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NOVA UNIVERSITAS
 DIALOGHI D’ARAGONA – LO SPAZIO UMANO E LE CULTURE MEDITERRANEE




             LA TRAGEDIA DELL’OCCIDENTE




MAURIZIO PARISI




                                                                  1
All’indomani della rivolta di Londra, il premier
inglese David Cameron così commentava la devastazione
delle   opulente    vetrine   per   le   vie    della   capitale    del
capitalismo finanziario: “Useremo le maniere forti, ma nella
nostra società c’è qualcosa che non va”.
            Nel frattempo in Libia, i ribelli marciavano verso
Tripoli e, alle auto in fiamme e ai vetri in frantumi, si
aggiungevano i loro cadaveri, insieme a quelli dei mercenari,
con le stesse armi di fabbricazione occidentale, ai lati delle
strade bombardate dalla Nato, a cuocere sotto il sole del
deserto mangiati dalle mosche. Cosa c’è che non va se
dittatori   sanguinari    vengono    prima      legittimati   con    la
stipulazione di trattati economici e poi bombardati da quella
stessa aeronautica che li omaggiava con parate acrobatiche?
            Pochi chilometri più a Nord, sotto lo stesso sole
arroventato sotto il quale è divampata la rivoluzione in tutto
il Nord-Africa, a Lampedusa, Italia, le stesse immagini di
morte. Lungo le spiagge affollate dai turisti, il mare, di tanto
in tanto, sottraeva ai pesci e restituiva qualche cadavere,
dei migliaia, uomini, donne e bambini, annegati fra le pur
docili onde estive del Mediterraneo, a causa delle carenze
nei soccorsi, dei rimpalli di responsabilità fra l’Italia e il
piccolo stato-isola di Malta e della propaganda xenofoba
della ricca borghesia italiana.
            Cosa   lega   Londra     a   Tripoli     passando       per
Lampedusa? Cosa non va nella nostra società, qual è la
tragedia    dell’occidente?   Le    parole     del   primo    ministro
conservatore David Cameron sono emblematiche perché




                                                                          2
sembrano l’ammissione della crisi della politica. In questa
relazione proverò innanzitutto a mostrare che la politica non
ha più risposte perché ha ceduto gran parte del suo spazio
al mercato, finendo travolta dalla stessa onda lunga della
crisi finanziaria, con le conseguenze sociali che stiamo
vivendo. Tenterò poi di far emergere come la crisi abbia
ragioni psicologiche sottostanti la concezione parziale che
dello spazio e del tempo ha la tradizione di pensiero
dell’occidente   e   come   l’architettura   possa   intendersi
compresa in questa crisi. Infine, felicissimo di essere
eventualmente smentito, traccerò una possibile via d’uscita,
prendendo spunto da Diogene di Sinope, raffigurato nel
quadro di John William Waterhouse che accompagna come
copertina questo elaborato e che è il filosofo antico che oggi,
a mio avviso, incarna meglio il pensiero del Mediterraneo.
         Un po’ più ad est di Lampedusa, nelle isole greche
dove, col sol estivo, approdano i mega-yacht dei magnati,
ha avuto inizio un’altra guerra, senza spargimento di
sangue, ma con una potenzialità distruttiva di un tipo mai
visto prima, quella fra gli stessi magnati della finanza e gli
Stati. Negli ultimi anni, infatti, anche a causa dell’evasione
fiscale, spesso incentivata dai governi stessi, quasi tutti gli
Stati occidentali si sono indebitati tanto da dover attingere
sempre più al mercato finanziario. Il mercato finanziario dal
canto suo sembrava essere un pozzo senza fondo perché,
senza regolamentazione, il denaro veniva prodotto tramite
speculazioni su titoli scollegate dall’economia reale, tanto
che gli Stati, anno dopo anno, sono andati rifinanziando la




                                                                  3
massa     debitoria       con    nuovo      debito.      Fino    a    quando,
spacchettati       i    debiti   e    scoppiate     le    bolle,     gli   Stati
maggiormente indebitati sono rimasti in balia dei grandi
investitori, che hanno accumulato capitali tali da distorcere il
mercato      e     parimenti         una    forza   contrattuale           senza
precedenti. Forza contrattuale che si è tradotta nella
richiesta di tagli di spesa come garanzia, con seguente
difficoltà per i cittadini di accedere ai servizi                e perdita di
posti di lavoro.
           Negli ultimi decenni, inoltre, la produzione dei
paesi occidentali era crescente e il sistema sembrava andare
nel   senso      della     piena     occupazione.        Tuttavia      con    la
globalizzazione, cadute gran parte delle barriere tecniche e
tecnologiche, la concorrenza di molti paesi che prima erano
mercati, soprattutto dell’Asia, ha determinano la caduta dei
profitti delle imprese occidentali, tanto che la produzione
Cinese si appresta a superare quella degli U.S.A, il cui livello
di disoccupazione accertato rasenta ormai le due cifre,
quanto la disoccupazione europea.
           Per di più, il fatto che ingenti capitali siano
diventati liberi di spostarsi da un capo all’altro del globo alla
velocità di un click, ha indotto molti a ritenere il successo di
un    territorio       meramente      una    questione      di     appetibilità
rispetto ai flussi di capitali, limitando il ruolo della politica
alla gestione dei servizi essenziali. Molti Stati che, sul
dogma che il privato possa fare tutto in maniera più
efficiente, avevano già deregolamentato e privatizzato, lo
hanno fatto ulteriormente. Dogma, ad esempio, non seguito




                                                                                   4
dalla Cina che, in alcuni settori, è intervenuta direttamente
in economia, investendo nelle imprese pubbliche, pur
lasciando libertà ai privati.
          Senz’altro, l’economia cinese è cresciuta anche a
causa di uno sfruttamento disumano del lavoro che va
denunciato, tuttavia credo che non si possa ridurre l’enorme
sviluppo di un così vasto e popoloso territorio, in così poco
tempo, alla sola assenza di tutela del lavoro. Non solo, come
specificherò nel proseguo, la creatività, cioè altresì la
capacità d’innovazione produttiva, è una questione culturale,
ma credo che, anche dal punto di vista meramente
economico, il successo di un territorio non possa costruirsi
limitandosi ad inseguire i flussi di capitale, rinunciando ad
un ruolo attivo della politica e magari smembrando gli Stati
a seconda della competitività della singola zona.
          Creando occupazione tramite imprese pubbliche, la
Cina    ha    favorito    la    circolazione   della   ricchezza,
predisponendo un territorio fertile anche per il privato. Per
contro in occidente, il dogma dell’efficienza del profitto è
stato smentito dalla necessità di intervento pubblico per
salvare grandi istituti di credito dalla bancarotta, spesso
fraudolenta, e dalla crescita della forbice tra ricchi e poveri,
dimostrando che, senza un controllo politico, l’egoismo
economico conduce all’illegalità e alle concentrazioni.
          Nonostante ciò, oggi, non è tuttavia prioritario
ipotizzare che se anche esistessero mercati globali efficienti,
ma privi della funzione redistributiva dello Stato, una quota
di disoccupazione sarebbe necessaria per alimentare il




                                                                    5
profitto e tenderebbe ad aumentare man mano che si
implementa la tecnologia e si ridimensiona il ruolo della
finanza perché, prima che il sistema imploda su se stesso, il
dogma della crescita illimitata cozza con la limitatezza
dell’ambiente.
          I disastri nucleari, come quello di Fukushima, sono
tristemente emblematici perché evidenziano, da un lato,
come la potenza della natura resti superiore a qualsiasi
tecnologia e, dall’altro, come la natura sia la nostra casa
originaria.   La    natura    ha     un   valore    inestimabile     non
semplicemente perché è ciò che utilizziamo per esistere
come individui, ma perché la materia che forma l’ambiente
esterno è la stessa che ci costituisce. Fra quelle forze
immani, si annida un fragile ecosistema, di cui noi stessi
siamo espressione, anche se spesso ce ne accorgiamo solo
quando siamo costretti ad evacuare le zone contaminate
dalle radiazioni, per non subire mutazioni genetiche.
          Non si vuole demonizzare la molla del profitto, solo
denunciare    gli   eccessi    nel    santificare    il   privato,   che
conducono a non considerare che l’unico modo per eliminare
i riflessi negativi della competitività è la mediazione della
politica. L’occidente è in crisi perché alla società liquida ha
risposto con la politica liquida. E che la politica sia liquida,
ancor prima che dalle dichiarazioni dei leaders politici,
emerge dalle università, ad esempio in sociologia, dove
sempre più ci si limita a descrivere la società e sempre
meno si immaginano nuove forme di convivenza. Ciò che,
più o meno surrettiziamente, sfugge sotto l’egida della




                                                                           6
scientificità è che, essendo l’uomo creativo, i paradigmi non
sono mai neutrali, ma costituiscono una posizione politica:
rinunciare alla critica equivale a legittimare le istituzioni
vigenti, salvo rimanere senza parole quando la storia
riappare specchiandosi nel sangue delle rivoluzioni.
           Ma soprattutto, le rivoluzioni non sono separabili
da quei sistemi di equazioni con cui si interpretano i rapporti
economici nella stragrande maggioranza delle facoltà di
economia. Quei modelli costruiti sull’assunzione che l’essere
umano sia homo oeconomicus, cioè dotato delle capacità di
calcolo di un computer e rapportato al mondo in maniera
esclusivamente acquisitiva (massimizzazione profitto).
           L’uomo economico non ha bisogno della politica e
men che meno del confronto con se stesso o con la natura
per dare un senso alla propria esistenza, perché il senso è
già dato dal mercato. Tuttavia, come dimostrano le crisi e le
rivoluzioni, i rapporti economici sono anche rapporti umani e
basare l’intera teoria economica sulla massimizzazione del
profitto significa disconoscere, non solo che la razionalità
umana è limitata e l’uomo non è un computer, ma ancor
prima   che    ciò    che       caratterizza    l’essere     umano     è    la
molteplicità dell’esperienza, l’emotività. Oltre alle previsioni
errate, succede allora che, quando dalle facoltà di economia,
passando      per    le   banche,      si   giunge        alla   società,   la
competitività, osannata nei manuali, si trasforma in odio.
           La società moderna è malata perché il denaro da
mezzo è divenuto fine, colonizzando l’immaginario collettivo
e   meccanizzando           i    rapporti      sociali.     L’altro    esiste




                                                                                 7
esclusivamente in quanto competitor o nella misura in cui
sia   strumentalizzabile        e    inevitabilmente     il        senso   di
insicurezza     finisce   per       attanagliare    tutti,     a     partire
dall’attività   lavorativa, fino      a    contaminare        le    relazioni
interpersonali e il modo di pensare e di essere.
           Nonostante la tecnologia, l’orario di lavoro, così
come la morte sul lavoro, è aumentato, mentre i manager
guadagnano migliaia di volte di più di un operaio. Le forme
giuridiche di organizzazione flessibile del lavoro finiscono per
piegare la vita dei precari in misura tale che l’alienazione
oggi non sta più tanto nelle condizioni di produzione delle
fabbriche, quanto nel fatto che catena di montaggio è
diventata l’intera organizzazione del lavoro globalizzato e il
singolo lavoratore non conosce se, dove e per chi lavorerà,
né tanto meno il prodotto del suo lavoro.
           Invece di proteggere le persone contro la paura,
garantendo un minimo di certezze, i governi la alimentano,
appellandosi ad una maggiore flessibilità in tutti i settori già
regolati dalle forze di mercato e delegando le funzioni sociali
alle organizzazioni umanitarie, alla Caritas o magari alla
sussidiarietà di qualche stravagante filantropo, salvo poi
richiamarsi ad esigenze di controllo sui devianti, come i
migranti o i disoccupati e tutti gli esclusi, per i quali non
restano che le maniere forti di cui parlava Cameron: un
carcere sovraffollato.
           Men che meno le istituzioni internazionali sono
state capaci di attenuare i conflitti e anzi spesso li hanno
alimentati,     perché     mosse          dalle    medesime          logiche




                                                                                8
economiche       e        per   gran   parte   sottratte   al   controllo
democratico. Si pensi alla Banca Centrale Europea, la cui
indipendenza dalla politica si è tradotta in ciò che le
manovre sui tassi e gli interventi sulla massa monetaria,
vengono effettuati esclusivamente in reazione ai mercati. Si
verifica così che pur di non intaccare minimamente il valore
della moneta, si fanno fallire gli Stati o si condiziona il
sostegno a parametri tali per cui per gli Stati in difficoltà
sarebbe preferibile fallire, senza il minimo riguardo per le
conseguenze sociali che ciò comporta.
          La paura finisce così per pregiudicare anche i
rapporti affettivi, che vengono dimensionati in funzione della
loro utilità, in modo da poter essere disfatti quando questa
cessa e prima di essere a propria volta abbandonati. La
famiglia tradizionale, ad esempio, è in crisi non solo perché
crescere un figlio è diventato un privilegio, ma perché la
competizione contamina la dimensione affettiva, che viene
basata sulla passione più che sulla compassione. Anche il
desiderio di condividere una vita diventa allora precario, fino
a perdersi nell’individualismo proprietario che caratterizza la
società moderna, tanto che è verosimile ipotizzare che più le
ragioni economiche si imporranno su quelle sentimentali, più
lo spazio della famiglia sarà destinato a ridursi, fino a che
l’organizzazione familiare si modificherà strutturalmente.
          L’eclissi della politica determina anche che attività
di tipo culturale, non indispensabili alla produzione o che
difficilmente possono autofinanziarsi, cessano di esistere.
Alla   cultura       si     sostituisce   l’industria   culturale,   cioè




                                                                            9
l’entertainment      dello     sballo,     valvola     di   sfogo    dello
sfruttamento, funzionale agli interessi delle lobby.
             I grandi gruppi mediatici privati, tramite l’overdose
di   spot,    gossip,      veline   e    calciatori,   promuovono      un
immaginario collettivo sganciato dalla vita reale, specie dai
problemi della gente povera. Tutto ciò che potrebbe mettere
in discussione lo stile di vita propagandato dai mass media
commerciali ossia il reality della classe agiata, viene ridotto
a barzelletta, facendo perdere coscienza, oltre che della
dimensione della cittadinanza, dei misteri fuori nell’universo
e dentro di noi.
             Inoltre, come cercherò di mostrare nel proseguo,
stimolando il desiderio continuo di beni, si risponde ad
un’istanza legata agli istinti, che limita l’empatia umana,
riducendola ad una mera funzione cognitiva e privandola del
contenuto affettivo che le è proprio.
             Si   genera     così   un    profondo     narcisismo,    che
determina una sorta di regressione a stadi di sviluppo
infantile. L’uomo moderno pensa semplicemente che porsi
domande filosofiche sia da “sfigati” o da pazzi, colmando il
vuoto esistenziale drogandosi di emozioni in quei (non)
luoghi che la stessa industria culturale fornisce, come i
grandi centri commerciali, dove tutto sembra a disposizione,
come nel Paese dei Balocchi del Pinocchio di Collodi, in quel
poco tempo libero strappato alla produzione:
             “Hai torto, Pinocchio! Credilo a me che, se non
vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più sano
per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole, lì non vi sono




                                                                             10
maestri, lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si
studia mai.
         “Che bel paese!“ disse Pinocchio, sentendo venirsi
l'acquolina in bocca. “Che bel paese! Io non ci sono stato
mai, ma me lo figuro…!”
          “Pinocchio!” disse allora Lucignolo. “Da' retta a
me, vieni con noi, e staremo allegri”.
         No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia
buona Fata di diventare un ragazzo per bene, e voglio
mantenere la promessa.
         Vieni con noi e staremo allegri, gridarono altre
quattro voci di dentro al carro. Vieni con noi e staremo
allegri, urlarono tutte insieme un centinaio di voci.
         Pinocchio obbedì. Il carro dell’Omino riprese la sua
corsa, e la mattina, sul far dell'alba, arrivarono felicemente
nel “Paese dei balocchi”.
         […] Intanto era già da cinque mesi che durava
questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate
intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una
scuola; quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe,
come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo messe
proprio di malumore. E questa sorpresa quale fu? E Ve lo
dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che a
Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di
grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse...
Indovinate un po' di che cosa si accorse? Si accorse con suo
grandissimo stupore, che gli orecchi gli erano cresciuti più
d'un palmo.




                                                                  11
In questa involuzione, il “bel paese” a precedere
tutti a livello globale è stata l’Italia, dove svalutare tutto ciò
che è di interesse collettivo è servito direttamente per
sfiduciare le persone e per ridurre il numero di voti da
comprare per vincere le elezioni. Come accennato all’inizio,
però, sotto quest’aspetto nemmeno la religione e la filosofia
sono esenti da responsabilità, come dimostra il fatto che
tale regressione culturale è avvenuta col consenso di tutti
quegli intellettuali che hanno continuato a predicare i loro
salmi, mentre accondiscendevano alle leggi ad hoc e ai
miserabili imbrogli che hanno insozzato la vita politica
italiana degli ultimi decenni.
          I   monoteismi     presentano     la   morte   come   un
passaggio che porta alla continuazione della vita in un
ordine trascendente. Ciò può fornire un riparo dall’angoscia,
ma determina che gli uomini finiscano per staccarsi dal
mondo, come se si formasse una realtà parallela personale e
spesso una doppia morale. Nei conflitti interreligiosi, la
morte dei miscredenti può così diventare legittima mentre,
al di là dei fondamentalismi cattolici o islamici, può accadere
che gli uomini inizino a porsi di fronte alle cose della vita con
fatalismo e ignavia. Infatti, se il significato della vita risiede
in un ordine trascendente e la morte non ha un valore in sé,
allora nemmeno la vita ha un valore in sé e non c’è motivo
di amarla nella sua differenziazione. In particolare, se ciò
che ci accomuna non è la corporeità, allora non c’è un
motivo in sé per provare compassione per il dolore o di
gioire per il semplice fiorire della vita degli altri.




                                                                     12
A mio avviso, ad esempio, è proprio per queste
ragioni che la dottrina sociale della chiesa e la vita di Gesù
sono costrette a cedere il passo rispetto alla tradizione
dogmatica e al Cristo in croce. Si può dubitare sul fatto che
la chiesa cattolica abbia speranza di salvarsi tramite
credenze vecchie di millenni e tramite le nuove crociate
contro il preservativo, gli omosessuali, le coppie di fatto, la
ricerca scientifica, l’eutanasia e via dicendo, in un mondo
dove ad essere globale è anche la circolazione delle idee. Ma
a prescindere da ciò, come proverò a chiarire nel proseguo,
credo che prima di ogni religione venga la religiosità, che è il
portato delle capacità empatiche che l’uomo possiede in
quantità tale da costituire una qualità rispetto agli altri
animali. Qualità sacra, tramite la quale è come se la stessa
natura acquisisse consapevolezza, permettendo all’energia
che la costituisce di dispiegarsi nell’amore. In primo luogo
nell’amore per i propri simili, di cui si condividono le
identiche sensazioni e rispetto ai quali l’empatia può
divenire la simpatia di cui parlavano i filosofi ben prima dello
sviluppo delle neuroscienze.
         I monoteismi, assumendo l’idea che esista un
ordine   trascendente   e   trasformandolo   nel   luogo   della
salvezza, ereditano la stessa impostazione e gli stessi
problemi della filosofia occidentale. Il pensiero occidentale
tende infatti a situare il fondamento della realtà in un ordine
assoluto e/o assolutizzare la mente, mentre il corpo viene
ridotto a peccato, apparenza o sensazione passiva. La
tradizione occidentale tende cioè a caratterizzarsi in senso




                                                                   13
soggettivistico, perché conosce riducendo la complessità
tramite forme che interagiscono meccanicamente, prodotte
in uno spazio e in un tempo ideali, indipendenti dal corpo e
dal mondo. La conoscenza per gli occidentali ricalca una
relazione di tipo visivo, dove soggetto ed oggetto non si
contaminano e che opera come se si apponesse una griglia
sul mondo, eliminando la vitale distanza fra la realtà e la
rappresentazione di essa.
          Peraltro, assumendo che l’ordine ideale possa
corrispondere con l’ordine della natura, la filosofia è stata
soppiantata dalla tecno-scienza, che ne ha fatto proprio il
metodo,    affinandolo   tramite   la    matematizzazione    e
rendendolo utilizzabile tramite la tecnologia. Anche la
scienza, quindi, non può che operare in maniera parziale e
in un’ottica di breve periodo perché, come approfondirò nel
proseguo, la natura non va intesa in maniera meccanica ma
dialettica. Né, dall’altro lato, le complesse dinamiche che
l’interconnessione universale è capace di creare possono
essere sussunte in leggi sperimentali, se non ancora nei
termini di mera utilità dei paradigmi.
          Tuttavia, ciò che è importante rilevare ai fini di
questo lavoro è che alla filosofia non è rimasto allora che
cercare di ritagliarsi uno spazio legittimando logicamente tali
procedimenti, fino a predicare che l’essere sia fisso e
immutabile, senza che ciò abbia impedito che nella maggior
parte delle università le problematiche non solo economiche,
ma anche sociologiche, psicologiche e giuridiche vengano
risolte sempre più spesso applicando modelli matematici. Ha




                                                                  14
invece determinato che metodi e scopi dell’attività scientifica
non abbiano più un rapporto diretto con i bisogni degli
uomini, perché con la morte della parola si perde la
dimensione qualitativa, vitale ed esistenziale.
         Per di più per questa via, la filosofia è stata
spiazzata dalla scienza, ad esempio perché gli scienziati
hanno scoperto che i neutrini vanno più veloce della luce o
perché pur registrando la presenza di buchi neri disseminati
per l’universo, non sono in grado di definire scientificamente
lo stato della materia ivi risucchiata, oppure perché sono
concepibili geometrie non euclidee. Si potrebbe continuare
con altri esempi, ma il punto decisivo è, a mio avviso, che il
pensiero stesso si può spiegare scientificamente come
intimamente legato al corpo e quindi all’ambiente. Decisivo
anche perché potrebbe (ri)aprire qualche via alla filosofia.
         Quando si considera l’ambiente, l’errore che spesso
si fa è vederlo esclusivamente come un oggetto, che non
influisce sulla soggettività. Invero, è solo considerando la
soggettività come intimamente legata al corpo e quindi
all’ambiente che emergono lo spazio e il tempo nella loro
forma originaria e inseparabilità.
         La struttura degli individui si è differenziata e
continua a differenziarsi a partire dall’ambiente. L’ambiente
non solo seleziona i geni mutati casualmente, ma ne può
provocare una diversa espressione tramite meccanismi di
natura adattativa, un po’ come affermava Lamarck o come
succede nella Metamorfosi di Kafka, ma con evidenze di tipo
scientifico. Infatti, secondo gli studi di epigenetica, termine




                                                                  15
che deriva da epigenesi, impiegato da Aristotele per
denotare la generazione di individualità a partire dal non
formato, la presenza o l’assenza di certi fenomeni esterni è
in grado di operare un condizionamento sul genoma,
determinando l’attività di alcuni geni e la quiescenza di altri,
senza influire sulla struttura di base del DNA. I cambiamenti
epigenetici si conservano nella divisione cellulare, durante il
corso della vita di un organismo e si ritiene che, qualora una
mutazione epigenetica sia coinvolta nella riproduzione,
possa anche essere ereditata dalla generazione successiva.
         Nemmeno la consapevolezza necessita di un salto
trascendentale, perché la natura che si manifesta nelle
sensazioni, nell’uomo diventa consapevole differenziandosi
nell’empatia. L’empatia si è sviluppata probabilmente a
partire dal rapporto che lega la madre a quanto nasce dal
suo grembo, costituendo una sorta di istinto della specie,
che deve essere stato per lungo tempo l’unico legame
sociale. Non è sconosciuta in filosofia dove, col termine
simpatia, gli antichi designavano la capacità delle cose
nell’universo di influenzarsi a vicenda. Di simpatia, con
riferimento all’uomo, ne hanno parlato anche Adam Smith e
David Hume, mentre oggi le neuroscienze, in particolare un
gruppo si scienziati italiani afferente all’università di Parma,
affermano di avere individuato il luogo dell’empatia nei
neuroni specchio, cioè neuroni che si attivano sia quando
osserviamo un nostro simile compiere una certa azione, che
quando siamo noi a compiere quella stessa azione.




                                                                   16
L’empatia    svolge,    innanzitutto,      una   funzione
cognitiva, facendo si che le sensazioni acquistino oggettività,
trasformandosi in significati di base che precedono il
linguaggio. La sensazione opera, cioè, attivamente nel modo
in cui strutturiamo i concetti perché, tramite la mediazione
dell’empatia, le esperienze corporee danno vita ad un
primordiale senso di sé, inseparabilmente accoppiato al
senso dell’altro, che precede e rende possibile qualsiasi
linguaggio. Questa funzione mediatrice corrisponde a quella
che Adam Smith denominava simpatia, ma che equivale alla
pura e semplice capacità di metterci nei panni dell’altro,
senza   necessariamente       condividerne     le    sensazioni   e
permettendoci, ad esempio, anche di godere sadicamente
del dolore altrui.
          La discontinuità rispetto al mondo opera quindi già
a livello del sé e, anche se forme di razionalità sono possibili
senza linguaggio, quello che noi chiamiamo pensiero è il
dono di poter dar veste al sé tramite la memoria e i simboli.
Le idee di spazio e di tempo rappresentano una modalità di
interpretazione della realtà perché, rispetto al sé, il tempo è
la vitalità dello spazio. L’io può essere inteso come luogo
dello sviluppo del sé e qualsiasi linguaggio è metaforico e
storicamente determinato nella semantica, cosi come nella
grammatica e nella sintassi.
          Il   linguaggio   non   è   né   innato,   né    esclusivo
dell’uomo, come hanno messo in evidenza le ricerche sulla
capacità di imitazione che i neonati hanno delle espressioni
facciali degli adulti o quelle sulla capacità di alcune specie




                                                                       17
animali di inventare semplici simboli per comunicare, ad
esempio,     quando     avvistano   un   predatore.        Certamente
nessun animale ha una consapevolezza tale da inventare
linguaggi complessi, ma certi primati possono apprendere e
utilizzare linguaggi umani, come quello gestuale e utilizzarli
anche in assenza di stimoli, come se acquisissero un
rudimentale       pensiero.    All’opposto,        recentissimo    è
l’agghiacciante caso, scoperto a Bari, di una bambina che
per i primi sette anni di vita era stata tenuta dai genitori in
cattività, insieme ad un cane: la bimba ne aveva imitato i
comportamenti e sapeva solo mangiare nella ciotola e
abbaiare.
            Come su accennato, tuttavia, l’empatia possiede
anche un contenuto affettivo proprio e originario, così come
aveva sostenuto Hume, utilizzando anch’egli, in maniera più
appropriata, il termine simpatia. Alla tendenza a portarsi al
di là del proprio io, si accompagna cioè la capacità di
provare le stesse sensazioni dell’altro, come se l’esperienza
si trasmettesse e si creasse una intersoggettività. All’interno
del sé si sviluppa così la dialettica istinti/empatia, che
determina il carattere del pensiero. Alcune tendenze di
questa     dialettica   verranno    tratteggiate     nel    proseguo,
affrontando il tema del rapporto che lega pensiero ed
ambiente, anche con riferimento all’architettura. Quello che
va evidenziato adesso è che un sostegno a quanto diremo
ce lo offrono di nuovo le neuroscienze quando affermano
che      l’esperienza    plasma     il   cervello      modificando,
aggiungendo o eliminando sinapsi neuronali.




                                                                        18
Va     sottolineato,     tuttavia,   che   il     grado     di
consapevolezza dell’uomo è tale da permettergli di utilizzare
i simboli anche criticamente, di modo tale da portare alla
coscienza i condizionamenti sia interni che esterni. Così il
soggetto può esistere e può sviluppare la propria umanità
promuovendo un linguaggio legato all’empatia più che agli
istinti. Le risposte stanno nel sentiero che le domande
aprono e per ciò bisogna impedire che la parola venga
strumentalizzata e tecnicizzata oltremisura, affinché si possa
realizzare cultura nel senso pieno del termine. Va da sé che
invece di criticare chi è “iperformato”, tutta la società
umana dovrebbe tendere alla educazione continua. Ciò trova
però anche fondamento nel fatto che l’empatia, per non
essere offuscata dalla tradizione o assorbita dagli istinti e
potersi sviluppare pienamente in simpatia, deve essere
coltivata e ciò può avvenire con la libera ricerca e lo studio.
          Da questa prospettiva, si può comprendere anche
l’importanza    di   un   mezzo      di   comunicazione      di    tipo
orizzontale quale internet, che non solo permette l’accesso
ad una mole sterminata di informazioni e il loro scambio in
tempo reale a livello globale, ma permette la condivisione
delle idee. Non credo, tuttavia, che la rivoluzione del Nord-
Africa sia da ascrivere esclusivamente ad internet, che pure
è stato determinante. Ancor prima, credo che si tratti di una
rivoluzione    che   nasce      dall’occidentalizzazione    e     dalla
conseguente frana dei valori legati alla tradizione islamica: i
giovani tunisini o egiziani desiderano la libertà, compresa
quella di consumare, che hanno visto sui canali televisivi




                                                                          19
occidentali o nei villaggi turistici costruiti sulle loro coste,
           ben prima dell’avvento della rete. Credo invece che, in paesi
           come l’Italia, grazie ad internet, si possa, se non ricreare un
           luogo in cui si acquisisce la coscienza sociale, ampliare i
           contenuti della cittadinanza, tramite la partecipazione e il
           confronto. Come il vetro, che pur essendo trasparente
           costituisce pur sempre una barriera, similmente le relazioni
           sulla rete non possono essere piene e spontanee, ma la
           piazza del comizio o la sede di partito avevano cessato di
           essere il luogo della politica, in favore dei salotti e dei talk-
           show televisivi, ben prima dell’avvento della rete e anzi,
           sempre più spesso, la trasparenza che caratterizza internet
           permette di farne il mezzo per organizzare, incontri, eventi,
           manifestazioni, rivoluzioni reali.
                         Per certi versi simile a quella sopra tratteggiata
           con l’ausilio delle neuroscienze1 è la posizione della filosofia
           orientale, secondo la quale non esiste uno spazio proprio
           dell’uomo, nemmeno nella sua mente: da un lato, qualsiasi
           cosa l’uomo definisca essere non può mai comprendere
           l’essere perché tutto è interdipendente e in divenire,
           dall’altro,     in    questa    dinamica       il    soggetto   stesso   è
           ricompreso. Ciononostante, non si ricade nell’oggettivismo
           perché si ritiene che la realtà stessa diventi consapevole nel
           sé,   tramite        un’intuizione   che   è        anche   azione   perché
           corporea, ma che precede la predicazione logica.



1
 Si ringrazia Giuseppe Mento, neurologo presso il dipartimento di neuroscienze dell’Università
di Messina, per i consigli e la supervisione.




                                                                                             20
Si potrebbe pensare che l’espressione filosofia
orientale faccia genericamente riferimento alla tradizione
mistico-religiosa e alla varietà di sfaccettature da essa
assunta, dall’India al Giappone nel corso dei millenni. Per
filosofia orientale si intende, invece qui, precisamente, una
scuola filosofica, anche se il termine orientale, può non venir
volentieri accostato a quello di filosofia da coloro che
considerano la filosofia come qualche sorta di metodo.
Eppure quei pensatori accomunati sotto il nome Scuola di
Kyoto a cui, in questa sede, si farà cenno soltanto
genericamente, a prescindere dal fatto che siano riusciti o
meno nell’impresa, si proponevano proprio di fare filosofia
nel senso occidentale del termine, sebbene coniugandola
con la cultura orientale e in particolare con lo Zen. Come si
avrà modo di chiarire nel proseguo, infatti, pur rinunciando
all’idea di un essere assoluto, essi non rinunciarono a
ricercare un fondamento.
         Il    pensiero    occidentale     è    un     pensiero
prevalentemente tecnico, che fu ideato per rispondere a
problemi pratici e precisamente ai problemi che poneva
l’ambiente del Mediterraneo nel quale la filosofia nacque. La
Grecia non è molto diversa dalla Sicilia. La Sicilia si erge in
una posizione centrale nel Mediterraneo, di cui è l’isola
maggiore. Il territorio è collinare, sono pochi i rilievi che
superano i 2000 metri, così come sono poche le pianure e i
fiumi. Al contempo però, la pendenza delle colline non è tale
da impedire il pascolo o la coltivazione dell’ulivo, della vite,
degli agrumi e di molte varietà di alberi da frutto. Inoltre, i




                                                                   21
torrenti riescono frequentemente a strappare ai rilievi
piccole valli pianeggianti e, specie nei pressi dell’Etna, anche
piane più ampie, nelle quali si possono coltivare gli ortaggi.
           A queste latitudini prevale il sole, che rende le
estati lunghe e secche e che durante tutto l’anno non smette
di ritagliarsi spazio fra le nubi, sorprendendo con scorci di
bella stagione anche in pieno inverno. Tuttavia, gli inverni
sono abbastanza piovosi, così come l’inizio primavera e il
finale dell’autunno, tanto da far crescere una vegetazione
coriacea   anche    se   non lussureggiante, e        sempre      più
rigogliosa man mano che, salendo dal mare, verso i 600
metri, alla macchia mediterranea si aggiunge l’odor delle
felci   mischiato   a    quello   dei   boschi   di   castagno.    Il
Mediterraneo non è pescoso come l’Oceano, ma è temperato
e le brezze che salgono dal mare mitigano sia l’afa estiva,
sia il gelo invernale. I venti non soffiano in maniera
tempestosa, mentre le numerose insenature offrono porti
sicuri per le barche e le navi, senza nebbia e con buona
visibilità, se si escludono i giorni in cui lo Scirocco africano
occupa il cielo con basse nubi, che a volte si fanno d’orate
come un’immagine riflessa del deserto del Sahara, di cui
trasportano la sabbia, che può giungere al suolo mista a
pioggia.
           Questa relativa disponibilità della natura, non così
minacciosa da rendere vana ogni resistenza e costringere ad
un atteggiamento difensivo, ma nemmeno così docile da
non richiedere la trasformazione tramite il lavoro, ha
plasmato il pensiero occidentale e ciò è massimamente




                                                                        22
evidente nell’architettura, le cui forme regolari sembrano le
forme   stesse    del   Mediterraneo.   Connessa    al   pensiero
occidentale c’è quindi un’idea di dominio sulla natura, che si
riflette anche nel modo di costruire: come la filosofia
conosce definendo, allo stesso modo l’architettura tende a
ridurre il mondo a figure primarie, al fine di poterlo
modificare, mentre la bellezza viene a coincidere con
l’ordine.
            Pur non producendo la stessa idea di dominio sul
mondo, questa volontà è addirittura maggiore nella cultura
araba, nata nel deserto, dove la vita sta solo dal lato
dell’uomo e dove la popolazione è costretta ad assumere un
atteggiamento difensivo per sopravvivere. Ciò ebbe un peso
determinante nel condurre la popolazione a raggrupparsi in
tribù piuttosto che dar vita a grandi civiltà e, probabilmente,
a darsi un unico Dio che sta al di sopra, piuttosto che nella
natura. Dal punto di vista architettonico, invece, ciò si
tradusse nel prevalere di forme tondeggianti come le cupole,
come se l’umanità che è assente nella natura venisse
ricercata     nelle     forme,   che    fluiscono    dall’interno
dell’individuo, piuttosto che essere funzionali al mondo
esterno.
            Questa volontà di potenza manca, invece, nella
cultura orientale, che si è dovuta adattare ad una natura
tanto ricca da imporsi, sviluppando un atteggiamento
ricettivo, che ha dato vita al particolare pensiero cui su
accennato, così come ad un’architettura che tende a non
sovrapporsi alla natura, lasciando ad essa la bellezza. La




                                                                    23
bellezza       risiede   nel   modo     congeniale      in   cui   vengono
combinate forme attinte così per come esistono in natura.
Sia il metodo che il sentimento passano in secondo piano:
prevale la ricerca dei dettagli, più che l’armonia che risulta
solo dall’insieme, mentre l’artista diventa un mezzo tramite
il quale la natura stessa appare manifestarsi. L’empatia non
viene né offuscata dalla razionalità, né assorbita dagli istinti,
come se l’oriente vedesse l’arte come espressione della
natura     per        mezzo    del   sé,   mentre      l’occidente    come
espressione del sé per mezzo della natura e ciò è evidente,
ad esempio, nella differenza fra i giardini occidentali e quelli
orientali.
             Il pensiero del Mediterraneo si è sviluppato tramite
la razionalizzazione del territorio, a cui è seguita la divisione
del lavoro, i commerci e, con la liberazione delle classi
dominanti dai bisogni primari, la nascita della polis e della
filosofia. Inoltre, man mano che la ricchezza si accumulava,
lo   spirito     di    competizione     ad   esso      sottostante,   si   è
manifestato           anche     nelle      crescenti      dimensioni       e
nell’esaltazione delle forme delle case, dei templi, dei palazzi
delle istituzioni, dei teatri, accanto alla formazione di
periferie il cui unico tema collettivo è dato dalla volontà di
sopravvivere.
             Passando per l’impero romano, la razionalità si è
spostata dalle sponde del Mediterraneo, sempre più verso
Nord, dove ha trovato un ambiente meno ospitale e
caloroso, ma per certi versi più sottomettibile, basti pensare
alle nubi che coprono il sole per gran parte dell’anno,




                                                                               24
benedicendo       il   terreno   pianeggiante   con    acqua    in
abbondanza, senza dar vita ad una eccessiva instabilità. Ciò
ha stimolato la forza di volontà e la razionalità è stata
portata alle estreme conseguenze, fino alla nascita della
tecno-scienza capitalistica.
           Si recide così il particolare legame fra pensiero e
ambiente, che aveva reso equilibrata la cultura occidentale,
tanto da divenire guida del mondo. Alla passione per la
natura, che aveva spinto verso le domande filosofiche e che
è pure evidente, ad esempio, nella scelta di posti unici su cui
edificare città come Taormina, che sorge in cima ad una
collina che sprofonda nel mare blu, lasciandosi alle spalle
spiagge dorate con l’Etna a dominare sullo sfondo, si
sostituisce la razionalità strumentale al sistema tecno-
capitalistico e la speculazione edilizia. Viene meno anche
l’affettività che sta dietro la condivisione degli spazi umani,
delle piazzette, dell’intreccio disordinato di viuzze che hanno
reso famosa Taormina. Conseguentemente, così come il
consumare non richiede che si facciano domande sul senso
della vita, il sistema, per minimizzare i costi e massimizzare
i profitti, non richiede architetti.
           Oggi, la costruzione avviene quasi senza più
badare all’ambiente circostante o alle esigenze umane, ma
in base a progetti standard. Così mentre blocchi di cemento
divorano le campagne e deturpano le coste, fino al punto in
cui   le   alluvioni   causate   dai   mutamenti   climatici   non
restituiscono a “Gaia” ciò gli appartiene, l’architettura, come
la filosofia, è costretta a ripiegare in meri esercizi di stile,




                                                                     25
come ad esempio la cupola con l’Arcangelo Gabriele del San
Raffaele a Milano, enormi cattedrali nel deserto, spesso
finanziabili solo con denaro pubblico, che sembrano mettersi
in competizione con Dio o voler ingenerare timore negli
uomini, piuttosto che ricordare che Gesù nacque in una
stalla.
          Credo che l’architettura, così come la filosofia, per
non estinguersi, debba esercitare una funzione critica, che
promuova un modo di vivere più consapevole, sia delle
esigenze umane, sia del valore dell’ecosistema naturale. In
questo modo l’architettura, specie in paesi come l’Italia,
potrebbe recuperare il suo spazio puntando sull’originalità
necessaria per armonizzare le esigenze umane con la
bellezza che è già contenuta nella natura e nella storia.
L’economicità si può ottenere anche valorizzando quanto la
natura già ci offre o riutilizzando sapientemente gli spazi
umani.
          Dal rapporto fra pensiero e ambiente emerge,
quindi,   come      l’occidente    abbia     privilegiato   la   tecnica
sacrificando   la    creatività.   Ma   la    tecnica   è   facilmente
scopiazzabile con la globalizzazione, mentre l’oriente può
adesso dispiegare le potenzialità creative proprie di quel
bagaglio culturale, che scaturiscono dalla apertura alle
domande sul senso che la cultura orientale favorisce.
          All’occidente resta invece la crisi culturale, che si
riverbera anche nella crisi economica e nel modo di abitare:
la capacità umana di provare una molteplicità di esperienze
tramite l’empatia è offuscata dal tradizionalismo e la luce




                                                                           26
dell’io non è più capace di illuminare altro fuorché i sentieri
degli istinti. L’uomo moderno vive così proiettato nel futuro
in   maniera       passiva,    come       se   il     futuro    fosse   eterna
riproduzione dell’esistente, perché non riesce a comprendere
appieno il presente. Ne consegue un narcisismo che può
divenire patologico e degenerare in amore per la morte se
portato     alle    estreme        conseguenze            da    una     società
interamente fondata sul possesso, come la nostra. Questa è
la tragedia dell’occidente. Non ci può essere convivenza
sociale se non si impara prima a convivere con se stessi e
con la propria natura. La morale non può basarsi su leggi
universali astratte, così come qualsiasi ordinamento può
venir travolto, se il legame sociale non risiede prima nella
cultura, intesa come consapevolezza tale da generare
affetto, dei governanti così come dei governati. Credo che
sia giunto il momento in cui l’occidente inizi ad apprendere
dall’oriente che, per evitare di coltivare il nichilismo come
volontà di potenza, occorre affrontarlo, senza tuttavia
perdere la propria identità distaccandosi dalla vita, ma
superandolo con l’amore, proprio come fece Gesù.
           Non penso che la via per uscire dalla crisi sia
quindi    rintracciabile      in   quei    filosofi     post-moderni,       che
evitano di prendere posizione, lasciando di fatto campo
aperto alla narrazione tecno-capitalistica. Il fatto che sia
morto Dio, non significa sia morta anche la morte e che
nell’universo esista solo il consumo. Le domande sull’uomo
rimangono      ed     è   compito     della         filosofia   assumersi    la
responsabilità di ricercare un senso, di modo tale che,




                                                                                  27
indebolita la ragione, non si indebolisca anche il desiderio di
ricerca.
            Tuttavia, se la filosofia cerca di rispondere senza
rinunciare al principio di non contraddizione non può che
ridursi a filosofia della religione o della scienza. Senza una
filosofia della morte si rischia la morte della filosofia. Non
solo   un     discorso   sulla    morte    è   propedeutico   alla
responsabilità, poiché se non esistono limiti non si avverte la
fragilità e l’unicità dell’esistenza, ma la morte è l’antagonista
della scienza moderna, perché la prospettiva del mutamento
è quella nella quale si potrebbe discutere su ciò che residua
alla potenza della natura dopo la prepotenza della tecnica.
Inoltre, la scienza può dirci qualcosa sulla morte come
evento naturale, ma nulla in quanto esperienza esistenziale.
Eppure,      la   questione      della    morte,   del   divenire,
dell’incertezza è stata rimossa, e insieme ad essa anche la
questione della vita.
            La via tradizionalmente alternativa è quella che
tenta la comprensione della realtà in maniera dinamica.
Tuttavia, in occidente forse questa via non è stata battuta
fino in fondo perché o si è applicato il metodo dialettico a
partire da un principio assoluto o si è riposto il principio
nella realtà ma non si è applicato il metodo dialettico,
oppure si è assolutizzata l’esistenza umana.
            In questo quadro, tratteggiato con estrema sintesi
per le esigenze di questo lavoro, si colloca Friedrich Engels.
Engels è uno di quei pensatori il cui valore si apprezza a
prescindere dalla finalizzazione, come il mediano delle




                                                                     28
squadre di calcio, e proprio in questa posizione potrebbe
tornare utile. Nella “Dialettica della Natura”, opera rimasta
incompiuta e pubblicata solo a partire dal 1924, egli si
concentrò soprattutto sulla dialettica                 come metodo di
indagine scientifica e anzi, probabilmente spinto dal fervore
suscitato dalla rivoluzione tecno-scientifica e dal fatto che gli
premeva più legittimare la dialettica in funzione politica che
filosofeggiare     sul   movimento        in    sé,    provò       anche      a
matematizzare il passaggio dalla quantità alla qualità. Gli
aspetti più profondi e filosofici del suo pensiero, pur presenti
e parecchio stimolanti, rimasero meno rifiniti e per gran
parte furono pubblicati come frammenti.
           I filosofi orientali provarono invece a dare un
fondamento alla loro dialettica, come su accennato, ma una
volta   individuato      l’uomo   come         luogo    dove      la     natura
acquisisce       consapevolezza,         portarono         alle        estreme
conseguenze la dimensione personale, in conformità alla
tradizione Zen, e per questa via giunsero al nulla assoluto.
Filosoficamente, ottennero così una categoria che permette
di   criticare   qualsiasi    altra   categoria        e   di     riaffermare
l’esistenza, intesa in termini non solo temporali ma spazio-
temporali, tuttavia continuarono a non spiegare come si
sviluppi la dialettica della natura.
           Su    questa      posizione     resta       dunque          possibile
innestare Engels, portandolo alle estreme conseguenze.
Infatti, se si assume che la natura operi dialetticamente,
non ci si può esimere dal ricercare il fondamento, perché
ogni relazione è mediata da un'altra relazione, fino al punto




                                                                                   29
in   cui   gli   opposti        si    confondono.     L’unica     categoria
ammissibile è quindi la mediazione assoluta, definibile come
energia o, se si vuole, spirito. Il mediatore assoluto è e al
contempo non è, perché è il movimento che permette il
mescolarsi delle forme nell’universale dialettico e che fa si
che la dialettica della natura sia creativa, tanto da creare un
essere creativo come l’uomo.
           Se la materia non fosse in fondo energia non si
potrebbe spiegare il movimento e nemmeno la vita: pure i
filosofi che negano il movimento sono il prodotto dell’energia
che muove le galassie e che fece sì che della materia si
concentrasse attorno ad una                    membrana per resistere
nell’ambiente. Anche il sé, come su esposto, è espressione
dell’universale    dialettico         ed   è    definibile   nella     coppia
istinti/empatia.    Se     la        consapevolezza     servirà      solo   ad
alimentare la volontà di potenza, quale sembra essere la
direzione intrapresa col dominio delle tecno-scienze, magari
a causa di un corpo meccanico, immerso in un ambiente
totalmente controllato, a morire non sarà la filosofia dello
spirito,   ma      lo    spirito        stesso.    All’opposto,       se    la
consapevolezza diventerà anche amore, allora è come se lo
spirito si manifestasse tramite l’uomo. La fioritura dello
spirito della natura dipende dagli uomini, come Diogene di
Sinope, coevo di Platone e definito da questi come “un
Socrate impazzito”, la cui filosofia coincide con la vita,
giunta fino a noi tramite la “Vita dei filosofi” di Diogene
Laerzio:




                                                                                 30
Durante il giorno andava in giro con la lanterna
accesa dicendo: “Cerco l’uomo”. Secondo alcuni fu il primo a
raddoppiare il mantello per la necessità anche di dormirci
dentro, e portava una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie;
in un primo tempo si appoggiava al bastone solo quando era
ammalato, ma successivamente lo portava sempre, non
tuttavia in città, ma quando camminava lungo la strada,
insieme con la bisaccia. Si serviva indifferentemente di ogni
luogo per ogni uso, per far colazione o per dormirci o per
conversare.   Mentre   faceva   colazione   nella   piazza    del
mercato, la gente che gli era intorno ripeteva: “Cane” e
Diogene: “Cani siete voi che mi state attorno mentre faccio
colazione”. E soleva dire che anche gli Ateniesi gli avevano
procurato dove potesse dimorare: indicava il portico di Zeus
e la Sala delle processioni. Una volta aveva ordinato ad un
tale di provvedergli una casetta; poiché quello indugiava,
egli si scelse come abitazione una botte.
         Fu straordinariamente pronto a rispondere alle
domande che gli venivano poste. Catturato dai pirati e
venduto come schiavo al suo compratore Seniade disse:
“Bada ad eseguire i miei ordini!” E Seniade: “Rimontano i
fiumi alle sorgenti”. E Diogene: “Se tu ammalato avessi
acquistato un medico, gli obbediresti o gli reciteresti
rimontano i fiumi alle sorgenti?”. Seniade, invero, lo comprò
e lo portò a Corinto. Qui gli affidò l’educazione dei figli e
l’amministrazione       domestica.          Diogene          curò
l’amministrazione in ogni riguardo, in modo tale che Seniade




                                                                    31
andava in giro dicendo: “Un demone buono è venuto a casa
mia”.
         Definì   l’avarizia   la   metropoli   di   tutti   i   mali.
Interrogato sulla sua patria rispose: “Cittadino del mondo”.
Diceva che gli oggetti di gran valore si vendono a minimo
prezzo, e viceversa: così una statua è venduta per tremila
dracme, un quarto di farina per due centesimi. Andava
gridando ripetutamente che gli dei hanno concesso agli
uomini facili mezzi di vita, ma anche, tuttavia li hanno tolti
dalla vista umana, perché essi cercano focacce con miele,
unguenti e simili. Diceva che l’inintelligenza degli sforzi
necessari è la causa dell’umana infelicità e che gli uomini
gareggiano nel darsi stoccate a vicenda e nello spararsi calci
l’un con l’altro, ma nessuno gareggia per diventare buono e
nobile d’animo. Perciò ad un tale che si lasciava calzare dal
servo, disse: “Non sei ancora felice se costui non ti soffia
anche il naso: verrà la perfetta felicità, quando avrai perso
l’uso delle mani”.
         Definiva il ventre la Cariddi della vita. Una volta
vide un giovinetto arrossire: “Coraggio – gli disse – questo è
il colore della virtù”. Ad un giovinetto tutto adornato che gli
rivolse una domanda, disse che non avrebbe risposto se
prima denudandosi non gli avesse mostrato se fosse donna
o uomo. Definiva le Etere regine dei re, perché i re fanno
tutto ciò che vogliono le etere. Sosteneva che nulla si può
ottenere nella vita senza esercizio, anzi che l’esercizio è
l’artefice di ogni successo. Lo stesso disprezzo del piacere
per chi vi sia abituato è cosa dolcissima. Chi gli disse che il




                                                                         32
vivere è un male fu così da lui corretto: “Non il vivere, ma il
viver male”.
             Egli diceva che tutti gli elementi sono contenuti in
ogni cosa e pervadono ogni cosa: così per esempio e nel
pane v’è carne e nella verdura v’è pane, perché in tutti i
corpi semplici e frugali attraverso invisibili pori penetrano
particelle     e   diventano   vapore.        Si     meravigliava    dei
matematici che guardavano al sole e alla luna e non
vedevano la realtà sotto i loro occhi. Definiva “bile” la scuola
di Euclide, la conversazione di Platone “perdita di tempo”.
Una volta scorse Platone che in un ricco convito toccava
soltanto olive e disse: “Come mai tu, filosofo che navigasti
in Sicilia proprio a causa di siffatte mense, ora che ti sono
imbandite non ne godi?” E lui di rimando: “Ma per gli dei, o
Diogene, anche là mi cibavo di olive e di cose del genere”. E
Diogene: “Poiché dunque andare a Siracusa? Forse l’Attica
non produceva olive?”. Un’altra volta mentre mangiava fichi
secchi incontrò Platone e l’invitò ad assaggiarli. Platone
prese e mangiò, e Diogene: “Avevo detto di assaggiarli, non
di divorarli”. Diogene una volta gli chiese del vino e,
contemporaneamente,         fichi   secchi.        Platone   gli   mandò
un’anfora piena di vino, e lui: “Se uno ti domanda quanto fa
due più due, risponderai venti? Così né dai nella misura in
cui ti si chiede né rispondi a quel che ti si chiede”.
             Durante un ricevimento offerto da Platone ad
amici che venivano da Dionisio, Diogene calpestando i suoi
tappeti disse: “Calpesto la vanagloria di Platone”. Qualcuno
gli fece rilevare che mentre egli era solito chiedere, Platone




                                                                           33
non chiedeva. E Diogene: “Anche lui chiede, ma avvicinando
il capo, si che gli altri non capiscano”. Discorrendo Platone
intorno alle idee e usando “tavolità” e “coppità” invece di
“tavola” e “coppa”, Diogene disse: “Io, o Platone, vedo la
tavola e la coppa; ma le idee astratte di tavola e di coppa
non le vedo”. Pregandolo Egesia di prestargli qualcuno dei
suoi scritti: “Sei sciocco, Egesia - disse Diogene - i fichi
secchi li preferisci reali, non dipinti, ma la tua pratica di vita
vuoi farla sui libri e non nella realtà quotidiana”. A chi gli
rimproverava     l’esilio   rispose:   “Ma   è   per   questo,   o
disgraziato, che mi diedi alla filosofia”. Diceva di imitare gli
istruttori dei cori: questi infatti danno il tono più alto, perché
tutti gli altri diano il tono giusto. Si narra anche che
Alessandro il Macedone abbia detto che se non fosse nato
Alessandro, avrebbe voluto nascere Diogene”.
          Trovava da ridire sulle preghiere degli uomini,
osservando che essi non chiedono i veri beni, ma ciò che a
loro sembra bene. Una volta vide una donna che supplicava
gli dei in atteggiamento piuttosto sconveniente. Desiderando
liberarla dalla superstizione le si avvicinò e le disse: “Non
pensi, o donna, che il dio può stare dietro di te, poiché tutto
è pieno della sua presenza, e che tu debba vergognarti di
pregarlo scompostamente?”. Pregandolo gli Ateniesi perché
diventasse iniziato e ripetendogli che gli iniziati ottengono
nell’Ade un posto privilegiato, Diogene disse: “Sarebbe
ridicolo se Agesilao ed Epaminonda dimoreranno nel brago e
persone di nessun conto, ma iniziate, vivranno nelle isole
dei beati”. Ad un altro che discorreva di fenomeni celesti,




                                                                     34
replicò: “Da quanti giorni sei venuto giù dal cielo?”. In un
modo simile rispose ad un tale che sosteneva che non esiste
il movimento: si alzò e si pose a camminare.
          Si tramanda che Diogene sia morto all’età di
novanta anni circa. Diverse versioni corrono sulla sua morte.
Una dice che egli dopo aver mangiato un polpo crudo fu
preso dal colora e morì. Secondo un’altra, egli morì
volontariamente trattenendo il respiro. Questa versione
ricorre anche in Cercida di Megalopoli, il quale si esprime nei
suoi Meliambi: non più, egli che un tempo fu cittadino di
Sinope, celebre per il suo bastone, per il doppio mantello e
per il vivere all’aria aperta, ma se ne andò al cielo,
premendo il labbro contro i denti. I cittadini ornarono il suo
sepolcro con statue di bronzo, su cui scrissero questi versi:
anche il bronzo cede al tempo e invecchia, ma la tua gloria,
o Diogene, rimarrà intatta per l’eternità, poiché tu solo
insegnasti ai mortali la dottrina che la vita basta a se stessa
e additasti la via più facile per vivere.




                                                                  35

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  • 1. NOVA UNIVERSITAS DIALOGHI D’ARAGONA – LO SPAZIO UMANO E LE CULTURE MEDITERRANEE LA TRAGEDIA DELL’OCCIDENTE MAURIZIO PARISI 1
  • 2. All’indomani della rivolta di Londra, il premier inglese David Cameron così commentava la devastazione delle opulente vetrine per le vie della capitale del capitalismo finanziario: “Useremo le maniere forti, ma nella nostra società c’è qualcosa che non va”. Nel frattempo in Libia, i ribelli marciavano verso Tripoli e, alle auto in fiamme e ai vetri in frantumi, si aggiungevano i loro cadaveri, insieme a quelli dei mercenari, con le stesse armi di fabbricazione occidentale, ai lati delle strade bombardate dalla Nato, a cuocere sotto il sole del deserto mangiati dalle mosche. Cosa c’è che non va se dittatori sanguinari vengono prima legittimati con la stipulazione di trattati economici e poi bombardati da quella stessa aeronautica che li omaggiava con parate acrobatiche? Pochi chilometri più a Nord, sotto lo stesso sole arroventato sotto il quale è divampata la rivoluzione in tutto il Nord-Africa, a Lampedusa, Italia, le stesse immagini di morte. Lungo le spiagge affollate dai turisti, il mare, di tanto in tanto, sottraeva ai pesci e restituiva qualche cadavere, dei migliaia, uomini, donne e bambini, annegati fra le pur docili onde estive del Mediterraneo, a causa delle carenze nei soccorsi, dei rimpalli di responsabilità fra l’Italia e il piccolo stato-isola di Malta e della propaganda xenofoba della ricca borghesia italiana. Cosa lega Londra a Tripoli passando per Lampedusa? Cosa non va nella nostra società, qual è la tragedia dell’occidente? Le parole del primo ministro conservatore David Cameron sono emblematiche perché 2
  • 3. sembrano l’ammissione della crisi della politica. In questa relazione proverò innanzitutto a mostrare che la politica non ha più risposte perché ha ceduto gran parte del suo spazio al mercato, finendo travolta dalla stessa onda lunga della crisi finanziaria, con le conseguenze sociali che stiamo vivendo. Tenterò poi di far emergere come la crisi abbia ragioni psicologiche sottostanti la concezione parziale che dello spazio e del tempo ha la tradizione di pensiero dell’occidente e come l’architettura possa intendersi compresa in questa crisi. Infine, felicissimo di essere eventualmente smentito, traccerò una possibile via d’uscita, prendendo spunto da Diogene di Sinope, raffigurato nel quadro di John William Waterhouse che accompagna come copertina questo elaborato e che è il filosofo antico che oggi, a mio avviso, incarna meglio il pensiero del Mediterraneo. Un po’ più ad est di Lampedusa, nelle isole greche dove, col sol estivo, approdano i mega-yacht dei magnati, ha avuto inizio un’altra guerra, senza spargimento di sangue, ma con una potenzialità distruttiva di un tipo mai visto prima, quella fra gli stessi magnati della finanza e gli Stati. Negli ultimi anni, infatti, anche a causa dell’evasione fiscale, spesso incentivata dai governi stessi, quasi tutti gli Stati occidentali si sono indebitati tanto da dover attingere sempre più al mercato finanziario. Il mercato finanziario dal canto suo sembrava essere un pozzo senza fondo perché, senza regolamentazione, il denaro veniva prodotto tramite speculazioni su titoli scollegate dall’economia reale, tanto che gli Stati, anno dopo anno, sono andati rifinanziando la 3
  • 4. massa debitoria con nuovo debito. Fino a quando, spacchettati i debiti e scoppiate le bolle, gli Stati maggiormente indebitati sono rimasti in balia dei grandi investitori, che hanno accumulato capitali tali da distorcere il mercato e parimenti una forza contrattuale senza precedenti. Forza contrattuale che si è tradotta nella richiesta di tagli di spesa come garanzia, con seguente difficoltà per i cittadini di accedere ai servizi e perdita di posti di lavoro. Negli ultimi decenni, inoltre, la produzione dei paesi occidentali era crescente e il sistema sembrava andare nel senso della piena occupazione. Tuttavia con la globalizzazione, cadute gran parte delle barriere tecniche e tecnologiche, la concorrenza di molti paesi che prima erano mercati, soprattutto dell’Asia, ha determinano la caduta dei profitti delle imprese occidentali, tanto che la produzione Cinese si appresta a superare quella degli U.S.A, il cui livello di disoccupazione accertato rasenta ormai le due cifre, quanto la disoccupazione europea. Per di più, il fatto che ingenti capitali siano diventati liberi di spostarsi da un capo all’altro del globo alla velocità di un click, ha indotto molti a ritenere il successo di un territorio meramente una questione di appetibilità rispetto ai flussi di capitali, limitando il ruolo della politica alla gestione dei servizi essenziali. Molti Stati che, sul dogma che il privato possa fare tutto in maniera più efficiente, avevano già deregolamentato e privatizzato, lo hanno fatto ulteriormente. Dogma, ad esempio, non seguito 4
  • 5. dalla Cina che, in alcuni settori, è intervenuta direttamente in economia, investendo nelle imprese pubbliche, pur lasciando libertà ai privati. Senz’altro, l’economia cinese è cresciuta anche a causa di uno sfruttamento disumano del lavoro che va denunciato, tuttavia credo che non si possa ridurre l’enorme sviluppo di un così vasto e popoloso territorio, in così poco tempo, alla sola assenza di tutela del lavoro. Non solo, come specificherò nel proseguo, la creatività, cioè altresì la capacità d’innovazione produttiva, è una questione culturale, ma credo che, anche dal punto di vista meramente economico, il successo di un territorio non possa costruirsi limitandosi ad inseguire i flussi di capitale, rinunciando ad un ruolo attivo della politica e magari smembrando gli Stati a seconda della competitività della singola zona. Creando occupazione tramite imprese pubbliche, la Cina ha favorito la circolazione della ricchezza, predisponendo un territorio fertile anche per il privato. Per contro in occidente, il dogma dell’efficienza del profitto è stato smentito dalla necessità di intervento pubblico per salvare grandi istituti di credito dalla bancarotta, spesso fraudolenta, e dalla crescita della forbice tra ricchi e poveri, dimostrando che, senza un controllo politico, l’egoismo economico conduce all’illegalità e alle concentrazioni. Nonostante ciò, oggi, non è tuttavia prioritario ipotizzare che se anche esistessero mercati globali efficienti, ma privi della funzione redistributiva dello Stato, una quota di disoccupazione sarebbe necessaria per alimentare il 5
  • 6. profitto e tenderebbe ad aumentare man mano che si implementa la tecnologia e si ridimensiona il ruolo della finanza perché, prima che il sistema imploda su se stesso, il dogma della crescita illimitata cozza con la limitatezza dell’ambiente. I disastri nucleari, come quello di Fukushima, sono tristemente emblematici perché evidenziano, da un lato, come la potenza della natura resti superiore a qualsiasi tecnologia e, dall’altro, come la natura sia la nostra casa originaria. La natura ha un valore inestimabile non semplicemente perché è ciò che utilizziamo per esistere come individui, ma perché la materia che forma l’ambiente esterno è la stessa che ci costituisce. Fra quelle forze immani, si annida un fragile ecosistema, di cui noi stessi siamo espressione, anche se spesso ce ne accorgiamo solo quando siamo costretti ad evacuare le zone contaminate dalle radiazioni, per non subire mutazioni genetiche. Non si vuole demonizzare la molla del profitto, solo denunciare gli eccessi nel santificare il privato, che conducono a non considerare che l’unico modo per eliminare i riflessi negativi della competitività è la mediazione della politica. L’occidente è in crisi perché alla società liquida ha risposto con la politica liquida. E che la politica sia liquida, ancor prima che dalle dichiarazioni dei leaders politici, emerge dalle università, ad esempio in sociologia, dove sempre più ci si limita a descrivere la società e sempre meno si immaginano nuove forme di convivenza. Ciò che, più o meno surrettiziamente, sfugge sotto l’egida della 6
  • 7. scientificità è che, essendo l’uomo creativo, i paradigmi non sono mai neutrali, ma costituiscono una posizione politica: rinunciare alla critica equivale a legittimare le istituzioni vigenti, salvo rimanere senza parole quando la storia riappare specchiandosi nel sangue delle rivoluzioni. Ma soprattutto, le rivoluzioni non sono separabili da quei sistemi di equazioni con cui si interpretano i rapporti economici nella stragrande maggioranza delle facoltà di economia. Quei modelli costruiti sull’assunzione che l’essere umano sia homo oeconomicus, cioè dotato delle capacità di calcolo di un computer e rapportato al mondo in maniera esclusivamente acquisitiva (massimizzazione profitto). L’uomo economico non ha bisogno della politica e men che meno del confronto con se stesso o con la natura per dare un senso alla propria esistenza, perché il senso è già dato dal mercato. Tuttavia, come dimostrano le crisi e le rivoluzioni, i rapporti economici sono anche rapporti umani e basare l’intera teoria economica sulla massimizzazione del profitto significa disconoscere, non solo che la razionalità umana è limitata e l’uomo non è un computer, ma ancor prima che ciò che caratterizza l’essere umano è la molteplicità dell’esperienza, l’emotività. Oltre alle previsioni errate, succede allora che, quando dalle facoltà di economia, passando per le banche, si giunge alla società, la competitività, osannata nei manuali, si trasforma in odio. La società moderna è malata perché il denaro da mezzo è divenuto fine, colonizzando l’immaginario collettivo e meccanizzando i rapporti sociali. L’altro esiste 7
  • 8. esclusivamente in quanto competitor o nella misura in cui sia strumentalizzabile e inevitabilmente il senso di insicurezza finisce per attanagliare tutti, a partire dall’attività lavorativa, fino a contaminare le relazioni interpersonali e il modo di pensare e di essere. Nonostante la tecnologia, l’orario di lavoro, così come la morte sul lavoro, è aumentato, mentre i manager guadagnano migliaia di volte di più di un operaio. Le forme giuridiche di organizzazione flessibile del lavoro finiscono per piegare la vita dei precari in misura tale che l’alienazione oggi non sta più tanto nelle condizioni di produzione delle fabbriche, quanto nel fatto che catena di montaggio è diventata l’intera organizzazione del lavoro globalizzato e il singolo lavoratore non conosce se, dove e per chi lavorerà, né tanto meno il prodotto del suo lavoro. Invece di proteggere le persone contro la paura, garantendo un minimo di certezze, i governi la alimentano, appellandosi ad una maggiore flessibilità in tutti i settori già regolati dalle forze di mercato e delegando le funzioni sociali alle organizzazioni umanitarie, alla Caritas o magari alla sussidiarietà di qualche stravagante filantropo, salvo poi richiamarsi ad esigenze di controllo sui devianti, come i migranti o i disoccupati e tutti gli esclusi, per i quali non restano che le maniere forti di cui parlava Cameron: un carcere sovraffollato. Men che meno le istituzioni internazionali sono state capaci di attenuare i conflitti e anzi spesso li hanno alimentati, perché mosse dalle medesime logiche 8
  • 9. economiche e per gran parte sottratte al controllo democratico. Si pensi alla Banca Centrale Europea, la cui indipendenza dalla politica si è tradotta in ciò che le manovre sui tassi e gli interventi sulla massa monetaria, vengono effettuati esclusivamente in reazione ai mercati. Si verifica così che pur di non intaccare minimamente il valore della moneta, si fanno fallire gli Stati o si condiziona il sostegno a parametri tali per cui per gli Stati in difficoltà sarebbe preferibile fallire, senza il minimo riguardo per le conseguenze sociali che ciò comporta. La paura finisce così per pregiudicare anche i rapporti affettivi, che vengono dimensionati in funzione della loro utilità, in modo da poter essere disfatti quando questa cessa e prima di essere a propria volta abbandonati. La famiglia tradizionale, ad esempio, è in crisi non solo perché crescere un figlio è diventato un privilegio, ma perché la competizione contamina la dimensione affettiva, che viene basata sulla passione più che sulla compassione. Anche il desiderio di condividere una vita diventa allora precario, fino a perdersi nell’individualismo proprietario che caratterizza la società moderna, tanto che è verosimile ipotizzare che più le ragioni economiche si imporranno su quelle sentimentali, più lo spazio della famiglia sarà destinato a ridursi, fino a che l’organizzazione familiare si modificherà strutturalmente. L’eclissi della politica determina anche che attività di tipo culturale, non indispensabili alla produzione o che difficilmente possono autofinanziarsi, cessano di esistere. Alla cultura si sostituisce l’industria culturale, cioè 9
  • 10. l’entertainment dello sballo, valvola di sfogo dello sfruttamento, funzionale agli interessi delle lobby. I grandi gruppi mediatici privati, tramite l’overdose di spot, gossip, veline e calciatori, promuovono un immaginario collettivo sganciato dalla vita reale, specie dai problemi della gente povera. Tutto ciò che potrebbe mettere in discussione lo stile di vita propagandato dai mass media commerciali ossia il reality della classe agiata, viene ridotto a barzelletta, facendo perdere coscienza, oltre che della dimensione della cittadinanza, dei misteri fuori nell’universo e dentro di noi. Inoltre, come cercherò di mostrare nel proseguo, stimolando il desiderio continuo di beni, si risponde ad un’istanza legata agli istinti, che limita l’empatia umana, riducendola ad una mera funzione cognitiva e privandola del contenuto affettivo che le è proprio. Si genera così un profondo narcisismo, che determina una sorta di regressione a stadi di sviluppo infantile. L’uomo moderno pensa semplicemente che porsi domande filosofiche sia da “sfigati” o da pazzi, colmando il vuoto esistenziale drogandosi di emozioni in quei (non) luoghi che la stessa industria culturale fornisce, come i grandi centri commerciali, dove tutto sembra a disposizione, come nel Paese dei Balocchi del Pinocchio di Collodi, in quel poco tempo libero strappato alla produzione: “Hai torto, Pinocchio! Credilo a me che, se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più sano per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole, lì non vi sono 10
  • 11. maestri, lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. “Che bel paese!“ disse Pinocchio, sentendo venirsi l'acquolina in bocca. “Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro…!” “Pinocchio!” disse allora Lucignolo. “Da' retta a me, vieni con noi, e staremo allegri”. No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo per bene, e voglio mantenere la promessa. Vieni con noi e staremo allegri, gridarono altre quattro voci di dentro al carro. Vieni con noi e staremo allegri, urlarono tutte insieme un centinaio di voci. Pinocchio obbedì. Il carro dell’Omino riprese la sua corsa, e la mattina, sul far dell'alba, arrivarono felicemente nel “Paese dei balocchi”. […] Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola; quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo messe proprio di malumore. E questa sorpresa quale fu? E Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che a Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse... Indovinate un po' di che cosa si accorse? Si accorse con suo grandissimo stupore, che gli orecchi gli erano cresciuti più d'un palmo. 11
  • 12. In questa involuzione, il “bel paese” a precedere tutti a livello globale è stata l’Italia, dove svalutare tutto ciò che è di interesse collettivo è servito direttamente per sfiduciare le persone e per ridurre il numero di voti da comprare per vincere le elezioni. Come accennato all’inizio, però, sotto quest’aspetto nemmeno la religione e la filosofia sono esenti da responsabilità, come dimostra il fatto che tale regressione culturale è avvenuta col consenso di tutti quegli intellettuali che hanno continuato a predicare i loro salmi, mentre accondiscendevano alle leggi ad hoc e ai miserabili imbrogli che hanno insozzato la vita politica italiana degli ultimi decenni. I monoteismi presentano la morte come un passaggio che porta alla continuazione della vita in un ordine trascendente. Ciò può fornire un riparo dall’angoscia, ma determina che gli uomini finiscano per staccarsi dal mondo, come se si formasse una realtà parallela personale e spesso una doppia morale. Nei conflitti interreligiosi, la morte dei miscredenti può così diventare legittima mentre, al di là dei fondamentalismi cattolici o islamici, può accadere che gli uomini inizino a porsi di fronte alle cose della vita con fatalismo e ignavia. Infatti, se il significato della vita risiede in un ordine trascendente e la morte non ha un valore in sé, allora nemmeno la vita ha un valore in sé e non c’è motivo di amarla nella sua differenziazione. In particolare, se ciò che ci accomuna non è la corporeità, allora non c’è un motivo in sé per provare compassione per il dolore o di gioire per il semplice fiorire della vita degli altri. 12
  • 13. A mio avviso, ad esempio, è proprio per queste ragioni che la dottrina sociale della chiesa e la vita di Gesù sono costrette a cedere il passo rispetto alla tradizione dogmatica e al Cristo in croce. Si può dubitare sul fatto che la chiesa cattolica abbia speranza di salvarsi tramite credenze vecchie di millenni e tramite le nuove crociate contro il preservativo, gli omosessuali, le coppie di fatto, la ricerca scientifica, l’eutanasia e via dicendo, in un mondo dove ad essere globale è anche la circolazione delle idee. Ma a prescindere da ciò, come proverò a chiarire nel proseguo, credo che prima di ogni religione venga la religiosità, che è il portato delle capacità empatiche che l’uomo possiede in quantità tale da costituire una qualità rispetto agli altri animali. Qualità sacra, tramite la quale è come se la stessa natura acquisisse consapevolezza, permettendo all’energia che la costituisce di dispiegarsi nell’amore. In primo luogo nell’amore per i propri simili, di cui si condividono le identiche sensazioni e rispetto ai quali l’empatia può divenire la simpatia di cui parlavano i filosofi ben prima dello sviluppo delle neuroscienze. I monoteismi, assumendo l’idea che esista un ordine trascendente e trasformandolo nel luogo della salvezza, ereditano la stessa impostazione e gli stessi problemi della filosofia occidentale. Il pensiero occidentale tende infatti a situare il fondamento della realtà in un ordine assoluto e/o assolutizzare la mente, mentre il corpo viene ridotto a peccato, apparenza o sensazione passiva. La tradizione occidentale tende cioè a caratterizzarsi in senso 13
  • 14. soggettivistico, perché conosce riducendo la complessità tramite forme che interagiscono meccanicamente, prodotte in uno spazio e in un tempo ideali, indipendenti dal corpo e dal mondo. La conoscenza per gli occidentali ricalca una relazione di tipo visivo, dove soggetto ed oggetto non si contaminano e che opera come se si apponesse una griglia sul mondo, eliminando la vitale distanza fra la realtà e la rappresentazione di essa. Peraltro, assumendo che l’ordine ideale possa corrispondere con l’ordine della natura, la filosofia è stata soppiantata dalla tecno-scienza, che ne ha fatto proprio il metodo, affinandolo tramite la matematizzazione e rendendolo utilizzabile tramite la tecnologia. Anche la scienza, quindi, non può che operare in maniera parziale e in un’ottica di breve periodo perché, come approfondirò nel proseguo, la natura non va intesa in maniera meccanica ma dialettica. Né, dall’altro lato, le complesse dinamiche che l’interconnessione universale è capace di creare possono essere sussunte in leggi sperimentali, se non ancora nei termini di mera utilità dei paradigmi. Tuttavia, ciò che è importante rilevare ai fini di questo lavoro è che alla filosofia non è rimasto allora che cercare di ritagliarsi uno spazio legittimando logicamente tali procedimenti, fino a predicare che l’essere sia fisso e immutabile, senza che ciò abbia impedito che nella maggior parte delle università le problematiche non solo economiche, ma anche sociologiche, psicologiche e giuridiche vengano risolte sempre più spesso applicando modelli matematici. Ha 14
  • 15. invece determinato che metodi e scopi dell’attività scientifica non abbiano più un rapporto diretto con i bisogni degli uomini, perché con la morte della parola si perde la dimensione qualitativa, vitale ed esistenziale. Per di più per questa via, la filosofia è stata spiazzata dalla scienza, ad esempio perché gli scienziati hanno scoperto che i neutrini vanno più veloce della luce o perché pur registrando la presenza di buchi neri disseminati per l’universo, non sono in grado di definire scientificamente lo stato della materia ivi risucchiata, oppure perché sono concepibili geometrie non euclidee. Si potrebbe continuare con altri esempi, ma il punto decisivo è, a mio avviso, che il pensiero stesso si può spiegare scientificamente come intimamente legato al corpo e quindi all’ambiente. Decisivo anche perché potrebbe (ri)aprire qualche via alla filosofia. Quando si considera l’ambiente, l’errore che spesso si fa è vederlo esclusivamente come un oggetto, che non influisce sulla soggettività. Invero, è solo considerando la soggettività come intimamente legata al corpo e quindi all’ambiente che emergono lo spazio e il tempo nella loro forma originaria e inseparabilità. La struttura degli individui si è differenziata e continua a differenziarsi a partire dall’ambiente. L’ambiente non solo seleziona i geni mutati casualmente, ma ne può provocare una diversa espressione tramite meccanismi di natura adattativa, un po’ come affermava Lamarck o come succede nella Metamorfosi di Kafka, ma con evidenze di tipo scientifico. Infatti, secondo gli studi di epigenetica, termine 15
  • 16. che deriva da epigenesi, impiegato da Aristotele per denotare la generazione di individualità a partire dal non formato, la presenza o l’assenza di certi fenomeni esterni è in grado di operare un condizionamento sul genoma, determinando l’attività di alcuni geni e la quiescenza di altri, senza influire sulla struttura di base del DNA. I cambiamenti epigenetici si conservano nella divisione cellulare, durante il corso della vita di un organismo e si ritiene che, qualora una mutazione epigenetica sia coinvolta nella riproduzione, possa anche essere ereditata dalla generazione successiva. Nemmeno la consapevolezza necessita di un salto trascendentale, perché la natura che si manifesta nelle sensazioni, nell’uomo diventa consapevole differenziandosi nell’empatia. L’empatia si è sviluppata probabilmente a partire dal rapporto che lega la madre a quanto nasce dal suo grembo, costituendo una sorta di istinto della specie, che deve essere stato per lungo tempo l’unico legame sociale. Non è sconosciuta in filosofia dove, col termine simpatia, gli antichi designavano la capacità delle cose nell’universo di influenzarsi a vicenda. Di simpatia, con riferimento all’uomo, ne hanno parlato anche Adam Smith e David Hume, mentre oggi le neuroscienze, in particolare un gruppo si scienziati italiani afferente all’università di Parma, affermano di avere individuato il luogo dell’empatia nei neuroni specchio, cioè neuroni che si attivano sia quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione, che quando siamo noi a compiere quella stessa azione. 16
  • 17. L’empatia svolge, innanzitutto, una funzione cognitiva, facendo si che le sensazioni acquistino oggettività, trasformandosi in significati di base che precedono il linguaggio. La sensazione opera, cioè, attivamente nel modo in cui strutturiamo i concetti perché, tramite la mediazione dell’empatia, le esperienze corporee danno vita ad un primordiale senso di sé, inseparabilmente accoppiato al senso dell’altro, che precede e rende possibile qualsiasi linguaggio. Questa funzione mediatrice corrisponde a quella che Adam Smith denominava simpatia, ma che equivale alla pura e semplice capacità di metterci nei panni dell’altro, senza necessariamente condividerne le sensazioni e permettendoci, ad esempio, anche di godere sadicamente del dolore altrui. La discontinuità rispetto al mondo opera quindi già a livello del sé e, anche se forme di razionalità sono possibili senza linguaggio, quello che noi chiamiamo pensiero è il dono di poter dar veste al sé tramite la memoria e i simboli. Le idee di spazio e di tempo rappresentano una modalità di interpretazione della realtà perché, rispetto al sé, il tempo è la vitalità dello spazio. L’io può essere inteso come luogo dello sviluppo del sé e qualsiasi linguaggio è metaforico e storicamente determinato nella semantica, cosi come nella grammatica e nella sintassi. Il linguaggio non è né innato, né esclusivo dell’uomo, come hanno messo in evidenza le ricerche sulla capacità di imitazione che i neonati hanno delle espressioni facciali degli adulti o quelle sulla capacità di alcune specie 17
  • 18. animali di inventare semplici simboli per comunicare, ad esempio, quando avvistano un predatore. Certamente nessun animale ha una consapevolezza tale da inventare linguaggi complessi, ma certi primati possono apprendere e utilizzare linguaggi umani, come quello gestuale e utilizzarli anche in assenza di stimoli, come se acquisissero un rudimentale pensiero. All’opposto, recentissimo è l’agghiacciante caso, scoperto a Bari, di una bambina che per i primi sette anni di vita era stata tenuta dai genitori in cattività, insieme ad un cane: la bimba ne aveva imitato i comportamenti e sapeva solo mangiare nella ciotola e abbaiare. Come su accennato, tuttavia, l’empatia possiede anche un contenuto affettivo proprio e originario, così come aveva sostenuto Hume, utilizzando anch’egli, in maniera più appropriata, il termine simpatia. Alla tendenza a portarsi al di là del proprio io, si accompagna cioè la capacità di provare le stesse sensazioni dell’altro, come se l’esperienza si trasmettesse e si creasse una intersoggettività. All’interno del sé si sviluppa così la dialettica istinti/empatia, che determina il carattere del pensiero. Alcune tendenze di questa dialettica verranno tratteggiate nel proseguo, affrontando il tema del rapporto che lega pensiero ed ambiente, anche con riferimento all’architettura. Quello che va evidenziato adesso è che un sostegno a quanto diremo ce lo offrono di nuovo le neuroscienze quando affermano che l’esperienza plasma il cervello modificando, aggiungendo o eliminando sinapsi neuronali. 18
  • 19. Va sottolineato, tuttavia, che il grado di consapevolezza dell’uomo è tale da permettergli di utilizzare i simboli anche criticamente, di modo tale da portare alla coscienza i condizionamenti sia interni che esterni. Così il soggetto può esistere e può sviluppare la propria umanità promuovendo un linguaggio legato all’empatia più che agli istinti. Le risposte stanno nel sentiero che le domande aprono e per ciò bisogna impedire che la parola venga strumentalizzata e tecnicizzata oltremisura, affinché si possa realizzare cultura nel senso pieno del termine. Va da sé che invece di criticare chi è “iperformato”, tutta la società umana dovrebbe tendere alla educazione continua. Ciò trova però anche fondamento nel fatto che l’empatia, per non essere offuscata dalla tradizione o assorbita dagli istinti e potersi sviluppare pienamente in simpatia, deve essere coltivata e ciò può avvenire con la libera ricerca e lo studio. Da questa prospettiva, si può comprendere anche l’importanza di un mezzo di comunicazione di tipo orizzontale quale internet, che non solo permette l’accesso ad una mole sterminata di informazioni e il loro scambio in tempo reale a livello globale, ma permette la condivisione delle idee. Non credo, tuttavia, che la rivoluzione del Nord- Africa sia da ascrivere esclusivamente ad internet, che pure è stato determinante. Ancor prima, credo che si tratti di una rivoluzione che nasce dall’occidentalizzazione e dalla conseguente frana dei valori legati alla tradizione islamica: i giovani tunisini o egiziani desiderano la libertà, compresa quella di consumare, che hanno visto sui canali televisivi 19
  • 20. occidentali o nei villaggi turistici costruiti sulle loro coste, ben prima dell’avvento della rete. Credo invece che, in paesi come l’Italia, grazie ad internet, si possa, se non ricreare un luogo in cui si acquisisce la coscienza sociale, ampliare i contenuti della cittadinanza, tramite la partecipazione e il confronto. Come il vetro, che pur essendo trasparente costituisce pur sempre una barriera, similmente le relazioni sulla rete non possono essere piene e spontanee, ma la piazza del comizio o la sede di partito avevano cessato di essere il luogo della politica, in favore dei salotti e dei talk- show televisivi, ben prima dell’avvento della rete e anzi, sempre più spesso, la trasparenza che caratterizza internet permette di farne il mezzo per organizzare, incontri, eventi, manifestazioni, rivoluzioni reali. Per certi versi simile a quella sopra tratteggiata con l’ausilio delle neuroscienze1 è la posizione della filosofia orientale, secondo la quale non esiste uno spazio proprio dell’uomo, nemmeno nella sua mente: da un lato, qualsiasi cosa l’uomo definisca essere non può mai comprendere l’essere perché tutto è interdipendente e in divenire, dall’altro, in questa dinamica il soggetto stesso è ricompreso. Ciononostante, non si ricade nell’oggettivismo perché si ritiene che la realtà stessa diventi consapevole nel sé, tramite un’intuizione che è anche azione perché corporea, ma che precede la predicazione logica. 1 Si ringrazia Giuseppe Mento, neurologo presso il dipartimento di neuroscienze dell’Università di Messina, per i consigli e la supervisione. 20
  • 21. Si potrebbe pensare che l’espressione filosofia orientale faccia genericamente riferimento alla tradizione mistico-religiosa e alla varietà di sfaccettature da essa assunta, dall’India al Giappone nel corso dei millenni. Per filosofia orientale si intende, invece qui, precisamente, una scuola filosofica, anche se il termine orientale, può non venir volentieri accostato a quello di filosofia da coloro che considerano la filosofia come qualche sorta di metodo. Eppure quei pensatori accomunati sotto il nome Scuola di Kyoto a cui, in questa sede, si farà cenno soltanto genericamente, a prescindere dal fatto che siano riusciti o meno nell’impresa, si proponevano proprio di fare filosofia nel senso occidentale del termine, sebbene coniugandola con la cultura orientale e in particolare con lo Zen. Come si avrà modo di chiarire nel proseguo, infatti, pur rinunciando all’idea di un essere assoluto, essi non rinunciarono a ricercare un fondamento. Il pensiero occidentale è un pensiero prevalentemente tecnico, che fu ideato per rispondere a problemi pratici e precisamente ai problemi che poneva l’ambiente del Mediterraneo nel quale la filosofia nacque. La Grecia non è molto diversa dalla Sicilia. La Sicilia si erge in una posizione centrale nel Mediterraneo, di cui è l’isola maggiore. Il territorio è collinare, sono pochi i rilievi che superano i 2000 metri, così come sono poche le pianure e i fiumi. Al contempo però, la pendenza delle colline non è tale da impedire il pascolo o la coltivazione dell’ulivo, della vite, degli agrumi e di molte varietà di alberi da frutto. Inoltre, i 21
  • 22. torrenti riescono frequentemente a strappare ai rilievi piccole valli pianeggianti e, specie nei pressi dell’Etna, anche piane più ampie, nelle quali si possono coltivare gli ortaggi. A queste latitudini prevale il sole, che rende le estati lunghe e secche e che durante tutto l’anno non smette di ritagliarsi spazio fra le nubi, sorprendendo con scorci di bella stagione anche in pieno inverno. Tuttavia, gli inverni sono abbastanza piovosi, così come l’inizio primavera e il finale dell’autunno, tanto da far crescere una vegetazione coriacea anche se non lussureggiante, e sempre più rigogliosa man mano che, salendo dal mare, verso i 600 metri, alla macchia mediterranea si aggiunge l’odor delle felci mischiato a quello dei boschi di castagno. Il Mediterraneo non è pescoso come l’Oceano, ma è temperato e le brezze che salgono dal mare mitigano sia l’afa estiva, sia il gelo invernale. I venti non soffiano in maniera tempestosa, mentre le numerose insenature offrono porti sicuri per le barche e le navi, senza nebbia e con buona visibilità, se si escludono i giorni in cui lo Scirocco africano occupa il cielo con basse nubi, che a volte si fanno d’orate come un’immagine riflessa del deserto del Sahara, di cui trasportano la sabbia, che può giungere al suolo mista a pioggia. Questa relativa disponibilità della natura, non così minacciosa da rendere vana ogni resistenza e costringere ad un atteggiamento difensivo, ma nemmeno così docile da non richiedere la trasformazione tramite il lavoro, ha plasmato il pensiero occidentale e ciò è massimamente 22
  • 23. evidente nell’architettura, le cui forme regolari sembrano le forme stesse del Mediterraneo. Connessa al pensiero occidentale c’è quindi un’idea di dominio sulla natura, che si riflette anche nel modo di costruire: come la filosofia conosce definendo, allo stesso modo l’architettura tende a ridurre il mondo a figure primarie, al fine di poterlo modificare, mentre la bellezza viene a coincidere con l’ordine. Pur non producendo la stessa idea di dominio sul mondo, questa volontà è addirittura maggiore nella cultura araba, nata nel deserto, dove la vita sta solo dal lato dell’uomo e dove la popolazione è costretta ad assumere un atteggiamento difensivo per sopravvivere. Ciò ebbe un peso determinante nel condurre la popolazione a raggrupparsi in tribù piuttosto che dar vita a grandi civiltà e, probabilmente, a darsi un unico Dio che sta al di sopra, piuttosto che nella natura. Dal punto di vista architettonico, invece, ciò si tradusse nel prevalere di forme tondeggianti come le cupole, come se l’umanità che è assente nella natura venisse ricercata nelle forme, che fluiscono dall’interno dell’individuo, piuttosto che essere funzionali al mondo esterno. Questa volontà di potenza manca, invece, nella cultura orientale, che si è dovuta adattare ad una natura tanto ricca da imporsi, sviluppando un atteggiamento ricettivo, che ha dato vita al particolare pensiero cui su accennato, così come ad un’architettura che tende a non sovrapporsi alla natura, lasciando ad essa la bellezza. La 23
  • 24. bellezza risiede nel modo congeniale in cui vengono combinate forme attinte così per come esistono in natura. Sia il metodo che il sentimento passano in secondo piano: prevale la ricerca dei dettagli, più che l’armonia che risulta solo dall’insieme, mentre l’artista diventa un mezzo tramite il quale la natura stessa appare manifestarsi. L’empatia non viene né offuscata dalla razionalità, né assorbita dagli istinti, come se l’oriente vedesse l’arte come espressione della natura per mezzo del sé, mentre l’occidente come espressione del sé per mezzo della natura e ciò è evidente, ad esempio, nella differenza fra i giardini occidentali e quelli orientali. Il pensiero del Mediterraneo si è sviluppato tramite la razionalizzazione del territorio, a cui è seguita la divisione del lavoro, i commerci e, con la liberazione delle classi dominanti dai bisogni primari, la nascita della polis e della filosofia. Inoltre, man mano che la ricchezza si accumulava, lo spirito di competizione ad esso sottostante, si è manifestato anche nelle crescenti dimensioni e nell’esaltazione delle forme delle case, dei templi, dei palazzi delle istituzioni, dei teatri, accanto alla formazione di periferie il cui unico tema collettivo è dato dalla volontà di sopravvivere. Passando per l’impero romano, la razionalità si è spostata dalle sponde del Mediterraneo, sempre più verso Nord, dove ha trovato un ambiente meno ospitale e caloroso, ma per certi versi più sottomettibile, basti pensare alle nubi che coprono il sole per gran parte dell’anno, 24
  • 25. benedicendo il terreno pianeggiante con acqua in abbondanza, senza dar vita ad una eccessiva instabilità. Ciò ha stimolato la forza di volontà e la razionalità è stata portata alle estreme conseguenze, fino alla nascita della tecno-scienza capitalistica. Si recide così il particolare legame fra pensiero e ambiente, che aveva reso equilibrata la cultura occidentale, tanto da divenire guida del mondo. Alla passione per la natura, che aveva spinto verso le domande filosofiche e che è pure evidente, ad esempio, nella scelta di posti unici su cui edificare città come Taormina, che sorge in cima ad una collina che sprofonda nel mare blu, lasciandosi alle spalle spiagge dorate con l’Etna a dominare sullo sfondo, si sostituisce la razionalità strumentale al sistema tecno- capitalistico e la speculazione edilizia. Viene meno anche l’affettività che sta dietro la condivisione degli spazi umani, delle piazzette, dell’intreccio disordinato di viuzze che hanno reso famosa Taormina. Conseguentemente, così come il consumare non richiede che si facciano domande sul senso della vita, il sistema, per minimizzare i costi e massimizzare i profitti, non richiede architetti. Oggi, la costruzione avviene quasi senza più badare all’ambiente circostante o alle esigenze umane, ma in base a progetti standard. Così mentre blocchi di cemento divorano le campagne e deturpano le coste, fino al punto in cui le alluvioni causate dai mutamenti climatici non restituiscono a “Gaia” ciò gli appartiene, l’architettura, come la filosofia, è costretta a ripiegare in meri esercizi di stile, 25
  • 26. come ad esempio la cupola con l’Arcangelo Gabriele del San Raffaele a Milano, enormi cattedrali nel deserto, spesso finanziabili solo con denaro pubblico, che sembrano mettersi in competizione con Dio o voler ingenerare timore negli uomini, piuttosto che ricordare che Gesù nacque in una stalla. Credo che l’architettura, così come la filosofia, per non estinguersi, debba esercitare una funzione critica, che promuova un modo di vivere più consapevole, sia delle esigenze umane, sia del valore dell’ecosistema naturale. In questo modo l’architettura, specie in paesi come l’Italia, potrebbe recuperare il suo spazio puntando sull’originalità necessaria per armonizzare le esigenze umane con la bellezza che è già contenuta nella natura e nella storia. L’economicità si può ottenere anche valorizzando quanto la natura già ci offre o riutilizzando sapientemente gli spazi umani. Dal rapporto fra pensiero e ambiente emerge, quindi, come l’occidente abbia privilegiato la tecnica sacrificando la creatività. Ma la tecnica è facilmente scopiazzabile con la globalizzazione, mentre l’oriente può adesso dispiegare le potenzialità creative proprie di quel bagaglio culturale, che scaturiscono dalla apertura alle domande sul senso che la cultura orientale favorisce. All’occidente resta invece la crisi culturale, che si riverbera anche nella crisi economica e nel modo di abitare: la capacità umana di provare una molteplicità di esperienze tramite l’empatia è offuscata dal tradizionalismo e la luce 26
  • 27. dell’io non è più capace di illuminare altro fuorché i sentieri degli istinti. L’uomo moderno vive così proiettato nel futuro in maniera passiva, come se il futuro fosse eterna riproduzione dell’esistente, perché non riesce a comprendere appieno il presente. Ne consegue un narcisismo che può divenire patologico e degenerare in amore per la morte se portato alle estreme conseguenze da una società interamente fondata sul possesso, come la nostra. Questa è la tragedia dell’occidente. Non ci può essere convivenza sociale se non si impara prima a convivere con se stessi e con la propria natura. La morale non può basarsi su leggi universali astratte, così come qualsiasi ordinamento può venir travolto, se il legame sociale non risiede prima nella cultura, intesa come consapevolezza tale da generare affetto, dei governanti così come dei governati. Credo che sia giunto il momento in cui l’occidente inizi ad apprendere dall’oriente che, per evitare di coltivare il nichilismo come volontà di potenza, occorre affrontarlo, senza tuttavia perdere la propria identità distaccandosi dalla vita, ma superandolo con l’amore, proprio come fece Gesù. Non penso che la via per uscire dalla crisi sia quindi rintracciabile in quei filosofi post-moderni, che evitano di prendere posizione, lasciando di fatto campo aperto alla narrazione tecno-capitalistica. Il fatto che sia morto Dio, non significa sia morta anche la morte e che nell’universo esista solo il consumo. Le domande sull’uomo rimangono ed è compito della filosofia assumersi la responsabilità di ricercare un senso, di modo tale che, 27
  • 28. indebolita la ragione, non si indebolisca anche il desiderio di ricerca. Tuttavia, se la filosofia cerca di rispondere senza rinunciare al principio di non contraddizione non può che ridursi a filosofia della religione o della scienza. Senza una filosofia della morte si rischia la morte della filosofia. Non solo un discorso sulla morte è propedeutico alla responsabilità, poiché se non esistono limiti non si avverte la fragilità e l’unicità dell’esistenza, ma la morte è l’antagonista della scienza moderna, perché la prospettiva del mutamento è quella nella quale si potrebbe discutere su ciò che residua alla potenza della natura dopo la prepotenza della tecnica. Inoltre, la scienza può dirci qualcosa sulla morte come evento naturale, ma nulla in quanto esperienza esistenziale. Eppure, la questione della morte, del divenire, dell’incertezza è stata rimossa, e insieme ad essa anche la questione della vita. La via tradizionalmente alternativa è quella che tenta la comprensione della realtà in maniera dinamica. Tuttavia, in occidente forse questa via non è stata battuta fino in fondo perché o si è applicato il metodo dialettico a partire da un principio assoluto o si è riposto il principio nella realtà ma non si è applicato il metodo dialettico, oppure si è assolutizzata l’esistenza umana. In questo quadro, tratteggiato con estrema sintesi per le esigenze di questo lavoro, si colloca Friedrich Engels. Engels è uno di quei pensatori il cui valore si apprezza a prescindere dalla finalizzazione, come il mediano delle 28
  • 29. squadre di calcio, e proprio in questa posizione potrebbe tornare utile. Nella “Dialettica della Natura”, opera rimasta incompiuta e pubblicata solo a partire dal 1924, egli si concentrò soprattutto sulla dialettica come metodo di indagine scientifica e anzi, probabilmente spinto dal fervore suscitato dalla rivoluzione tecno-scientifica e dal fatto che gli premeva più legittimare la dialettica in funzione politica che filosofeggiare sul movimento in sé, provò anche a matematizzare il passaggio dalla quantità alla qualità. Gli aspetti più profondi e filosofici del suo pensiero, pur presenti e parecchio stimolanti, rimasero meno rifiniti e per gran parte furono pubblicati come frammenti. I filosofi orientali provarono invece a dare un fondamento alla loro dialettica, come su accennato, ma una volta individuato l’uomo come luogo dove la natura acquisisce consapevolezza, portarono alle estreme conseguenze la dimensione personale, in conformità alla tradizione Zen, e per questa via giunsero al nulla assoluto. Filosoficamente, ottennero così una categoria che permette di criticare qualsiasi altra categoria e di riaffermare l’esistenza, intesa in termini non solo temporali ma spazio- temporali, tuttavia continuarono a non spiegare come si sviluppi la dialettica della natura. Su questa posizione resta dunque possibile innestare Engels, portandolo alle estreme conseguenze. Infatti, se si assume che la natura operi dialetticamente, non ci si può esimere dal ricercare il fondamento, perché ogni relazione è mediata da un'altra relazione, fino al punto 29
  • 30. in cui gli opposti si confondono. L’unica categoria ammissibile è quindi la mediazione assoluta, definibile come energia o, se si vuole, spirito. Il mediatore assoluto è e al contempo non è, perché è il movimento che permette il mescolarsi delle forme nell’universale dialettico e che fa si che la dialettica della natura sia creativa, tanto da creare un essere creativo come l’uomo. Se la materia non fosse in fondo energia non si potrebbe spiegare il movimento e nemmeno la vita: pure i filosofi che negano il movimento sono il prodotto dell’energia che muove le galassie e che fece sì che della materia si concentrasse attorno ad una membrana per resistere nell’ambiente. Anche il sé, come su esposto, è espressione dell’universale dialettico ed è definibile nella coppia istinti/empatia. Se la consapevolezza servirà solo ad alimentare la volontà di potenza, quale sembra essere la direzione intrapresa col dominio delle tecno-scienze, magari a causa di un corpo meccanico, immerso in un ambiente totalmente controllato, a morire non sarà la filosofia dello spirito, ma lo spirito stesso. All’opposto, se la consapevolezza diventerà anche amore, allora è come se lo spirito si manifestasse tramite l’uomo. La fioritura dello spirito della natura dipende dagli uomini, come Diogene di Sinope, coevo di Platone e definito da questi come “un Socrate impazzito”, la cui filosofia coincide con la vita, giunta fino a noi tramite la “Vita dei filosofi” di Diogene Laerzio: 30
  • 31. Durante il giorno andava in giro con la lanterna accesa dicendo: “Cerco l’uomo”. Secondo alcuni fu il primo a raddoppiare il mantello per la necessità anche di dormirci dentro, e portava una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie; in un primo tempo si appoggiava al bastone solo quando era ammalato, ma successivamente lo portava sempre, non tuttavia in città, ma quando camminava lungo la strada, insieme con la bisaccia. Si serviva indifferentemente di ogni luogo per ogni uso, per far colazione o per dormirci o per conversare. Mentre faceva colazione nella piazza del mercato, la gente che gli era intorno ripeteva: “Cane” e Diogene: “Cani siete voi che mi state attorno mentre faccio colazione”. E soleva dire che anche gli Ateniesi gli avevano procurato dove potesse dimorare: indicava il portico di Zeus e la Sala delle processioni. Una volta aveva ordinato ad un tale di provvedergli una casetta; poiché quello indugiava, egli si scelse come abitazione una botte. Fu straordinariamente pronto a rispondere alle domande che gli venivano poste. Catturato dai pirati e venduto come schiavo al suo compratore Seniade disse: “Bada ad eseguire i miei ordini!” E Seniade: “Rimontano i fiumi alle sorgenti”. E Diogene: “Se tu ammalato avessi acquistato un medico, gli obbediresti o gli reciteresti rimontano i fiumi alle sorgenti?”. Seniade, invero, lo comprò e lo portò a Corinto. Qui gli affidò l’educazione dei figli e l’amministrazione domestica. Diogene curò l’amministrazione in ogni riguardo, in modo tale che Seniade 31
  • 32. andava in giro dicendo: “Un demone buono è venuto a casa mia”. Definì l’avarizia la metropoli di tutti i mali. Interrogato sulla sua patria rispose: “Cittadino del mondo”. Diceva che gli oggetti di gran valore si vendono a minimo prezzo, e viceversa: così una statua è venduta per tremila dracme, un quarto di farina per due centesimi. Andava gridando ripetutamente che gli dei hanno concesso agli uomini facili mezzi di vita, ma anche, tuttavia li hanno tolti dalla vista umana, perché essi cercano focacce con miele, unguenti e simili. Diceva che l’inintelligenza degli sforzi necessari è la causa dell’umana infelicità e che gli uomini gareggiano nel darsi stoccate a vicenda e nello spararsi calci l’un con l’altro, ma nessuno gareggia per diventare buono e nobile d’animo. Perciò ad un tale che si lasciava calzare dal servo, disse: “Non sei ancora felice se costui non ti soffia anche il naso: verrà la perfetta felicità, quando avrai perso l’uso delle mani”. Definiva il ventre la Cariddi della vita. Una volta vide un giovinetto arrossire: “Coraggio – gli disse – questo è il colore della virtù”. Ad un giovinetto tutto adornato che gli rivolse una domanda, disse che non avrebbe risposto se prima denudandosi non gli avesse mostrato se fosse donna o uomo. Definiva le Etere regine dei re, perché i re fanno tutto ciò che vogliono le etere. Sosteneva che nulla si può ottenere nella vita senza esercizio, anzi che l’esercizio è l’artefice di ogni successo. Lo stesso disprezzo del piacere per chi vi sia abituato è cosa dolcissima. Chi gli disse che il 32
  • 33. vivere è un male fu così da lui corretto: “Non il vivere, ma il viver male”. Egli diceva che tutti gli elementi sono contenuti in ogni cosa e pervadono ogni cosa: così per esempio e nel pane v’è carne e nella verdura v’è pane, perché in tutti i corpi semplici e frugali attraverso invisibili pori penetrano particelle e diventano vapore. Si meravigliava dei matematici che guardavano al sole e alla luna e non vedevano la realtà sotto i loro occhi. Definiva “bile” la scuola di Euclide, la conversazione di Platone “perdita di tempo”. Una volta scorse Platone che in un ricco convito toccava soltanto olive e disse: “Come mai tu, filosofo che navigasti in Sicilia proprio a causa di siffatte mense, ora che ti sono imbandite non ne godi?” E lui di rimando: “Ma per gli dei, o Diogene, anche là mi cibavo di olive e di cose del genere”. E Diogene: “Poiché dunque andare a Siracusa? Forse l’Attica non produceva olive?”. Un’altra volta mentre mangiava fichi secchi incontrò Platone e l’invitò ad assaggiarli. Platone prese e mangiò, e Diogene: “Avevo detto di assaggiarli, non di divorarli”. Diogene una volta gli chiese del vino e, contemporaneamente, fichi secchi. Platone gli mandò un’anfora piena di vino, e lui: “Se uno ti domanda quanto fa due più due, risponderai venti? Così né dai nella misura in cui ti si chiede né rispondi a quel che ti si chiede”. Durante un ricevimento offerto da Platone ad amici che venivano da Dionisio, Diogene calpestando i suoi tappeti disse: “Calpesto la vanagloria di Platone”. Qualcuno gli fece rilevare che mentre egli era solito chiedere, Platone 33
  • 34. non chiedeva. E Diogene: “Anche lui chiede, ma avvicinando il capo, si che gli altri non capiscano”. Discorrendo Platone intorno alle idee e usando “tavolità” e “coppità” invece di “tavola” e “coppa”, Diogene disse: “Io, o Platone, vedo la tavola e la coppa; ma le idee astratte di tavola e di coppa non le vedo”. Pregandolo Egesia di prestargli qualcuno dei suoi scritti: “Sei sciocco, Egesia - disse Diogene - i fichi secchi li preferisci reali, non dipinti, ma la tua pratica di vita vuoi farla sui libri e non nella realtà quotidiana”. A chi gli rimproverava l’esilio rispose: “Ma è per questo, o disgraziato, che mi diedi alla filosofia”. Diceva di imitare gli istruttori dei cori: questi infatti danno il tono più alto, perché tutti gli altri diano il tono giusto. Si narra anche che Alessandro il Macedone abbia detto che se non fosse nato Alessandro, avrebbe voluto nascere Diogene”. Trovava da ridire sulle preghiere degli uomini, osservando che essi non chiedono i veri beni, ma ciò che a loro sembra bene. Una volta vide una donna che supplicava gli dei in atteggiamento piuttosto sconveniente. Desiderando liberarla dalla superstizione le si avvicinò e le disse: “Non pensi, o donna, che il dio può stare dietro di te, poiché tutto è pieno della sua presenza, e che tu debba vergognarti di pregarlo scompostamente?”. Pregandolo gli Ateniesi perché diventasse iniziato e ripetendogli che gli iniziati ottengono nell’Ade un posto privilegiato, Diogene disse: “Sarebbe ridicolo se Agesilao ed Epaminonda dimoreranno nel brago e persone di nessun conto, ma iniziate, vivranno nelle isole dei beati”. Ad un altro che discorreva di fenomeni celesti, 34
  • 35. replicò: “Da quanti giorni sei venuto giù dal cielo?”. In un modo simile rispose ad un tale che sosteneva che non esiste il movimento: si alzò e si pose a camminare. Si tramanda che Diogene sia morto all’età di novanta anni circa. Diverse versioni corrono sulla sua morte. Una dice che egli dopo aver mangiato un polpo crudo fu preso dal colora e morì. Secondo un’altra, egli morì volontariamente trattenendo il respiro. Questa versione ricorre anche in Cercida di Megalopoli, il quale si esprime nei suoi Meliambi: non più, egli che un tempo fu cittadino di Sinope, celebre per il suo bastone, per il doppio mantello e per il vivere all’aria aperta, ma se ne andò al cielo, premendo il labbro contro i denti. I cittadini ornarono il suo sepolcro con statue di bronzo, su cui scrissero questi versi: anche il bronzo cede al tempo e invecchia, ma la tua gloria, o Diogene, rimarrà intatta per l’eternità, poiché tu solo insegnasti ai mortali la dottrina che la vita basta a se stessa e additasti la via più facile per vivere. 35