1. Primi a nascere: primi anche a morire ?
Nel 1472, ovvero cinquecentoquarantuno anni fa, nasceva il Monte Pio, la più antica banca al mondo, che solo
centocinquant’anni dopo, intorno al 1620, assunse la denominazione di Monte dei Paschi di Siena.
In questi giorni si sta consumando un duro scontro tra l’attuale management della banca, presieduta da
Profumo e guidata da Fabrizio Viola, e la proprietà della stessa, da sempre la Fondazione, attualmente maggiore
azionista col 33,5% delle quote.
Parlo di un caso come questo, spinoso, forse tedioso e di interesse solo per gli addetti ai lavori, e una premessa
è almeno doverosa: mancano a me, come mancherebbero a molti (compresi quelli che ben più autorevolmente
del sottoscritto ne scrivono sui giornali), tutti gli elementi per esprimere giudizi compiuti ed eventualmente
prendere posizione. Tuttavia lo affronto perché, a mio modesto avviso, rappresenta uno spaccato indicativo
della situazione attuale del nostro paese e, soprattutto, perché ai piccoli risparmiatori italiani come ai grandi
investitori internazionali interessano relativamente poco le beghe di cortile che riguardano la banca (se non
fosse che qualcuno ai piani alti, causa quanto accaduto, si è tolto la vita alcuni mesi fa): per i primi come per i
secondi conta la redditività dell’ investimento e, nel caso della signora Maria, che i propri risparmi siano al
sicuro.
In breve i fatti principali, per inquadrare la situazione e a beneficio di quei pochi che non li conoscessero.
MPS in questi ultimi anni è stata al centro di situazioni al limite del kafkiano. Prima l’acquisizione di
Antonveneta per 10 miliardi di euro (prezzo assurdo se si pensa che il venditore, Santander, solo pochi mesi
prima l’aveva rilevata da ABN Amro per poco meno di 7 miliardi, “obbligando” quindi Siena ad un sovrapprezzo
di 3 miliardi in poche settimane; e prezzo ancora più assurdo perché a quei dieci miliardi si sommarono i debiti
pregressi di Antonveneta per altri 6/7 miliardi, portando il costo complessivo dell’operazione a 16 miliardi di
euro), poi lo scandalo dei derivati (Santorini e Alexandria) gestiti in totale autonomia e nel silenzio assoluto da
pochissime persone, quindi le dimissioni degli artefici di tutto questo (il Presidente di MPS, Mussari, e il
Direttore Generale, Vigni), poi ancora il suicidio del Responsabile del Marketing, infine l’avvento del nuovo
management (Profumo & Viola) con la benedizione di Banca d’Italia (che forse in precedenza aveva schiacciato
un pisolino di fronte agli accadimenti di cui sopra), del Tesoro e dell’Unione Europea.
In mezzo a questo, e causa questo, il ricorso ai Monti bond per 4 miliardi di euro.
Una banca che valeva 20 miliardi di euro ridotta a poco meno di due in pochi anni.
E siamo agli ultimi mesi, e agli ultimi giorni. La nuova gestione aziendale, oltre a varare piani di ristrutturazione
“lacrime e sangue” ha identificato nel suo essere (la banca) da sempre e più di qualsiasi altro istituto in Italia
prigioniera della Fondazione (maggiore azionista) e di quel capitalismo definito “di relazione”, per non parlare
del peso o sovrappeso politico interno alla stessa, il principale problema da affrontare.
Profumo ha quindi lavorato, come già fece in Unicredit, cercando di trasformare MPS da banca politicizzata e
controllata dalle lobbies ad esse collegate a public company, rendendola di fatto contendibile, o almeno
tentandoci, e aprendo a soci istituzionali esteri.
Da qui la proposta votata a larga maggioranza dal Cda della banca di un aumento di capitale da 3 miliardi di
euro (da effettuarsi entro gennaio 2014) concordato con l’Unione Europea, sotto il cui controllo la banca è
sottoposta in virtù della sua dimensione (in una versione soft del “too big too fail”, troppo grande per fallire)
per restituire il 70% dei Monti bond e ritornare, lentamente ma decisamente, sulla strada della redditività e di
un maggior respiro internazionale.
Numero 21 del 30 dicembre 2013
Marcello Agnello
2. Proposta bocciata sabato 28 dicembre, due giorni fa, nell’assemblea degli azionisti capitanati dalla Fondazione
senese che, già in fortissima difficoltà finanziaria, si vedrebbe costretta a diluire la propria partecipazione e di
fatto a non contare più come prima, perdendo quindi ogni influenza gestionale.
Alla fine il maggior peso specifico della Fondazione ha fatto sì che detto aumento, che tutti sanno essere
necessario e fondamentale, non debba partire prima di maggio o giugno del 2014.
Muro contro muro tra gestione e proprietà. Primo round, in questo caso decisivo, a favore della proprietà.
Sembra una questione di lana caprina (pochi mesi di differimento per l’aumento), ma non lo è, ovviamente,
anzi, è molto di più. Intanto perché nell’immediato sono probabili ulteriori perdite sul titolo in borsa, già sceso a
livelli imbarazzanti, e poi perché sono possibili, e forse anche probabili, le dimissioni di Profumo dalla
presidenza della banca (ed eventualmente di Viola), col che dando un brutto segnale all’Europa che in lui, nel
nuovo management e nel piano di ristrutturazione presentato, e anche rivisto negli ultimi mesi, avevano
creduto.
Non finisce qui, però. Perché l’aumento di capitale andrà comunque fatto, e i Monti bond restituiti. E’ però
possibile che ci sia più di qualche difficoltà nei prossimi mesi a ritrovare qualcuno che investa e ne garantisca il
buon esito, e soprattutto non è affatto certo che la mossa della Fondazione la preservi dal risultato di vedersi
detronizzata e parcellizzata nel peso azionario della banca. E a quel punto la nazionalizzazione della banca
sarebbe automatica.
E’ auspicabile che la soluzione che si troverà nei prossimi mesi, perché comunque una soluzione va trovata, non
sia il solito pasticcio italiano; il mercato non capirebbe e i clienti, perfino quelli più piccoli, ancor meno. Forse
tutti dovrebbero comprendere che il passivo di ogni banca è rappresentato dai correntisti, e se questi si
presentassero agli sportelli reclamando i propri risparmi non esiste banca al mondo capace di salvarsi.
Ci vuole coraggio per fare pulizia, ma la chiarezza è fondamentale, al pari di come lo è il ritorno a un sistema
bancario che sia contemporaneamente di vero servizio e supporto ai propri clienti e scevro da commistioni di
natura politica o affini: non è un caso infatti che le due banche oggi in maggiore difficoltà in Italia siano appunto
MPS e la Banca Popolare di Milano, quest’ultima da tempo immemore la più sindacalizzata del nostro paese. E i
risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Per la prima lo spettro della nazionalizzazione non è affatto lontano: ci troveremmo quindi davanti al caso della
prima banca nata (in Italia e nel mondo) e al contempo della prima banca che finisce, almeno in Italia, sotto il
cappello dello Stato. E qui, di chapeau da levare ce ne sarebbero davvero pochi.
Forse se l’Italia vuole risollevarsi dalla difficile condizione in cui versa deve passare anche da qui. E lo devono
capire prima di tutti quelli che ci governano. Purtroppo.
Numero 21 del 30 dicembre 2013
Marcello Agnello