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CAPITOLO 8 - EPISTOLE
Sono tredici lettere latine, le poche superstiti delle molte che Dante scrisse
durante gli anni del suo esilio, e che andarono disperse, restandoci di alcune di esse se
non vaghe e sommarie notizie. Tali appunto le lettere di cui fanno cenno Giovanni Villani
e Leonardo Bruni, e che Dante indirizzò al popolo di Firenze e a particolari cittadini di
governo, rammaricandosi del suo esilio senza colpa e ricordando le sue benemerenze
verso la patria, non ultima delle quali la sua partecipazione alla battaglia di Campaldino.
Varie di contenuto e assai disuguali di valore, e tuttavia uniformi nel loro
linguaggio intellettualmente sostenuto e teso secondo le rigide norme del ritmo ("cursus")
e le formule tradizionali dello stile prosastico epistolare, esse costituiscono un documento
significativo della cultura di Dante: una cultura che, nei diversi aspetti sotto i quali essa si
presenta, non vela né deforma l'immagine spirituale di lui, gentiluomo e letterato,
cittadino e uomo di parte, pensatore e poeta, consapevole sempre della sua dignità e della
sua grandezza morale. Cronologicamente prima tra le lettere superstiti è quella indirizzata
al cardinale Niccolò da Prato, legato della Santa Sede in Toscana (1304).
Dante la scrisse in nome del capitano Alessandro da Romena dei conti Guidi e del
consiglio e università di Parte Bianca. Con dignitosa fermezza di propositi e di intenti
egli dà voce alla riconoscenza dei Bianchi per l'opera di pacificazione promossa dal
cardinale nella loro travagliata città; e li dichiara pronti a cooperare con lui, protestando
essi d'aver prese le armi se non per ripristinare le leggi del vivere civile e assicurare al
popolo fiorentino la libertà e la pace. Dello stesso anno (1304), e prima che Dante si
staccasse dalla lega dei fuorusciti Bianchi, è la lettera di condoglianze ai conti Oberto e
Guido da Romena per la morte del loro zio Alessandro esaltandone la gloriosa memoria.
Dante, "espulso dalla sua patria ed esule senza colpa", confessa che in lui aveva riposto
tutte le sue speranze; e si scusa di non esser potuto intervenire alle esequie, per
l'"improvvisa povertà cagionatagli dall'esilio", senza avere possibilità alcuna di uscire da
tali angustie.
A motivi poetici d'arte e di vita, di passione e d'amore ci riportano due lettere,
l'una diretta a Cino da Pistoia, e l'altra al marchese Moroello Malaspina. Nella prima, a
Epistole 107
richiesta di Cino, Dante risolve la questione se l'anima, qualora sorga un nuovo amore,
possa darsi tutta e con la stessa pienezza alla nuova passione; e a conferma della
soluzione positiva da lui dichiarata, egli invia all'amico il sonetto "Io sono stato con
Amore insieme".
Nella seconda lettera Dante racconta come, partitosi dalla corte dei Malaspina
(1307) e giunto nel Valdarno casentinese, s'innamorasse follemente d'una giovine donna,
presentando a testimonianza di un tale amore "dispotico e tiranno" la bella canzone che
ne scrisse: "Amor, da che convien pur ch'io mi doglia".
Ma tra le epistole a noi pervenute primeggiano, per commossa eloquenza di stile
biblico e vigoroso impeto di ispirazione, le tre lettere scritte in occasione della discesa in
Italia di Arrigo VII di Lussemburgo. Qui la figura di Dante, in mirabile armonia di
pensiero e d'azione, s'aderge netta e decisa sullo sfondo degli avvenimenti storici, dai
quali egli sperava il costituirsi di un ordine nuovo a salvezza dell'Italia e della vita
cristiana cattolica. Poco prima che l'atteso imperatore valicasse le Alpi (settembre-ottobre
1310) Dante sentì il bisogno di annunziare a tutti ("re, senatori, duchi, marchesi, conti e
popoli d'Italia") i prossimi giorni di consolazione e di pace. Arrigo VII, "divo e augusto e
cesare", veniva a liberare l'Italia dagli empii; misericordioso e giusto con chi gli si
affidava, duro e implacabile contro i ribelli. Dante esortava i Lombardi ad accoglierlo
con devozione, riconoscendo in lui quell'autorità che procede da Dio e contro la quale è
vano recalcitrare. Rincorava coloro che avevano sofferto per amore della giustizia e li
consigliava al perdono, per esser degni di colui che li avrebbe giudicati con affetto e
fiducia. Spronava tutti gli Italiani a farsi incontro al loro re, serbati a lui non solo in
quanto monarca universale, ma ancora, come liberi cittadini, in quanto loro governatore
diretto ("Evigilate igitur omnes et assurgite regi vestro, incolae Latiales, non solum sibi
ad imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati").
E tutti, dalle Alpi al mare, avrebbero dovuto riconoscerlo come loro signore,
essendo la sua giurisdizione quella stessa dell'Impero di Roma, predestinato da Dio al
governo del mondo e in ciò riconfermato dalla parola di Cristo. Al contatto della realtà
storica, il pensiero politico che Dante aveva teorizzato nel Convivio si concreta in lui
nell'immagine lirica di un'umanità civilmente ordinata "ad unum" e strettamente
congiunta da un comune amore e da una comune difesa della libertà e della giustizia. E
Epistole 108
quest'immagine lirica, di cui l'Impero di Roma, per volontà divina, era stato la
realizzazione storica più vasta e complessa, si fa in lui orientatrice di una fervida attività,
che lo spinge a minacciare e a maledire chiunque si opponesse al nuovo imperatore.
Non è altro il motivo poetico che anima la lettera datata dai confini della Toscana,
presso le sorgenti dell'Arno, il 31 marzo 1311, e diretta dall'"esule senza colpa" agli
"scelleratissimi fiorentini" che sono dentro la città. L'Impero di Roma, vi si dice, fu
voluto dalla Provvidenza divina per assicurare nel mondo la pace e con la pace lo
svolgimento della vita civile. Questa verità, confermata dalla fede e dalla ragione, è
provata dal fatto che, vacando l'impero, tutto il mondo vacilla: la Chiesa è inoperosa e la
misera Italia, in balia di private signorie, è agitata e sconvolta come nave in tempesta. I
Fiorentini conculcano le leggi divine e umane, opponendosi all'autorità dell'imperatore
romano, i cui diritti non possono subire prescrizione e le cui leggi sono ordinate al bene
di tutti.
E perciò temano essi la vendetta di Dio, se non quella di Cesare, che certamente
porterà nella loro città il terrore e la desolazione, la distruzione e le stragi. Accecati dalla
cupidigia, essi si negano alle leggi imperiali che sono fondate sulla giustizia naturale e
assicurano perciò, a chi le osserva, la libertà perfetta. Si ravvedano, prima di un
pentimento inutile e tardo, pensando che Arrigo s'è mosso per il bene di tutti, non per sua
propria utilità, "sostenendo le nostre infirmità e addossandosi il peso dei nostri dolori".
Frattanto Arrigo VII indugia nella valle del Po e trascura la Toscana; e allora dalla
Toscana, presso le fonti dell'Arno, il 18 aprile 1311, Dante gli scrive una lettera, per
esortarlo, a nome suo e di tutti gli altri esuli, a passare l'Appennino.
L'ansia della pace, sognata nell'amore di Dio e del prossimo, e il ricordo delle
speranze, concepito al primo giungere di Arrigo VII in Italia, costituiscono i motivi
poetici di questa lettera, dettata dal timore di una delusione amara. "Sei tu colui che deve
venire o ne aspettiamo un altro?" domanda Dante ad Arrigo: e poiché gli esuli credono e
sperano in lui, riconoscendolo per ministro di Dio e figlio della Chiesa e assertore della
gloria di Roma, insieme con loro egli lo invita a scendere in Toscana, per colpire e
abbattere Firenze, la pecora appestata che contamina il gregge. Così essi potranno
finalmente esser rimessi in patria e, in quanto cittadini, riposare in quella vera pace che è
retaggio di Cristo.
Epistole 109
Di scarso interesse sono le tre lettere di ossequio scritte in nome della contessa
Gherardesca di Battifolle e dirette a Margherita di Brabante, consorte di Arrigo VII
(1311). Rientra invece nel novero delle politiche la lettera inviata, subito dopo la morte di
Clemente V (maggio o giugno 1314), ai cardinali italiani, perché s'accordassero a
eleggere un pontefice che riportasse a Roma la sede papale. Come Geremia pianse sulle
sorti di Gerusalemme, così Dante piange sul misero stato di Roma, "vedova e
abbandonata, dopo le pompe di tanti trionfi, dopo che Cristo con la parola e con l'opera le
confermò l'impero del mondo, dopo che Pietro e Paolo la consacrarono sede apostolica
col proprio sangue".
Causa di tale rovina è stata la negligenza dei principi della Chiesa e la loro
venalità, generatrice di empietà e d'ingiustizia; e contro di loro Dante, "ultima pecorella
di Cristo", ma insieme con tutto il popolo cristiano, si scaglia, per amore di verità e santo
zelo delle cose di Dio. I cardinali italiani, e singolarmente tra essi Napoleone Orsini e
Francesco Caetani, si dolgano, ripensando a Roma, "comune principio della nostra
civiltà" e ora priva dell'uno e dell'altro dei suoi luminari; e si vergognino essi e insieme si
stringano contro l'obbrobrio dei Guasconi e combattano "per la Sposa di Cristo, per la
sede della Sposa, che è Roma, e per l'Italia nostra, anzi per l'intera università dei cristiani
peregrinanti sulla terra". Così la funzione storica e provvidenziale di Roma, imperiale e
cristiana, ravvalorava in Dante la sua fede di credente e la sua passione d'italiano.
La lettera all'"Amico fiorentino", con la quale, dopo circa quindici anni d'esilio,
Dante respinge (maggio 1315) la possibilità di ritornare in patria mediante l'offerta a San
Giovanni, è una testimonianza luminosa della sua magnanima fierezza. Esule senza
colpa, egli si esalta nella sua propria innocenza e sente di non dover umiliare la sua
dignità di uomo, "banditore della giustizia". Se in Firenze non si entri per altra via che
non deroghi in nulla alla fama e all'onore di lui, egli in Firenze non entrerà giammai.
"Non potrò io forse contemplare le spere del sole e delle stelle? Non potrò io meditare le
dolcissime verità sotto qualunque cielo, senza che io prima torni a Firenze inglorioso,
anzi ignominioso agli occhi dei miei concittadini? E certo anche un pane non mi
mancherà".
Ultima in ordine di tempo è la lettera a Cangrande della Scala, con la quale Dante,
dedicandogli il Paradiso, gliene accompagna alcuni canti. Per considerare la terza cantica
Epistole 110
in se stessa e in relazione alle altre cantiche, egli dichiara la materia, la forma e il titolo
della Divina Commedia, e quindi il suo fine ultimo e il genere di filosofia (etica) a cui
essa s'ispira. Commenta poi il prologo del Paradiso e ne accenna il contenuto, spiegando
in che consista la beatitudine, che è visione soprannaturale di Dio. Dell'autenticità di
questa lettera si discusse a lungo e si discuterà ancora, fino a quando non saranno lasciati
da parte i pregiudizi tradizionali e le soggettive esigenze di una critica puntuale, che si
compiace di se stessa nelle sue logiche costruzioni. Certo è che nell'epistola a Cangrande
si presentano fissate per la prima volta, e dentro una salda inquadratura di pensiero, le
linee maestre di un'interpretazione globale della Divina Commedia, dove si segua,
attraverso l'esperienza poetica di Dante, la natura umana nelle sue condizioni di esistenza
e di vita e nel suo fine ultimo, che è la conoscenza sperimentale di Dio ("in sentiendo
veritatis principium"). Il sicuro dominio della materia, nelle reciproche relazioni delle
singole parti col tutto, e la lucida esposizione di concetti che nel poema sacro si risolvono
tutti, per virtù d'arte, in rappresentazioni gravide di contenuto spirituale (Divina
Commedia), sono in tutto conformi alla dottrina personale di Dante e al pensiero
scolastico del suo tempo.
Epistole 111
in se stessa e in relazione alle altre cantiche, egli dichiara la materia, la forma e il titolo
della Divina Commedia, e quindi il suo fine ultimo e il genere di filosofia (etica) a cui
essa s'ispira. Commenta poi il prologo del Paradiso e ne accenna il contenuto, spiegando
in che consista la beatitudine, che è visione soprannaturale di Dio. Dell'autenticità di
questa lettera si discusse a lungo e si discuterà ancora, fino a quando non saranno lasciati
da parte i pregiudizi tradizionali e le soggettive esigenze di una critica puntuale, che si
compiace di se stessa nelle sue logiche costruzioni. Certo è che nell'epistola a Cangrande
si presentano fissate per la prima volta, e dentro una salda inquadratura di pensiero, le
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veritatis principium"). Il sicuro dominio della materia, nelle reciproche relazioni delle
singole parti col tutto, e la lucida esposizione di concetti che nel poema sacro si risolvono
tutti, per virtù d'arte, in rappresentazioni gravide di contenuto spirituale (Divina
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CAPITOLO 8 - EPISTOLE

  • 1. CAPITOLO 8 - EPISTOLE Sono tredici lettere latine, le poche superstiti delle molte che Dante scrisse durante gli anni del suo esilio, e che andarono disperse, restandoci di alcune di esse se non vaghe e sommarie notizie. Tali appunto le lettere di cui fanno cenno Giovanni Villani e Leonardo Bruni, e che Dante indirizzò al popolo di Firenze e a particolari cittadini di governo, rammaricandosi del suo esilio senza colpa e ricordando le sue benemerenze verso la patria, non ultima delle quali la sua partecipazione alla battaglia di Campaldino. Varie di contenuto e assai disuguali di valore, e tuttavia uniformi nel loro linguaggio intellettualmente sostenuto e teso secondo le rigide norme del ritmo ("cursus") e le formule tradizionali dello stile prosastico epistolare, esse costituiscono un documento significativo della cultura di Dante: una cultura che, nei diversi aspetti sotto i quali essa si presenta, non vela né deforma l'immagine spirituale di lui, gentiluomo e letterato, cittadino e uomo di parte, pensatore e poeta, consapevole sempre della sua dignità e della sua grandezza morale. Cronologicamente prima tra le lettere superstiti è quella indirizzata al cardinale Niccolò da Prato, legato della Santa Sede in Toscana (1304). Dante la scrisse in nome del capitano Alessandro da Romena dei conti Guidi e del consiglio e università di Parte Bianca. Con dignitosa fermezza di propositi e di intenti egli dà voce alla riconoscenza dei Bianchi per l'opera di pacificazione promossa dal cardinale nella loro travagliata città; e li dichiara pronti a cooperare con lui, protestando essi d'aver prese le armi se non per ripristinare le leggi del vivere civile e assicurare al popolo fiorentino la libertà e la pace. Dello stesso anno (1304), e prima che Dante si staccasse dalla lega dei fuorusciti Bianchi, è la lettera di condoglianze ai conti Oberto e Guido da Romena per la morte del loro zio Alessandro esaltandone la gloriosa memoria. Dante, "espulso dalla sua patria ed esule senza colpa", confessa che in lui aveva riposto tutte le sue speranze; e si scusa di non esser potuto intervenire alle esequie, per l'"improvvisa povertà cagionatagli dall'esilio", senza avere possibilità alcuna di uscire da tali angustie. A motivi poetici d'arte e di vita, di passione e d'amore ci riportano due lettere, l'una diretta a Cino da Pistoia, e l'altra al marchese Moroello Malaspina. Nella prima, a Epistole 107
  • 2. richiesta di Cino, Dante risolve la questione se l'anima, qualora sorga un nuovo amore, possa darsi tutta e con la stessa pienezza alla nuova passione; e a conferma della soluzione positiva da lui dichiarata, egli invia all'amico il sonetto "Io sono stato con Amore insieme". Nella seconda lettera Dante racconta come, partitosi dalla corte dei Malaspina (1307) e giunto nel Valdarno casentinese, s'innamorasse follemente d'una giovine donna, presentando a testimonianza di un tale amore "dispotico e tiranno" la bella canzone che ne scrisse: "Amor, da che convien pur ch'io mi doglia". Ma tra le epistole a noi pervenute primeggiano, per commossa eloquenza di stile biblico e vigoroso impeto di ispirazione, le tre lettere scritte in occasione della discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo. Qui la figura di Dante, in mirabile armonia di pensiero e d'azione, s'aderge netta e decisa sullo sfondo degli avvenimenti storici, dai quali egli sperava il costituirsi di un ordine nuovo a salvezza dell'Italia e della vita cristiana cattolica. Poco prima che l'atteso imperatore valicasse le Alpi (settembre-ottobre 1310) Dante sentì il bisogno di annunziare a tutti ("re, senatori, duchi, marchesi, conti e popoli d'Italia") i prossimi giorni di consolazione e di pace. Arrigo VII, "divo e augusto e cesare", veniva a liberare l'Italia dagli empii; misericordioso e giusto con chi gli si affidava, duro e implacabile contro i ribelli. Dante esortava i Lombardi ad accoglierlo con devozione, riconoscendo in lui quell'autorità che procede da Dio e contro la quale è vano recalcitrare. Rincorava coloro che avevano sofferto per amore della giustizia e li consigliava al perdono, per esser degni di colui che li avrebbe giudicati con affetto e fiducia. Spronava tutti gli Italiani a farsi incontro al loro re, serbati a lui non solo in quanto monarca universale, ma ancora, come liberi cittadini, in quanto loro governatore diretto ("Evigilate igitur omnes et assurgite regi vestro, incolae Latiales, non solum sibi ad imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati"). E tutti, dalle Alpi al mare, avrebbero dovuto riconoscerlo come loro signore, essendo la sua giurisdizione quella stessa dell'Impero di Roma, predestinato da Dio al governo del mondo e in ciò riconfermato dalla parola di Cristo. Al contatto della realtà storica, il pensiero politico che Dante aveva teorizzato nel Convivio si concreta in lui nell'immagine lirica di un'umanità civilmente ordinata "ad unum" e strettamente congiunta da un comune amore e da una comune difesa della libertà e della giustizia. E Epistole 108
  • 3. quest'immagine lirica, di cui l'Impero di Roma, per volontà divina, era stato la realizzazione storica più vasta e complessa, si fa in lui orientatrice di una fervida attività, che lo spinge a minacciare e a maledire chiunque si opponesse al nuovo imperatore. Non è altro il motivo poetico che anima la lettera datata dai confini della Toscana, presso le sorgenti dell'Arno, il 31 marzo 1311, e diretta dall'"esule senza colpa" agli "scelleratissimi fiorentini" che sono dentro la città. L'Impero di Roma, vi si dice, fu voluto dalla Provvidenza divina per assicurare nel mondo la pace e con la pace lo svolgimento della vita civile. Questa verità, confermata dalla fede e dalla ragione, è provata dal fatto che, vacando l'impero, tutto il mondo vacilla: la Chiesa è inoperosa e la misera Italia, in balia di private signorie, è agitata e sconvolta come nave in tempesta. I Fiorentini conculcano le leggi divine e umane, opponendosi all'autorità dell'imperatore romano, i cui diritti non possono subire prescrizione e le cui leggi sono ordinate al bene di tutti. E perciò temano essi la vendetta di Dio, se non quella di Cesare, che certamente porterà nella loro città il terrore e la desolazione, la distruzione e le stragi. Accecati dalla cupidigia, essi si negano alle leggi imperiali che sono fondate sulla giustizia naturale e assicurano perciò, a chi le osserva, la libertà perfetta. Si ravvedano, prima di un pentimento inutile e tardo, pensando che Arrigo s'è mosso per il bene di tutti, non per sua propria utilità, "sostenendo le nostre infirmità e addossandosi il peso dei nostri dolori". Frattanto Arrigo VII indugia nella valle del Po e trascura la Toscana; e allora dalla Toscana, presso le fonti dell'Arno, il 18 aprile 1311, Dante gli scrive una lettera, per esortarlo, a nome suo e di tutti gli altri esuli, a passare l'Appennino. L'ansia della pace, sognata nell'amore di Dio e del prossimo, e il ricordo delle speranze, concepito al primo giungere di Arrigo VII in Italia, costituiscono i motivi poetici di questa lettera, dettata dal timore di una delusione amara. "Sei tu colui che deve venire o ne aspettiamo un altro?" domanda Dante ad Arrigo: e poiché gli esuli credono e sperano in lui, riconoscendolo per ministro di Dio e figlio della Chiesa e assertore della gloria di Roma, insieme con loro egli lo invita a scendere in Toscana, per colpire e abbattere Firenze, la pecora appestata che contamina il gregge. Così essi potranno finalmente esser rimessi in patria e, in quanto cittadini, riposare in quella vera pace che è retaggio di Cristo. Epistole 109
  • 4. Di scarso interesse sono le tre lettere di ossequio scritte in nome della contessa Gherardesca di Battifolle e dirette a Margherita di Brabante, consorte di Arrigo VII (1311). Rientra invece nel novero delle politiche la lettera inviata, subito dopo la morte di Clemente V (maggio o giugno 1314), ai cardinali italiani, perché s'accordassero a eleggere un pontefice che riportasse a Roma la sede papale. Come Geremia pianse sulle sorti di Gerusalemme, così Dante piange sul misero stato di Roma, "vedova e abbandonata, dopo le pompe di tanti trionfi, dopo che Cristo con la parola e con l'opera le confermò l'impero del mondo, dopo che Pietro e Paolo la consacrarono sede apostolica col proprio sangue". Causa di tale rovina è stata la negligenza dei principi della Chiesa e la loro venalità, generatrice di empietà e d'ingiustizia; e contro di loro Dante, "ultima pecorella di Cristo", ma insieme con tutto il popolo cristiano, si scaglia, per amore di verità e santo zelo delle cose di Dio. I cardinali italiani, e singolarmente tra essi Napoleone Orsini e Francesco Caetani, si dolgano, ripensando a Roma, "comune principio della nostra civiltà" e ora priva dell'uno e dell'altro dei suoi luminari; e si vergognino essi e insieme si stringano contro l'obbrobrio dei Guasconi e combattano "per la Sposa di Cristo, per la sede della Sposa, che è Roma, e per l'Italia nostra, anzi per l'intera università dei cristiani peregrinanti sulla terra". Così la funzione storica e provvidenziale di Roma, imperiale e cristiana, ravvalorava in Dante la sua fede di credente e la sua passione d'italiano. La lettera all'"Amico fiorentino", con la quale, dopo circa quindici anni d'esilio, Dante respinge (maggio 1315) la possibilità di ritornare in patria mediante l'offerta a San Giovanni, è una testimonianza luminosa della sua magnanima fierezza. Esule senza colpa, egli si esalta nella sua propria innocenza e sente di non dover umiliare la sua dignità di uomo, "banditore della giustizia". Se in Firenze non si entri per altra via che non deroghi in nulla alla fama e all'onore di lui, egli in Firenze non entrerà giammai. "Non potrò io forse contemplare le spere del sole e delle stelle? Non potrò io meditare le dolcissime verità sotto qualunque cielo, senza che io prima torni a Firenze inglorioso, anzi ignominioso agli occhi dei miei concittadini? E certo anche un pane non mi mancherà". Ultima in ordine di tempo è la lettera a Cangrande della Scala, con la quale Dante, dedicandogli il Paradiso, gliene accompagna alcuni canti. Per considerare la terza cantica Epistole 110
  • 5. in se stessa e in relazione alle altre cantiche, egli dichiara la materia, la forma e il titolo della Divina Commedia, e quindi il suo fine ultimo e il genere di filosofia (etica) a cui essa s'ispira. Commenta poi il prologo del Paradiso e ne accenna il contenuto, spiegando in che consista la beatitudine, che è visione soprannaturale di Dio. Dell'autenticità di questa lettera si discusse a lungo e si discuterà ancora, fino a quando non saranno lasciati da parte i pregiudizi tradizionali e le soggettive esigenze di una critica puntuale, che si compiace di se stessa nelle sue logiche costruzioni. Certo è che nell'epistola a Cangrande si presentano fissate per la prima volta, e dentro una salda inquadratura di pensiero, le linee maestre di un'interpretazione globale della Divina Commedia, dove si segua, attraverso l'esperienza poetica di Dante, la natura umana nelle sue condizioni di esistenza e di vita e nel suo fine ultimo, che è la conoscenza sperimentale di Dio ("in sentiendo veritatis principium"). Il sicuro dominio della materia, nelle reciproche relazioni delle singole parti col tutto, e la lucida esposizione di concetti che nel poema sacro si risolvono tutti, per virtù d'arte, in rappresentazioni gravide di contenuto spirituale (Divina Commedia), sono in tutto conformi alla dottrina personale di Dante e al pensiero scolastico del suo tempo. Epistole 111
  • 6. in se stessa e in relazione alle altre cantiche, egli dichiara la materia, la forma e il titolo della Divina Commedia, e quindi il suo fine ultimo e il genere di filosofia (etica) a cui essa s'ispira. Commenta poi il prologo del Paradiso e ne accenna il contenuto, spiegando in che consista la beatitudine, che è visione soprannaturale di Dio. Dell'autenticità di questa lettera si discusse a lungo e si discuterà ancora, fino a quando non saranno lasciati da parte i pregiudizi tradizionali e le soggettive esigenze di una critica puntuale, che si compiace di se stessa nelle sue logiche costruzioni. Certo è che nell'epistola a Cangrande si presentano fissate per la prima volta, e dentro una salda inquadratura di pensiero, le linee maestre di un'interpretazione globale della Divina Commedia, dove si segua, attraverso l'esperienza poetica di Dante, la natura umana nelle sue condizioni di esistenza e di vita e nel suo fine ultimo, che è la conoscenza sperimentale di Dio ("in sentiendo veritatis principium"). Il sicuro dominio della materia, nelle reciproche relazioni delle singole parti col tutto, e la lucida esposizione di concetti che nel poema sacro si risolvono tutti, per virtù d'arte, in rappresentazioni gravide di contenuto spirituale (Divina Commedia), sono in tutto conformi alla dottrina personale di Dante e al pensiero scolastico del suo tempo. Epistole 111