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GYÖRGY LUKÁCS

                                             Il fenomeno della reificazione (1923)*



    L’essenza della struttura di merce è già stata spesso messa in rilievo. Essa consiste nel fatto che un
rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’«oggettualità spettrale»
che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della
propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini. Non è qui il caso di indagare in che modo questa
impostazione del problema sia divenuta centrale per l’economia stessa e quali conseguenze siano derivate
dall’abbandono di questa premessa metodologica in rapporto alle concezioni del marxismo volgare sul
terreno economico. Basterà qui – presupponendo l’analisi economica marxiana – richiamare l’attenzione
su quei problemi fondamentali che derivano da un lato dal carattere di feticcio della merce come forma di
oggettualità e, dall’altro, dal comportamento soggettivo ad essa coordinato, perché solo attraverso la loro
comprensione diventa per noi possibile penetrare con chiaro sguardo nei problemi ideologici del
capitalismo e del suo tramonto.
    Tuttavia, prima di passare alla trattazione di questo problema, dobbiamo renderci chiaramente conto
che la questione del feticismo delle merci è un problema specifico della nostra epoca, del capitalismo
moderno. Come è noto, il traffico di merci ed i corrispondenti rapporti mercantili, soggettivi ed oggettivi,
sono esistiti anche in gradi molto primitivi dello sviluppo sociale. Ma ciò che qui importa è in che misura
il commercio di merci e le sue conseguenze strutturali (struktiv) sono in grado di influire sull’intera vita
esterna ed interna della società. Quindi, il problema di sapere fino a che punto il traffico di merci sia la
forma dominante del ricambio organico di una società non può essere semplicemente trattato – secondo
le abitudini di pensiero già reificate sotto l’influsso della forma di merce dominante – come una
questione quantitativa. In effetti, la differenza sussistente tra una società nella quale la forma di merce è
la forma dominante che influisce in maniera decisiva su tutte le manifestazioni di vita, ed una società
nella quale essa si presenta soltanto in modo episodico, ha un carattere qualitativo. In conformità con
questa differenza, tutti i fenomeni soggettivi ed oggettivi delle società in questione ricevono forme di
oggettualità qualitativamente diverse. Questa episodicità che caratterizza la società primitiva viene
decisamente sottolineata da Marx: «II commercio di scambio immediato, forma spontanea del processo
di scambio, rappresenta piuttosto l’iniziale trasformazione dei valori d’uso in merci che non quella delle
merci in denaro. Il valore di scambio non acquisisce forma libera, è bensì ancora vincolato direttamente
al valore d’uso. Questo risulta in due modi. La produzione stessa in tutta la sua costruzione è diretta al
valore d’uso, non al valore di scambio, e quindi soltanto in quanto i valori d’uso eccedono sulla misura
in cui sono richiesti per il consumo, essi cessano qui di essere valori d’uso e diventano mezzi di scambio,
merce. D’altra parte, diventano propriamente merci solo entro i limiti del valore d’uso diretto, sia pure
distribuito polarmente, cosicché le merci che i possessori si scambiano debbono essere per entrambi
valori d’uso, ma ognuna di esse dovrà essere valore d’uso per il suo non-possessore. In realtà, il processo
di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle comunità naturali e spontanee, bensì là
dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui entrano in contatto con altre comunità. Qui
ha inizio il commercio di scambio e di qui si ripercuote sull’interno della comunità, con un’azione
disgregatrice». Dove la constatazione dell’effetto di dissolvimento esercitato dal traffico di merci diretto
verso l’interno rinvia chiaramente alla svolta qualitativa provocata dal dominio della merce. Tuttavia,
questo influsso sulla struttura sociale interna non basta per far sì che la forma di merce diventi forma
costitutiva di una società. A tal fine, come abbiamo notato in precedenza, essa non deve limitarsi a
stabilire un collegamento esterno tra processi in se stessi indipendenti e diretti alla produzione di valori
d’uso, ma deve permeare la manifestazione di vita della società nella loro totalità, riplasmandole secondo
la propria immagine. La differenza qualitativa tra la merce come una forma tra le altre del ricambio
organico sociale dell’uomo e la merce come forma universale della strutturazione (Gestaltung) sociale
non si rivela tuttavia soltanto nel fatto che il rapporto di merce, come fenomeno particolare, esercita un
influsso estremamente negativo sulla struttura e sull’articolazione della società: essa ha anche un effetto
retroattivo sulla natura e sulla validità della categoria stessa. In quanto forma universale, la forma di
merce – anche considerata di per se stessa – presenta un altro volto da quello che le è proprio in quanto
fenomeno particolare singolo, non dominante. E la fluidità mantenuta anche in questo caso dai momenti


   *
       Da G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. di G. Piana, SugarCo, Milano 1991, pp. 108-120.




                                                                                                             17
di transizione non deve celare il carattere qualitativo della differenza determinante. Così Marx mette in
evidenza l’elemento che caratterizza la situazione in cui il traffico di merci non è dominante: «II rapporto
quantitativo secondo il quale i prodotti si scambiano è in un primo tempo del tutto accidentale. Questi
prodotti acquistano la forma di merci, nel senso che essi sono in generale atti allo scambio, ossia
espressioni dello stesso terzo termine. La continuità dello scambio e la maggiore regolarità della
riproduzione per lo scambio fanno sparire sempre più questo carattere accidentale: all’inizio, tuttavia, non
tanto per i produttori e per i consumatori quanto per l’intermediario fra i due, il commerciante, il quale
confronta i prezzi in denaro e ne intasca la differenza. Mediante questo stesso movimento egli stabilisce
l’equivalenza. All’inizio il capitale commerciale non è che il movimento intermediario fra estremi che
esso non domina e fra presupposti che esso non crea». E questo sviluppo della forma di merce in forma
effettiva di dominio della società nella sua totalità è sorto soltanto nel capitalismo moderno. Perciò non
c’è da meravigliarsi se il carattere personale dei rapporti economici è stato intravisto all’inizio dello
sviluppo capitalistico in modo talora relativamente chiaro mentre, con il procedere di questo sviluppo e
con il sorgere di forme sempre più complicate e mediate, sempre più raramente e con maggior difficoltà si
riesce a penetrare con lo sguardo al di là di questi veli cosali. Secondo Marx, accade quanto segue: «Nelle
precedenti forme di società questa mistificazione economica si riscontra soprattutto solo in relazione al
denaro e al capitale produttivo di interesse. Essa è, per sua natura, esclusa in primo luogo dove predomina
la produzione per il valore d’uso, per i bisogni personali immediati; in secondo luogo dove la schiavitù o
la servitù della gleba, come nei tempi antichi o nel Medioevo, costituisce la larga base della produzione
sociale: il dominio delle condizioni di produzione sui produttori è qui celato dai rapporti di signoria e di
servitù, che appaiono e sono visibili come le molle dirette del processo di produzione».
    Infatti, la merce è afferrabile nel suo carattere essenziale, non falsificato, soltanto come categoria
universale dell’essere sociale totale. Soltanto in questo nesso, la reificazione sorta per via del rapporto di
merce assume un’importanza decisiva sia per lo sviluppo oggettivo della società, sia per l’atteggiamento
degli uomini di fronte ad essa; per l’assoggettamento della loro coscienza alle forme in cui si esprime
questa reificazione; per i tentativi di afferrare questo processo o di ribellarsi ai suoi effetti disastrosi, di
liberarsi dalla servitù di questa «seconda natura» che così ha origine. Cosi Marx descrive il fenomeno
fondamentale della reificazione: «L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto
che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro
trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e
quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale
di oggetti che esiste al di fuori di essi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano
merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali... Quel che qui assume per gli uomini la forma
fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi».
    A proposito di questo fatto strutturale fondamentale bisogna notare anzitutto che attraverso di esso
all’uomo viene contrapposta la propria attività, il proprio lavoro, come qualcosa di oggettivo e di
indipendente, che lo domina mediante leggi autonome che gli sono estranee. E ciò accade sia
soggettivamente che oggettivamente. Dal punto di vista oggettivo, sorge un mondo di cose già fatte e di
rapporti tra cose (il mondo delle merci ed il loro movimento sul mercato), regolato da leggi le quali, pur
potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini, si contrappongono ugualmente ad essi come forze
che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione. Quindi, benché
possa indubbiamente utilizzare a proprio vantaggio la conoscenza di queste leggi, l’individuo non può
influire, mediante la propria attività, sullo stesso decorso della realtà in modo da modificarlo. L’aspetto
soggettivo consiste invece nel fatto che, in una economia compiutamente mercificata, l’attività umana si
oggettiva di fronte all’uomo stesso trasformandosi in merce, ed essendo sottoposta all’oggettività estranea
all’uomo delle leggi naturali della società, deve compiere i propri movimenti in modo indipendente
dall’uomo, così come accade per ogni bene destinato a soddisfare i bisogni non appena si è trasformato in
cosa-merce. «Ciò che caratterizza l’epoca capitalistica – dice Marx – è che la forza-lavoro... riceve per il
lavoratore stesso la forma di una merce che gli appartiene. D’altro lato, solo in questo momento si
generalizza la forma di merce dei prodotti del lavoro».
    L’universalità della forma di merce determina quindi un’astrazione del lavoro umano che si
oggettualizza nelle merci, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo. (D’altro lato la sua
possibilità storica è a sua volta determinata dalla reale effettuazione di questo processo di astrazione). Dal
punto di vista oggettivo, in quanto la forma di merce come forma di uguaglianza, di scambiabilità, tra
oggetti qualitativamente diversi diventa possibile solo perché – in questo rapporto, nel quale ricevono
indubbiamente soltanto la loro oggettualità come merci – essi vengono intesi come formalmente uguali.
Per questa ragione il principio della loro uguaglianza formale deve essere fondato sulla loro essenza in
quanto prodotti del lavoro umano astratto, e perciò formalmente uguale. Dal punto di vista soggettivo, in



                                                                                                            18
quanto quest’uguaglianza formale del lavoro umano astratto non è soltanto il comune denominatore a cui
vengono ridotti i diversi oggetti nel rapporto di merci, ma si trasforma in principio reale dell’effettivo
processo di produzione delle merci. Naturalmente, non è nostra intenzione descrivere anche soltanto in
forma di abbozzo questo processo: il sorgere del moderno processo lavorativo, del lavoratore «libero»
come singolo, della divisione del lavoro, ecc. Importa qui soltanto osservare che il lavoro astratto, uguale,
comparabile, che può essere commisurato con crescente esattezza al tempo di lavoro socialmente
necessario, il lavoro della divisione capitalistica del lavoro, sorge contemporaneamente come risultato e
presupposto della produzione capitalistica soltanto nel corso del suo sviluppo. Quindi, soltanto nel corso
di questo sviluppo esso si trasforma in una categoria sociale capace di influire in maniera determinante
sulla forma di oggettualità sia degli oggetti come dei soggetti della società che cosi ha origine, del riferirsi
di questa società alla natura, dei rapporti degli uomini tra loro in essa possibili. Se si segue il cammino
percorso dallo sviluppo del processo lavorativo dall’artigianato sino all’industria meccanizzata, attraverso
la cooperazione e la manifattura, si può vedere una crescente razionalizzazione, mentre vengono sempre
più messe da patte le proprietà qualitative, umano-individuali, del lavoratore. Da un lato, in quanto il
processo lavorativo viene sempre più frazionato in operazioni parziali astrattamente razionali: si spezza
così il riferirsi del lavoratore al prodotto in quanto intero ed il suo lavoro si riduce ad una funzione
specialistica che si ripete meccanicamente. Dall’altro, in quanto in ed in conseguenza di questa
razionalizzazione il tempo di lavoro socialmente necessario, la base del calcolo razionale, il tempo di
lavoro medio che inizialmente può essere fissato solo empiricamente, in seguito viene prodotto come
quantità di lavoro obbiettivamente calcolabile, che si contrappone al lavoratore in un’obbietti vita definita
e conclusa, in forza della crescente meccanizzazione e razionalizzazione del processo lavorativo. Con il
frazionamento moderno, «psicologico», del processo lavorativo (taylorismo) questa meccanizzazione
razionale giunge al punto di penetrare all’interno della stessa «anima» del lavoratore: anche le sue
proprietà psicologiche vengono separate dalla sua personalità complessiva, obbiettivate di fronte ad essa,
per poter essere inserite in sistemi specialistico-razionali e ricondotte ad un concetto calcolistico.
    Per noi è di estrema importanza il principio che si afferma a questo punto: il principio della
razionalizzazione fondata sul calcolo, sulla calcolabilità. Le modificazioni decisive che vengono
effettuate nell’oggetto e nel soggetto del processo economico sono le seguenti: anzitutto la calcolabilità
del processo lavorativo esige che non si abbia più a che fare con l’unità organico-irrazionale, che è
sempre condizionata in senso qualitativo, del prodotto stesso. La razionalizzazione intesa come pre-
calcolabilità sempre più esatta di tutti i risultati a cui si tende è raggiungibile soltanto mediante la più
precisa scomposizione di ogni complesso nei suoi elementi, mediante l’indagine delle leggi parziali
speciali della loro produzione. Essa deve quindi da un lato farla finita con un modo di produrre basato
sulla connessione tradizionale di esperienze empiriche di lavoro: la razionalizzazione è impensabile senza
specializzazione. Il prodotto unitario come oggetto del processo lavorativo si dissolve. Il processo si
trasforma in una riunione obbiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto
calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità. La scomposizione
razional-calcolistica del processo lavorativo annienta la necessità organica delle operazioni parziali che
sono reciprocamente collegate e che arrivano ad unificarsi nel prodotto. L’unità del prodotto come merce
non coincide più con la sua unità come valore d’uso: l’autonomizzazione tecnica delle manipolazioni
parziali nelle quali essa sorge, mentre la società si trasforma da parte a parte in senso capitalistico, si
esprime anche sul terreno economico come autonomizzazione delle operazioni parziali, come
relativizzazione crescente del carattere di merce di un prodotto ai diversi gradi della sua produzione. Ed a
questa possibilità di operare una scissione spazio-temporale nella produzione di un valore d’uso è di solito
associata la connessione spazio-temporale di manipolazioni parziali che si riferiscono a loro volta a valori
d’uso del tutto eterogenei.
    In secondo luogo, questo scindersi dell’oggetto della produzione significa necessariamente anche
scissione del suo soggetto. Per effetto della razionalizzazione del processo lavorativo le qualità e le
peculiarità umane del lavoratore appaiono sempre più come mere fonti di errori di fronte al
funzionamento calcolato in anticipo di quelle leggi parziali esatte. Né dal punto di vista oggettivo, né da
quello del rapporto tra l’uomo ed il processo lavorativo, l’uomo stesso si presenta come l’autentico
tramite di questo processo: egli viene invece inserito come una parte meccanizzata in un sistema
meccanico, un sistema che egli trova bell’e pronto di fronte a sé e che funziona in piena indipendenza da
lui secondo leggi alle quali egli si deve adeguare senza far intervenire la propria volontà. Questa assenza
del volere viene accentuata dal fatto che, con la crescente razionalizzazione e meccanizzazione del
processo lavorativo, l’attività del lavoratore perde sempre più il suo carattere di attività, trasformandosi in
un comportamento contemplativo. L’atteggiamento contemplativo di fronte ad un processo regolato
secondo leggi meccaniche che si svolge indipendentemente dalla coscienza, sul quale l’attività umana non



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ha alcun influsso e che si manifesta perciò come un sistema definito e concluso, modifica anche le
categorie fondamentali del rapporto immediato dell’uomo con il mondo: esso riduce il tempo e lo spazio
ad un unico denominatore, porta il tempo al livello dello spazio: «A causa della subordinazione dell’uomo
alla macchina» dice Marx, accade che «gli uomini scompaiono davanti al lavoro; che il bilanciere della
pendola diviene la misura esatta dell’attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due
locomotive. Per cui non si deve più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto
che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più nulla; è tutt’al più
farsi corpo (Verkörperung) del tempo. Non vi è più alcun problema di qualità. La quantità soltanto decide
di tutto: ora per ora, giorno per giorno...». II tempo perde così il suo carattere qualitativo, mutevole,
fluido: esso si irrigidisce in un continuum esattamente delimitato, quantitativamente misurabile, riempito
da «cose» quantitativamente misurabili (le «operazioni» reificate del lavoratore, oggettivate
meccanicamente ed esattamente separate dalla sua personalità umana complessiva): in uno spazio. In un
tempo astratto, esattamente misurabile, che si è trasformato in uno spazio fisicalistico, come mondo
circostante, che è contemporaneamente premessa e conseguenza della produzione specializzata e
frazionata in modo scientifico-meccanico dell’oggetto del lavoro, i soggetti debbono a loro volta essere
razionalmente frazionati in modo corrispondente. Da un lato, in quanto il loro lavoro parziale
meccanizzato, l’obbiettivazione della loro forza-lavoro di fronte alla loro personalità complessiva che si è
già compiuta mediante la vendita di questa forza-lavoro come merce, si trasforma in realtà quotidiana
permanente ed insuperabile, cosicché la persona diventa anche in questo caso uno spettatore incapace di
influire su ciò che accade della sua esistenza, come una particella isolata ed inserita in un sistema
estraneo. D’altro lato, il meccanico frazionamento del processo di produzione spezza anche quei vincoli
che, nel caso della produzione «organica», ricollegavano in una comunità i soggetti singoli del lavoro. La
meccanizzazione della produzione li trasforma, anche sotto questo riguardo, in atomi astrattamente isolati
che non si trovano più in una relazione reciproca, organica ed immediata, per via delle loro operazioni
lavorative: la loro coesione è invece mediata con crescente esclusività dalle leggi astratte del meccanismo
nel quale sono inseriti.
    Un simile effetto della forma organizzativa interna dell’azienda industriale sarebbe tuttavia
impossibile – anche all’interno dell’azienda – se in essa non si manifestasse in modo concentrato la
struttura dell’intera società capitalistica. In effetti, anche le società precapitalistiche hanno conosciuto
l’oppressione spinta sino alle forme più estreme dì sfruttamento, con pieno disprezzo di qualsiasi dignità
umana; e persino le imprese di massa caratterizzate dalla meccanica omogeneità del lavoro, come nel
caso delle costruzioni di canali in Egitto ed in Asia Minore, delle miniere di Roma, ecc. Il lavoro di massa
non poté tuttavia in questi casi trasformarsi in un lavoro razionalmente meccanizzato, e d’altra parte
queste attività rimasero sempre fenomeni isolati all’interno di collettività che producevano, e quindi
vivevano, in modo diverso («naturale»). Gli schiavi sfruttati si trovavano perciò al di là della società
«umana» in questione, il loro destino non poteva apparire ai loro contemporanei, neppure ai più grandi e
più nobili pensatori, come un destino umano, come il destino dell’uomo. Nel momento in cui la categoria
della merce si universalizza, questo rapporto si muta radicalmente e qualitativamente. Il destino del
lavoratore si trasforma in destino generale dell’intera società; l’universalità di questo destino è anzi la
premessa perché il processo lavorativo delle aziende si configuri e si orienti in questa direzione. La
meccanizzazione razionale del processo lavorativo diventa infatti possibile soltanto se è sorto il lavoratore
«libero», il quale è messo in condizioni di vendere liberamente sul mercato la propria forza-lavoro come
una merce che gli « appartiene », come una cosa che egli «possiede». Fintantoché questo processo si trova
alle sue origini, i mezzi per l’estorsione del plusvalore sono più diretti e brutali che nei successivi stadi
più evoluti, mentre è scarsamente avanzato il processo di reificazione del lavoro stesso, e quindi anche
della coscienza del lavoratore. Per giungere a questo punto è assolutamente necessario che l’intero
soddisfacimento dei bisogni della società si svolga nella forma dello scambio delle merci. La separazione
del produttore dai suoi mezzi di produzione, la dissoluzione e la frantumazione delle unità produttive
originarie, ecc. – tutte le premesse economico-sociali della formazione del capitalismo moderno operano
nel senso di sostituire le relazioni razionalmente reificate a quelle originarie, nelle quali si possono ancora
vedere senza veli i rapporti umani. «I rapporti sociali delle persone – dice Marx – appaiono in ogni modo
come loro rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali delle cose, dei prodotti di lavoro».
Ciò significa tuttavia che il principio della calcolabilità e della meccanizzazione razionale deve
abbracciare tutte le forme fenomeniche della vita. Gli oggetti del soddisfacimento del bisogno non si
presentano più come prodotti del processo vitale organico di una comunità (ad esempio, della comunità di
un villaggio), ma come esemplari astratti di un genere che non sono per principio distinti da altri
esemplari dello stesso genere, e d’altro lato come oggetti isolati il cui avere o non avere dipende da
calcoli razionali. Soltanto in quanto la vita intera della società viene così polverizzata in atti isolati di



                                                                                                           20
scambio di merci, può sorgere il lavoratore «libero»; ed al tempo stesso il suo destino si trasforma
necessariamente nel destino tipico dell’intera società.
    È vero che l’isolamento e l’atomizzazione che così hanno origine sono soltanto un’apparenza. Il
movimento delle merci sul mercato, il sorgere del loro valore, in una parola l’ambito in cui opera ogni
calcolo razionale non è soltanto sottoposto a leggi rigorose, ma presuppone come base del calcolo la
rigorosa legalità di ogni accadimento. Questa atomizzazione dell’individuo è quindi soltanto il riflesso
nella coscienza del fatto che le «leggi di natura» della produzione capitalistica hanno afferrato tutte le
manifestazioni di vita della società: per la prima volta nella storia l’intera società, almeno
tendenzialmente, è sottoposta ad un processo economico unitario ed il destino di tutti i membri della
società viene mosso da leggi unitarie. (Le unità organiche delle società precapitalistiche hanno invece
compiuto il loro ricambio organico in un rapporto di reciproca indipendenza). Ma quest’apparenza è
necessaria in quanto apparenza; cioè, il confronto diretto, pratico ed anche intellettuale dell’individuo con
la società, l’immediata produzione e riproduzione della vita – in una situazione in cui la struttura
merceologica di tutte le «cose» e la «legalità naturale» dei loro rapporti si presenta all’individuo come
qualcosa di già definito, come un dato invalicabile – può svolgersi unicamente in questa forma di atti
razionali ed isolati di scambio tra possessori isolati di merce. Come si è detto, il lavoratore deve
considerarsi possessore della propria forza-lavoro come merce. Ciò che rende tipico il suo destino in
rapporto alla struttura di tutta la società è che questa auto-oggettivazione (Selbstobjektivierung), questo
trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e
disumanizzante del rapporto di merce.




                                                                                                         21

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Psicosociologia dei consumi culturali II 3. Lukacs il fenomeno della reificazione (1923)

  • 1. GYÖRGY LUKÁCS Il fenomeno della reificazione (1923)* L’essenza della struttura di merce è già stata spesso messa in rilievo. Essa consiste nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’«oggettualità spettrale» che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini. Non è qui il caso di indagare in che modo questa impostazione del problema sia divenuta centrale per l’economia stessa e quali conseguenze siano derivate dall’abbandono di questa premessa metodologica in rapporto alle concezioni del marxismo volgare sul terreno economico. Basterà qui – presupponendo l’analisi economica marxiana – richiamare l’attenzione su quei problemi fondamentali che derivano da un lato dal carattere di feticcio della merce come forma di oggettualità e, dall’altro, dal comportamento soggettivo ad essa coordinato, perché solo attraverso la loro comprensione diventa per noi possibile penetrare con chiaro sguardo nei problemi ideologici del capitalismo e del suo tramonto. Tuttavia, prima di passare alla trattazione di questo problema, dobbiamo renderci chiaramente conto che la questione del feticismo delle merci è un problema specifico della nostra epoca, del capitalismo moderno. Come è noto, il traffico di merci ed i corrispondenti rapporti mercantili, soggettivi ed oggettivi, sono esistiti anche in gradi molto primitivi dello sviluppo sociale. Ma ciò che qui importa è in che misura il commercio di merci e le sue conseguenze strutturali (struktiv) sono in grado di influire sull’intera vita esterna ed interna della società. Quindi, il problema di sapere fino a che punto il traffico di merci sia la forma dominante del ricambio organico di una società non può essere semplicemente trattato – secondo le abitudini di pensiero già reificate sotto l’influsso della forma di merce dominante – come una questione quantitativa. In effetti, la differenza sussistente tra una società nella quale la forma di merce è la forma dominante che influisce in maniera decisiva su tutte le manifestazioni di vita, ed una società nella quale essa si presenta soltanto in modo episodico, ha un carattere qualitativo. In conformità con questa differenza, tutti i fenomeni soggettivi ed oggettivi delle società in questione ricevono forme di oggettualità qualitativamente diverse. Questa episodicità che caratterizza la società primitiva viene decisamente sottolineata da Marx: «II commercio di scambio immediato, forma spontanea del processo di scambio, rappresenta piuttosto l’iniziale trasformazione dei valori d’uso in merci che non quella delle merci in denaro. Il valore di scambio non acquisisce forma libera, è bensì ancora vincolato direttamente al valore d’uso. Questo risulta in due modi. La produzione stessa in tutta la sua costruzione è diretta al valore d’uso, non al valore di scambio, e quindi soltanto in quanto i valori d’uso eccedono sulla misura in cui sono richiesti per il consumo, essi cessano qui di essere valori d’uso e diventano mezzi di scambio, merce. D’altra parte, diventano propriamente merci solo entro i limiti del valore d’uso diretto, sia pure distribuito polarmente, cosicché le merci che i possessori si scambiano debbono essere per entrambi valori d’uso, ma ognuna di esse dovrà essere valore d’uso per il suo non-possessore. In realtà, il processo di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle comunità naturali e spontanee, bensì là dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui entrano in contatto con altre comunità. Qui ha inizio il commercio di scambio e di qui si ripercuote sull’interno della comunità, con un’azione disgregatrice». Dove la constatazione dell’effetto di dissolvimento esercitato dal traffico di merci diretto verso l’interno rinvia chiaramente alla svolta qualitativa provocata dal dominio della merce. Tuttavia, questo influsso sulla struttura sociale interna non basta per far sì che la forma di merce diventi forma costitutiva di una società. A tal fine, come abbiamo notato in precedenza, essa non deve limitarsi a stabilire un collegamento esterno tra processi in se stessi indipendenti e diretti alla produzione di valori d’uso, ma deve permeare la manifestazione di vita della società nella loro totalità, riplasmandole secondo la propria immagine. La differenza qualitativa tra la merce come una forma tra le altre del ricambio organico sociale dell’uomo e la merce come forma universale della strutturazione (Gestaltung) sociale non si rivela tuttavia soltanto nel fatto che il rapporto di merce, come fenomeno particolare, esercita un influsso estremamente negativo sulla struttura e sull’articolazione della società: essa ha anche un effetto retroattivo sulla natura e sulla validità della categoria stessa. In quanto forma universale, la forma di merce – anche considerata di per se stessa – presenta un altro volto da quello che le è proprio in quanto fenomeno particolare singolo, non dominante. E la fluidità mantenuta anche in questo caso dai momenti * Da G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. di G. Piana, SugarCo, Milano 1991, pp. 108-120. 17
  • 2. di transizione non deve celare il carattere qualitativo della differenza determinante. Così Marx mette in evidenza l’elemento che caratterizza la situazione in cui il traffico di merci non è dominante: «II rapporto quantitativo secondo il quale i prodotti si scambiano è in un primo tempo del tutto accidentale. Questi prodotti acquistano la forma di merci, nel senso che essi sono in generale atti allo scambio, ossia espressioni dello stesso terzo termine. La continuità dello scambio e la maggiore regolarità della riproduzione per lo scambio fanno sparire sempre più questo carattere accidentale: all’inizio, tuttavia, non tanto per i produttori e per i consumatori quanto per l’intermediario fra i due, il commerciante, il quale confronta i prezzi in denaro e ne intasca la differenza. Mediante questo stesso movimento egli stabilisce l’equivalenza. All’inizio il capitale commerciale non è che il movimento intermediario fra estremi che esso non domina e fra presupposti che esso non crea». E questo sviluppo della forma di merce in forma effettiva di dominio della società nella sua totalità è sorto soltanto nel capitalismo moderno. Perciò non c’è da meravigliarsi se il carattere personale dei rapporti economici è stato intravisto all’inizio dello sviluppo capitalistico in modo talora relativamente chiaro mentre, con il procedere di questo sviluppo e con il sorgere di forme sempre più complicate e mediate, sempre più raramente e con maggior difficoltà si riesce a penetrare con lo sguardo al di là di questi veli cosali. Secondo Marx, accade quanto segue: «Nelle precedenti forme di società questa mistificazione economica si riscontra soprattutto solo in relazione al denaro e al capitale produttivo di interesse. Essa è, per sua natura, esclusa in primo luogo dove predomina la produzione per il valore d’uso, per i bisogni personali immediati; in secondo luogo dove la schiavitù o la servitù della gleba, come nei tempi antichi o nel Medioevo, costituisce la larga base della produzione sociale: il dominio delle condizioni di produzione sui produttori è qui celato dai rapporti di signoria e di servitù, che appaiono e sono visibili come le molle dirette del processo di produzione». Infatti, la merce è afferrabile nel suo carattere essenziale, non falsificato, soltanto come categoria universale dell’essere sociale totale. Soltanto in questo nesso, la reificazione sorta per via del rapporto di merce assume un’importanza decisiva sia per lo sviluppo oggettivo della società, sia per l’atteggiamento degli uomini di fronte ad essa; per l’assoggettamento della loro coscienza alle forme in cui si esprime questa reificazione; per i tentativi di afferrare questo processo o di ribellarsi ai suoi effetti disastrosi, di liberarsi dalla servitù di questa «seconda natura» che così ha origine. Cosi Marx descrive il fenomeno fondamentale della reificazione: «L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti che esiste al di fuori di essi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali... Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi». A proposito di questo fatto strutturale fondamentale bisogna notare anzitutto che attraverso di esso all’uomo viene contrapposta la propria attività, il proprio lavoro, come qualcosa di oggettivo e di indipendente, che lo domina mediante leggi autonome che gli sono estranee. E ciò accade sia soggettivamente che oggettivamente. Dal punto di vista oggettivo, sorge un mondo di cose già fatte e di rapporti tra cose (il mondo delle merci ed il loro movimento sul mercato), regolato da leggi le quali, pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini, si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione. Quindi, benché possa indubbiamente utilizzare a proprio vantaggio la conoscenza di queste leggi, l’individuo non può influire, mediante la propria attività, sullo stesso decorso della realtà in modo da modificarlo. L’aspetto soggettivo consiste invece nel fatto che, in una economia compiutamente mercificata, l’attività umana si oggettiva di fronte all’uomo stesso trasformandosi in merce, ed essendo sottoposta all’oggettività estranea all’uomo delle leggi naturali della società, deve compiere i propri movimenti in modo indipendente dall’uomo, così come accade per ogni bene destinato a soddisfare i bisogni non appena si è trasformato in cosa-merce. «Ciò che caratterizza l’epoca capitalistica – dice Marx – è che la forza-lavoro... riceve per il lavoratore stesso la forma di una merce che gli appartiene. D’altro lato, solo in questo momento si generalizza la forma di merce dei prodotti del lavoro». L’universalità della forma di merce determina quindi un’astrazione del lavoro umano che si oggettualizza nelle merci, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo. (D’altro lato la sua possibilità storica è a sua volta determinata dalla reale effettuazione di questo processo di astrazione). Dal punto di vista oggettivo, in quanto la forma di merce come forma di uguaglianza, di scambiabilità, tra oggetti qualitativamente diversi diventa possibile solo perché – in questo rapporto, nel quale ricevono indubbiamente soltanto la loro oggettualità come merci – essi vengono intesi come formalmente uguali. Per questa ragione il principio della loro uguaglianza formale deve essere fondato sulla loro essenza in quanto prodotti del lavoro umano astratto, e perciò formalmente uguale. Dal punto di vista soggettivo, in 18
  • 3. quanto quest’uguaglianza formale del lavoro umano astratto non è soltanto il comune denominatore a cui vengono ridotti i diversi oggetti nel rapporto di merci, ma si trasforma in principio reale dell’effettivo processo di produzione delle merci. Naturalmente, non è nostra intenzione descrivere anche soltanto in forma di abbozzo questo processo: il sorgere del moderno processo lavorativo, del lavoratore «libero» come singolo, della divisione del lavoro, ecc. Importa qui soltanto osservare che il lavoro astratto, uguale, comparabile, che può essere commisurato con crescente esattezza al tempo di lavoro socialmente necessario, il lavoro della divisione capitalistica del lavoro, sorge contemporaneamente come risultato e presupposto della produzione capitalistica soltanto nel corso del suo sviluppo. Quindi, soltanto nel corso di questo sviluppo esso si trasforma in una categoria sociale capace di influire in maniera determinante sulla forma di oggettualità sia degli oggetti come dei soggetti della società che cosi ha origine, del riferirsi di questa società alla natura, dei rapporti degli uomini tra loro in essa possibili. Se si segue il cammino percorso dallo sviluppo del processo lavorativo dall’artigianato sino all’industria meccanizzata, attraverso la cooperazione e la manifattura, si può vedere una crescente razionalizzazione, mentre vengono sempre più messe da patte le proprietà qualitative, umano-individuali, del lavoratore. Da un lato, in quanto il processo lavorativo viene sempre più frazionato in operazioni parziali astrattamente razionali: si spezza così il riferirsi del lavoratore al prodotto in quanto intero ed il suo lavoro si riduce ad una funzione specialistica che si ripete meccanicamente. Dall’altro, in quanto in ed in conseguenza di questa razionalizzazione il tempo di lavoro socialmente necessario, la base del calcolo razionale, il tempo di lavoro medio che inizialmente può essere fissato solo empiricamente, in seguito viene prodotto come quantità di lavoro obbiettivamente calcolabile, che si contrappone al lavoratore in un’obbietti vita definita e conclusa, in forza della crescente meccanizzazione e razionalizzazione del processo lavorativo. Con il frazionamento moderno, «psicologico», del processo lavorativo (taylorismo) questa meccanizzazione razionale giunge al punto di penetrare all’interno della stessa «anima» del lavoratore: anche le sue proprietà psicologiche vengono separate dalla sua personalità complessiva, obbiettivate di fronte ad essa, per poter essere inserite in sistemi specialistico-razionali e ricondotte ad un concetto calcolistico. Per noi è di estrema importanza il principio che si afferma a questo punto: il principio della razionalizzazione fondata sul calcolo, sulla calcolabilità. Le modificazioni decisive che vengono effettuate nell’oggetto e nel soggetto del processo economico sono le seguenti: anzitutto la calcolabilità del processo lavorativo esige che non si abbia più a che fare con l’unità organico-irrazionale, che è sempre condizionata in senso qualitativo, del prodotto stesso. La razionalizzazione intesa come pre- calcolabilità sempre più esatta di tutti i risultati a cui si tende è raggiungibile soltanto mediante la più precisa scomposizione di ogni complesso nei suoi elementi, mediante l’indagine delle leggi parziali speciali della loro produzione. Essa deve quindi da un lato farla finita con un modo di produrre basato sulla connessione tradizionale di esperienze empiriche di lavoro: la razionalizzazione è impensabile senza specializzazione. Il prodotto unitario come oggetto del processo lavorativo si dissolve. Il processo si trasforma in una riunione obbiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità. La scomposizione razional-calcolistica del processo lavorativo annienta la necessità organica delle operazioni parziali che sono reciprocamente collegate e che arrivano ad unificarsi nel prodotto. L’unità del prodotto come merce non coincide più con la sua unità come valore d’uso: l’autonomizzazione tecnica delle manipolazioni parziali nelle quali essa sorge, mentre la società si trasforma da parte a parte in senso capitalistico, si esprime anche sul terreno economico come autonomizzazione delle operazioni parziali, come relativizzazione crescente del carattere di merce di un prodotto ai diversi gradi della sua produzione. Ed a questa possibilità di operare una scissione spazio-temporale nella produzione di un valore d’uso è di solito associata la connessione spazio-temporale di manipolazioni parziali che si riferiscono a loro volta a valori d’uso del tutto eterogenei. In secondo luogo, questo scindersi dell’oggetto della produzione significa necessariamente anche scissione del suo soggetto. Per effetto della razionalizzazione del processo lavorativo le qualità e le peculiarità umane del lavoratore appaiono sempre più come mere fonti di errori di fronte al funzionamento calcolato in anticipo di quelle leggi parziali esatte. Né dal punto di vista oggettivo, né da quello del rapporto tra l’uomo ed il processo lavorativo, l’uomo stesso si presenta come l’autentico tramite di questo processo: egli viene invece inserito come una parte meccanizzata in un sistema meccanico, un sistema che egli trova bell’e pronto di fronte a sé e che funziona in piena indipendenza da lui secondo leggi alle quali egli si deve adeguare senza far intervenire la propria volontà. Questa assenza del volere viene accentuata dal fatto che, con la crescente razionalizzazione e meccanizzazione del processo lavorativo, l’attività del lavoratore perde sempre più il suo carattere di attività, trasformandosi in un comportamento contemplativo. L’atteggiamento contemplativo di fronte ad un processo regolato secondo leggi meccaniche che si svolge indipendentemente dalla coscienza, sul quale l’attività umana non 19
  • 4. ha alcun influsso e che si manifesta perciò come un sistema definito e concluso, modifica anche le categorie fondamentali del rapporto immediato dell’uomo con il mondo: esso riduce il tempo e lo spazio ad un unico denominatore, porta il tempo al livello dello spazio: «A causa della subordinazione dell’uomo alla macchina» dice Marx, accade che «gli uomini scompaiono davanti al lavoro; che il bilanciere della pendola diviene la misura esatta dell’attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive. Per cui non si deve più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più nulla; è tutt’al più farsi corpo (Verkörperung) del tempo. Non vi è più alcun problema di qualità. La quantità soltanto decide di tutto: ora per ora, giorno per giorno...». II tempo perde così il suo carattere qualitativo, mutevole, fluido: esso si irrigidisce in un continuum esattamente delimitato, quantitativamente misurabile, riempito da «cose» quantitativamente misurabili (le «operazioni» reificate del lavoratore, oggettivate meccanicamente ed esattamente separate dalla sua personalità umana complessiva): in uno spazio. In un tempo astratto, esattamente misurabile, che si è trasformato in uno spazio fisicalistico, come mondo circostante, che è contemporaneamente premessa e conseguenza della produzione specializzata e frazionata in modo scientifico-meccanico dell’oggetto del lavoro, i soggetti debbono a loro volta essere razionalmente frazionati in modo corrispondente. Da un lato, in quanto il loro lavoro parziale meccanizzato, l’obbiettivazione della loro forza-lavoro di fronte alla loro personalità complessiva che si è già compiuta mediante la vendita di questa forza-lavoro come merce, si trasforma in realtà quotidiana permanente ed insuperabile, cosicché la persona diventa anche in questo caso uno spettatore incapace di influire su ciò che accade della sua esistenza, come una particella isolata ed inserita in un sistema estraneo. D’altro lato, il meccanico frazionamento del processo di produzione spezza anche quei vincoli che, nel caso della produzione «organica», ricollegavano in una comunità i soggetti singoli del lavoro. La meccanizzazione della produzione li trasforma, anche sotto questo riguardo, in atomi astrattamente isolati che non si trovano più in una relazione reciproca, organica ed immediata, per via delle loro operazioni lavorative: la loro coesione è invece mediata con crescente esclusività dalle leggi astratte del meccanismo nel quale sono inseriti. Un simile effetto della forma organizzativa interna dell’azienda industriale sarebbe tuttavia impossibile – anche all’interno dell’azienda – se in essa non si manifestasse in modo concentrato la struttura dell’intera società capitalistica. In effetti, anche le società precapitalistiche hanno conosciuto l’oppressione spinta sino alle forme più estreme dì sfruttamento, con pieno disprezzo di qualsiasi dignità umana; e persino le imprese di massa caratterizzate dalla meccanica omogeneità del lavoro, come nel caso delle costruzioni di canali in Egitto ed in Asia Minore, delle miniere di Roma, ecc. Il lavoro di massa non poté tuttavia in questi casi trasformarsi in un lavoro razionalmente meccanizzato, e d’altra parte queste attività rimasero sempre fenomeni isolati all’interno di collettività che producevano, e quindi vivevano, in modo diverso («naturale»). Gli schiavi sfruttati si trovavano perciò al di là della società «umana» in questione, il loro destino non poteva apparire ai loro contemporanei, neppure ai più grandi e più nobili pensatori, come un destino umano, come il destino dell’uomo. Nel momento in cui la categoria della merce si universalizza, questo rapporto si muta radicalmente e qualitativamente. Il destino del lavoratore si trasforma in destino generale dell’intera società; l’universalità di questo destino è anzi la premessa perché il processo lavorativo delle aziende si configuri e si orienti in questa direzione. La meccanizzazione razionale del processo lavorativo diventa infatti possibile soltanto se è sorto il lavoratore «libero», il quale è messo in condizioni di vendere liberamente sul mercato la propria forza-lavoro come una merce che gli « appartiene », come una cosa che egli «possiede». Fintantoché questo processo si trova alle sue origini, i mezzi per l’estorsione del plusvalore sono più diretti e brutali che nei successivi stadi più evoluti, mentre è scarsamente avanzato il processo di reificazione del lavoro stesso, e quindi anche della coscienza del lavoratore. Per giungere a questo punto è assolutamente necessario che l’intero soddisfacimento dei bisogni della società si svolga nella forma dello scambio delle merci. La separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione, la dissoluzione e la frantumazione delle unità produttive originarie, ecc. – tutte le premesse economico-sociali della formazione del capitalismo moderno operano nel senso di sostituire le relazioni razionalmente reificate a quelle originarie, nelle quali si possono ancora vedere senza veli i rapporti umani. «I rapporti sociali delle persone – dice Marx – appaiono in ogni modo come loro rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali delle cose, dei prodotti di lavoro». Ciò significa tuttavia che il principio della calcolabilità e della meccanizzazione razionale deve abbracciare tutte le forme fenomeniche della vita. Gli oggetti del soddisfacimento del bisogno non si presentano più come prodotti del processo vitale organico di una comunità (ad esempio, della comunità di un villaggio), ma come esemplari astratti di un genere che non sono per principio distinti da altri esemplari dello stesso genere, e d’altro lato come oggetti isolati il cui avere o non avere dipende da calcoli razionali. Soltanto in quanto la vita intera della società viene così polverizzata in atti isolati di 20
  • 5. scambio di merci, può sorgere il lavoratore «libero»; ed al tempo stesso il suo destino si trasforma necessariamente nel destino tipico dell’intera società. È vero che l’isolamento e l’atomizzazione che così hanno origine sono soltanto un’apparenza. Il movimento delle merci sul mercato, il sorgere del loro valore, in una parola l’ambito in cui opera ogni calcolo razionale non è soltanto sottoposto a leggi rigorose, ma presuppone come base del calcolo la rigorosa legalità di ogni accadimento. Questa atomizzazione dell’individuo è quindi soltanto il riflesso nella coscienza del fatto che le «leggi di natura» della produzione capitalistica hanno afferrato tutte le manifestazioni di vita della società: per la prima volta nella storia l’intera società, almeno tendenzialmente, è sottoposta ad un processo economico unitario ed il destino di tutti i membri della società viene mosso da leggi unitarie. (Le unità organiche delle società precapitalistiche hanno invece compiuto il loro ricambio organico in un rapporto di reciproca indipendenza). Ma quest’apparenza è necessaria in quanto apparenza; cioè, il confronto diretto, pratico ed anche intellettuale dell’individuo con la società, l’immediata produzione e riproduzione della vita – in una situazione in cui la struttura merceologica di tutte le «cose» e la «legalità naturale» dei loro rapporti si presenta all’individuo come qualcosa di già definito, come un dato invalicabile – può svolgersi unicamente in questa forma di atti razionali ed isolati di scambio tra possessori isolati di merce. Come si è detto, il lavoratore deve considerarsi possessore della propria forza-lavoro come merce. Ciò che rende tipico il suo destino in rapporto alla struttura di tutta la società è che questa auto-oggettivazione (Selbstobjektivierung), questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce. 21