tempo della storia, oltre alla varietà degli og-
getti esposti, sembrava portare a compimento la vocazione dei trattati
sull’arte della memoria, inventati dagli Antichi ad uso degli oratori e
diventati poi strumenti di conoscenza del mondo27
.
Si collezionavano oggetti per sottrarli alla vita e al tempo che fug-
ge, per sfidare la morte e trattenere il tempo ma anche per rianimare
il passato, raccogliendone i frammenti e ricomponendo un contesto a
25
Il culto delle Muse, secondo Esiodo figlie di Giove e di Mnemosine, era tradizio-
nalmente collegato a quello delle fonti e delle sorgenti del monte Olimpo e del-
l’Elicona; erano guidate da Apollo, dio sommo delle arti, ed esse stesse venerate
come divinità delle manifestazioni artistiche. In epoca ellenistica il loro numero,
prima variabile fra tre e sette, fu fissato a nove: Calliope (epica ed eloquenza),
Melpomene (tragedia), Talia (commedia), Polinnia (poesia lirica), Erato (poesia
erotica), Clio (storia), Euterpe (musica), Tersicore (danza).
26
La pratica del collezionismo non nacque con il Rinascimento. Il collezionismo
moderno è, infatti, prefigurato dai «tesori» dei templi antichi e delle cattedrali
medievali, tuttavia il suo vero sviluppo avvenne in tutta Europa fra il XV e il
XVIII secolo. In principio, gli umanisti ricercarono le vestigia dell’antichità
romana: medaglie, iscrizioni, frammenti di sculture; poi, la passione del colle-
zionismo si allargò ai principi e alle grandi famiglie aristocratiche, che arricchi-
rono i tesori delle loro dinastie con le sculture antiche restituite dal suolo di
Roma. Ma, dalla metà del XVI secolo, si diffuse in tutta Europa un’altra forma di
collezione: il gabinetto di curiosità (il cabinet), che in Italia assunse il nome di
studiolo e nei Paesi germanici quello di Kunst und Wunderkammer, «stanza
dell’arte e delle meraviglie», il cui modello venne adottato dai principi dell’età
manierista. Francesco I de’ Medici, nel 1570, fece disporre le proprie raccolte di
opere d’arte, curiosità naturali, antiche, esotiche e storiche in uno studiolo dal-
l’atmosfera notturna, il cui arredo rievocava le mille analogie segrete della
natura; l’arciduca Ferdinando del Tirolo, nel 1563, allestì nel castello di Ambras
un’immensa collezione; l’imperatore Rodolfo II a Praga e l’elettore di Baviera
Alberto V possedevano due delle più ricche collezioni di curiosità dell’epoca.
27
F.A. Yates, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1993.
20
I. Una «cultura del Museo»
lungo sognato o studiato. Per il collezionista, infatti, ogni oggetto rap-
presentava un modo di ricordare, addensava in sé un teatro di memo-
rie, una magica enciclopedia di messaggi, coerentemente con l’atteg-
giamento cinquecentesco verso la scienza, luogo di compresenza degli
opposti e non di classificazioni razionali. Nel tentativo di riflettere
nell’ordine della propria collezione l’ordine del mondo, il collezioni-
sta si poneva sullo stesso piano del filosofo, del religioso e del teolo-
go, ma anche dell’artista e come loro dovette sentire l’esigenza di
esprimere quest’ordine con chiarezza per comunicarlo e renderlo
comprensibile al proprio pubblico. Nonostante le collezioni degli
umanisti e dei sapienti del primo Rinascimento fossero ancora luoghi
privati, esse divennero sempre più, nel tardo Cinquecento e nel Sei-
cento, strumenti di conoscenza universale (come universale e unico
era il sapere), attraverso gli accostamenti, gli elenchi, le somiglianze e
le differenze, le ripetizioni degli oggetti esposti e descritti nei catalo-
ghi; il loro pubblico era ancora la ristretta comunità dei sapienti, ma
la funzione didattica implicita in ogni metodo di organizzazione della
conoscenza avrebbe influito notevolmente, nel secolo dei Lumi, sul
trasferimento all’uso pubblico delle collezioni principesche.
Le gallerie di quadri delle monarchie assolute ereditarono il carat-
tere enciclopedico che era alla base della funzione memorativa delle
«camere delle meraviglie», insieme alle loro esigenze di ordine e ai
loro principî di classificazione. Non è un caso, infatti, se biblioteca e
museo furono a lungo confusi28
, così come era implicito nel riferi-
mento al mouseion di Alessandria ma, nel momento in cui i due ter-
mini finirono per distinguersi e designare due entità diverse, fu la bi-
blioteca a fornire il paradigma organizzativo al museo, giustificando,
da un lato, la sua aspirazione all’universale, dall’altro, riconoscendo
la necessità di sottomettersi a un ordine, come unica garanzia della
28
Il confronto tra il museo e la biblioteca iniziò con la primitiva confusione dei
due termini nel latino degli umanisti del XV secolo. In seguito le due istituzioni
coesistettero all’interno dello stesso edificio, come nel caso dell’Ambrosiana di
Milano, che oltre alla Biblioteca ospitava, a partire dal 1618, le collezioni di
dipinti, statue, gessi e disegni di Federigo Borromeo, descritte in un catalogo
intitolato Musaeum. L’Illuminismo separò definitivamente la biblioteca dal
museo, trasferendo però a quest’ultimo le esigenze enciclopediche della prima,
nonché la necessità di un ordine chiaro nella classificazione degli oggetti.
21
I. Una «cultura del Museo»
sua vocazione a divenire il luogo della memoria dell’arte29
. Da qui de-
rivò la riflessione sulla presentazione delle collezioni e sui principî di
classificazione, elemento essenziale della «cultura del museo» che si
diffuse a metà del XVIII secolo e che si appoggiava sulla cronologia
dei grandi cicli della storia dell’arte, sulle biografie degli artisti, sulla
loro divisione in scuole nazionali e sulla conoscenza dell’ambiente in
cui si iscrive la creazione artistica.
La polemica antiaccademica, dunque, il retaggio della tradizione
degli Antichi, che nel corso della famosa querelle era stata difesa in
nome dell’immediatezza e dell’universalità del sentimento, la rifles-
sione teorica sulle arti, così come si era sviluppata a partire dal Rina-
scimento italiano, per poi diffondersi in tutta Europa, il riferimento a
Plinio e, infine, al mouseion di Alessandria furono le fonti cui attinse
questa «cultura del museo» che andava sviluppandosi in Francia ne-
gli ultimi decenni dell’Antico regime. Ma se è vero che si dovette
aspettare la Rivoluzione francese per assistere alla concreta realizza-
zione del progetto, essa fu resa possibile da alcuni esperimenti con-
dotti durante il regno di Luigi XV e di quello, tragicamente interrotto,
di Luigi XVI, grazie all’intraprendenza di alcuni ministri illuminati.
La galleria del Luxembourg (1750-1779) e il progetto di
d’Angiviller al Louvre
Nonostante la sua forte valenza simbolica, a metà del secolo il pa-
lazzo del Louvre non era ancora in grado di ospitare una galleria di
quadri: dunque, per fare fronte alle pressanti richieste degli artisti e
degli intellettuali, Lenormand de Tournehem30
, Directeur des Bati-
29
Esemplare, in questo senso, appare il museo che Paolo Giovio fece costruire a
Borgo Vico, vicino a Como, sua città natale, tra il 1537 e il 1543, per esporre le
proprie collezioni di medaglie e antichità e soprattutto la sua raccolta di ritratti
di uomini illustri: rispondeva già a criteri di classificazione razionale secondo
generi determinati, motivo per cui esso può essere considerato, nella storia dei
musei, la prima forma museograficamente significativa.
30
Charles-François Lenormand de Tournehem (1684-1751), zio della marchesa de
Pompadour, dovette a quest’ultima la propria nomina a Directeur général des
Batiments du roi nel 1745. La galleria del Luxembourg faceva parte, nei progetti
22
I. Una «cultura del Museo»
ments di Luigi XV, concesse l’apertura al pubblico della galleria di un
altro palazzo reale, il Luxembourg, due volte la settimana. Qui, fra il
centinaio di opere esposte, si trovavano quadri italiani, fiamminghi e
francesi, insieme con un assortimento di marmi pregiati e oggetti
preziosi, che avevano lo scopo di creare un’atmosfera di splendore;
nell’ala ovest del palazzo invece il pubblico poteva ammirare, nel suo
luogo di destinazione originale, il famoso ciclo dipinto da Rubens per
Maria de’ Medici, per il quale il palazzo del Luxembourg era stato co-
struito.
Dal catalogo31
, che veniva venduto all’entrata allo scopo di accom-
pagnare lo spettatore nella sua visita, è possibile farsi un’idea suffi-
cientemente chiara dell’allestimento della galleria: i dipinti erano di-
sposti secondo un criterio «eclettico», cioè opere di artisti differenti e
di differenti generi erano giustapposte in modo da creare continui
contrasti di stile e di soggetti. La galleria infatti era stata pensata per
offrire agli artisti e agli amateurs una lezione «visiva» dell’arte della
pittura, attraverso un confronto tra esempi rappresentativi apparte-
nenti alle tre scuole (italiana, fiamminga e francese), all’interno di un
più vasto programma di riforma artistica che Lenormand intendeva
realizzare con l’aiuto dei responsabili dell’Accademia di pittura e
scultura32
. Proprio questo intento pedagogico era ciò che distingueva
del nuovo direttore, di un più ampio programma di riforma dell’Accademia di
pittura e scultura, nel tentativo di restaurare il controllo del governo sulle belle
arti, che il disinteresse dei suoi predecessori aveva rischiato di vanificare.
31
Le informazioni relative all’allestimento delle collezioni reali al Luxembourg e al
Louvre sono tratte da A. McClellan, «The Musée du Louvre as a Revolutionary
Metaphore During the Terror», in The Art Bulletin, LXX, 2, 1988, e da Inventig
the Louvre: Art, Politic and the origin of the Modern Museum in Eighteenth
Century Paris, Cambridge University press, 1994, dello stesso autore.
32
«Le più importanti di queste iniziative furono la creazione dell’Ecole des élèves
protégés, una scuola che nell’ambito dell’Accademia intendeva migliorare la for-
mazione dei vincitori del Prix de Rome sia rispetto alla tecnica artistica sia alla
storia, la geografia e la letteratura in preparazione al loro soggiorno a Roma; il
concorso del 1747, organizzato espressamente per incoraggiare il genere storico;
l’incremento delle commissioni reali per fare della pittura di storia il genere
maggiormente ricompensato; il ripristino delle letture accademiche, o conféren-
ces, secondo un modello che risaliva al diciassettesimo secolo; la creazione di
otto nuovi posti per i membri dell’Accademia, allo scopo di ampliare il sostegno
23
I. Una «cultura del Museo»
il Luxembourg dai gabinetti privati di opere d’arte dell’epoca, poiché,
se il criterio che governava la distribuzione delle opere d’arte era la
misura e la forma di ogni singolo oggetto e il desiderio di ottenere un
effetto armonico e simmetrico, con poco o nessun riguardo per le
qualità stilistiche delle opere (proprio come nei cabinets privati), nel-
le intenzioni degli organizzatori queste stesse qualità stilistiche sareb-
bero dovute essere evidenziate da una sequenza di ben calcolate giu-
stapposizioni.
Questo sistema «eclettico» derivava direttamente dalle teorie che
André Félibien33
e, soprattutto, Roger de Piles34
avevano esposto nelle
loro opere, sulle quali si basava ancora gran parte dell’insegnamento
accademico. Entrambi, infatti, contribuirono a stabilire un modello di
lettura delle opere d’arte che ebbe grande influenza sull’allestimento
delle maggiori collezioni del tempo, in particolare quelle di Pierre
Crozat e del Duca d’Orléans, e che si dimostrò perfettamente coerente
con i principî didattici che informavano la galleria del Luxembourg35
.
Gli Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellens
peintres, che Félibien pubblicò a partire dal 1666, intendono dimo-
strare, attraverso un continuo confronto tra le opere, le origini e i
progressi della pittura nelle differenti parti in cui questa è divisa, in
relazione ai dipinti degli antichi maestri. Compito del connaisseur è
giudicare la qualità delle opere, attraverso un’analisi il più possibile
sistematica e oggettiva, un metodo che l’autore scelse di illustrare at-
traverso la descrizione di un’immaginaria visita al palazzo delle Tuile-
ries, dove erano esposti alcuni dipinti appartenenti alle collezioni rea-
all’istituzione tra le classi alte; e, infine, l’apertura della galleria del Luxem-
bourg, concepita come una scuola per gli artisti e gli amateurs» (A. McClellan,
Inventing the Louvre…, op. cit., pag. 17).
33
André Félibien des Avaux (1619-95), scrittore d’arte, a Roma conobbe Poussin e
ne divenne ammiratore entusiasta; nelle sue opere critiche sostiene un rigido
classicismo di tipo accademico.
34
Roger de Piles (1635-1709) fu scrittore d’arte, oltre che pittore e incisore dilet-
tante. Nel 1705 pubblicò il suo Cours de peinture par principes, di cui fa parte
una delle più singolari manifestazioni della critica d’arte dell’epoca, la Balance
des Peintres, nella quale l’autore tenta una classificazione degli artisti secondo
«regole» fisse.
35
A. McClellan, Inventing the Louvre…, op. cit., pag. 36-38.
24
I. Una «cultura del Museo»
li. Lo stesso criterio comparativo informa la famosa Balance des
peintres, in cui de Piles, divisa la pittura in quattro parti, o categorie
(composizione, disegno, colore ed espressione), sostiene che lo scopo
di ogni aspirante artista sia quello di raggiungere un uguale grado di
perfezione in ognuna, rivolgendo lo sguardo agli antichi maestri al
fine di servirsene come guida. Ma, dal momento che i vari artisti han-
no eccelso in diverse parti e nessuno ha regnato in tutte, i maestri de-
vono essere studiati in maniera selettiva e il metodo migliore per ap-
prendere i pregi ed evitare i difetti di un artista è quello di comparare
le sue opere con quelle di un altro.
Ebbene, la scelta dei dipinti e la loro disposizione al Luxembourg
sembrano essere perfettamente aderenti al programma educativo
proposto dai due autori, che attraverso il contrasto e il paragone in-
tendevano esercitare allo stesso tempo il gusto degli artisti e dei co-
noscitori.
Questa prima esperienza museale ebbe termine nel 1779, quando il
palazzo del Luxembourg venne assegnato al conte di Provenza, che
decise di farne la propria residenza parigina. Da allora il progetto di
allestire un vero e proprio museo nella Grande Galérie del Louvre fu
al centro della politica del conte d’Angiviller, nominato Directeur des
Batiments da Luigi XVI, salito al trono nel 1774. D’Angiviller si dimo-
strò immediatamente determinato a portare a termine il piano di
riassetto del Louvre, non solo per soddisfare le rivendicazioni degli
artisti ma, allo stesso tempo, per erigere un tempio agli uomini illu-
stri della nazione e alla monarchia francese. Si apprestò allora a com-
missionare quadri di storia e busti di insigni personaggi; arricchì la
collezione reale di quadri fiamminghi e francesi; fece redigere un ca-
talogo delle opere; e, soprattutto, incaricò una commissione (di cui
facevano parte gli architetti Soufflot e Hubert Robert) di esaminare i
problemi connessi alla trasformazione della Grande Galérie in museo
pubblico.
Dal momento che lo scoppio della Rivoluzione anticipò la realizza-
zione del progetto di d’Angiviller, si possono solo formulare alcune
ipotesi su come sarebbe stata la Grande Galérie nel suo complesso.
Ad ogni modo, sembra che il sistema «eclettico» del Luxembourg sa-
rebbe stato abbandonato, in favore di un ordine progressivo dei di-
25
I. Una «cultura del Museo»
pinti in relazione alle scuole e alla cronologia. Innanzi tutto, il tipo di
acquisti effettuati tra il 1775 e il 1789 rivela un evidente desiderio di
presentare al Louvre una panoramica più ampia delle tre scuole e un
equilibrio maggiore di quello del Luxembourg: si trattava per la mag-
gior parte di dipinti appartenenti alle scuole fiamminga e francese,
aree nelle quali la collezione reale era piuttosto carente, e di opere di
artisti italiani «minori» (Cavalier d’Arpino, Cignani, Schedoni, Lauro,
Zuccari, Luti), che non erano sufficientemente rappresentati. In se-
condo luogo, tutti coloro che erano coinvolti nel progetto del museo
non potevano ignorare che due delle maggiori collezioni principesche
del Nord Europa, la galleria di Düsseldorf e quella imperiale di Vien-
na, erano state recentemente allestite secondo il criterio della divisio-
ne per scuole e che a Vienna era stato fatto un primo tentativo di mo-
strare lo sviluppo storico all’interno di ogni scuola grazie al modo e
all’ordine in cui i quadri erano stati appesi36
.
Queste gallerie, quindi, rappresentavano due esempi di un nuovo e
più razionale criterio di allestimento di una collezione destinata ad
un vasto pubblico, che d’Angiviller dovette necessariamente tenere in
considerazione, se sperava che il suo museo avrebbe rivaleggiato in
modernità con esse. Egli, conscio dell’importanza che l’allestimento e
la presentazione della collezione avrebbero avuto agli occhi dell’Euro-
pa, abbandonò dunque l’«eclettismo» del Luxembourg, che aveva
privilegiato le qualità pittoriche individuali delle opere mescolando le
scuole e i periodi, per un criterio in grado di dimostrare lo sviluppo
storico della pittura all’interno delle varie scuole regionali. Questo
nuovo ordine, cronologico e per scuole, rifletteva in parte gli indirizzi
del nascente storicismo, di cui Winckelmann era stato pioniere nel
1764 con la sua Storia dell’arte nell’antichità, e si ispirava, inoltre,
alle teorie di Linneo e Buffon, che a metà del secolo avevano introdot-
to un metodo di classificazione delle piante e degli animali per generi
36
A Düsseldorf, nel 1756, il principe Karl Theodor fece allestire in un palazzo
costruito appositamente la propria galleria, dove i quadri, benché appesi alle
pareti nel gusto «tappezzante» allora di moda, erano suddivisi per scuole. Al
riassetto della collezione imperiale di Vienna nel castello del Belvedere prov-
vide, invece, l’erudito Christian von Mechel, fra il 1776 e il 1778, il quale presen-
tava il museo come «un deposito della storia visibile dell’arte».
26
I. Una «cultura del Museo»
e specie. Coerentemente con gli indirizzi della storia naturale, dun-
que, la riorganizzazione delle gallerie d’arte sembra testimoniare
un’analoga convinzione nella possibilità di una classificazione razio-
nale delle opere d’arte, così come della flora e della fauna. Inoltre, la
nuova disposizione era funzionale anche ad un altro obiettivo, di non
minor importanza nei progetti di d’Angiviller, vale a dire la glorifica-
zione della pittura di storia della scuola francese che, grazie all’arran-
giamento cronologico, sarebbe apparsa come l’unica degna erede de-
gli antichi maestri.
Ancora nell’inverno del 1788-89 d’Angiviller poteva credere che il
museo sarebbe stato pronto per l’apertura nel giro di due o tre anni
ma, dopo la presa della Bastiglia, qualunque iniziativa monarchica
dovette essere abbandonata. Lo stesso conte lasciò la Francia nell’a-
prile del 1791 per non farvi più ritorno.
Secondo Andrew McClellan37
, il fatto che il museo pubblico abbia
avuto origine nella Francia dei Lumi sarebbe ben più che una coinci-
denza: difficilmente, infatti, si potrebbe negare che l’insistenza sul va-
lore dell’educazione per la popolazione e il desiderio di raccogliere e
presentare in maniera sistematica ogni conoscenza, propri dell’Illu-
minismo, abbiano avuto un ruolo importante nel persuadere i re di
Francia ad aprire le proprie collezioni personali al pubblico. D’altra
parte, se è vero che le teorie dei philosophes hanno indubbiamente
avuto la loro importanza nell’alimentare una «cultura del museo», fu
compito della politica farsi carico della sua realizzazione. Il museo
pubblico, questa istituzione «illuminata», destinata ad istruire il po-
polo, nacque per motivi politici, resi urgenti dal ritmo accelerato con
cui procedeva la Rivoluzione francese: da un lato, la necessità di for-
nire una metafora trasparente al trionfo del nuovo ordine su quello
vecchio, dall’altro, il desiderio di portare a termine il più comprensivo
e razionale museo d’arte che il mondo avesse mai visto, che avrebbe
dimostrato il progresso intellettuale della giovane repubblica, e che
aveva il compito di contribuire all’educazione di tutti i cittadini, ren-
37
A. McClellan, «The Musée du Louvre as a Revolutionary Metaphore During the
Terror»…, op. cit., pag. 300 e sgg.
27
I. Una «cultura del Museo»
dendo immediatamente riconoscibile lo stretto legame che univa le
opere d’arte alla gloria e alla stabilità della nazione38
.
Il museo degli architetti: tra suggestioni classiche e innovazione
Il collezionismo d’arte, come abbiamo visto, divenne una pratica
comune a partire dal Rinascimento italiano, che sviluppò un partico-
lare senso della storia unito all’entusiasmo per tutti i prodotti del-
l’Antichità classica e dell’arte contemporanea. I principi umanisti del
Quattrocento raccoglievano soprattutto oggetti e frammenti di mar-
mo da esporre nelle loro vaste corti, logge e giardini39
. La prima siste-
mazione specifica per l’esposizione di antichità fu realizzata da Bra-
mante in Vaticano nei pressi della villa del Belvedere, dove l’architet-
to progettò una serie di nicchie in un chiostro quadrato destinate ad
ospitare il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere40
. Verso la fine del Cin-
quecento e durante il secolo seguente, si edificarono, in tutta Europa,
specifiche sedi per le collezioni di statuaria: si trattava sia di spazi a
38
Lo stesso Jean-Marie Roland de la Platière, per esempio, ministro degli Interni
dal 1792, intervenne attivamente nel dibattito sull’eredità artistica della Francia.
Sostenitore entusiasta dell’idea del museo e di una concezione patriottica del-
l’arte, espresse le proprie convinzioni in due discorsi tenuti all’Assemblea il 1°
dicembre 1792 e il 16 dello stesso mese.
39
«Il giardino dei Medici di fronte a Piazza San Marco a Firenze era affidato alle
cure di Bertoldo, e qui Michelangelo fu introdotto alla scultura. Quanto a Roma,
Marten van Heemskerk, che vi passò gli anni tra il 1532 e il 1536, disegnò molte
sistemazioni al fresco (cioè all’aperto) di pezzi antichi. Già nel 1471, Sisto IV
donava al popolo romano importanti pezzi da esporsi in Campidoglio: tra questi
la Lupa, il Fanciullo che estrae la spina, e una colossale testa dell’imperatore
Costantino» (N. Pevsner, «Musei», in: I luoghi del museo. Tipo e forma fra tra-
dizione e innovazione, a cura di L. Basso Peressut, Editori Riuniti, Roma, 1985,
pag. 41).
40
Bramante (1444-1514) era a Roma dal 1499 quando Giulio II, eletto papa nell’ot-
tobre del 1503, lo nominò Sovrintendente Generale di tutte le costruzioni papali
e lo incaricò di progettare il collegamento dei palazzi vaticani con la villa di
Innocenzo VIII mediante il cortile del Belvedere, articolato su tre livelli e culmi-
nante in una vasta esedra.
28
I. Una «cultura del Museo»
pianta centrale che di lunghe gallerie41
, tanto che ben presto «galle-
ria» divenne sinonimo di «museo»42
. I dipinti, invece, venivano gene-
ralmente appesi alle pareti delle sale con una tale densità che le loro
superfici a riquadri formavano un rivestimento completo e, verso la
fine del Seicento e l’inizio del Settecento, gallerie di questo tipo di-
vennero un elemento alquanto comune nella progettazione dei palaz-
zi.
Finora si è parlato esclusivamente di collezioni private, sia che fos-
sero di proprietà di principi che di aristocratici, che venivano aperte a
un pubblico però ancora molto ristretto ed elitario; il passo successi-
vo, riferito all’apertura delle collezioni al pubblico, fu un’iniziativa
propria dell’Illuminismo. A quest’epoca, infatti, i principi comincia-
rono a percepire la divulgazione del sapere come una condizione es-
senziale del progresso e come una responsabilità pubblica, di conse-
guenza aderirono al generale movimento di apertura delle loro colle-
zioni di opere d’arte e di oggetti di interesse storico-scientifico e
incaricarono i propri architetti di progettarne le sedi in edifici separa-
ti dalle loro residenze private43
.
La riflessione sul tipo di edificio conveniente al museo, un’istitu-
zione che non esisteva ancora ma della quale sempre più fortemente
si sentiva l’esigenza, fece riferimento, nei primi progetti degli archi-
41
Buontalenti (1536-1608), che aveva trasformato l’ala est degli Uffizi in una galle-
ria di opere d’arte già a partire dal 1574, nel 1581 progettò per Francesco I la Tri-
buna di marmo, dove erano messi in risalto i capolavori della pittura e della
scultura.
42
«Intorno al 1570 venne edificata in Mantova, nel palazzo dei Gonzaga, una galle-
ria. Aveva il soffitto voltato a botte e serviva a esporre statue. Nel 1580 circa la
villa Medici a Roma fu dotata di una galleria, ancora per la statuaria. Nel 1583-
90, contemporaneamente al teatro, Vespasiano Gonzaga a Sabbioneta costruiva
la sua galleria per le statue, lunga circa 90 metri. [...] La famosa collezione di
dipinti di Mazarino era sistemata nel suo palazzo, [...] costruito nel 1645 da
Mansart. Venti anni più tardi, quando il Bernini fu invitato a progettare il nuovo
fronte est del Louvre, le sue prescrizioni includevano una galleria al primo piano
per sistemarvi statue e quadri» (N. Pevsner, «Musei», in: I luoghi del museo…,
op. cit., pag. 41-43).
43
Pevsner cita come primo esempio di museo pubblico il progetto per il museo di
Dresda, elaborato nel 1742 dal conte Algarotti per Augusto III (N. Pevsner,
«Musei», in: I luoghi del museo…, op. cit., pag. 44).
29
I. Una «cultura del Museo»
tetti del Settecento, a un modello architettonico antico nel quale le
sale disposte in sequenza affiancavano uno spazio simbolico centrale:
la rotonda44
.
In Francia, questa prima raffigurazione del museo pubblico, ispi-
rata al Pantheon, è riscontrabile nei numerosi progetti presentati ai
concorsi che l’Accademia di architettura organizzava per il Prix de
Rome, che spesso, tra il 1778 e i primi del XIX secolo, propose il tema
del museo45
: si trattava di architetture ideali, quasi sempre costituite
da un recinto quadrato con una croce greca all’interno e una rotonda
all’incrocio dei bracci, che, pubblicate e divulgate, contribuirono al
diffondersi e al fissarsi in Europa delle tipologie architettoniche mu-
seali appena sperimentate nella Roma neoclassica46
.
In precedenza l’Accademia di architettura aveva proposto il tema
di una galleria aggiunta ad un palazzo, nel 1753, e l’anno seguente di
un Salon des Arts. Il primo premio per la galleria fu attribuito a Loui-
44
Già nel 1563, Alberto V, elettore di Baviera, aveva fatto edificare per la propria
Kunstkammer una costruzione quadrata, costituita da quattro gallerie porticate
disposte intorno ad un chiostro centrale, secondo una formula alla quale si ispi-
reranno gli ideatori del museo d’arte nel XVIII secolo.
45
I progetti dei Grands Prix dal 1774 al 1795 sono stati pubblicati da H. Rosenau,
«The Engravings of the Grand Prix of the French Academy of Architecture», in:
Arch. Hist., III, 1960.
46
«L’idea illuminista di museo nasce a Roma, culla del gusto neoclassico, dove si
erano formate nel XVI e XVII secolo le grandi collezioni principesche di anti-
chità, soprattutto sculture [...]. Il cardinale Alessandro Albani nel 1746 fece
costruire dall’architetto Carlo Marchionni una villa-museo, alla cui sistemazione
museografica partecipò negli anni cinquanta lo stesso Winckelmann: i lavori si
svolsero dal 1755 al 1760; nel 1760 il museo di antichità era allestito e Winckel-
mann prendeva servizio come curatore» (A. Mottola Molfino, Il libro dei
musei…, op. cit., pag. 11). Tra il 1773 e il 1780 venne costruito in Vaticano il
Museo Pio-Clementino, di stile neoclassico, destinato a ospitare le collezioni di
antichità del Papato, che reclamava così il proprio ruolo di guida tra gli studiosi
di archeologia. L’impianto architettonico dell’edificio, ispirato alle costruzioni
della Roma antica, l’allestimento delle sculture per argomento, culminante nella
rotonda, e la redazione di un catalogo delle opere erano tutti elementi destinati
ad avere grande seguito nella storia del museo, inoltre, «mentre per la Villa
Albani si trattava pur sempre di una raccolta privata visitabile, il museo voluto
dai papi Clemente XIV e Pio VI per le collezioni archeologiche vaticane era già
pensato come un’istituzione di interesse pubblico» (Ibid., pag. 21).
30
I. Una «cultura del Museo»
s-François Trouard e, sebbene il suo progetto risenta ancora forte-
mente dell’estetica barocca, la rotonda centrale con la sua cupola a la-
cunari, le lunghe file di colonne, la mancanza di aggetti nella trabea-
zione e le coperture a botte delle gallerie ai lati della galleria centrale
sono rimarchevoli per una data così precoce. Il premio per un Salon
des Arts, invece, fu vinto da Jean-René Billandel e la sua composizio-
ne presenta al centro una rotonda a sei nicchie interne, alla quale si
aggiungono tre bracci, i cui interstizi sono colmati da tripli colonnati,
con una chiara impostazione barocca.
Il tema del 1778-79 fu un museo per opere d’arte e di storia natura-
le, un gabinetto per le stampe, uno per le medaglie e una biblioteca
con studi per ricercatori. Vennero assegnati due primi premi: uno di
essi andò a Guy de Gisors, sedicenne, l’altro a Jacques-François De-
lannoy. Entrambi i progetti sono costituiti da un recinto quadrato con
quattro cortili interni, dove le ali che li separano formano una croce
greca; le facciate non hanno alcuna finestra ma portici a colonnati
multipli e ulteriori colonnati dove è possibile; la scala è vasta, come in
futuro sarebbe divenuto tipico di tutti i Grands Prix, e si ispira alla
scala delle incisioni di Piranesi; le sale hanno per lo più coperture a
botte e le aperture delle cupole centrali richiamano quelle del Pan-
theon.
Anche Boullé47
progettò un museo nel 1783: un recinto quadrato
con una croce greca all’interno, una rotonda all’incrocio e dei vasti
portici semicircolari in asse con i quattro lati esterni del quadrato;
mentre la rotonda era destinata ad esporre le statue dei grands hom-
mes, il museo vero e proprio doveva senza dubbio essere nei quattro
bracci e nei quattro lati esterni dell’edificio. Dal punto di vista stilisti-
co, Boullé andò molto al di là dei Grand Prix, compresi quelli succes-
sivi al suo museo, la sua cupola, infatti, sorge direttamente dal suolo
ed è completamente spoglia, esternamente non appare per nulla e si
vede solo un tamburo coronato da un colonnato.
47
Etienne-Louis Boullé (1728-99) insegnava all’Ecole del Ponts et Chaussées dal
1747 ed era divenuto, nel 1762, membro dell’Accademia di architettura, è dun-
que molto probabile che i progetti che i giovani architetti presentavano al
Grand Prix, compresi quelli di Gisors e di Delannoy, fossero fortemente influen-
zati dalla sua opera e dal suo insegnamento.
31
I. Una «cultura del Museo»
Successivamente, l’Accademia assegnò un altro soggetto museale,
nel 1791: ciò che veniva richiesto era una galleria pubblica in un pa-
lazzo reale. Il progetto di Charles Normand, vincitore del secondo
premio, è più interessante di quello, primo classificato, di Claude-
Matthieu Delagardette. Il suo museo è una splendida sequenza di
splendide sale: un ingresso a volta ribassata, a un livello più basso del
resto dell’edificio, l’ampio vano-scale, coperto a volta, in cui la scala
sale con una lunga rampa diritta, sostenuta da colonne isolate, termi-
nante in un’abside a lacunari; prosegue con altre sale a pianta deriva-
ta dalle terme romane e una rotonda a Pantheon seguita da una lunga
galleria coperta a botte.
Il prototipo architettonico che si poneva alla base di tutti questi
progetti, il Pantheon, appariva particolarmente adatto allo scopo in
quanto era considerato allo stesso tempo il tempio dei dodici grandi
dei dell’Olimpo, l’edificio antico meglio conservato e il luogo ideale,
dato il tipo di illuminazione, per la presentazione delle statue. La cul-
tura illuminista fece propri questi diversi aspetti, senza cogliere alcu-
na contraddizione tra sacro e funzionale, tanto che il modello del
tempio si trasmise a tutta l’architettura museografica del XIX seco-
lo48
.
Nei fatti però, almeno a Parigi, il progetto di un museo dove espor-
re le collezioni reali non contemplò mai l’eventualità di costruire un
nuovo edificio e i contributi richiesti agli architetti riguardarono piut-
tosto la risistemazione di palazzi già esistenti, appartenenti alla Coro-
na: il Luxembourg e, successivamente, il Louvre.
L’Accademia d’architettura e un’apposita commissione furono
consultate da d’Angiviller sulle questioni dell’illuminazione, della si-
curezza e della tramezzatura della Grande Galérie e, in un rapporto
del 4 aprile 1787 indirizzato al Direttore generale del Demanio reale
riguardo all’allestimento del Louvre, i membri dell’Accademia si di-
48
Soprattutto in Germania, dove la filosofia dell’arte di Hegel si pose a fonda-
mento della concezione architettonica del museo-tempio, pensato come luogo di
contemplazione della bellezza. È il caso della Glittoteca di Monaco (1816-30),
piccolo tempio in stile neo-greco, costruito per raccogliere i tesori della scultura
classica da Von Klenze, e dell’Altes Museum di Berlino (1823-30), opera dell’ar-
chitetto Schinkel, vero e proprio grande tempio destinato a essere il modello dei
musei di tante capitali europee del XIX secolo.
32
I. Una «cultura del Museo»
chiararono sicuramente favorevoli all’illuminazione zenitale, a scapi-
to della luce laterale proveniente dalle finestre. In questo modo le
ombre sarebbero state proiettate verso il basso, col risultato di neu-
tralizzare i riflessi abbaglianti che avrebbero pregiudicato la fruizione
dei quadri49
.
Quando, con la Rivoluzione e l’abolizione della monarchia, il pa-
lazzo del Louvre divenne proprietà della Repubblica francese, il dirit-
to per tutti di visitare, studiare e frequentare i musei sembrò potersi
concretamente realizzare: nel Salon Carré furono esposti dei dipinti e
gradualmente, sempre di più a partire dal 1800, nella Grande Galérie.
Con le prede di guerra delle armate rivoluzionarie, la dimensione del-
le collezioni aumentò e le vittoriose campagne napoleoniche fecero
del Louvre il più grande e spettacolare dei musei d’Europa50
. Ben pre-
sto miglioramenti architettonici seguirono questo successo e Percier e
Fontaine furono incaricati da Napoleone di eseguire la nuova decora-
zione della Grande Galérie nel 1805-10, dividendola in sei sale grandi
e tre piccole, tutte illuminate lateralmente mentre, come si è visto,
per il Salon Carré si era adottato un sistema di illuminazione zenitale
già a partire dal 1789. Gli oggetti più preziosi della collezione furono
sistemati nella Galérie d’Apollon, al primo piano si trovava la Garde-
Meuble e sotto questa i vasi greci e le curiosità, mentre sotto la Galé-
rie Henri II si trovavano gli archivi e la biblioteca. Capolavoro di Per-
cier e Fontaine al Louvre, il monumentale vano-scale è ispirato senza
dubbio a quello del museo Pio-Clementino.
L’apice di ciò che i giovani architetti francesi avevano fatto nei loro
progetti di musei per i concorsi e di ciò che era stato realizzato al
Louvre è documentato nei Précis des Leçons di Durand51
, un manuale
49
In effetti, nel novembre 1788 si decise di installare a titolo sperimentale un
dispositivo di illuminazione zenitale nel Salon Carré, dove ogni due anni si svol-
geva la mostra dell’Accademia: nell’estate del 1789 i lavori erano terminati e l’e-
sperimento considerato operativo.
50
«Nel 1794 vennero mandati a Parigi dal Belgio un centinaio di quadri, e ancora
di più ne giunsero dall’Italia dopo il 1797. [...] Inoltre altre acquisizioni si
aggiunsero per acquisto, come le Antichità dei Borghese, acquistate nel 1808 dal
cognato di Napoleone Camillo Borghese, e alcuni Primitivi italiani [...] nel 1811»
(N. Pevsner, «Musei», in: I luoghi del museo…, op. cit., pag. 54).
51
J. N. L. Durand, Précis des Leçons d’Architecture, vol. II, parte III, Des
33
I. Una «cultura del Museo»
che ebbe immensa influenza, perché in grado di fornire una risposta
semplice e schematica alle esigenze legate alla creazione e alla diffu-
sione del museo pubblico. Il modello proposto prevedeva una galle-
ria, pensata come un percorso lineare cadenzato dagli oggetti esposti,
alcune sale circolari e una rotonda, centro topologico ed elemento or-
dinatore dell’intera composizione, non necessariamente legata a fun-
zioni espositive ma a manifestazioni pubbliche e collettive. Il museo
di Durand è stato definito come un organismo di citazioni52
, tratte o
mediate dall’Antichità (il Pantheon, la basilica, le terme) e usate per
stigmatizzare significati propri alle funzioni museali, ma anche con-
cretamente aderente a queste funzioni. Il museo era pensato, allo
stesso tempo, come luogo della conservazione e dell’esposizione dei
reperti storico-artistici e come istituzione pubblica, luogo della cultu-
ra collettiva, di conseguenza esso concorreva necessariamente alla co-
struzione della città e al costituirsi della sua nuova identità borghese.
Il museo «borghese» come veicolo di una nuova identità comune
Il museo, che aveva acquisito, per la prima volta in Europa e nel
mondo, la propria forma di «macchina culturale»53
con funzioni con-
servative e educative stabilite nell’Italia del Manierismo e della Con-
troriforma, conobbe ulteriori e determinanti sviluppi nel corso del
XVIII secolo in Inghilterra e, soprattutto, in Francia.
Profondamente diverso era il quadro politico-sociale della Francia
assolutista da quello dell’Inghilterra, dove l’indebolimento progressi-
vo dell’aristocrazia di origine feudale e il rafforzamento della borghe-
sia finanziaria accompagnavano e favorivano il progredire della nuo-
va scienza baconiana54
. Ma la politica culturale di Luigi XIV e del suo
Muséums, 1817.
52
Luca Basso Peressut e Silvia Premoli, «Architettura, tipo e contesto nel progetto
del museo», in: I luoghi del Museo..., op. cit., pag. 25.
53
L. Binni e G. Pinna, Museo. Storia e funzioni di una macchina culturale dal
‘500 a oggi, Milano, Garzanti, 1980.
54
Già nel maggio 1683 venne inaugurato all’università di Oxford un nuovo isti-
tuto, al tempo stesso museo ashmoliano, scuola di storia naturale e laboratorio
34
I. Una «cultura del Museo»
ministro Colbert, fortemente caratterizzata dall’accentramento del
gusto e della produzione artistica55
, riuscì a realizzare il superamento
del tradizionale «tesoro del principe» nella raccolta d’arte complessa
e investita di funzioni sociali più ampie, destinata all’educazione degli
artisti e degli studenti di belle arti, oltre che al godimento di un ri-
stretto numero di amatori privilegiati. L’organizzazione di regolari
esposizioni d’arte contemporanea nel Salon Carré del Louvre, che eb-
bero una funzione determinante nell’orientamento del gusto ufficiale,
e il successivo allestimento di parte delle collezioni reali nel palazzo
del Luxembourg sotto Luigi XV permisero a un pubblico più ampio di
avvicinarsi alle opere d’arte.
In Francia il progressivo realizzarsi del museo come istituzione
culturale socialmente riconosciuta mi sembra accompagnarsi a quel
più generale rinnovamento culturale, oltre che politico e sociale, che
sviluppò le influenze dell’empirismo inglese in un’ottica pienamente
borghese e che, nella propria battaglia contro il dogmatismo conser-
vatore dell’Antico regime, maturò una marcata consapevolezza stori-
co-politica. Nella loro polemica contro il principio di autorità, il dog-
matismo religioso e ogni forma di fanatismo, infatti, i philosophes eb-
bero da subito piena coscienza della propria originalità storica e del
carattere di rottura rispetto al passato della propria lotta ideologica e
pedagogica in favore della libertà di pensiero.
Nella Francia del Re Sole, la borghesia, che era rimasta esclusa dal
potere dall’assolutismo regio e dal privilegio aristocratico, in parte si
infiltrò nell’apparato burocratico statale, ma più che altro organizzò
la sua opposizione e il suo dissenso fuori e contro i poteri costituiti.
In questo modo si venne a creare una separazione sempre più radica-
di chimica: il museo, aperto al pubblico, esponeva la collezione che Elias Ash-
mole, un ricco appassionato di storia, genealogia, numismatica nonché di bota-
nica, astrologia e alchimia, aveva donato all’università dieci anni prima. Con-
temporaneamente, la cancelleria dell’università decise di avviare un nuovo corso
sperimentale di storia naturale, secondo lo spirito di ciò che veniva chiamata la
«nuova filosofia», cioè secondo il programma tracciato dal filosofo Francis
Bacon.
55
Gli incarichi statali, gli stipendi e le pensioni destinate agli artisti, l’istituzione
dell’Accademia, della Scuola di Roma e della Regia Manifattura costituirono
altrettante espressioni della politica culturale accentratrice di Luigi XIV.
35
I. Una «cultura del Museo»
le tra le sedi del potere ufficiale e la vita della società nella quale an-
davano emergendo nuovi valori collettivi, ai quali diedero voce e for-
ma compiuta gli intellettuali, che divennero l’espressione di quella
classe borghese in ascesa che, priva di potere, cercava nella cultura
una sua legittimazione e, nella prefigurazione di diversi assetti socia-
li, il luogo privilegiato delle proprie potenzialità56
.
È noto che l’ideale illuministico trovò nella pubblicazione dell’En-
cyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des mé-
tiers, pubblicato in 34 volumi tra il 1751 e il 1780 una forma di
espressione estremamente significativa e un efficace veicolo di divul-
gazione. Nelle pagine dell’Encyclopédie, infatti, la volontà di rompere
con la cultura tradizionale e con il conservatorismo politico e religio-
so che avevano strutturato il sapere e la vita sociale su una sequenza
di gerarchie incontestabili, porta alla riorganizzazione dell’intero pa-
trimonio culturale occidentale. Alla base del tanto auspicato rinnova-
mento del sapere, nel nome della sua utilità e socialità, si poneva l’e-
ducazione, intesa non più come insegnamento di convenzioni e regole
comportamentali da parte di classi sociali destinate a confermare un
ordine gerarchico precostituito e immutabile, bensì come strumento
in grado di agire sull’intelligenza di ciascun individuo.
L’altissimo valore, sia culturale sia politico, che gli intellettuali illu-
ministi attribuivano all’istruzione fece proprie due tendenze altret-
tanto gravide di conseguenze per lo sviluppo delle istituzioni educati-
ve del periodo rivoluzionario, non ultimo il museo. Da un lato, in
un’ottica cosmopolita, filosofi e pensatori posero l’accento sull’effica-
cia dell’educazione se messa in rapporto all’umanità nel suo comples-
so, nella convinzione che l’insegnamento non dovesse chiudere i gio-
vani nell’orizzonte limitato della comunità nazionale, bensì sviluppa-
re in ciascuno il senso di appartenenza alla grande famiglia umana57
;
56
Vegetti, Alessio, Fabietti, Papi, Filosofia e società, II, La filosofia nell’epoca
moderna e le rivoluzioni scientifica religiosa e politica, Zanichelli editore, Bolo-
gna, 1981, pag. 528.
57
Lo stesso Quatremère de Quincy, nelle sue Lettres à Miranda, afferma di par-
lare come cittadino della «repubblica generale delle arti e delle scienze», una
comunità ideale e insieme concreta affrancata dai vincoli nazionali, nata con il
diffondersi dei Lumi. (A.C. Quatremère de Quincy, Lettres sur le préjudice…,
op. cit., lettera I, pag. 114).
36
I. Una «cultura del Museo»
dall’altro, invece, si ribadì la responsabilità dello stato in ambito edu-
cativo, e si considerò l’istruzione una funzione sociale e pubblica in
grado di migliorare il benessere dei cittadini e di creare un nuovo spi-
rito civico, cioè un diverso legame tra lo stato e il cittadino.
Il sapere teorico e pratico dell’Encyclopédie era incompatibile con
la cultura tradizionale e con i suoi riti autocelebrativi, inoltre, il pri-
mato della scoperta e della trasformazione che esso andava afferman-
do a scapito della rappresentazione ripetitiva e della stasi sociale ne
fecero un naturale alleato del pensiero rivoluzionario, che saldava la
rivendicazione di un nuovo assetto politico-sociale a più generali
aspirazioni di rinnovamento culturale.
«Ma, per quanto poco eroica sia la società borghese, per metterla
al mondo erano però stati necessari l’eroismo, l’abnegazione, il terro-
re, la guerra civile e le guerre tra i popoli. E i suoi gladiatori avevano
trovato nelle austere tradizioni classiche della repubblica romana gli
ideali e la forme artistiche, le illusioni di cui avevano bisogno per dis-
simulare a se stessi il contenuto grettamente borghese delle loro lotte
e per mantenere la loro passione all’altezza della grande tragedia sto-
rica»58
. Karl Marx ha messo magistralmente in luce come la borghe-
sia, quando uscì vincitrice dalle battaglie della Rivoluzione francese,
avvertisse fortemente la necessità di consolidarsi come classe dirigen-
te e di costituire la propria base sociale di consenso e, sul piano cultu-
rale, quella di mettere in opera un sistema ideologico proprio. Non
avendo radici in nessuna delle culture stabilite, quella aristocratica e
religiosa, da un lato, e quella popolare urbana e rurale, dall’altro, essa
vi attinse liberamente, ponendo fine alla loro autonomia relativa e al
loro ordine gerarchico, per costruirsi una nuova identità culturale59
.
È lecito supporre che il museo, già terreno di contesa tra aristocra-
zia e philosophes, che ne avevano ripetutamente rivendicato l’uso
pubblico, si rivelasse uno strumento perfettamente funzionale alla
cultura dello stato borghese, che intendeva farsi carico dell’educazio-
ne e dello sviluppo del senso estetico dei cittadini. In un’epoca carat-
58
Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma, 1991, pag.
9.
59
L. Krier e D. Porphyrios, Introduction, in: A. C. Quatremère de Quincy, De l’imi-
tation, Bruxelles, Archives d’architecture moderne, 1980, pag. XIII-XXXIV.
37
I. Una «cultura del Museo»
terizzata da una concezione generosa dei rapporti dell’arte con la so-
cietà e lo stato60
, derivata dalle teorie filosofiche dell’Illuminismo, il
cui spirito critico si era ripetutamente interrogato sull’utilità delle
arti, sulla loro influenza e sul modo di trarne beneficio per l’umanità,
nonché sulla loro funzione moralizzatrice e democratica, il culto del-
l’Antichità stimolava il desiderio di imitare le repubbliche greche,
nelle quali si era realizzato il legame perfetto tra arte e vita pubblica.
Di conseguenza estremamente radicata era la convinzione che le belle
arti dovessero rientrare nella legislazione di un buon governo, sia
perché esse prosperano maggiormente se protette dallo stato, sia per-
ché, data la loro influenza politica e sociale, lo stato deve assumersi il
compito di sorvegliarle e dirigerle. In questo senso il museo si trovava
a svolgere una duplice funzione: forniva agli artisti un insegnamento
complementare o equivalente a quello accademico, proponendosi
quale fonte di modelli estetici attestati dalla tradizione, e organizzava,
all’interno di un ordine razionale, la tradizione stessa, una storia este-
tica e culturale «ufficiale» nella quale riconoscersi. Il pubblico, infat-
ti, non era più costituito solo dagli intellettuali e dai conoscitori ma si
era allargato fino a comprendere anche il popolo, vale a dire la picco-
la borghesia e la popolazione urbana, al quale il museo era in grado di
offrire un’identità comune.
Proprio l’allargamento del pubblico sembra costituire la grande
novità del museo post-rivoluzionario: non più espressione di un ri-
stretto gruppo sociale (la corte) ma di una classe sociale in ascesa,
esso non si identificava più col «tesoro del principe», prezioso e ab-
bagliante, dotato di qualità politiche implicite, ma costituiva ormai
una macchina esplicitamente politica, immediatamente funzionale
alle esigenze del nuovo potere e della nuova organizzazione sociale.
La borghesia al potere, con una sorprendente capacità di assimilazio-
ne e trasformazione della propria eredità culturale, non aveva fatto
altro che dare nuovo lustro a riti assolutamente familiari per le caste
dominanti e, per celebrare il proprio trionfo, si era impadronita dei
segni celebri del potere aristocratico. Con il dinamismo intellettuale e
organizzativo di una classe in ascesa, essa aveva trasformato le occa-
sionali e parziali raccolte aristocratiche in un progetto di museo «to-
60
F. Benoit, L’art français dans la Révolution et l’Empire, Paris, 1897, pag. 3.
38
I. Una «cultura del Museo»
tale», capace di parlare il linguaggio del potere e di trasmetterlo ad
un pubblico sempre più largo. Infatti i quattro musei che il nuovo sta-
to rivoluzionario istituì, attraverso decreti della Assemblea legislativa
e della Convenzione, erano dedicati ognuno a una specifica disciplina,
investiti di motivazioni e funzioni esplicitamente dichiarate: il Musée
Central des Arts, poi Musée National, dedicato alle arti figurative, al-
lestito nel palazzo del Louvre, il cui compito era l’educazione ai valori
della nazione francese, erede di Atene e di Roma nell’egemonia sul-
l’Europa; il Musée des Monuments français, dove erano esposti, con
intenti celebrativi, i monumenti della storia nazionale; il Musée d’hi-
stoire naturelle e infine il Musée des Arts et Métiers, dedicati allo svi-
luppo del pensiero scientifico e alle sue pratiche applicazioni.
39
II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte
II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione
storica delle opere d'arte
La dottrina artistica che si sviluppò in Francia durante la seconda
metà del XVIII secolo si esprimeva attraverso la pubblicazione di
trattati che, ispirati da problemi attuali, partivano da una riflessione
sulla situazione delle arti nell’Antichità, e in particolare in Grecia, per
applicarla alla situazione francese. Il riferimento all’antico è palese
nelle Considérations sur les arts du dessin, che Quatremère de Quin-
cy pubblicò nel 1791, primo vero trattato teorico sulle arti della Fran-
cia rivoluzionaria in cui l’autore riassumeva, con la chiarezza alla
quale aveva da qualche anno abituato i suoi lettori, i termini e i pro-
blemi del dibattito che si era avviato sulle finalità e le condizioni della
creazione artistica in una nazione «rigenerata dalla libertà», della
quale egli intendeva imporsi come arbitro riconosciuto: «[...] Questo
saggio di teoria, dove cercherò quali sono le cause e le condizioni in-
dispensabili al successo delle arti del disegno; qual è la misura della
Francia a questo proposito; quale interesse essa trova nell’esercizio di
tali arti; quali mezzi essa può impiegare per la loro cultura e quale
sarà il modo delle istituzioni che favoriscono questa cultura»61
.
Parallelamente, la presa in considerazione dell’eredità artistica
dell’Antico regime, dopo l’adozione, alla fine del 1793, e il consolidar-
si nell’anno II62
di una politica di conservazione di cui il museo era il
61
A.C. Quatremère de Quincy, Considérations sur les arts du dessin en France…,
op. cit., Introduction, pag. XIV.
62
Il 10 agosto 1793, anniversario della caduta della monarchia, fu inaugurato il
Musée Central des Arts: «Dall’inizio dell’anno il discorso politico sulle arti pre-
parava questo avvenimento: quello di una cultura ereditata e assunta come una
conquista» (E. Pommier, L’art de la liberté..., op. cit., pag. 120). Ma è alla luce
dell’Instruction dell’anno II che tutte le misure e i testi che, a partire dal 1790,
avevano tentato di fondare una politica del patrimonio artistico assumono un
senso compiuto: redatta per conto della Commission temporaire des arts, di cui
era membro, da Félix Vicq d’Azir, medico e scienziato, l’Instruction sur la
manière d’inventoirier et de conserver, dans toute l’étendue de la République,
tous les objets qui peuvent servir aux arts, aux sciences et à l’enseignement
venne presentata al Comitato d’istruzione pubblica della Convenzione il 14 gen-
naio 1794 (Ibid., pag. 141-148).
40
II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte
prolungamento istituzionale, favoriva l’emergere di un discorso stori-
co sulle arti del passato e, in particolare, sul periodo oscuro che sepa-
rava l’Antichità dal Rinascimento e sul quale le tempeste rivoluziona-
rie gettavano una luce ancora incerta, ma in qualche modo favorevole
ad un nuovo sguardo.
L’intrecciarsi di due temi, dunque, mi sembra caratterizzare il di-
battito artistico: da un lato il riferimento alla Grecia classica, un rife-
rimento d’obbligo dopo Winckelmann, quale esempio di inarrivabile
perfezione e termine di paragone di ogni sviluppo successivo della
produzione artistica occidentale; dall’altro, l’esigenza di una storia
dell’arte in grado di integrare all’interno di un discorso coerente le
tappe di un tale sviluppo. In entrambi i casi, il museo, pensato ora
come luogo del contatto diretto coi capolavori dell’arte antica e rina-
scimentale, ora come deposito in cui conservare i monumenti medie-
vali della storia di Francia, sembrava fornire delle risposte inedite.
In questo capitolo, innanzi tutto, ho tentato di chiarire i termini e
le implicazioni della tradizione classica francese tra Rivoluzione e Im-
pero, l’influsso profondo operato su di essa dai Pensieri sull’imitazio-
ne e dalla Storia dell’arte nell’antichità di Winckelmann63
e la lettura
particolarissima che se ne fece. Contemporaneamente, ho seguito l’e-
mergere della dimensione storica all’interno del discorso sulle arti, a
proposito della quale il debito evidente nei confronti di Winckelmann
63
In Francia, una traduzione in sunto dei Pensieri sull’imitazione era apparsa
sulla Nouvelle bibliothèque germanique tra la fine del 1755 e l’inizio del 1756,
contemporaneamente ad un’altra traduzione pubblicata sul Journal étranger.
Nel 1765 Jean Baptiste Antoine Suard (1733-1817), coeditore del Journal étran-
ger, aveva pubblicato sulla Gazette de l’Européen una traduzione dei Pensieri
basata sulla versione italiana. Ad ogni modo è significativo che, nel 1757, il testo
di Winckelmann fosse stato alla base dell’articolo che l’Encyclopédie dedica ai
Greci. La Storia dell’arte nell’antichità, invece, era stata pubblicata nel 1766, in
una cattiva traduzione di cui lo stesso Winckelmann si dichiarò scontento, e nel
1781, Michel Hubert (1727-1804) pubblicò la propria traduzione, presentandola
non solo come correzione della precedente, ma anche come compensazione alle
carenze dell’edizione tedesca. A proposito della pubblicazione e ricezione delle
idee di Winckelmann in Francia, si veda E. Pommier, «Winckelmann et la vision
de l’Antiquité classique dans la France des Lumières et de la Révolution», in:
Revue de l’art, 83, 1989, pag. 9-20.
41
II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte
si intrecciava alle specifiche esigenze di conservazione e gestione del
patrimonio storico-artistico francese. La lettura delle Considérations
sur les arts du dessin di Quatremère de Quincy mi ha permesso di
fare luce principalmente sul primo aspetto, mentre i primi, discutibili
ma ammirevoli tentativi di elaborare una storia dell’arte francese
sono esemplificati dall’originale vicenda del Musée des Monuments
français.
L’ideale classico tra passato e futuro
Nei Pensieri sull’imitazione, scritti poco prima di lasciare Vienna
per Roma, Johann Joachim Winckelmann aveva elaborato alcuni
concetti che sarebbero rimasti, in buona sostanza, a fondamento di
tutta la sua successiva riflessione storico-artistica e che avrebbero
tracciato le linee guida lungo le quali si mossero i rappresentanti di
quel periodo della storia dell’arte e del pensiero estetico che chiamia-
mo Neoclassicismo. In particolare, assunse carattere paradigmatico e
di «manifesto»64
teorico dell’estetica neoclassica il motivo della nobi-
le semplicità e quieta grandezza, che sarebbe come dire il sigillo di
garanzia dei capolavori greci: «[...] la generale e principale caratteri-
stica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta gran-
dezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del
mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superfi-
cie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni,
mostra sempre un’anima grande e posata»65
. Nella visione winckel-
manniana dell’esemplarità intrinseca dell’arte greca, dunque, era pre-
sente una tensione morale, una rigorosa disciplina etica non estra-
nea, trent’anni dopo, alla riscoperta dei valori repubblicani nel mon-
do antico da parte della cultura francese dell’Ottantanove, nella quale
«era in gioco la ricerca di una nuova ‘totalità’, capace di compenetra-
64
R. Assunto, L’antichità come futuro. Studio sull’estetica del neoclassicismo
europeo, U. Mursia & C., Milano, pag. 21.
65
J.J. Winckelmann, Gedanken uber die Nachahmung der Griechischen Werke in
der Mahlerey und Bildhauer Kunst, Dresda, 1755, trad. it. a cura di F. Pfister, in
Il bello nell’arte. Scritti sull’arte antica, Torino, 1988, pag. 29.
42
II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte
re (nei gusti personali e nei riti pubblici, nelle forme della vita priva-
ta, come l’abbigliamento e gli arredi, e in quelle della celebrazione
collettiva: i teatri, le feste) tanto l’ambito individuale quanto la sfera
sociale»66
.
La cultura francese colse, infatti, nel pensiero di Winckelmann, ac-
canto alla polemica antibarocca e antirococò, soprattutto la volontà di
indicare le linee programmatiche, i presupposti teorici di un’arte che,
modellandosi sulla nobile semplicità e quieta grandezza che caratte-
rizzava le opere degli Antichi, doveva ripristinare sulla terra una nuo-
va età dell’oro. Questo configurarsi dell’Antichità come valore da rea-
lizzarsi nel mondo futuro, ideale prospettico e principio operativo,
non solo retrospettivo, fondamentale in tutto il pensiero neoclassico,
colorò di sé le speranze di chi, nella Francia «liberata dalla Rivoluzio-
ne», voleva fare di Parigi una nuova Atene, sviluppando in senso
«quiritario-spartano»67
il rapporto arte-libertà che Winckelmann
aveva enunciato come fondamento del bello.
Dopo Winckelmann, insomma, il riferimento agli Antichi non si-
gnificò più uno sguardo nostalgico verso un ideale perduto per sem-
pre ma l’intenzione di realizzare concretamente nel futuro il bello
ideale, in quanto valore storico. «Le più pure sorgenti dell’arte sono
aperte: felice chi le trova e vi si abbevera. Cercare queste sorgenti, si-
gnifica incamminarsi alla volta di Atene»68
: così si legge nel quinto
paragrafo dei Pensieri sull’imitazione, dove, secondo Rosario Assun-
to, si trova già segnata la strada verso la storicizzazione del bello idea-
le, verso quel «domandarsi non soltanto in che cosa consistesse la
bellezza dell’arte per cui gli antichi sono per noi un modello inarriva-
bile, ma perché e come i Greci conseguirono quel livello artistico,
quali circostanze li resero capaci di tanto»69
, passando in questo
modo, a proposito della fondazione del bello classico, dal piano meta-
fisico a quello storico-sociale. Facendosi annunciatore e apologeta del
66
P. Chiarini, «Metamorfosi del classico: dal ‘platonismo stoico’ di Winckelmann
al ‘platonismo post-moderno’ di Schinkel», in: J.J. Winckelmann tra lettera-
tura e archeologia, a cura di M. Fancelli, Marsilio, Venezia, 1993, pag. 15-16.
67
R. Assunto, L’antichità come futuro…, op. cit., pag. 87.
68
J. J. Winckelmann, Gedanken…, op. cit., omesso nella traduzione italiana.
69
R. Assunto, L’antichità come futuro…, op. cit., pag. 70.
43
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Il Museo e l'opera d'arte di Matilde Marzotto Caotorta

  • 1.
  • 2. Matilde Marzotto Caotorta Il Museo e l'opera d'arte La riflessione di Quatrèmere de Quincy eBook per l'arte un'iniziativa
  • 3. © 2011 eBook per l'Arte – Matilde Marzotto Caotorta Prima Edizione 2011 Licenza Creative Commons 3.0 – Attribuzione - Non commerciale – No opere derivate http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/ In copertina Hubert Robert, La Grande Galérie del Louvre Parigi, Louvre
  • 4. Introduzione Nell’accostarmi al pensiero di Quatremere de Quincy, la mia inten- zione è stata quella di individuare un filo rosso che mi permettesse di mettere a fuoco i contorni della sua polemica nei confronti del museo, attraverso l’analisi di tre opere: le Considérations sur les arts du des- sin, le Lettres à Miranda e le Considérations morales sul la destina- tion des ouvrages de l’art. Data la distanza, prima di tutto temporale, che separa queste opere, scritte le prime due negli anni Novanta del XVIII secolo, in un periodo in cui era ancora possibile, pur tra mille contraddizioni, sperare in uno sbocco democratico della Rivoluzione francese, e l’ultima dopo il Congresso di Vienna, quando lo stesso au- tore sembra rinunciare ai propri ideali progressisti, in nome di un ri- torno all’ordine che riguardava tanto la politica quanto la tradizione culturale e artistica del paese; e date le differenze di stile e di tono che le caratterizzano (tradizionali trattati di teoria artistica le due Consi- dérations, quelle del 1791 e quelle del 1815, e saggio epistolare le Let- tres à Miranda) il rischio era quello di una scelta arbitraria e, forse, riduttiva all’interno della produzione di un autore ben altrimenti pro- lifico. Non si trattava, cioè, di una forzatura teorica? Di un desiderio di organicità e continuità sistematica che non trova riscontro nei te- sti? La puntualità con la quale Quatremère de Quincy interviene, con queste tre opere, all’interno del dibattito culturale e artistico, che nel periodo rivoluzionario assume sempre anche un significato politico, mi sembra fornire una risposta adeguata a simili interrogativi. Con le Considérations del 1791, egli si inseriva nel vivo del dibattito sulla ri- forma delle accademie, con un trattato nel quale i temi della riflessio- ne critica degli ultimi venticinque anni sono sapientemente orche- strati e corretti alla luce dei nuovi principî rivoluzionari; cinque anni dopo, la pubblicazione delle Lettres à Miranda costituì il punto cul- minante di un’accesa polemica, scatenata dai sistematici saccheggi di opere d’arte perpetrati dalle armate rivoluzionarie in tutta Europa e dal degenerare delle teorie illuministiche fondate sul binomio arte-li- 4
  • 5. bertà; infine, le Considérations morales, pur rinunciando a quell’atti- vismo politico che non era ormai più possibile, mirano direttamente al cuore delle opere d’arte, minacciate nella loro identità e considera- te ora alla stregua di merci, ora di sacre reliquie. Sullo sfondo, la Ri- voluzione francese con la sua forte carica ideologica e le sue molte contraddizioni, il mito di un’Antichità ritrovata nelle utopie del Neo- classicismo e, soprattutto, il sorgere e il progressivo affermarsi di quella «cultura del museo»1 che costituisce il filo rosso delle mie ri- flessioni. Una «cultura del museo» che si è fatta strada in Francia a metà del Settecento, fondandosi sul mito ellenistico del mouseion di Alessan- dria, riformulato in chiave illuminista come aspirazione a un luogo di insegnamento e di meditazione dedicato al culto delle arti e della me- moria, che faceva proprie le ragioni del sentimento, della sua imme- diatezza e universalità, difese dal partito degli «antichi» nel corso della famosa querelle, e portava a compimento un processo inaugura- to nel Rinascimento dai principi collezionisti e dalle loro «camere delle meraviglie». L’apertura al pubblico e il diverso significato attri- buito alle opere d’arte, oltre alla possibilità di un rapporto personale con esse, costituiscono le principali novità del museo moderno, nato formalmente con la Rivoluzione francese e non ancora morto, nono- stante le reiterate critiche che gli sono state rivolte, a partire dallo stesso Quatremère de Quincy fino ai nostri giorni. Ma che cos’è il museo? Che cosa lo distingue ad un certo momento dalle gallerie dei principi e dei ricchi collezionisti? Fino a che punto è lecito affermare che il museo è stato creato dalla Rivoluzione? Non si tratta, piuttosto, del frutto delle riflessioni «illuminate» che dall’ini- zio del secolo avevano rischiarato il panorama intellettuale francese, e non solo francese? Nel corso della mia ricerca, mi sono mossa lungo le linee tracciate da questi interrogativi (e dai molti altri che si im- pongono naturalmente a chiunque affronti l’argomento museo): rara- mente ho trovato risposte univoche, piuttosto il mio filo rosso si è in- trecciato in tessuto ricco di connessioni e di stimoli intellettuali. 1 E. Pommier, Les musées en Europe à la veille de l’ouverture du Louvre, Klinck- sieck, Paris, 1995, Préface, pag. 13. 5
  • 6. Il museo mi è apparso, innanzi tutto, come un luogo reale, una «diversificazione specializzata dello spazio, che l’architettura progetta come museo», e «che deve fare i conti, oltre che con la forma e con il vuoto», come ogni costruzione architettonica, «con le collezioni che è destinato a conservare e ad esporre»2 . Anche se molti dei grandi mu- sei classici, primo fra tutti il Louvre, non sono nati come musei, ma sono edifici adattati successivamente a una funzione diversa da quel- la per cui erano stati costruiti, essi sono di per sé monumenti archi- tettonici, espressioni di un linguaggio forte e altamente significante, quello dell’architettura che, allora come oggi, ha trovato nel museo un campo di applicazione estremamente ricco di possibilità. Penso ai progetti presentati ai concorsi per il Prix de Rome, nei quali un recin- to quadrato racchiude, quasi sempre, una croce greca con una roton- da all’incrocio dei bracci: infinite variazioni sulle forme antiche del Pantheon, della basilica, delle terme, ripensate alla luce della nuova forma-museo. Il museo-tempio, dove è custodito il mistero dell’incar- narsi dell’Idea nell’opera d’arte, come è stato realizzato in Germania da Von Klenze e, soprattutto, da Schinkel, che ha ispirato i musei di tante capitali europee dell’Ottocento. E nel nostro secolo, più che mai eclettico e contraddittorio, il museo è contenitore culturale pluridisci- plinare come al Beaubourg, disegnato per sottolineare il valore auto- nomo, predominante e dirompente dell’immagine architettonica, in modo tale che l’edificio in sé acquista un significato scultoreo, ma è anche il Grand Louvre, al quale si accede attraverso la piramide di ve- tro come attraverso lo specchio di Alice. Eppure, questo luogo reale, questo spazio concreto e inequivocabi- le, non esaurisce la realtà del museo e delle opere d’arte in esso espo- ste, che si configura, invece, anche come mondo immaginario, vero e proprio teatro della memoria. In tal senso, il museo sembra voler cri- stallizzare il fluire del tempo, rendendo minimo al suo interno il sen- so di annullamento del passato, il che significa, nelle parole di Ales- sandra Mottola Molfino, che «si collezionano oggetti per sottrarli alla vita e al tempo che fugge, per sfidare la morte e trattenere il tempo. Dunque i temi della morte e del tempo sono sempre e ancora associa- 2 Jeorge Canestri, «Forme dei musei», in: Il piccolo Hans, Anno 21, n° w 81, pri- mavera 1994, pag. 59. 6
  • 7. ti al museo»3 . Sottratti al tempo, gli oggetti museali accedono a un al- tro tipo di vita dalla quale, tuttavia, non è assente l’insidia della mor- te e, allo stesso tempo, il museo sembra affidare alla memoria il com- pito di creare nelle sue sale un luogo assoluto, idealmente fuori del tempo, dove rinnovare attraverso gli oggetti raccolti ed esposti, una sfida continua. Quatremère de Quincy fra i primi aveva avvertito tut- ta l’ambiguità insita nel rapporto che il museo intrattiene con il tem- po, dichiarando senza mezzi termini che rinchiudere le opere d’arte in un museo significa «uccidere l’Arte per farne la storia, [anzi] l’epi- taffio»4 . Ma è proprio vero, come vorrebbe il nostro autore, che il museo uccide la bella totalità dell’opera d’arte, e che separandola dal suo contesto originario esso annulla ogni ulteriore possibilità comunicati- va? Al contrario, a me sembra che quel circolo virtuoso di cui si parla nelle Considérations morales, quella relazione artista-opera-spetta- tore, all’interno della quale ogni elemento ha senso solo in relazione agli altri due, possa essere formulata attraverso le infinite modalità diverse, che si realizzano proprio grazie al museo e alla libertà che la- scia allo spettatore5 . Non si può dare a Quatremère de Quincy la colpa di non essersi sa- puto liberare di uno dei massimi pregiudizi dell’epoca, quello che fa risiedere il valore delle opere d’arte nella loro utilità: esse sono, ai suoi occhi, gli «strumenti» della virtù e della morale e in quanto tali non possono essere destinate a quel mondo altro, separato dal mon- do reale, che è il museo. Eppure, se è vero, come sostiene Edouard Pommier, che la bellezza è la grande assente dei discorsi sull’arte del- 3 A. Mottola Molfino, il libro dei musei, Allemandi, Torino, 1991, pag. 63. 4 A. C. Quatremère de Quincy, Considérations morales sur la destination des ouvrages de l'art, testo ripubblicato recentemente in Corpus des oeuvres de philosophie en langue française, a cura di Jean-Louis Deotte, Fayard, 1989, pag. 48. 5 «Questa ‘opera aperta’ in cui consiste ogni esposizione dà luogo ad un repertorio di appropriazioni diverse (dall’erudizione all’ignoranza, dall’incomprensione all’irriverenza). L’autonomia del visitatore, e il suo corollario, un’etica della visita personale, è, in fondo, la ‘rivoluzione’ del museo democratico» (D. Poulot, «L’invention du musée en France», in: Les musées en Europe à la veille de l’ou- verture du Louvre..., op. cit., pag. 85). 7
  • 8. la Rivoluzione6 , Quatremère de Quincy acquisisce un grande merito, quello di non aver trascurato la specificità «estetica» dell’opera d’ar- te, che non può essere ridotta a merce né a bottino di guerra. Il lega- me tra l’opera e la sua dimensione storico-culturale, nelle Lettres à Miranda, è ciò che determina la fruibilità culturale stessa dell’opera, la sua universalità, cioè il suo valore estetico. Recidere questo legame significa ridurre l’opera a merce, all’interno di un processo di produ- zione e di consumazione senza fine, che priva l’opera d’arte della sua base filosofica e della sua realtà storica, del suo contesto, della sua memoria. «Questa concezione di una indivisibile organicità della cultura [...] contiene tutti i germi di quella che possiamo definire un prima cultu- ra della tutela»7 , di quella cultura, cioè, di cui il museo è depositario. In primo luogo «l’opera d’arte non dovrà essere divisa da se stessa; andrà quindi protetta da ogni manomissione e, in genere, da ogni mi- naccia che ne offuschi l’identità originaria compromettendone l’unità. [...] analogamente a quanto avviene per l’integrità delle singole opere, la regola della non lacerazione andrà anche applicata al rapporto tra l’opera d’arte e il suo ambito esterno: ambito artistico, prima di tutto, ma anche culturale, storico, perfino fisico, nel quale essa è nata e del quale è parte integrante»8 . I mille fili che collegano l’opera d’arte nel- la realtà devono, cioè, potersi riprodurre anche nel pensiero che quel- la realtà ordina, seleziona, discerne e che, nel museo, trova il luogo della sua realizzazione. Nei musei del XVIII e del XIX secolo, le infinite dispute sul modo di allestire le collezioni hanno accompagnato il nascere della storia dell’arte, che, abbandonata la biografia d’artista, si è occupata dell’e- voluzione degli stili, del loro sorgere e del loro inevitabile tramonto (passando attraverso stadi successivi dall’infanzia alla decadenza, pri- ma di rinascere), secondo uno schema ciclico pienamente accettato 6 E. Pommier, L’art de la liberté. Doctrines et débats de la Révolution française, Gallimard, Paris, 1989, Conclusion, pag. 468. 7 A. Pinelli, «Storia dell’arte e cultura della tutela. Le ‘Lettres à Miranda’ di Qua- tremère de Quincy», in: Lo studio delle arti e il genio dell’Europa. Scritti di A.C. Quatremère de Quincy e di Pio VII Chiaramonti, con un saggio di A. Pinelli, intr. di A. Emiliani, trad. di M. Scolaro, pag. 45. 8 Ibid., pag. 45-46. 8
  • 9. all’epoca. Il governo dei musei d’arte e di scultura antica infatti in molti casi era affidato agli storici dell’arte e agli archeologi, i quali avevano lo scopo di ordinare, catalogare e presentare le opere d’arte, fornendo al pubblico, in questo modo, la propria chiave di lettura, cioè quella della storia dell’arte ufficiale. Non dimentichiamo che uno degli scopi dichiarati del museo era, all’epoca, quello di educare gli artisti e istruire il popolo. Poiché il modo di presentare un’opera d’ar- te non è mai oggettivo, esso rifletteva, e ancora riflette, le idee degli organizzatori e i criteri di un’epoca, di una corrente di pensiero, in definitiva, di una visione del mondo. Questo significa che «il museo è la narrazione di un’idea e della sua realizzazione in permanente dia- logo con le fantasie e con i vissuti del pubblico. [...] Ma non è necessa- rio che la narrazione sia il risultato di una intenzione più o meno con- sapevole del sistema museale (architettura, collezioni, curatori, orga- nizzatori delle esposizioni, ecc.). [...] la proposta del museo interagisce con le fantasie e i vissuti dei fruitori, che possono, dun- que, elaborare una propria storia»9 . Nelle pagine che seguono, i testi di Quatremère de Quincy sono ana- lizzati facendo costante riferimento alla complessa situazione politica della Francia di quegli anni e al clima di grande fermento culturale (e non solo ideologico) che li caratterizza. Il museo, insieme ai problemi della classificazione e disposizione degli oggetti, del modo di conser- varli e di ordinarli secondo un criterio storico coerente, e la radicale risignificazione delle opere d’arte che esso comporta costituiscono al- trettanti temi discussi e articolati per la prima volta a Parigi durante la seconda metà del XVIII secolo. Quella «cultura del museo», di cui il pensiero di Quatremère de Quincy costituisce un capitolo essenzia- le, che sembra fare da contrappunto all’irresistibile ascesa del Louvre, e alla sua apoteosi come Musée Napoléon, e all’affascinante e singola- re parabola del Musée des Monuments Français. 9 Jeorge Canestri, «Forme dei musei»…op. cit., pag. 67-70. 9
  • 10. Indice I. Una «cultura del Museo» 12 Il museo degli intellettuali e degli artisti: presupposti storico-culturali della «cultura del museo» in Francia a metà del Settecento 14 La galleria del Luxembourg (1750-1779) e il progetto di d’Angiviller al Louvre 22 Il museo degli architetti: tra suggestioni classiche e innovazione 28 Il museo «borghese» come veicolo di una nuova identità comune 34 II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte 40 L’ideale classico tra passato e futuro 42 L’«Istituto nazionale delle scienze, lettere e arti» nelle Considérations sur les arts du dessin di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy 46 Il museo e la memoria della storia di Francia: il Musée des Monuments français 55 III. La Francia, patria delle arti e della libertà 67 Il museo della Rivoluzione 67 Il patrimonio artistico della libertà 76 Le Lettres à Miranda e il «museo totale» di Roma 81
  • 11. IV. La destinazione morale delle opere d'arte 92 Il tempo dei musei 94 Il museo e la «morte dell’arte»? 100 Conclusioni 108 Bibliografia 110
  • 12. I. Una «cultura del Museo» I. Una «cultura del Museo» «In effetti, lo sapete, le arti e le scienze formano da lungo tempo, in Europa, una repubblica, i cui membri, legati tra loro dall’amore e dalla ricerca del bello e del vero, [...] tendono molto meno a isolarsi nelle rispettive patrie che a ravvicinarne gli interessi, dal punto di vi- sta così prezioso di una fraternità universale. [...] per una felice rivo- luzione, le arti e le scienze appartengono a tutta l’Europa e non sono più l’esclusiva proprietà di una nazione. È da mantenere, da favorire e da aumentare questa comunità, vi devono tendere tutti i pensieri, tutti gli sforzi della sana politica e della filosofia»10 . Quando, nel lu- glio 1796, Quatremère de Quincy denunciava, con coraggio e lucidità, l’ingiustizia della politica dei sequestri di opere d’arte, condotta im- punemente dalle armate rivoluzionarie nei paesi conquistati, poteva avere coscienza del fatto che i musei facevano già parte di quella co- munità culturale europea11 che egli avrebbe voluto mettere al riparo dai cosiddetti diritti della vittoria? Il museo come istituzione e come spazio architettonico appropria- to non era ancora nato, eppure una «cultura del museo»12 si era an- data diffondendo nella Francia dei Lumi durante la seconda metà del XVIII secolo, a partire dalla rivendicazione pubblica della creazione di un museo nella Grande Galérie del Louvre da parte di La Font de Saint Yenne, nel 1747, fino alla seconda apertura del Musée National, il 18 novembre 1793, passando attraverso la pseudo-soluzione del pa- lazzo del Luxembourg nel 1750, le molteplici iniziative del conte d’Angiviller e la simbolica apertura del 10 agosto 1793. Interprete at- tento e critico intransigente del proprio tempo, Quatremère de Quin- 10 A.C. Quatremère de Quincy, «Lettres sur le préjudice qu’occasionneroient aux Arts et à la Science, le déplacement des monuments de l’art de l’Italie, le démembrement des ses Ecoles, et la spoliation des ses Collections, Galéries, Musées», Paris, 1796, in: Lo studio delle arti e il genio dell’Europa…, op. cit., pag. 114. 11 E. Pommier, Les musées en Europe à la veille de l’ouverture du Louvre…, op. cit., Préface, pag. 13. 12 Ibid., pag. 14. 12
  • 13. I. Una «cultura del Museo» cy nutrì sempre un profondo sospetto nei confronti della nuova isti- tuzione, che gli influenti amateurs della generazione precedente (Ba- chaumont, Caylus, La Font de Saint Yenne) avevano invocato in nome della necessità di preservare le opere d’arte appartenenti alla Corona dal degrado cui sembravano votate. Da parte sua, il potere politico aveva fatto del museo uno strumento in grado di incarnare agli occhi del pubblico l’equazione tra buon governo e conservazione del patrimonio artistico nazionale, equazione nata alla metà del seco- lo con l’apertura della galleria del Luxembourg e che l’ideologia rivo- luzionaria aveva fatto propria, accentuandone gli aspetti propagandi- stici. Sin dalle pagine delle sue Considérations sur les arts du dessin, Quatremère de Quincy si era mostrato scettico di fronte all’ingenuo ottimismo di chi aveva visto nel museo la possibilità di sostituire l’in- segnamento tradizionale che l’Accademia impartiva ai giovani artisti, esprimendo i propri dubbi al riguardo di «questo museo a perdita d’occhio [...] questa accumulazione di tanti oggetti in un solo luogo», che egli paragonava con disprezzo ad un «magazzino»13 . Ma il proble- ma fondamentale, che non cessò di preoccuparlo fino al momento in cui ne fece l’oggetto delle sue Considérations morales, nel 1815, e che nelle Lettres à Miranda accompagna e giustifica sul piano teorico la condanna dei saccheggi, era quello della destinazione delle opere d’arte. In nessun modo, questo appassionato difensore del legame che unisce l’opera e il contesto (storico, culturale, simbolico) per il quale essa è stata creata poteva accettare che il museo, divenuto luo- go di destinazione finale delle opere d’arte, le spogliasse del proprio significato originale. La sua voce era destinata a rimanere inascoltata, date le enormi potenzialità politiche, oltre che storico-culturali, del museo, che Quatremère de Quincy non seppe o non volle vedere. Di là del rigido tradizionalismo che colora di sé l’uomo e la sua opera, la lucidità di alcune critiche e le feconde intuizioni meritano, credo, la nostra attenzione. In questo primo capitolo ho cercato di tracciare le linee di fondo su cui si basava la «cultura del museo» in Francia verso la metà del 13 A.C. Quatremère de Quincy, Considérations sur les arts du dessin en France, Genève, Slatkine, 1970, fac-sim de l’éd. de Paris, Desenne, 1791, pag. 159-162. 13
  • 14. I. Una «cultura del Museo» XVIII secolo, i presupposti culturali cui essa faceva riferimento e i di- versi significati di cui la nuova istituzione era investita (dagli intellet- tuali, dagli artisti, dai governanti e, non ultimo, dal pubblico). L’avvi- cendarsi dei progetti, il dibattito culturale a proposito dei modi di esposizione delle opere d’arte, le diverse soluzioni architettoniche che precedettero l’inaugurazione del Musée Central des Arts il 10 agosto 1793, sono analizzati, in queste pagine, al fine di chiarire le tappe fon- damentali di un processo (non sempre lineare e qualche volta viziato dal velleitarismo della politica) che si è dimostrato ricco di implica- zioni culturali. Il museo degli intellettuali e degli artisti: presupposti storico- culturali della «cultura del museo» in Francia a metà del Settecento Prima ancora che Quatremère de Quincy intervenisse nel dibattito culturale della Francia rivoluzionaria, nell’atmosfera del Neoclassici- smo, in cui si aspirava alla purezza di gusto in contrapposizione agli eccessi barocchi, una parte importante degli ambienti artistici france- si intraprese, verso la metà del secolo, una battaglia per l’accesso alle collezioni reali, invocando gli antichi maestri quali modelli impre- scindibili al risanamento dell’arte. Da parte loro, gli ultimi governi dell’Antico regime si erano mostrati sempre più interessati a creare un museo d’arte pubblico a Parigi, che costituisse un motivo d’orgo- glio e di prestigio per la nazione, e di invidia per il resto dell’Europa. Agli occhi di entrambi, artisti e governanti, il maestoso palazzo del Louvre14 si presentava come l’ovvia dimora di un simile museo: collo- 14 Fatto costruire da Filippo Augusto, è solo con Carlo V che il Louvre divenne dimora reale. In epoca rinascimentale, Francesco I affidò l’opera di ricostru- zione del palazzo a Lescaut, mentre ulteriori ampliamenti furono apportati da Enrico II e Caterina de’ Medici. Quest’ultima ne iniziò, nel 1563, il ricongiungi- mento con le Tuileries. Nel XVII secolo Luigi XIII e Luigi XIV completarono la Cour Carré e fecero costruire da Perrault la facciata est, occupata dalla famosa Colonnade, costruita tra il 1667 e il 1673 con il contributo del Bernini. A metà del XVIII secolo il Louvre, oltre ad essere sede delle Accademie reali, ospitava nella Grande Galérie i plastici delle città fortificate. Nell’Encyclopédie di D’A- lembert e Diderot, alla voce «Louvre», si legge: «L’achevement de ce majestueux 14
  • 15. I. Una «cultura del Museo» cato nel cuore della capitale, era allo stesso tempo un palazzo reale e un durevole simbolo dell’ascendenza culturale francese sul resto d’Europa; inoltre, era la sede della varie accademie reali, inclusa l’Ac- cademia di pittura e scultura15 , il che avrebbe permesso, coerente- mente con i principi dell’Illuminismo, di riunire tutte le branche del sapere e dell’arte sotto uno stesso tetto. L’aspirazione ad un luogo di insegnamento dove il contatto diretto con i capolavori si facesse garante del risanamento dell’arte francese si accompagnò, dunque, sia alla polemica antiaccademica degli arti- sti, desiderosi di sottrarsi alla dittatura culturale dell’Accademia di pittura e scultura, sia alla denuncia dell’inaccessibilità delle raccolte reali. La Font de Saint Yenne16 , per primo, domandò che le collezioni édifice [il Louvre], exécuté dans la plus grande magnificence, reste toujours à désirer. On souhaiterait par exemple que tous les rez-de-chaussée de ce bati- ment fussent nettoyés et rétablis en portiques. Ils serviroient ces portiques, à ranger les plus belles statues du royaume, à rassembler ces sortes d’ouvrages précieux, épars dans les jardins où on ne se promene plus, et où l’air, le temps, et les saisons les perdent et les minent. Dans la partie située au midi, on pour- rait placer tous les tableaux du roi, qui sont présentement entassés et confondus ensemble dans des garde-meubles où personne n’en jouit» (Aa. Vv., Encyclopé- die ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, voce «Lou- vre», Paris, 1751-1772). 15 L’Accademia reale di pittura e scultura venne fondata nel 1648. Con Luigi XIV e il suo ministro Colbert, essa vide consolidarsi il suo incontestabile ruolo di guida nella formazione degli artisti e la sua funzione determinante nella gestione della cultura ufficiale, in quanto, con concorsi ed esposizioni periodiche, si poneva come unico tramite tra l’artista e i committenti. Malgrado la maggior apertura per quel che riguarda le nuove ammissioni, evidente a partire dalla fine del Sei- cento, esporre al Salon rimase un privilegio dei membri dell’Accademia fino al 1791, anno in cui l’Assemblea legislativa estese tale diritto a tutti gli artisti. 16 Etienne La Font de Saint Yenne (1688-1771) frequentò la corte di Versailles dal 1729 al 1737, dove ebbe occasione di familiarizzarsi con i dipinti della collezione reale, oltre che di stringere amicizia con il primo pittore del re, François Le Moyne. Non si sa molto sui suoi movimenti dopo che ebbe lasciato la corte, se non che nel 1747 fece leggere a Pierre-Jean Mariette, incisore e amateur di un certo prestigio, un manoscritto, che risulta non essere altro che le Réflexions sur quelques causes de l’état présent de la peinture en France et sur les beaux-arts, pubblicate qualche tempo dopo. Il tempismo col quale apparvero queste ultime non fu certo una coincidenza: il loro intento, infatti, era quello di accelerare la realizzazione di una pubblica esposizione di opere d’arte, in un momento in cui 15
  • 16. I. Una «cultura del Museo» reali fossero presentate in modo permanente al pubblico e rivendicò il palazzo del Louvre come «luogo appropriato da eleggere a dimora dei capolavori dei maggiori maestri d’Europa e di quelli di inestima- bile pregio che compongono il gabinetto di quadri di Sua Maestà, oggi ammucchiati e sepolti in piccole stanze mal illuminate e nascosti nel- la città di Versailles, sconosciuti o indifferenti alla curiosità degli estranei perché impossibili a vedersi»17 . Nelle intenzioni dell’autore, si trattava di prevenire il degrado delle tele e di rafforzare agli occhi dei visitatori stranieri il prestigio di una collezione che, per quanto appartenesse al re, era già considerata nazionale ma, soprattutto, di fornire agli artisti un insegnamento efficace. Infatti, benché si possa affermare che a partire dal Rinascimento, con Alberti e soprattutto con Vasari18 , l’insegnamento avesse assunto un ruolo centrale nella teoria artistica, dal momento che aveva il compito di assicurare lo svi- luppo dell’arte stessa attraverso la trasmissione delle regole e del loro rispetto, era proprio questo ruolo educativo ciò che, nella Francia del XVIII secolo, cominciava ad essere contestato all’Accademia, oppo- nendo alla funzione coercitiva della norma l’evidenza del modello e l’utilità didattica di una collezione di capolavori aperta al pubblico. il governo stesso sembrava muoversi nella direzione di un maggior coinvolgi- mento nella gestione e promozione delle belle arti. 17 E. La Font de Saint Yenne, Réflexions sur quelques causes de l’état présent de la peinture en France et sur les beaux-arts, La Haye, 1747, pag. 229. 18 Vasari, nel Proemio alla seconda parte delle Vite, mette in luce come il suo intento non fosse quello di «fare una nota degli artefici et uno inventario [...] dell’opere loro», bensì di operare al modo degli «scrittori delle istorie», che «non solo non si sono contentati di narrare semplicemente i casi seguiti, ma con ogni diligenza e con maggior curiosità che hanno potuto, sono iti investigando i modi et i mezzi e le vie che hanno usati i valenti uomini nel maneggiare l’im- prese», e quindi «avendo preso a scrivere la istoria dei nobilissimi artefici» egli stesso si sia ingegnato «non solo di dire quel che hanno fatto, ma di scegliere ancora discorrendo il meglio dal buono, e l’ottimo dal migliore, e notare un poco diligentemente i modi, le arie, le maniere, i tratti e le fantasie de’ pittori e degli scultori; investigando, quanto più diligentemente ho saputo, di far conoscere a quegli che questo per se stessi non sanno fare, le cause e le radici delle maniere e del miglioramento e peggioramento delle arti accaduto in diversi tempi e diverse persone» (G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, intr. di M. Marini, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1993, pag. 267). 16
  • 17. I. Una «cultura del Museo» La Font de Saint Yenne aveva inoltre pubblicato, nel 1746, un’ope- ra dal titolo Examen des principaux ouvrages exposés au Louvre le mois d’aout 1746, nella quale, giudicando le opere d’arte, l’autore di- chiara di interpretare i sentimenti di un pubblico «che si sbaglia rara- mente, quando tutte le sue voci sono concordi sul merito o i difetti di un’opera qualsiasi». Egli, richiamandosi esplicitamente all’unicità del pubblico e all’universalità del sentimento, già difesi dall’abate Du Bos, intendeva affermare la possibilità di una critica estranea, se non antagonista, a quella ufficiale. Le dubosiane Riflessioni critiche sulla poesia e la pittura avevano portato ad una definizione generale del sapere artistico come sapere che si radica nel sentimento, condan- nando duramente il rigido classicismo accademico del tempo, che pretendeva di stabilire le regole del fare artistico e che riteneva il giu- dizio di gusto prerogativa dello specialista, capace di riconoscere nel- l’opera quelle stesse regole che ne sono alla base. Du Bos invece aveva riconosciuto i diritti di un pubblico dotato di un «comune sentire», al quale le opere d’arte si rivolgono e, quindi, in grado di esercitare il giudizio di gusto nei loro confronti; si trattava dello stesso pubblico che, trent’anni dopo, La Font de Saint Yenne poteva osservare al Sa- lon19 , divenuto, a partire dal 1737 una manifestazione regolare, offerta con l’intento di incoraggiare una prima risposta di tipo estetico in un largo numero di persone. È chiaro che un pubblico in senso moderno (articolato e indipen- dente) si poneva fondamentalmente in disaccordo con il rigoroso ca- rattere corporativo della cultura dell’epoca e stentava ad ottenere un riconoscimento positivo, perché non trovava spazio nella stretta rete di definizioni nella quale l’Accademia imbrigliava i valori e gli scopi dell’arte20 . Eppure, l’esigenza di una maggiore pubblicità delle colle- 19 Il Salon fu la prima «mostra temporanea» di arte contemporanea. Organizzata dal 1667 dall’Accademia reale di pittura e scultura, la manifestazione si tenne a partire dal 1699 nella Grande Galérie del Louvre. Dal 1725 per più di un secolo, la mostra venne allestita nel Salon Carré, da cui prese il nome, e dal 1737 divenne una manifestazione regolare, organizzata ogni due anni. 20 «L’emergere di questo pubblico nel corso del diciottesimo secolo è descrivibile come una forza di distruzione e ricombinazione, assestantesi a intervalli, ma che sempre eccede e sfida le categorie ricevute dalla cultura alta» (Th.E. Crow, 17
  • 18. I. Una «cultura del Museo» zioni continuava ad essere vivamente sottolineata da larga parte del- l’ambiente intellettuale e artistico. Queste iniziative mettono in luce come, nella seconda metà del Settecento in Francia, l’ambiente degli artisti engagés e parte del mondo intellettuale avvertissero vivamente l’esigenza del museo, in- teso ora come luogo di insegnamento, ora come garanzia della con- servazione e della pubblicità delle opere, ora quale motivo di presti- gio e di orgoglio già nazionale. Allo stesso tempo si andavano chia- rendo i fondamenti culturali su cui poggiava una tale istituzione, se ne indagavano gli elementi costitutivi e se ne ricercavano i precedenti storici. In una società impregnata di cultura classica e di riferimenti agli Antichi, come la società francese dell’epoca, chiunque si interessasse di arte era marcato dalla lettura dei libri XXXV e XXXVI della Storia naturale di Plinio il Vecchio ed è probabile che il discorso fondatore della cultura del museo abbia trovato qui, nell’orazione di Marco Agrippa, la propria giustificazione: «Almeno, di lui [Marco Agrippa] resta un’orazione stupenda e degna del più grande dei cittadini intor- no alla necessità di rendere di proprietà pubblica tutti i quadri e le statue, il che sarebbe stato meglio che mandarli, quasi in esilio, nelle ville»21 . Il tema dell’«esilio delle collezioni» fu fatto proprio dalla cri- tica francese, che si serviva della denuncia di Plinio per rivendicare la creazione del museo pubblico, facendone un atto di cultura politica: l’abate Du Bos, La Font de Saint Yenne e il conte d’Angiviller, al quale spetta il progetto del museo reale nella Grande Galérie del Louvre, si riferirono ad esso in maniera più o meno esplicita22 . Durante il secolo dei Lumi, inoltre, si mostrò di particolare interes- se il mito di Alessandria e della sua biblioteca-museo, luogo ideale di insegnamento e di ricerche fondate sui testi e sugli strumenti scienti- fici ma anche luogo dove si conservava la memoria di coloro che si Painters and Public Life in Eighteenth Century, Yale University Press, New Haven and London, 1985, pag. 254). 21 Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, libro XXXV, trad. e note di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, Torino, Einaudi, 1988, par. 26, pag. 321. 22 E. Pommier, Les musées en Europe…, op. cit., pag. 15. 18
  • 19. I. Una «cultura del Museo» erano distinti nelle attività dello spirito. I philosophes avevano a pro- pria disposizione la Geografia di Strabone23 , primo storiografo del mouseion, che ne parla come di una comunità di eruditi dediti allo studio, perché dispensati dalle preoccupazioni materiali grazie al me- cenatismo dei Tolomei (III-II secolo a.C.), che fecero di Alessandria il principale centro intellettuale del periodo ellenistico. Strabone narra come gli ispiratori del museo e della biblioteca furono gli ateniesi De- metrio e Stratone24 , i quali portarono ad Alessandria d’Egitto i princi- pî che animavano il Liceo di Aristotele e l’Accademia platonica per renderli istituzioni ufficiali: i principî di una comunità totalmente de- dita alla ricerca del vero, ossia al culto delle Muse. 23 Strabone, geografo e storiografo greco (63 a.C.-19 d.C.), visse a Roma, dove compose i 17 libri della sua Geografia, che descrivono con accuratezza i paesi allora noti dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, basandosi sia sulla personale esperienza di viaggi dell’autore che su fonti attendibili, quali Apollodoro d’A- tene, Posidonio, Artemidoro d’Efeso. Nel diciassettesimo libro egli traccia un quadro di Alessandria d’Egitto all’inizio della nostra era e descrive l’immensità dei palazzi reali costruiti per la dinastia dei Tolomei sin dalla fine del IV secolo; fra queste mura colloca il mouseion. La Geografia di Strabone era nota agli enciclopedisti, come risulta dalla voce «Musée» dell’Encyclopédie: «lieu de la ville d’Alexandrie en Egypte, où l’on entretenoit, aux dépenses du publique, un certain nombre de gens de lettres distingués par leur mérite [...]. Le nom des muses, déesses et protectrices des beaux arts, étoit incontestablement la source de celui du musée» (Aa. Vv., Encyclopédie…, voce «Musée», op. cit.). 24 Verso il 307 a.C., Demetrio Falereo, tiranno di Atene cacciato dalla propria città, si rifugiò ad Alessandria d’Egitto e diventò consigliere del re Tolomeo Soter, «il Salvatore». Ad Atene, Demetrio era stato il principale fautore del Liceo, la scuola fondata da Aristotele. Qualche anno dopo, verso il 300 a.C., Soter chiamò da Atene il fisico Stratone di Lampsaco, anch’egli discepolo di Aristotele, per farne il tutore del figlio (il futuro Filadelfo), come Filippo di Macedonia aveva chiamato Aristotele per educare il figlio Alessandro. Demetrio e Stratone, dun- que, importarono ad Alessandria il modello del mouseion del Liceo di Aristotele, che a sua volta aveva riprodotto quello dell’Accademia platonica, ma, a diffe- renza di questi, la nuova istituzione nasceva all’ombra del potere politico, con la specifica funzione di testimoniare la continuità tra il nuovo regno dei Tolomei e l’impero di Alessandro. 19
  • 20. I. Una «cultura del Museo» Il riferimento alle Muse25 , figlie della Memoria, era ancora vivo in quelle collezioni a vocazione universale che furono gli studioli e le Kunst und Wurderkammern dei principi umanisti italiani e germani- ci nel XV e XVI secolo, dove naturalia, artificialia e mirabilia si af- fiancavano alle antichità e agli oggetti di valore storico26 . Quello che i sovrani collezionisti cercavano di ricostruire tra le mura dei loro stu- dioli era una sorta di microcosmo, un luogo delle meraviglie deputato alla contemplazione e alla meditazione, in cui l’ambizione a dominare lo spazio del mondo e il tempo della storia, oltre alla varietà degli og- getti esposti, sembrava portare a compimento la vocazione dei trattati sull’arte della memoria, inventati dagli Antichi ad uso degli oratori e diventati poi strumenti di conoscenza del mondo27 . Si collezionavano oggetti per sottrarli alla vita e al tempo che fug- ge, per sfidare la morte e trattenere il tempo ma anche per rianimare il passato, raccogliendone i frammenti e ricomponendo un contesto a 25 Il culto delle Muse, secondo Esiodo figlie di Giove e di Mnemosine, era tradizio- nalmente collegato a quello delle fonti e delle sorgenti del monte Olimpo e del- l’Elicona; erano guidate da Apollo, dio sommo delle arti, ed esse stesse venerate come divinità delle manifestazioni artistiche. In epoca ellenistica il loro numero, prima variabile fra tre e sette, fu fissato a nove: Calliope (epica ed eloquenza), Melpomene (tragedia), Talia (commedia), Polinnia (poesia lirica), Erato (poesia erotica), Clio (storia), Euterpe (musica), Tersicore (danza). 26 La pratica del collezionismo non nacque con il Rinascimento. Il collezionismo moderno è, infatti, prefigurato dai «tesori» dei templi antichi e delle cattedrali medievali, tuttavia il suo vero sviluppo avvenne in tutta Europa fra il XV e il XVIII secolo. In principio, gli umanisti ricercarono le vestigia dell’antichità romana: medaglie, iscrizioni, frammenti di sculture; poi, la passione del colle- zionismo si allargò ai principi e alle grandi famiglie aristocratiche, che arricchi- rono i tesori delle loro dinastie con le sculture antiche restituite dal suolo di Roma. Ma, dalla metà del XVI secolo, si diffuse in tutta Europa un’altra forma di collezione: il gabinetto di curiosità (il cabinet), che in Italia assunse il nome di studiolo e nei Paesi germanici quello di Kunst und Wunderkammer, «stanza dell’arte e delle meraviglie», il cui modello venne adottato dai principi dell’età manierista. Francesco I de’ Medici, nel 1570, fece disporre le proprie raccolte di opere d’arte, curiosità naturali, antiche, esotiche e storiche in uno studiolo dal- l’atmosfera notturna, il cui arredo rievocava le mille analogie segrete della natura; l’arciduca Ferdinando del Tirolo, nel 1563, allestì nel castello di Ambras un’immensa collezione; l’imperatore Rodolfo II a Praga e l’elettore di Baviera Alberto V possedevano due delle più ricche collezioni di curiosità dell’epoca. 27 F.A. Yates, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1993. 20
  • 21. I. Una «cultura del Museo» lungo sognato o studiato. Per il collezionista, infatti, ogni oggetto rap- presentava un modo di ricordare, addensava in sé un teatro di memo- rie, una magica enciclopedia di messaggi, coerentemente con l’atteg- giamento cinquecentesco verso la scienza, luogo di compresenza degli opposti e non di classificazioni razionali. Nel tentativo di riflettere nell’ordine della propria collezione l’ordine del mondo, il collezioni- sta si poneva sullo stesso piano del filosofo, del religioso e del teolo- go, ma anche dell’artista e come loro dovette sentire l’esigenza di esprimere quest’ordine con chiarezza per comunicarlo e renderlo comprensibile al proprio pubblico. Nonostante le collezioni degli umanisti e dei sapienti del primo Rinascimento fossero ancora luoghi privati, esse divennero sempre più, nel tardo Cinquecento e nel Sei- cento, strumenti di conoscenza universale (come universale e unico era il sapere), attraverso gli accostamenti, gli elenchi, le somiglianze e le differenze, le ripetizioni degli oggetti esposti e descritti nei catalo- ghi; il loro pubblico era ancora la ristretta comunità dei sapienti, ma la funzione didattica implicita in ogni metodo di organizzazione della conoscenza avrebbe influito notevolmente, nel secolo dei Lumi, sul trasferimento all’uso pubblico delle collezioni principesche. Le gallerie di quadri delle monarchie assolute ereditarono il carat- tere enciclopedico che era alla base della funzione memorativa delle «camere delle meraviglie», insieme alle loro esigenze di ordine e ai loro principî di classificazione. Non è un caso, infatti, se biblioteca e museo furono a lungo confusi28 , così come era implicito nel riferi- mento al mouseion di Alessandria ma, nel momento in cui i due ter- mini finirono per distinguersi e designare due entità diverse, fu la bi- blioteca a fornire il paradigma organizzativo al museo, giustificando, da un lato, la sua aspirazione all’universale, dall’altro, riconoscendo la necessità di sottomettersi a un ordine, come unica garanzia della 28 Il confronto tra il museo e la biblioteca iniziò con la primitiva confusione dei due termini nel latino degli umanisti del XV secolo. In seguito le due istituzioni coesistettero all’interno dello stesso edificio, come nel caso dell’Ambrosiana di Milano, che oltre alla Biblioteca ospitava, a partire dal 1618, le collezioni di dipinti, statue, gessi e disegni di Federigo Borromeo, descritte in un catalogo intitolato Musaeum. L’Illuminismo separò definitivamente la biblioteca dal museo, trasferendo però a quest’ultimo le esigenze enciclopediche della prima, nonché la necessità di un ordine chiaro nella classificazione degli oggetti. 21
  • 22. I. Una «cultura del Museo» sua vocazione a divenire il luogo della memoria dell’arte29 . Da qui de- rivò la riflessione sulla presentazione delle collezioni e sui principî di classificazione, elemento essenziale della «cultura del museo» che si diffuse a metà del XVIII secolo e che si appoggiava sulla cronologia dei grandi cicli della storia dell’arte, sulle biografie degli artisti, sulla loro divisione in scuole nazionali e sulla conoscenza dell’ambiente in cui si iscrive la creazione artistica. La polemica antiaccademica, dunque, il retaggio della tradizione degli Antichi, che nel corso della famosa querelle era stata difesa in nome dell’immediatezza e dell’universalità del sentimento, la rifles- sione teorica sulle arti, così come si era sviluppata a partire dal Rina- scimento italiano, per poi diffondersi in tutta Europa, il riferimento a Plinio e, infine, al mouseion di Alessandria furono le fonti cui attinse questa «cultura del museo» che andava sviluppandosi in Francia ne- gli ultimi decenni dell’Antico regime. Ma se è vero che si dovette aspettare la Rivoluzione francese per assistere alla concreta realizza- zione del progetto, essa fu resa possibile da alcuni esperimenti con- dotti durante il regno di Luigi XV e di quello, tragicamente interrotto, di Luigi XVI, grazie all’intraprendenza di alcuni ministri illuminati. La galleria del Luxembourg (1750-1779) e il progetto di d’Angiviller al Louvre Nonostante la sua forte valenza simbolica, a metà del secolo il pa- lazzo del Louvre non era ancora in grado di ospitare una galleria di quadri: dunque, per fare fronte alle pressanti richieste degli artisti e degli intellettuali, Lenormand de Tournehem30 , Directeur des Bati- 29 Esemplare, in questo senso, appare il museo che Paolo Giovio fece costruire a Borgo Vico, vicino a Como, sua città natale, tra il 1537 e il 1543, per esporre le proprie collezioni di medaglie e antichità e soprattutto la sua raccolta di ritratti di uomini illustri: rispondeva già a criteri di classificazione razionale secondo generi determinati, motivo per cui esso può essere considerato, nella storia dei musei, la prima forma museograficamente significativa. 30 Charles-François Lenormand de Tournehem (1684-1751), zio della marchesa de Pompadour, dovette a quest’ultima la propria nomina a Directeur général des Batiments du roi nel 1745. La galleria del Luxembourg faceva parte, nei progetti 22
  • 23. I. Una «cultura del Museo» ments di Luigi XV, concesse l’apertura al pubblico della galleria di un altro palazzo reale, il Luxembourg, due volte la settimana. Qui, fra il centinaio di opere esposte, si trovavano quadri italiani, fiamminghi e francesi, insieme con un assortimento di marmi pregiati e oggetti preziosi, che avevano lo scopo di creare un’atmosfera di splendore; nell’ala ovest del palazzo invece il pubblico poteva ammirare, nel suo luogo di destinazione originale, il famoso ciclo dipinto da Rubens per Maria de’ Medici, per il quale il palazzo del Luxembourg era stato co- struito. Dal catalogo31 , che veniva venduto all’entrata allo scopo di accom- pagnare lo spettatore nella sua visita, è possibile farsi un’idea suffi- cientemente chiara dell’allestimento della galleria: i dipinti erano di- sposti secondo un criterio «eclettico», cioè opere di artisti differenti e di differenti generi erano giustapposte in modo da creare continui contrasti di stile e di soggetti. La galleria infatti era stata pensata per offrire agli artisti e agli amateurs una lezione «visiva» dell’arte della pittura, attraverso un confronto tra esempi rappresentativi apparte- nenti alle tre scuole (italiana, fiamminga e francese), all’interno di un più vasto programma di riforma artistica che Lenormand intendeva realizzare con l’aiuto dei responsabili dell’Accademia di pittura e scultura32 . Proprio questo intento pedagogico era ciò che distingueva del nuovo direttore, di un più ampio programma di riforma dell’Accademia di pittura e scultura, nel tentativo di restaurare il controllo del governo sulle belle arti, che il disinteresse dei suoi predecessori aveva rischiato di vanificare. 31 Le informazioni relative all’allestimento delle collezioni reali al Luxembourg e al Louvre sono tratte da A. McClellan, «The Musée du Louvre as a Revolutionary Metaphore During the Terror», in The Art Bulletin, LXX, 2, 1988, e da Inventig the Louvre: Art, Politic and the origin of the Modern Museum in Eighteenth Century Paris, Cambridge University press, 1994, dello stesso autore. 32 «Le più importanti di queste iniziative furono la creazione dell’Ecole des élèves protégés, una scuola che nell’ambito dell’Accademia intendeva migliorare la for- mazione dei vincitori del Prix de Rome sia rispetto alla tecnica artistica sia alla storia, la geografia e la letteratura in preparazione al loro soggiorno a Roma; il concorso del 1747, organizzato espressamente per incoraggiare il genere storico; l’incremento delle commissioni reali per fare della pittura di storia il genere maggiormente ricompensato; il ripristino delle letture accademiche, o conféren- ces, secondo un modello che risaliva al diciassettesimo secolo; la creazione di otto nuovi posti per i membri dell’Accademia, allo scopo di ampliare il sostegno 23
  • 24. I. Una «cultura del Museo» il Luxembourg dai gabinetti privati di opere d’arte dell’epoca, poiché, se il criterio che governava la distribuzione delle opere d’arte era la misura e la forma di ogni singolo oggetto e il desiderio di ottenere un effetto armonico e simmetrico, con poco o nessun riguardo per le qualità stilistiche delle opere (proprio come nei cabinets privati), nel- le intenzioni degli organizzatori queste stesse qualità stilistiche sareb- bero dovute essere evidenziate da una sequenza di ben calcolate giu- stapposizioni. Questo sistema «eclettico» derivava direttamente dalle teorie che André Félibien33 e, soprattutto, Roger de Piles34 avevano esposto nelle loro opere, sulle quali si basava ancora gran parte dell’insegnamento accademico. Entrambi, infatti, contribuirono a stabilire un modello di lettura delle opere d’arte che ebbe grande influenza sull’allestimento delle maggiori collezioni del tempo, in particolare quelle di Pierre Crozat e del Duca d’Orléans, e che si dimostrò perfettamente coerente con i principî didattici che informavano la galleria del Luxembourg35 . Gli Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellens peintres, che Félibien pubblicò a partire dal 1666, intendono dimo- strare, attraverso un continuo confronto tra le opere, le origini e i progressi della pittura nelle differenti parti in cui questa è divisa, in relazione ai dipinti degli antichi maestri. Compito del connaisseur è giudicare la qualità delle opere, attraverso un’analisi il più possibile sistematica e oggettiva, un metodo che l’autore scelse di illustrare at- traverso la descrizione di un’immaginaria visita al palazzo delle Tuile- ries, dove erano esposti alcuni dipinti appartenenti alle collezioni rea- all’istituzione tra le classi alte; e, infine, l’apertura della galleria del Luxem- bourg, concepita come una scuola per gli artisti e gli amateurs» (A. McClellan, Inventing the Louvre…, op. cit., pag. 17). 33 André Félibien des Avaux (1619-95), scrittore d’arte, a Roma conobbe Poussin e ne divenne ammiratore entusiasta; nelle sue opere critiche sostiene un rigido classicismo di tipo accademico. 34 Roger de Piles (1635-1709) fu scrittore d’arte, oltre che pittore e incisore dilet- tante. Nel 1705 pubblicò il suo Cours de peinture par principes, di cui fa parte una delle più singolari manifestazioni della critica d’arte dell’epoca, la Balance des Peintres, nella quale l’autore tenta una classificazione degli artisti secondo «regole» fisse. 35 A. McClellan, Inventing the Louvre…, op. cit., pag. 36-38. 24
  • 25. I. Una «cultura del Museo» li. Lo stesso criterio comparativo informa la famosa Balance des peintres, in cui de Piles, divisa la pittura in quattro parti, o categorie (composizione, disegno, colore ed espressione), sostiene che lo scopo di ogni aspirante artista sia quello di raggiungere un uguale grado di perfezione in ognuna, rivolgendo lo sguardo agli antichi maestri al fine di servirsene come guida. Ma, dal momento che i vari artisti han- no eccelso in diverse parti e nessuno ha regnato in tutte, i maestri de- vono essere studiati in maniera selettiva e il metodo migliore per ap- prendere i pregi ed evitare i difetti di un artista è quello di comparare le sue opere con quelle di un altro. Ebbene, la scelta dei dipinti e la loro disposizione al Luxembourg sembrano essere perfettamente aderenti al programma educativo proposto dai due autori, che attraverso il contrasto e il paragone in- tendevano esercitare allo stesso tempo il gusto degli artisti e dei co- noscitori. Questa prima esperienza museale ebbe termine nel 1779, quando il palazzo del Luxembourg venne assegnato al conte di Provenza, che decise di farne la propria residenza parigina. Da allora il progetto di allestire un vero e proprio museo nella Grande Galérie del Louvre fu al centro della politica del conte d’Angiviller, nominato Directeur des Batiments da Luigi XVI, salito al trono nel 1774. D’Angiviller si dimo- strò immediatamente determinato a portare a termine il piano di riassetto del Louvre, non solo per soddisfare le rivendicazioni degli artisti ma, allo stesso tempo, per erigere un tempio agli uomini illu- stri della nazione e alla monarchia francese. Si apprestò allora a com- missionare quadri di storia e busti di insigni personaggi; arricchì la collezione reale di quadri fiamminghi e francesi; fece redigere un ca- talogo delle opere; e, soprattutto, incaricò una commissione (di cui facevano parte gli architetti Soufflot e Hubert Robert) di esaminare i problemi connessi alla trasformazione della Grande Galérie in museo pubblico. Dal momento che lo scoppio della Rivoluzione anticipò la realizza- zione del progetto di d’Angiviller, si possono solo formulare alcune ipotesi su come sarebbe stata la Grande Galérie nel suo complesso. Ad ogni modo, sembra che il sistema «eclettico» del Luxembourg sa- rebbe stato abbandonato, in favore di un ordine progressivo dei di- 25
  • 26. I. Una «cultura del Museo» pinti in relazione alle scuole e alla cronologia. Innanzi tutto, il tipo di acquisti effettuati tra il 1775 e il 1789 rivela un evidente desiderio di presentare al Louvre una panoramica più ampia delle tre scuole e un equilibrio maggiore di quello del Luxembourg: si trattava per la mag- gior parte di dipinti appartenenti alle scuole fiamminga e francese, aree nelle quali la collezione reale era piuttosto carente, e di opere di artisti italiani «minori» (Cavalier d’Arpino, Cignani, Schedoni, Lauro, Zuccari, Luti), che non erano sufficientemente rappresentati. In se- condo luogo, tutti coloro che erano coinvolti nel progetto del museo non potevano ignorare che due delle maggiori collezioni principesche del Nord Europa, la galleria di Düsseldorf e quella imperiale di Vien- na, erano state recentemente allestite secondo il criterio della divisio- ne per scuole e che a Vienna era stato fatto un primo tentativo di mo- strare lo sviluppo storico all’interno di ogni scuola grazie al modo e all’ordine in cui i quadri erano stati appesi36 . Queste gallerie, quindi, rappresentavano due esempi di un nuovo e più razionale criterio di allestimento di una collezione destinata ad un vasto pubblico, che d’Angiviller dovette necessariamente tenere in considerazione, se sperava che il suo museo avrebbe rivaleggiato in modernità con esse. Egli, conscio dell’importanza che l’allestimento e la presentazione della collezione avrebbero avuto agli occhi dell’Euro- pa, abbandonò dunque l’«eclettismo» del Luxembourg, che aveva privilegiato le qualità pittoriche individuali delle opere mescolando le scuole e i periodi, per un criterio in grado di dimostrare lo sviluppo storico della pittura all’interno delle varie scuole regionali. Questo nuovo ordine, cronologico e per scuole, rifletteva in parte gli indirizzi del nascente storicismo, di cui Winckelmann era stato pioniere nel 1764 con la sua Storia dell’arte nell’antichità, e si ispirava, inoltre, alle teorie di Linneo e Buffon, che a metà del secolo avevano introdot- to un metodo di classificazione delle piante e degli animali per generi 36 A Düsseldorf, nel 1756, il principe Karl Theodor fece allestire in un palazzo costruito appositamente la propria galleria, dove i quadri, benché appesi alle pareti nel gusto «tappezzante» allora di moda, erano suddivisi per scuole. Al riassetto della collezione imperiale di Vienna nel castello del Belvedere prov- vide, invece, l’erudito Christian von Mechel, fra il 1776 e il 1778, il quale presen- tava il museo come «un deposito della storia visibile dell’arte». 26
  • 27. I. Una «cultura del Museo» e specie. Coerentemente con gli indirizzi della storia naturale, dun- que, la riorganizzazione delle gallerie d’arte sembra testimoniare un’analoga convinzione nella possibilità di una classificazione razio- nale delle opere d’arte, così come della flora e della fauna. Inoltre, la nuova disposizione era funzionale anche ad un altro obiettivo, di non minor importanza nei progetti di d’Angiviller, vale a dire la glorifica- zione della pittura di storia della scuola francese che, grazie all’arran- giamento cronologico, sarebbe apparsa come l’unica degna erede de- gli antichi maestri. Ancora nell’inverno del 1788-89 d’Angiviller poteva credere che il museo sarebbe stato pronto per l’apertura nel giro di due o tre anni ma, dopo la presa della Bastiglia, qualunque iniziativa monarchica dovette essere abbandonata. Lo stesso conte lasciò la Francia nell’a- prile del 1791 per non farvi più ritorno. Secondo Andrew McClellan37 , il fatto che il museo pubblico abbia avuto origine nella Francia dei Lumi sarebbe ben più che una coinci- denza: difficilmente, infatti, si potrebbe negare che l’insistenza sul va- lore dell’educazione per la popolazione e il desiderio di raccogliere e presentare in maniera sistematica ogni conoscenza, propri dell’Illu- minismo, abbiano avuto un ruolo importante nel persuadere i re di Francia ad aprire le proprie collezioni personali al pubblico. D’altra parte, se è vero che le teorie dei philosophes hanno indubbiamente avuto la loro importanza nell’alimentare una «cultura del museo», fu compito della politica farsi carico della sua realizzazione. Il museo pubblico, questa istituzione «illuminata», destinata ad istruire il po- polo, nacque per motivi politici, resi urgenti dal ritmo accelerato con cui procedeva la Rivoluzione francese: da un lato, la necessità di for- nire una metafora trasparente al trionfo del nuovo ordine su quello vecchio, dall’altro, il desiderio di portare a termine il più comprensivo e razionale museo d’arte che il mondo avesse mai visto, che avrebbe dimostrato il progresso intellettuale della giovane repubblica, e che aveva il compito di contribuire all’educazione di tutti i cittadini, ren- 37 A. McClellan, «The Musée du Louvre as a Revolutionary Metaphore During the Terror»…, op. cit., pag. 300 e sgg. 27
  • 28. I. Una «cultura del Museo» dendo immediatamente riconoscibile lo stretto legame che univa le opere d’arte alla gloria e alla stabilità della nazione38 . Il museo degli architetti: tra suggestioni classiche e innovazione Il collezionismo d’arte, come abbiamo visto, divenne una pratica comune a partire dal Rinascimento italiano, che sviluppò un partico- lare senso della storia unito all’entusiasmo per tutti i prodotti del- l’Antichità classica e dell’arte contemporanea. I principi umanisti del Quattrocento raccoglievano soprattutto oggetti e frammenti di mar- mo da esporre nelle loro vaste corti, logge e giardini39 . La prima siste- mazione specifica per l’esposizione di antichità fu realizzata da Bra- mante in Vaticano nei pressi della villa del Belvedere, dove l’architet- to progettò una serie di nicchie in un chiostro quadrato destinate ad ospitare il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere40 . Verso la fine del Cin- quecento e durante il secolo seguente, si edificarono, in tutta Europa, specifiche sedi per le collezioni di statuaria: si trattava sia di spazi a 38 Lo stesso Jean-Marie Roland de la Platière, per esempio, ministro degli Interni dal 1792, intervenne attivamente nel dibattito sull’eredità artistica della Francia. Sostenitore entusiasta dell’idea del museo e di una concezione patriottica del- l’arte, espresse le proprie convinzioni in due discorsi tenuti all’Assemblea il 1° dicembre 1792 e il 16 dello stesso mese. 39 «Il giardino dei Medici di fronte a Piazza San Marco a Firenze era affidato alle cure di Bertoldo, e qui Michelangelo fu introdotto alla scultura. Quanto a Roma, Marten van Heemskerk, che vi passò gli anni tra il 1532 e il 1536, disegnò molte sistemazioni al fresco (cioè all’aperto) di pezzi antichi. Già nel 1471, Sisto IV donava al popolo romano importanti pezzi da esporsi in Campidoglio: tra questi la Lupa, il Fanciullo che estrae la spina, e una colossale testa dell’imperatore Costantino» (N. Pevsner, «Musei», in: I luoghi del museo. Tipo e forma fra tra- dizione e innovazione, a cura di L. Basso Peressut, Editori Riuniti, Roma, 1985, pag. 41). 40 Bramante (1444-1514) era a Roma dal 1499 quando Giulio II, eletto papa nell’ot- tobre del 1503, lo nominò Sovrintendente Generale di tutte le costruzioni papali e lo incaricò di progettare il collegamento dei palazzi vaticani con la villa di Innocenzo VIII mediante il cortile del Belvedere, articolato su tre livelli e culmi- nante in una vasta esedra. 28
  • 29. I. Una «cultura del Museo» pianta centrale che di lunghe gallerie41 , tanto che ben presto «galle- ria» divenne sinonimo di «museo»42 . I dipinti, invece, venivano gene- ralmente appesi alle pareti delle sale con una tale densità che le loro superfici a riquadri formavano un rivestimento completo e, verso la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, gallerie di questo tipo di- vennero un elemento alquanto comune nella progettazione dei palaz- zi. Finora si è parlato esclusivamente di collezioni private, sia che fos- sero di proprietà di principi che di aristocratici, che venivano aperte a un pubblico però ancora molto ristretto ed elitario; il passo successi- vo, riferito all’apertura delle collezioni al pubblico, fu un’iniziativa propria dell’Illuminismo. A quest’epoca, infatti, i principi comincia- rono a percepire la divulgazione del sapere come una condizione es- senziale del progresso e come una responsabilità pubblica, di conse- guenza aderirono al generale movimento di apertura delle loro colle- zioni di opere d’arte e di oggetti di interesse storico-scientifico e incaricarono i propri architetti di progettarne le sedi in edifici separa- ti dalle loro residenze private43 . La riflessione sul tipo di edificio conveniente al museo, un’istitu- zione che non esisteva ancora ma della quale sempre più fortemente si sentiva l’esigenza, fece riferimento, nei primi progetti degli archi- 41 Buontalenti (1536-1608), che aveva trasformato l’ala est degli Uffizi in una galle- ria di opere d’arte già a partire dal 1574, nel 1581 progettò per Francesco I la Tri- buna di marmo, dove erano messi in risalto i capolavori della pittura e della scultura. 42 «Intorno al 1570 venne edificata in Mantova, nel palazzo dei Gonzaga, una galle- ria. Aveva il soffitto voltato a botte e serviva a esporre statue. Nel 1580 circa la villa Medici a Roma fu dotata di una galleria, ancora per la statuaria. Nel 1583- 90, contemporaneamente al teatro, Vespasiano Gonzaga a Sabbioneta costruiva la sua galleria per le statue, lunga circa 90 metri. [...] La famosa collezione di dipinti di Mazarino era sistemata nel suo palazzo, [...] costruito nel 1645 da Mansart. Venti anni più tardi, quando il Bernini fu invitato a progettare il nuovo fronte est del Louvre, le sue prescrizioni includevano una galleria al primo piano per sistemarvi statue e quadri» (N. Pevsner, «Musei», in: I luoghi del museo…, op. cit., pag. 41-43). 43 Pevsner cita come primo esempio di museo pubblico il progetto per il museo di Dresda, elaborato nel 1742 dal conte Algarotti per Augusto III (N. Pevsner, «Musei», in: I luoghi del museo…, op. cit., pag. 44). 29
  • 30. I. Una «cultura del Museo» tetti del Settecento, a un modello architettonico antico nel quale le sale disposte in sequenza affiancavano uno spazio simbolico centrale: la rotonda44 . In Francia, questa prima raffigurazione del museo pubblico, ispi- rata al Pantheon, è riscontrabile nei numerosi progetti presentati ai concorsi che l’Accademia di architettura organizzava per il Prix de Rome, che spesso, tra il 1778 e i primi del XIX secolo, propose il tema del museo45 : si trattava di architetture ideali, quasi sempre costituite da un recinto quadrato con una croce greca all’interno e una rotonda all’incrocio dei bracci, che, pubblicate e divulgate, contribuirono al diffondersi e al fissarsi in Europa delle tipologie architettoniche mu- seali appena sperimentate nella Roma neoclassica46 . In precedenza l’Accademia di architettura aveva proposto il tema di una galleria aggiunta ad un palazzo, nel 1753, e l’anno seguente di un Salon des Arts. Il primo premio per la galleria fu attribuito a Loui- 44 Già nel 1563, Alberto V, elettore di Baviera, aveva fatto edificare per la propria Kunstkammer una costruzione quadrata, costituita da quattro gallerie porticate disposte intorno ad un chiostro centrale, secondo una formula alla quale si ispi- reranno gli ideatori del museo d’arte nel XVIII secolo. 45 I progetti dei Grands Prix dal 1774 al 1795 sono stati pubblicati da H. Rosenau, «The Engravings of the Grand Prix of the French Academy of Architecture», in: Arch. Hist., III, 1960. 46 «L’idea illuminista di museo nasce a Roma, culla del gusto neoclassico, dove si erano formate nel XVI e XVII secolo le grandi collezioni principesche di anti- chità, soprattutto sculture [...]. Il cardinale Alessandro Albani nel 1746 fece costruire dall’architetto Carlo Marchionni una villa-museo, alla cui sistemazione museografica partecipò negli anni cinquanta lo stesso Winckelmann: i lavori si svolsero dal 1755 al 1760; nel 1760 il museo di antichità era allestito e Winckel- mann prendeva servizio come curatore» (A. Mottola Molfino, Il libro dei musei…, op. cit., pag. 11). Tra il 1773 e il 1780 venne costruito in Vaticano il Museo Pio-Clementino, di stile neoclassico, destinato a ospitare le collezioni di antichità del Papato, che reclamava così il proprio ruolo di guida tra gli studiosi di archeologia. L’impianto architettonico dell’edificio, ispirato alle costruzioni della Roma antica, l’allestimento delle sculture per argomento, culminante nella rotonda, e la redazione di un catalogo delle opere erano tutti elementi destinati ad avere grande seguito nella storia del museo, inoltre, «mentre per la Villa Albani si trattava pur sempre di una raccolta privata visitabile, il museo voluto dai papi Clemente XIV e Pio VI per le collezioni archeologiche vaticane era già pensato come un’istituzione di interesse pubblico» (Ibid., pag. 21). 30
  • 31. I. Una «cultura del Museo» s-François Trouard e, sebbene il suo progetto risenta ancora forte- mente dell’estetica barocca, la rotonda centrale con la sua cupola a la- cunari, le lunghe file di colonne, la mancanza di aggetti nella trabea- zione e le coperture a botte delle gallerie ai lati della galleria centrale sono rimarchevoli per una data così precoce. Il premio per un Salon des Arts, invece, fu vinto da Jean-René Billandel e la sua composizio- ne presenta al centro una rotonda a sei nicchie interne, alla quale si aggiungono tre bracci, i cui interstizi sono colmati da tripli colonnati, con una chiara impostazione barocca. Il tema del 1778-79 fu un museo per opere d’arte e di storia natura- le, un gabinetto per le stampe, uno per le medaglie e una biblioteca con studi per ricercatori. Vennero assegnati due primi premi: uno di essi andò a Guy de Gisors, sedicenne, l’altro a Jacques-François De- lannoy. Entrambi i progetti sono costituiti da un recinto quadrato con quattro cortili interni, dove le ali che li separano formano una croce greca; le facciate non hanno alcuna finestra ma portici a colonnati multipli e ulteriori colonnati dove è possibile; la scala è vasta, come in futuro sarebbe divenuto tipico di tutti i Grands Prix, e si ispira alla scala delle incisioni di Piranesi; le sale hanno per lo più coperture a botte e le aperture delle cupole centrali richiamano quelle del Pan- theon. Anche Boullé47 progettò un museo nel 1783: un recinto quadrato con una croce greca all’interno, una rotonda all’incrocio e dei vasti portici semicircolari in asse con i quattro lati esterni del quadrato; mentre la rotonda era destinata ad esporre le statue dei grands hom- mes, il museo vero e proprio doveva senza dubbio essere nei quattro bracci e nei quattro lati esterni dell’edificio. Dal punto di vista stilisti- co, Boullé andò molto al di là dei Grand Prix, compresi quelli succes- sivi al suo museo, la sua cupola, infatti, sorge direttamente dal suolo ed è completamente spoglia, esternamente non appare per nulla e si vede solo un tamburo coronato da un colonnato. 47 Etienne-Louis Boullé (1728-99) insegnava all’Ecole del Ponts et Chaussées dal 1747 ed era divenuto, nel 1762, membro dell’Accademia di architettura, è dun- que molto probabile che i progetti che i giovani architetti presentavano al Grand Prix, compresi quelli di Gisors e di Delannoy, fossero fortemente influen- zati dalla sua opera e dal suo insegnamento. 31
  • 32. I. Una «cultura del Museo» Successivamente, l’Accademia assegnò un altro soggetto museale, nel 1791: ciò che veniva richiesto era una galleria pubblica in un pa- lazzo reale. Il progetto di Charles Normand, vincitore del secondo premio, è più interessante di quello, primo classificato, di Claude- Matthieu Delagardette. Il suo museo è una splendida sequenza di splendide sale: un ingresso a volta ribassata, a un livello più basso del resto dell’edificio, l’ampio vano-scale, coperto a volta, in cui la scala sale con una lunga rampa diritta, sostenuta da colonne isolate, termi- nante in un’abside a lacunari; prosegue con altre sale a pianta deriva- ta dalle terme romane e una rotonda a Pantheon seguita da una lunga galleria coperta a botte. Il prototipo architettonico che si poneva alla base di tutti questi progetti, il Pantheon, appariva particolarmente adatto allo scopo in quanto era considerato allo stesso tempo il tempio dei dodici grandi dei dell’Olimpo, l’edificio antico meglio conservato e il luogo ideale, dato il tipo di illuminazione, per la presentazione delle statue. La cul- tura illuminista fece propri questi diversi aspetti, senza cogliere alcu- na contraddizione tra sacro e funzionale, tanto che il modello del tempio si trasmise a tutta l’architettura museografica del XIX seco- lo48 . Nei fatti però, almeno a Parigi, il progetto di un museo dove espor- re le collezioni reali non contemplò mai l’eventualità di costruire un nuovo edificio e i contributi richiesti agli architetti riguardarono piut- tosto la risistemazione di palazzi già esistenti, appartenenti alla Coro- na: il Luxembourg e, successivamente, il Louvre. L’Accademia d’architettura e un’apposita commissione furono consultate da d’Angiviller sulle questioni dell’illuminazione, della si- curezza e della tramezzatura della Grande Galérie e, in un rapporto del 4 aprile 1787 indirizzato al Direttore generale del Demanio reale riguardo all’allestimento del Louvre, i membri dell’Accademia si di- 48 Soprattutto in Germania, dove la filosofia dell’arte di Hegel si pose a fonda- mento della concezione architettonica del museo-tempio, pensato come luogo di contemplazione della bellezza. È il caso della Glittoteca di Monaco (1816-30), piccolo tempio in stile neo-greco, costruito per raccogliere i tesori della scultura classica da Von Klenze, e dell’Altes Museum di Berlino (1823-30), opera dell’ar- chitetto Schinkel, vero e proprio grande tempio destinato a essere il modello dei musei di tante capitali europee del XIX secolo. 32
  • 33. I. Una «cultura del Museo» chiararono sicuramente favorevoli all’illuminazione zenitale, a scapi- to della luce laterale proveniente dalle finestre. In questo modo le ombre sarebbero state proiettate verso il basso, col risultato di neu- tralizzare i riflessi abbaglianti che avrebbero pregiudicato la fruizione dei quadri49 . Quando, con la Rivoluzione e l’abolizione della monarchia, il pa- lazzo del Louvre divenne proprietà della Repubblica francese, il dirit- to per tutti di visitare, studiare e frequentare i musei sembrò potersi concretamente realizzare: nel Salon Carré furono esposti dei dipinti e gradualmente, sempre di più a partire dal 1800, nella Grande Galérie. Con le prede di guerra delle armate rivoluzionarie, la dimensione del- le collezioni aumentò e le vittoriose campagne napoleoniche fecero del Louvre il più grande e spettacolare dei musei d’Europa50 . Ben pre- sto miglioramenti architettonici seguirono questo successo e Percier e Fontaine furono incaricati da Napoleone di eseguire la nuova decora- zione della Grande Galérie nel 1805-10, dividendola in sei sale grandi e tre piccole, tutte illuminate lateralmente mentre, come si è visto, per il Salon Carré si era adottato un sistema di illuminazione zenitale già a partire dal 1789. Gli oggetti più preziosi della collezione furono sistemati nella Galérie d’Apollon, al primo piano si trovava la Garde- Meuble e sotto questa i vasi greci e le curiosità, mentre sotto la Galé- rie Henri II si trovavano gli archivi e la biblioteca. Capolavoro di Per- cier e Fontaine al Louvre, il monumentale vano-scale è ispirato senza dubbio a quello del museo Pio-Clementino. L’apice di ciò che i giovani architetti francesi avevano fatto nei loro progetti di musei per i concorsi e di ciò che era stato realizzato al Louvre è documentato nei Précis des Leçons di Durand51 , un manuale 49 In effetti, nel novembre 1788 si decise di installare a titolo sperimentale un dispositivo di illuminazione zenitale nel Salon Carré, dove ogni due anni si svol- geva la mostra dell’Accademia: nell’estate del 1789 i lavori erano terminati e l’e- sperimento considerato operativo. 50 «Nel 1794 vennero mandati a Parigi dal Belgio un centinaio di quadri, e ancora di più ne giunsero dall’Italia dopo il 1797. [...] Inoltre altre acquisizioni si aggiunsero per acquisto, come le Antichità dei Borghese, acquistate nel 1808 dal cognato di Napoleone Camillo Borghese, e alcuni Primitivi italiani [...] nel 1811» (N. Pevsner, «Musei», in: I luoghi del museo…, op. cit., pag. 54). 51 J. N. L. Durand, Précis des Leçons d’Architecture, vol. II, parte III, Des 33
  • 34. I. Una «cultura del Museo» che ebbe immensa influenza, perché in grado di fornire una risposta semplice e schematica alle esigenze legate alla creazione e alla diffu- sione del museo pubblico. Il modello proposto prevedeva una galle- ria, pensata come un percorso lineare cadenzato dagli oggetti esposti, alcune sale circolari e una rotonda, centro topologico ed elemento or- dinatore dell’intera composizione, non necessariamente legata a fun- zioni espositive ma a manifestazioni pubbliche e collettive. Il museo di Durand è stato definito come un organismo di citazioni52 , tratte o mediate dall’Antichità (il Pantheon, la basilica, le terme) e usate per stigmatizzare significati propri alle funzioni museali, ma anche con- cretamente aderente a queste funzioni. Il museo era pensato, allo stesso tempo, come luogo della conservazione e dell’esposizione dei reperti storico-artistici e come istituzione pubblica, luogo della cultu- ra collettiva, di conseguenza esso concorreva necessariamente alla co- struzione della città e al costituirsi della sua nuova identità borghese. Il museo «borghese» come veicolo di una nuova identità comune Il museo, che aveva acquisito, per la prima volta in Europa e nel mondo, la propria forma di «macchina culturale»53 con funzioni con- servative e educative stabilite nell’Italia del Manierismo e della Con- troriforma, conobbe ulteriori e determinanti sviluppi nel corso del XVIII secolo in Inghilterra e, soprattutto, in Francia. Profondamente diverso era il quadro politico-sociale della Francia assolutista da quello dell’Inghilterra, dove l’indebolimento progressi- vo dell’aristocrazia di origine feudale e il rafforzamento della borghe- sia finanziaria accompagnavano e favorivano il progredire della nuo- va scienza baconiana54 . Ma la politica culturale di Luigi XIV e del suo Muséums, 1817. 52 Luca Basso Peressut e Silvia Premoli, «Architettura, tipo e contesto nel progetto del museo», in: I luoghi del Museo..., op. cit., pag. 25. 53 L. Binni e G. Pinna, Museo. Storia e funzioni di una macchina culturale dal ‘500 a oggi, Milano, Garzanti, 1980. 54 Già nel maggio 1683 venne inaugurato all’università di Oxford un nuovo isti- tuto, al tempo stesso museo ashmoliano, scuola di storia naturale e laboratorio 34
  • 35. I. Una «cultura del Museo» ministro Colbert, fortemente caratterizzata dall’accentramento del gusto e della produzione artistica55 , riuscì a realizzare il superamento del tradizionale «tesoro del principe» nella raccolta d’arte complessa e investita di funzioni sociali più ampie, destinata all’educazione degli artisti e degli studenti di belle arti, oltre che al godimento di un ri- stretto numero di amatori privilegiati. L’organizzazione di regolari esposizioni d’arte contemporanea nel Salon Carré del Louvre, che eb- bero una funzione determinante nell’orientamento del gusto ufficiale, e il successivo allestimento di parte delle collezioni reali nel palazzo del Luxembourg sotto Luigi XV permisero a un pubblico più ampio di avvicinarsi alle opere d’arte. In Francia il progressivo realizzarsi del museo come istituzione culturale socialmente riconosciuta mi sembra accompagnarsi a quel più generale rinnovamento culturale, oltre che politico e sociale, che sviluppò le influenze dell’empirismo inglese in un’ottica pienamente borghese e che, nella propria battaglia contro il dogmatismo conser- vatore dell’Antico regime, maturò una marcata consapevolezza stori- co-politica. Nella loro polemica contro il principio di autorità, il dog- matismo religioso e ogni forma di fanatismo, infatti, i philosophes eb- bero da subito piena coscienza della propria originalità storica e del carattere di rottura rispetto al passato della propria lotta ideologica e pedagogica in favore della libertà di pensiero. Nella Francia del Re Sole, la borghesia, che era rimasta esclusa dal potere dall’assolutismo regio e dal privilegio aristocratico, in parte si infiltrò nell’apparato burocratico statale, ma più che altro organizzò la sua opposizione e il suo dissenso fuori e contro i poteri costituiti. In questo modo si venne a creare una separazione sempre più radica- di chimica: il museo, aperto al pubblico, esponeva la collezione che Elias Ash- mole, un ricco appassionato di storia, genealogia, numismatica nonché di bota- nica, astrologia e alchimia, aveva donato all’università dieci anni prima. Con- temporaneamente, la cancelleria dell’università decise di avviare un nuovo corso sperimentale di storia naturale, secondo lo spirito di ciò che veniva chiamata la «nuova filosofia», cioè secondo il programma tracciato dal filosofo Francis Bacon. 55 Gli incarichi statali, gli stipendi e le pensioni destinate agli artisti, l’istituzione dell’Accademia, della Scuola di Roma e della Regia Manifattura costituirono altrettante espressioni della politica culturale accentratrice di Luigi XIV. 35
  • 36. I. Una «cultura del Museo» le tra le sedi del potere ufficiale e la vita della società nella quale an- davano emergendo nuovi valori collettivi, ai quali diedero voce e for- ma compiuta gli intellettuali, che divennero l’espressione di quella classe borghese in ascesa che, priva di potere, cercava nella cultura una sua legittimazione e, nella prefigurazione di diversi assetti socia- li, il luogo privilegiato delle proprie potenzialità56 . È noto che l’ideale illuministico trovò nella pubblicazione dell’En- cyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des mé- tiers, pubblicato in 34 volumi tra il 1751 e il 1780 una forma di espressione estremamente significativa e un efficace veicolo di divul- gazione. Nelle pagine dell’Encyclopédie, infatti, la volontà di rompere con la cultura tradizionale e con il conservatorismo politico e religio- so che avevano strutturato il sapere e la vita sociale su una sequenza di gerarchie incontestabili, porta alla riorganizzazione dell’intero pa- trimonio culturale occidentale. Alla base del tanto auspicato rinnova- mento del sapere, nel nome della sua utilità e socialità, si poneva l’e- ducazione, intesa non più come insegnamento di convenzioni e regole comportamentali da parte di classi sociali destinate a confermare un ordine gerarchico precostituito e immutabile, bensì come strumento in grado di agire sull’intelligenza di ciascun individuo. L’altissimo valore, sia culturale sia politico, che gli intellettuali illu- ministi attribuivano all’istruzione fece proprie due tendenze altret- tanto gravide di conseguenze per lo sviluppo delle istituzioni educati- ve del periodo rivoluzionario, non ultimo il museo. Da un lato, in un’ottica cosmopolita, filosofi e pensatori posero l’accento sull’effica- cia dell’educazione se messa in rapporto all’umanità nel suo comples- so, nella convinzione che l’insegnamento non dovesse chiudere i gio- vani nell’orizzonte limitato della comunità nazionale, bensì sviluppa- re in ciascuno il senso di appartenenza alla grande famiglia umana57 ; 56 Vegetti, Alessio, Fabietti, Papi, Filosofia e società, II, La filosofia nell’epoca moderna e le rivoluzioni scientifica religiosa e politica, Zanichelli editore, Bolo- gna, 1981, pag. 528. 57 Lo stesso Quatremère de Quincy, nelle sue Lettres à Miranda, afferma di par- lare come cittadino della «repubblica generale delle arti e delle scienze», una comunità ideale e insieme concreta affrancata dai vincoli nazionali, nata con il diffondersi dei Lumi. (A.C. Quatremère de Quincy, Lettres sur le préjudice…, op. cit., lettera I, pag. 114). 36
  • 37. I. Una «cultura del Museo» dall’altro, invece, si ribadì la responsabilità dello stato in ambito edu- cativo, e si considerò l’istruzione una funzione sociale e pubblica in grado di migliorare il benessere dei cittadini e di creare un nuovo spi- rito civico, cioè un diverso legame tra lo stato e il cittadino. Il sapere teorico e pratico dell’Encyclopédie era incompatibile con la cultura tradizionale e con i suoi riti autocelebrativi, inoltre, il pri- mato della scoperta e della trasformazione che esso andava afferman- do a scapito della rappresentazione ripetitiva e della stasi sociale ne fecero un naturale alleato del pensiero rivoluzionario, che saldava la rivendicazione di un nuovo assetto politico-sociale a più generali aspirazioni di rinnovamento culturale. «Ma, per quanto poco eroica sia la società borghese, per metterla al mondo erano però stati necessari l’eroismo, l’abnegazione, il terro- re, la guerra civile e le guerre tra i popoli. E i suoi gladiatori avevano trovato nelle austere tradizioni classiche della repubblica romana gli ideali e la forme artistiche, le illusioni di cui avevano bisogno per dis- simulare a se stessi il contenuto grettamente borghese delle loro lotte e per mantenere la loro passione all’altezza della grande tragedia sto- rica»58 . Karl Marx ha messo magistralmente in luce come la borghe- sia, quando uscì vincitrice dalle battaglie della Rivoluzione francese, avvertisse fortemente la necessità di consolidarsi come classe dirigen- te e di costituire la propria base sociale di consenso e, sul piano cultu- rale, quella di mettere in opera un sistema ideologico proprio. Non avendo radici in nessuna delle culture stabilite, quella aristocratica e religiosa, da un lato, e quella popolare urbana e rurale, dall’altro, essa vi attinse liberamente, ponendo fine alla loro autonomia relativa e al loro ordine gerarchico, per costruirsi una nuova identità culturale59 . È lecito supporre che il museo, già terreno di contesa tra aristocra- zia e philosophes, che ne avevano ripetutamente rivendicato l’uso pubblico, si rivelasse uno strumento perfettamente funzionale alla cultura dello stato borghese, che intendeva farsi carico dell’educazio- ne e dello sviluppo del senso estetico dei cittadini. In un’epoca carat- 58 Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma, 1991, pag. 9. 59 L. Krier e D. Porphyrios, Introduction, in: A. C. Quatremère de Quincy, De l’imi- tation, Bruxelles, Archives d’architecture moderne, 1980, pag. XIII-XXXIV. 37
  • 38. I. Una «cultura del Museo» terizzata da una concezione generosa dei rapporti dell’arte con la so- cietà e lo stato60 , derivata dalle teorie filosofiche dell’Illuminismo, il cui spirito critico si era ripetutamente interrogato sull’utilità delle arti, sulla loro influenza e sul modo di trarne beneficio per l’umanità, nonché sulla loro funzione moralizzatrice e democratica, il culto del- l’Antichità stimolava il desiderio di imitare le repubbliche greche, nelle quali si era realizzato il legame perfetto tra arte e vita pubblica. Di conseguenza estremamente radicata era la convinzione che le belle arti dovessero rientrare nella legislazione di un buon governo, sia perché esse prosperano maggiormente se protette dallo stato, sia per- ché, data la loro influenza politica e sociale, lo stato deve assumersi il compito di sorvegliarle e dirigerle. In questo senso il museo si trovava a svolgere una duplice funzione: forniva agli artisti un insegnamento complementare o equivalente a quello accademico, proponendosi quale fonte di modelli estetici attestati dalla tradizione, e organizzava, all’interno di un ordine razionale, la tradizione stessa, una storia este- tica e culturale «ufficiale» nella quale riconoscersi. Il pubblico, infat- ti, non era più costituito solo dagli intellettuali e dai conoscitori ma si era allargato fino a comprendere anche il popolo, vale a dire la picco- la borghesia e la popolazione urbana, al quale il museo era in grado di offrire un’identità comune. Proprio l’allargamento del pubblico sembra costituire la grande novità del museo post-rivoluzionario: non più espressione di un ri- stretto gruppo sociale (la corte) ma di una classe sociale in ascesa, esso non si identificava più col «tesoro del principe», prezioso e ab- bagliante, dotato di qualità politiche implicite, ma costituiva ormai una macchina esplicitamente politica, immediatamente funzionale alle esigenze del nuovo potere e della nuova organizzazione sociale. La borghesia al potere, con una sorprendente capacità di assimilazio- ne e trasformazione della propria eredità culturale, non aveva fatto altro che dare nuovo lustro a riti assolutamente familiari per le caste dominanti e, per celebrare il proprio trionfo, si era impadronita dei segni celebri del potere aristocratico. Con il dinamismo intellettuale e organizzativo di una classe in ascesa, essa aveva trasformato le occa- sionali e parziali raccolte aristocratiche in un progetto di museo «to- 60 F. Benoit, L’art français dans la Révolution et l’Empire, Paris, 1897, pag. 3. 38
  • 39. I. Una «cultura del Museo» tale», capace di parlare il linguaggio del potere e di trasmetterlo ad un pubblico sempre più largo. Infatti i quattro musei che il nuovo sta- to rivoluzionario istituì, attraverso decreti della Assemblea legislativa e della Convenzione, erano dedicati ognuno a una specifica disciplina, investiti di motivazioni e funzioni esplicitamente dichiarate: il Musée Central des Arts, poi Musée National, dedicato alle arti figurative, al- lestito nel palazzo del Louvre, il cui compito era l’educazione ai valori della nazione francese, erede di Atene e di Roma nell’egemonia sul- l’Europa; il Musée des Monuments français, dove erano esposti, con intenti celebrativi, i monumenti della storia nazionale; il Musée d’hi- stoire naturelle e infine il Musée des Arts et Métiers, dedicati allo svi- luppo del pensiero scientifico e alle sue pratiche applicazioni. 39
  • 40. II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte La dottrina artistica che si sviluppò in Francia durante la seconda metà del XVIII secolo si esprimeva attraverso la pubblicazione di trattati che, ispirati da problemi attuali, partivano da una riflessione sulla situazione delle arti nell’Antichità, e in particolare in Grecia, per applicarla alla situazione francese. Il riferimento all’antico è palese nelle Considérations sur les arts du dessin, che Quatremère de Quin- cy pubblicò nel 1791, primo vero trattato teorico sulle arti della Fran- cia rivoluzionaria in cui l’autore riassumeva, con la chiarezza alla quale aveva da qualche anno abituato i suoi lettori, i termini e i pro- blemi del dibattito che si era avviato sulle finalità e le condizioni della creazione artistica in una nazione «rigenerata dalla libertà», della quale egli intendeva imporsi come arbitro riconosciuto: «[...] Questo saggio di teoria, dove cercherò quali sono le cause e le condizioni in- dispensabili al successo delle arti del disegno; qual è la misura della Francia a questo proposito; quale interesse essa trova nell’esercizio di tali arti; quali mezzi essa può impiegare per la loro cultura e quale sarà il modo delle istituzioni che favoriscono questa cultura»61 . Parallelamente, la presa in considerazione dell’eredità artistica dell’Antico regime, dopo l’adozione, alla fine del 1793, e il consolidar- si nell’anno II62 di una politica di conservazione di cui il museo era il 61 A.C. Quatremère de Quincy, Considérations sur les arts du dessin en France…, op. cit., Introduction, pag. XIV. 62 Il 10 agosto 1793, anniversario della caduta della monarchia, fu inaugurato il Musée Central des Arts: «Dall’inizio dell’anno il discorso politico sulle arti pre- parava questo avvenimento: quello di una cultura ereditata e assunta come una conquista» (E. Pommier, L’art de la liberté..., op. cit., pag. 120). Ma è alla luce dell’Instruction dell’anno II che tutte le misure e i testi che, a partire dal 1790, avevano tentato di fondare una politica del patrimonio artistico assumono un senso compiuto: redatta per conto della Commission temporaire des arts, di cui era membro, da Félix Vicq d’Azir, medico e scienziato, l’Instruction sur la manière d’inventoirier et de conserver, dans toute l’étendue de la République, tous les objets qui peuvent servir aux arts, aux sciences et à l’enseignement venne presentata al Comitato d’istruzione pubblica della Convenzione il 14 gen- naio 1794 (Ibid., pag. 141-148). 40
  • 41. II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte prolungamento istituzionale, favoriva l’emergere di un discorso stori- co sulle arti del passato e, in particolare, sul periodo oscuro che sepa- rava l’Antichità dal Rinascimento e sul quale le tempeste rivoluziona- rie gettavano una luce ancora incerta, ma in qualche modo favorevole ad un nuovo sguardo. L’intrecciarsi di due temi, dunque, mi sembra caratterizzare il di- battito artistico: da un lato il riferimento alla Grecia classica, un rife- rimento d’obbligo dopo Winckelmann, quale esempio di inarrivabile perfezione e termine di paragone di ogni sviluppo successivo della produzione artistica occidentale; dall’altro, l’esigenza di una storia dell’arte in grado di integrare all’interno di un discorso coerente le tappe di un tale sviluppo. In entrambi i casi, il museo, pensato ora come luogo del contatto diretto coi capolavori dell’arte antica e rina- scimentale, ora come deposito in cui conservare i monumenti medie- vali della storia di Francia, sembrava fornire delle risposte inedite. In questo capitolo, innanzi tutto, ho tentato di chiarire i termini e le implicazioni della tradizione classica francese tra Rivoluzione e Im- pero, l’influsso profondo operato su di essa dai Pensieri sull’imitazio- ne e dalla Storia dell’arte nell’antichità di Winckelmann63 e la lettura particolarissima che se ne fece. Contemporaneamente, ho seguito l’e- mergere della dimensione storica all’interno del discorso sulle arti, a proposito della quale il debito evidente nei confronti di Winckelmann 63 In Francia, una traduzione in sunto dei Pensieri sull’imitazione era apparsa sulla Nouvelle bibliothèque germanique tra la fine del 1755 e l’inizio del 1756, contemporaneamente ad un’altra traduzione pubblicata sul Journal étranger. Nel 1765 Jean Baptiste Antoine Suard (1733-1817), coeditore del Journal étran- ger, aveva pubblicato sulla Gazette de l’Européen una traduzione dei Pensieri basata sulla versione italiana. Ad ogni modo è significativo che, nel 1757, il testo di Winckelmann fosse stato alla base dell’articolo che l’Encyclopédie dedica ai Greci. La Storia dell’arte nell’antichità, invece, era stata pubblicata nel 1766, in una cattiva traduzione di cui lo stesso Winckelmann si dichiarò scontento, e nel 1781, Michel Hubert (1727-1804) pubblicò la propria traduzione, presentandola non solo come correzione della precedente, ma anche come compensazione alle carenze dell’edizione tedesca. A proposito della pubblicazione e ricezione delle idee di Winckelmann in Francia, si veda E. Pommier, «Winckelmann et la vision de l’Antiquité classique dans la France des Lumières et de la Révolution», in: Revue de l’art, 83, 1989, pag. 9-20. 41
  • 42. II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte si intrecciava alle specifiche esigenze di conservazione e gestione del patrimonio storico-artistico francese. La lettura delle Considérations sur les arts du dessin di Quatremère de Quincy mi ha permesso di fare luce principalmente sul primo aspetto, mentre i primi, discutibili ma ammirevoli tentativi di elaborare una storia dell’arte francese sono esemplificati dall’originale vicenda del Musée des Monuments français. L’ideale classico tra passato e futuro Nei Pensieri sull’imitazione, scritti poco prima di lasciare Vienna per Roma, Johann Joachim Winckelmann aveva elaborato alcuni concetti che sarebbero rimasti, in buona sostanza, a fondamento di tutta la sua successiva riflessione storico-artistica e che avrebbero tracciato le linee guida lungo le quali si mossero i rappresentanti di quel periodo della storia dell’arte e del pensiero estetico che chiamia- mo Neoclassicismo. In particolare, assunse carattere paradigmatico e di «manifesto»64 teorico dell’estetica neoclassica il motivo della nobi- le semplicità e quieta grandezza, che sarebbe come dire il sigillo di garanzia dei capolavori greci: «[...] la generale e principale caratteri- stica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta gran- dezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superfi- cie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata»65 . Nella visione winckel- manniana dell’esemplarità intrinseca dell’arte greca, dunque, era pre- sente una tensione morale, una rigorosa disciplina etica non estra- nea, trent’anni dopo, alla riscoperta dei valori repubblicani nel mon- do antico da parte della cultura francese dell’Ottantanove, nella quale «era in gioco la ricerca di una nuova ‘totalità’, capace di compenetra- 64 R. Assunto, L’antichità come futuro. Studio sull’estetica del neoclassicismo europeo, U. Mursia & C., Milano, pag. 21. 65 J.J. Winckelmann, Gedanken uber die Nachahmung der Griechischen Werke in der Mahlerey und Bildhauer Kunst, Dresda, 1755, trad. it. a cura di F. Pfister, in Il bello nell’arte. Scritti sull’arte antica, Torino, 1988, pag. 29. 42
  • 43. II. Il riferimento all'antichità e l'emergere della dimensione storica delle opere d'arte re (nei gusti personali e nei riti pubblici, nelle forme della vita priva- ta, come l’abbigliamento e gli arredi, e in quelle della celebrazione collettiva: i teatri, le feste) tanto l’ambito individuale quanto la sfera sociale»66 . La cultura francese colse, infatti, nel pensiero di Winckelmann, ac- canto alla polemica antibarocca e antirococò, soprattutto la volontà di indicare le linee programmatiche, i presupposti teorici di un’arte che, modellandosi sulla nobile semplicità e quieta grandezza che caratte- rizzava le opere degli Antichi, doveva ripristinare sulla terra una nuo- va età dell’oro. Questo configurarsi dell’Antichità come valore da rea- lizzarsi nel mondo futuro, ideale prospettico e principio operativo, non solo retrospettivo, fondamentale in tutto il pensiero neoclassico, colorò di sé le speranze di chi, nella Francia «liberata dalla Rivoluzio- ne», voleva fare di Parigi una nuova Atene, sviluppando in senso «quiritario-spartano»67 il rapporto arte-libertà che Winckelmann aveva enunciato come fondamento del bello. Dopo Winckelmann, insomma, il riferimento agli Antichi non si- gnificò più uno sguardo nostalgico verso un ideale perduto per sem- pre ma l’intenzione di realizzare concretamente nel futuro il bello ideale, in quanto valore storico. «Le più pure sorgenti dell’arte sono aperte: felice chi le trova e vi si abbevera. Cercare queste sorgenti, si- gnifica incamminarsi alla volta di Atene»68 : così si legge nel quinto paragrafo dei Pensieri sull’imitazione, dove, secondo Rosario Assun- to, si trova già segnata la strada verso la storicizzazione del bello idea- le, verso quel «domandarsi non soltanto in che cosa consistesse la bellezza dell’arte per cui gli antichi sono per noi un modello inarriva- bile, ma perché e come i Greci conseguirono quel livello artistico, quali circostanze li resero capaci di tanto»69 , passando in questo modo, a proposito della fondazione del bello classico, dal piano meta- fisico a quello storico-sociale. Facendosi annunciatore e apologeta del 66 P. Chiarini, «Metamorfosi del classico: dal ‘platonismo stoico’ di Winckelmann al ‘platonismo post-moderno’ di Schinkel», in: J.J. Winckelmann tra lettera- tura e archeologia, a cura di M. Fancelli, Marsilio, Venezia, 1993, pag. 15-16. 67 R. Assunto, L’antichità come futuro…, op. cit., pag. 87. 68 J. J. Winckelmann, Gedanken…, op. cit., omesso nella traduzione italiana. 69 R. Assunto, L’antichità come futuro…, op. cit., pag. 70. 43