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Adotta un quadro 
di Vermeer 
Racconti in scrittura collaborativa 
classe I B Liceo “G.Pico” 
Mirandola – MO 
A.S. 2013-14 
iisgluosi Edizioni 
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“Adotta un quadro di Vermeer” 
Racconti in scrittura collaborativa 
by: 
Gianluca Barelli, Matteo Battilani, Chiara Belloni, Cindy Berti, Miriam Calzolari, Sara Campagnoli, Fabio 
Carnevali, Luca Cavicchioli, Hajar Ezzaki, Martina Fattori, Rossella Grana, Francesco Guicciardi, Gaia 
Lodi, Rossana Magliocca, Giada Mantovani, Valentina Marando, Monica Massarenti, Chiara Moretti, Alice 
Penzo, Rebecca Pignatti, Lisa Polo, Giulia Sbardellati, Mihaela Scurtu, Alessia Vescovini, Chiara Voza. 
A cura di: Marina Marchi, Emanuela Zibordi 
I edizione, Settembre 2014 
Licenza: Creative Commons BY- NC - SA 3.0 Italia 
Realizzazione a cura di iisgluosi Edizioni 
via 29 Maggio, Mirandola, MO 
http://www.iisgluosi.com 
ebook a cura di Emanuela Zibordi 
Copia di questo ebook in .epub e .mobi qui: 
http://www.emanuelazibordi.it/wp/ebooks/ 
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Prefazione 
La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, con la Gioconda di Leonardo e L’urlo di 
Munch, è unanimemente riconosciuta come una delle tre opere d’arte più note, amate e 
riprodotte al mondo. 
Dall’8 febbraio al 25 maggio 2014, il capolavoro di Vermeer è stato in Italia, 
precisamente a Bologna, a Palazzo Fava, in una mostra unica, che ha ripercorso il mito 
della Golden Age. Per la prima volta è stato possibile ammirarla in Europa al di fuori 
della sua sede storica da dove, conclusa la mostra bolognese, probabilmente non 
uscirà mai più. La scuola non è rimasta indifferente a tale avvenimento e proprio perché 
inserita all’interno di un contesto territoriale, che la influenza , ne ha saputo cogliere 
spunti, ma anche momenti di riflessione e condivisione con l’intera comunità. 
Questo fatto è stato così il motore di un percorso tematico che è ruotato intorno al 
famoso quadro di Vermeer, partendo dalla visione dell’opera d’arte, passando 
attraverso il romanzo omonimo di Tracy Chevalier per approdare poi alla visione del film 
del regista Peter Webber del 2004. 
Il ritratto de La ragazza con l’orecchino di perla evoca bellezza e mistero e il suo volto 
da oltre tre secoli continua a stregare coloro che hanno la fortuna di poterla ammirare 
dal vero, o che magari l’hanno scoperta per la prima volta attraverso i romanzi e il film, 
di cui la bellissima ragazza dal copricapo color del cielo è diventata, forse suo 
malgrado, protagonista. 
Il quadro e il romanzo ci hanno offerto lo spunto per ripercorrere un po’ tutti i quadri 
dell’artista, sia quelli di certa attribuzione che quelli incerti e con i loro colori, con i loro 
chiaroscuri e le loro figure hanno ispirato un “laboratorio di scrittura creativa”. 
Ogni studente ha così adottato un quadro di Vermeer, scegliendolo fra quelli elencati 
e attribuiti al pittore da una ricerca effettuata su Wikipedia. 
L’analisi e la descrizione di ogni quadro è stata fatta nelle lingue straniere, che i 
ragazzi studiano a scuola, inglese, francese e tedesco. Poi intorno ad ogni quadro è 
stata creata una storia, un racconto, che ha preso spunto dalla ricerca del soggetto del 
quadro, dalla motivazione del quadro o dal personaggio ritratto nel quadro stesso. 
Dopo un attento studio della storia e della realtà del Seicento, epoca in cui sono state 
per lo più ambientate le storie create dai ragazzi, gli studenti hanno potuto vedere tutto 
il percorso creativo dello scrittore, anche grazie ad un incontro con Marco Fregni, autore 
di racconti e poesie (Al di là di ogni aldilà e Dialoghi con il padre). Il laboratorio di 
scrittura è partito dall'ispirazione per passare poi all’ideazione e lo sviluppo della trama, 
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si è soffermato sulla costruzione e caratterizzazione dei personaggi e le tecniche 
narrative, fino ad arrivare alla revisione. 
Apprendere tecniche di scrittura narrativa, confrontarsi con i propri compagni e 
consultarsi per le scene dei propri racconti, porsi in ascolto e riscoprire il piacere della 
lettura, mettersi alla prova, conoscere qualche segreto del mestiere dello scrittore: il 
laboratorio di scrittura è stato un po’ tutto questo, oltre ad un modo pratico e divertente 
attraverso il quale ritrovare la propria creatività. 
Per produrre la stesura definitiva dell’opera si sono utilizzati diversi strumenti 
informatici: 
1- Documenti di Google Drive per la scrittura cooperativa; 
2- Open Office per la revisione off line, la gestione delle immagini, la prima bozza di 
epub e quella definitiva in pdf; 
3- Sigil per il perfezionamento del file per dispositivi mobile; 
4- Calibre per l'edizione per Kindle. 
che hanno sollecitato competenze caratteristiche del Web 2.0, così come si utilizzano 
ormai diffusamente per redigere documenti digitali a più mani, sia scientifici sia 
umanistici. 
Marina Marchi 
Emanuela Zibordi 
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Contenuti 
1 - Fortuna improvvisa 
2 - Le lettere nascoste 
3 - Una lettera misteriosa 
4 - Maria Elisabetta - L'inizio 
5 - Maria Elisabetta – Il ricatto 
6 - Maria Elisabetta – La nuova vita 
7 - Scienza in corso 
8 - Il sentiero dei garofani rossi 
9 - Un brano misterioso 
10 - Il mistero della spinetta 
11 - Maledetta lettera 
12 - Il chicco di riso 
13 - La storia di Philip 
14 - Era vero amore? 
15 - L'ultima lettera 
16 - Ti scrivo da Berlino... 
17 - La melodia finale 
18 - Quella porta aperta 
19 - Un nuovo inizio 
20 - Un volto dal passato 
21 - L'attesa 
22 - La peccatrice 
23 - Jaimy 
24 - Il cappello rosso 
25 - Spettacolo di canto 
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1 – Fortuna improvvisa 
J ohannes V ermeer - L a lattaia 
7
Erano le undici di sera ed eravamo tutti a dormire fino a quando all'improvviso si sentì 
una finestra rompersi, di conseguenza scesi le scale e andai a vedere intanto che le 
donne della servitù si calmavano. Immaginai che fossero i teppistelli che solitamente 
vanno di casa in casa per riuscire a raccogliere qualcosa in denaro o rubare oggetti di 
lavoro per venderli dopo. 
Una volta sceso mi ritrovai tre fratelli, tutti all'incirca di otto anni, che tenevano in 
mano un cesto di legno che già conteneva un soprammobile di inestimabile valore sia in 
denaro sia morale per me, dato che me lo aveva regalato mia madre prima di morire a 
causa dell'epidemia di peste. Uno di loro si voltò di scatto e appena mi vide ordinò agli 
altri due di rimettere a posto tutto, perché erano stati scoperti e che, questa volta, 
sarebbero andati nei guai. 
“Chiedo scusa, signore. Noi lo facevamo solo per poter mangiare e dare a nostra 
madre un momento di sollievo. Ci perdoni,signore, noi non verremo più a disturbarla e a 
derubarle qualcosa.” mi disse uno di loro. Li osservai bene e notai che indossavano 
pantaloni larghi molto vecchi di un marrone sbiadito e una maglietta grigia tutta 
strappata e sporca di fango a causa che fuori aveva appena finito di piovere e il terreno 
era molto umido. “Bambini,ditemi quanti anni avete e i vostri nomi. E parlatemi della 
vostra situazione a casa.” questi ragazzini mi incuriosivano e volevo veramente sentirne 
la storia. 
Volevo capire il motivo di quello che avevano appena fatto e cosa li spingeva a ciò. I 
miei pensieri vennero interrotti bruscamente dal richiamo della mia amata moglie in 
camera da letto che mi chiedeva cosa stesse succedendo in sala e quindi le risposi che 
sarei arrivato tra pochi minuti e che stavo chiarendo la situazioni con dei bambini, lei 
non mi rispose ma pensai che avesse capito quindi ritornai a guardare in faccia il bimbo 
che poco prima si era scusato. 
“Signore, io sono Alexander e questi sono i miei fratellini Daniel e Andreas. Io ho nove 
anni e loro, essendo gemelli, hanno entrambi cinque anni e mezzo. Sono giorni ormai 
che giriamo per la città alla ricerca di qualche moneta o qualcosa da vendere perché noi 
e nostra madre stiamo morendo di fame. Nostro padre è morto un anno fa e da allora 
fatichiamo a sopravvivere e nostra madre era una semplice serva presso una famiglia 
che, però, la licenziò per sospetto che lei avesse rubato loro una collana d'oro. Quindi 
lei è rimasta senza un'occupazione e noi cerchiamo di aiutarla.” 
“Domani, bambini, portate vostra madre qua che le voglio parlare riguardo a ciò che 
avete fatto. Però potete stare tranquilli perché non vi farò denuncia! Andate a casa, 
buonanotte!”. Li accompagnai alla porta e li salutai con la mano quando si 
allontanarono, mi era venuta in mente una brillante idea e di ciò ne avrei discusso con 
tutta la famiglia la mattina seguente. 
Il giorno dopo, poco prima di fare colazione, svegliai la mia amata e gli raccontai di 
tutta la conversazione avuta con i giovanotti della notte e le parlai della mia idea e lei, 
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insicura sul da farsi, accettò. Scendemmo giù in cucina e chiesi a Matilda, nostra serva 
da ormai sette anni, di preparare due tazze di caffellatte per noi due e di mettere a 
riscaldare il latte per i nostri quattro figli che ancora dormivano e che l'altra serva Greta 
stava andando a svegliare. 
Subito dopo aver fatto il pasto più importante della giornata, sentimmo suonare il 
campanello e corsi alla porta per aprire e dissi a mia moglie di essere cortese con la 
nostra ospite e futura domestica. Salutai la donna dall'aria disperata e la feci 
accomodare nella sala dove avevo parlato la notte scorsa coi suoi bambini dove, 
attualmente, c'era mia moglie. 
“Signore, chiedo perdono dell'intrusione dei miei figli nella vostra casa successa ieri 
notte. Sono dispiaciuta del vetro della vostra finestra rotto.” “Non vi scusate, i vostri figli 
mi hanno parlato della perdita di vostro marito e del suo lavoro e vi abbiamo chiamata 
qua al fine di chiederle se voleva venire a lavorare qua come domestica per poter 
sfamare i suoi figli e essere più tranquilla. Accetta?” 
La madre dei ragazzi mi guardò stupita e dopo aver realizzato che ciò che le avevo 
chiesto era vero e non si trattava di un sogno lei sorrise prima a me e poi volse lo 
stesso sorriso alla mia compagna e ciò mi sollevo l'umore. 
“Signore, certo che accetto. Grazie mille, pensavo che questo non sarebbe mai 
successo e finalmente ricevo una proposta di lavoro. Sarei veramente incosciente se 
non accettassi e poi se non le avessi detto di sì avrei fatto probabilmente del male ai 
miei tesori, ai miei figli che tanto amo”. Aveva un bellissimo sorriso sul viso ed ero felice 
per ciò che avevo fatto. 
*quattro mesi dopo* 
Ero lì, seduto nella sala e stavo sorseggiando la mia tazza di tè e stavo riflettendo sul 
mio prossimo quadro e al mio prossimo soggetto. Andai in cucina per posare la tazza e 
vidi Anita, la domestica assunta quattro mesi fa, versare del latte in una ciotola che poi 
sarebbe stata riempita con i cereali per i miei figli. Subito mi ispirò, non era una cattiva 
idea immortalarla in quell’azione quotidiana. Lei era impegnata, concentrata nel suo 
lavoro per portare a casa dai figli un po’ di monete per sfamarli e per permettergli di 
andare a scuola e ne ero molto soddisfatto e in qualche modo la dovevo premiare. Salii 
in fretta e parlai con la mia amata compagna della mia idea e lei mi disse che se lo 
meritava per tutto il duro lavoro che faceva e per la gentilezza che aveva nei nostri 
confronti, il ricavato dalla vendita del quadro gliene avrei dato una parte in modo da 
mandarla a vivere da sola senza doversi occupare di cucinare per persone che non 
erano la sua famiglia e, magari, lei voleva andare in un’altra casa e cambiare un po’ o 
voleva cercare un nuovo compagno di vita che così poteva mandare avanti lei stessa e i 
suoi bambini. 
Dopo aver riflettuto su come avrei voluto dipingerla presi la tela e i colori che mi 
servivano per stendere la base e per rifinire le forme e di conseguenza i colori e tutti i 
particolari dell’immagine. Mi diressi nel mio atelier e osservai l’angolo della finestra e ci 
misi un piccolo tavolino e ci appoggiai degli oggetti che avevo preso in prestito dalla 
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cucina come uno straccio blu che le domestiche usavano per asciugare i piatti, una 
cesta di pane di cui riposi delle pagnotte sparse sul tavolo, infine, una brocca d’acqua. 
Sullo sfondo non avevo ancora notato che per terra c’era il mio scaldino per i piedi che 
usavo in inverno e che sul muro erano appese un cestone e una piccola lanterna. Mi 
piacque subito questa atmosfera, così andai a chiamare Anita e le proposi di posare per 
il quadro. Lei non rifiutò, pensando che io potessi darle una parte del ricavato, io 
ovviamente non le dissi nulla. 
*cinque settimane dopo* 
Avevo finito il quadro e avevamo tutti visto il risultato, era venuto molto bene ed ero 
soddisfatto della mia idea e di come avevo dipinto. Quel giorno erano venuti più di dieci 
committenti a vederlo e ciò dimostrava che avevo realizzato un capolavoro ancora una 
volta e che questo quadro mi avrebbe fatto guadagnare tanto. In questo modo sarei 
riuscito a dare una parte alla mia “modella”. Anita era l’unica domestica che avevo 
assunto perchè mi stava a cuore la sua storia, perciò desideravo il meglio per lei. Una 
volta venduto il quadro, la sera stessa iniziai a fare i conti con la mia famiglia e il mattino 
dopo avrei dato le monete ad Anita e , con forte dispiacere, l’avrei licenziata. 
Il mattino seguente, verso le dieci, la chiamai in sala e lei, in breve tempo, mi 
raggiunse preoccupata chiedendomi che cosa lei avesse combinato e se avesse 
sbagliato qualcosa nelle pulizie. Le risposi semplicemente che non aveva commesso 
nessun errore ma che la volevo premiare, lei era rimasta stupita dalla mia affermazione 
e mi chiese subito che cosa intendessi dire. Arrivò mia moglie e le diede un sacchetto 
pieno di monete, dicendole “Anita, noi ti ringraziamo per tutti questi pochi mesi che hai 
lavorato da noi e grazie per aver posato per il quadro. Questa è una parte del guadagno 
di ieri, te la sei meritata. Purtroppo ti dobbiamo dire anche che, volendo il meglio per te 
non vogliamo vederti lavorare in queste misere condizioni e ti licenziamo. Noi vogliamo 
che tu ti possa trovare un marito, che tu accudisca i tuoi figli e la tua famiglia. Ti 
auguriamo tutta la fortuna possibile.”. Era senza parole quando io finii il discorsetto che 
mi ero preparato la sera prima. L’unica cosa che lei riuscì a dire fu un “Grazie.” 
sussurrato. Quella fu l’ultima giornata che la vidi, se ne era andata con un sorriso 
stampato in viso e, da quanto ero venuto a sapere, lei, dopo un mesetto o due, riuscì a 
trovare un compagno per giunta benestante così si risposò. Insomma, aveva iniziato 
una nuova vita. Alexander, Daniel e Andreas stavano frequentando la scuola, lei era 
casalinga e, secondo le voci del paese, era incinta del quarto bambino, infine lui era un 
ricco mercante. Stavano bene loro e stavo bene anche io perché avevo fatto una buona 
azione verso qualcuno che mi stava a cuore. Grazie a me era iniziato un capitolo felice 
della loro vita e su questo, non c’era soddisfazione più grande per me. 
Rossana Magliocca 
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2 – Le lettere nascoste 
J ohannes V ermeer - D onna in a zzurro c he le gge u na lettera 
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"Sophie, riordina i vestiti e tu Carol aiutala a rimetterli in ordine. Bea tu aiutami a 
preparare il cibo perchè papà oggi torna a pranzo." 
Era raro che nostro padre tornasse a casa per pranzo quindi quelle poche volte 
volevamo che la casa fosse pulita e in ordine al suo rientro. Essendo la sorella 
maggiore, spettava a me occuparmi delle faccende domestiche e badare alle mie tre 
sorelline, Beatrice e le due gemelline di 8 anni, Sophie e Carolina, che erano una 
l’opposto dell’altra, sia come modo di fare, sia come aspetto esteriore. Sophie aveva 
preso gli occhi da papà, color blu mare e i capelli mori mori dalla mamma, per quello 
che posso ricordare di lei; Carol invece aveva preso tutto da papà, biondina con gli 
occhi azzurri. Sophie amava le favole, le principesse e le fate, mentre Carol desiderava 
diventare una naturalista come Beatrice; Bea di 10 anni era la più tranquilla di noi 
quattro e stava delle ore in giardino a curare le sue piante e i suoi fiori e ad osservare 
gli insetti assieme a Carol. 
Lei assomigliava in tutto a mamma, come diceva sempre papà, mora con gli occhi 
color castano. Io, invece, 3 anni maggiore a Beatrice e 5 alle gemelline, mi distinguevo 
da tutte loro e avevo gli occhi color verde e i capelli castano chiaro; probabilmente 
avevo preso da qualche nonno. 
Avevo cinque anni e mezzo circa quando la mamma sparì completamente dalla mia 
vista. Io ricordo poco di lei poiché ero ancora troppo piccola per capire quanto fosse 
grave la mancanza di una persona cara come la mamma; ricordo quando lei alla sera 
prima di andare a letto si recava nella mia cameretta e mi cantava sussurrando, per 
farmi addormentare, una dolce canzone di cui non ho mai saputo il titolo, con una voce 
cosi delicata e amorevole da far precipitare in un tempo brevissimo le palpebre. Poi 
ricordo quando mi coccolava, accarezzandomi o pettinandomi i capelli con mano 
leggera senza mai stancarsi. Quando io avevo 3 anni e nacque Beatrice, fui la prima 
persona a cui diede in braccio la neonata, alla sera andavamo sempre insieme nella 
sua cameretta a cantarle la ninna nanna. 
Papà non ci ha mai raccontato il motivo della morte della mamma e neanche a me 
che sono la maggiore, non ci ha mai parlato di lei a parte ogni tanto, quando gli capitava 
davanti un oggetto o qualcosa che la ricordasse. 
Una o due volte al mese arrivavano delle lettere per papà che mi hanno sempre 
incuriosita, ma non ho mai saputo chi gliele mandasse, da dove provenissero e dove le 
nascondeva; ho sempre pensato che magari fossero lettere di qualche nuova donna 
che stava iniziando a frequentare o magari solamente lettere di lavoro, ma non sono 
mai andata a rovistare nel suo studio. 
Di solito mi recavo ogni domenica al mercato del paese per delle commissioni e in 
una di queste incontrai Peter, il figlio del fornaio, con cui giocavo sempre da piccolina. 
Io e Peter molto probabilmente provavamo gli stessi sentimenti; io piacevo a lui e lui 
piaceva a me, ma la cosa che preferivo maggiormente erano i suoi occhioni azzurri che 
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mi guardavano con aria dolce. Papà si era accorto che c'era qualcosa tra me e lui 
poiché la gente qui nel paese andava a riferire tutto quello che vedeva. 
Una sera, eravamo tutte e quattro pronte per andare a letto, tutte già sotto alle 
coperte al buio, e Carol improvvisamente si era alzata e aveva esclamato: " Ragazze mi 
manca tanto tanto la mamma" poi era scoppiata a piangere. Tutte ci eravamo alzate, io 
per prima, l'avevo presa in braccio e ci eravamo messe tutte sul mio letto a parlare della 
mamma mentre io intanto la coccolavo. Sophie disse: " Ma se lei si è dimenticata di 
noi? E magari se ne è andata perché non ci voleva più". A tutte mancava tanto la 
mamma ma io, essendo la più grande e la più matura, dovevo tranquillizzarle e 
rassicurarle; io le avevo prese tutte e tre fra le mie braccia e avevo detto loro:" Bambine 
non dovete preoccuparvi, la mamma sta benissimo e di sicuro di noi non se ne 
dimenticherà mai come noi non lo faremo di lei. E' andata in un posto migliore da dove 
ci segue in tutte le ore del giorno". Ci eravamo abbracciate forte forte da vere sorelle poi 
ognuna di noi era ritornata nel proprio lettino a dormire. 
Era domenica mattina e il cielo era grigio, molto probabilmente sarebbe piovuto da un 
momento all’altro, quindi non ero andata al mercato ma mi ero dedicata solamente alle 
pulizie di casa. Avevo appena finito di pulire la nostra cameretta e quella di nostro padre 
quando mi sono recata per la mia prima volta nello studio di mio papà per curiosare un 
po’; c’ erano pile di fogli e buste dappertutto, tutto era in disordine con carte a terra e 
polvere sopra ai mobili e alla scrivania; avevo iniziato a rovistare nelle buste per trovare 
quelle famose lettere che arrivavano una o due volte al mese e che probabilmente non 
si trovavano sulla scrivania, dove c'erano solo quelle di lavoro. Avevo deciso di rovistare 
in tutti i cassetti ma anche qui avevo trovato nulla. Ad un certo punto avevo visto sul 
tavolo una specie di bauletto color marrone chiuso con un lucchetto d’oro; sembrava 
uno di quei bauletti del tesoro, ma dovevo assolutamente trovar la chiave per aprirlo e 
scoprire cosa c’era al suo interno. 
Avevo iniziato a scaraventare tutto quello che mi trovavo davanti, stando attenta però a 
non rompere niente di importante o che comunque si potesse ammaccare. 
Ero riuscita a trovare la chiave dentro il cassetto del comodino di papà di fianco al letto. 
Mi ero seduta sulla sedia della scrivania di mio padre con il bauletto appoggiato sulle 
ginocchia e la chiave nella mano tremolante; avevo aperto il bauletto facendo quattro 
giri di chiave e subito avevo visto un plico di lettere e sfogliandole avevo scoperto che 
non erano le solite lettere di lavoro, ma provenivano tutte dallo stesso posto “Serdine” 
(che ricordavo non molto lontano da qui), ma sopra non c’era scritto il mittente. Cosi 
avevo iniziato ad aprirle ed ero rimasta sopraffatta poiché tutte queste lettere erano 
state mandate dalla mamma “Giovanna Luce” e l’ultima inviata era solamente della 
settimana prima. 
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Avevo deciso di recarmi a Serdine per scoprire la verità, di conseguenza avevo 
raccontato anche alle mie sorelline la faccenda. Eravamo partite dopo pranzo senza 
dire niente a papà, ma lasciandogli un biglietto di fianco il bauletto aperto. 
Avevamo camminato per più di un’ora e mezza e poi avevamo visto il cartello con la 
scritta SERDINE in grassetto e avevamo iniziato a correre fino a quando eravamo 
arrivate in piazza dove quella poca gente che c’era girava sotto i viali. 
Avevamo chiesto ad un uomo alto e magro magro dove si trovava questo posto scritto 
su tutte le lettere: “ospedale Camirana”. Avevamo dovuto camminare per un’altra 
mezz’oretta fino a quando ci eravamo trovate questo edificio enorme, tutto in mattoni e 
silenzioso. 
Siamo entrate col cuore che batteva più forte che mai e avevamo iniziato a guardarci 
in giro dove c’erano solo persone vestite di bianco, infermieri, carrozzine e malati che 
urlavano dalle loro stanze. 
Avevamo trovato un dottore e dopo aver chiesto ci avevano detto che la mamma si 
trovava nella stanza 13 a sinistra. Man mano ci avvicinavamo a quella stanza tutte e 
quattro ci stavamo stringendo la mano forse dalla paura e dalla felicità insieme. Quando 
siamo arrivate davanti a quella stanza abbiamo aperto la porta, davanti a noi c’era 
nostro padre che dava la mano a nostra madre addormentata. 
In quel momento non sapevamo come comportarci, siamo rimaste immobili davanti a 
quella situazione mentre nostro padre si era alzato dal letto e ci era venuto incontro 
piangendo. 
Aveva iniziato a chiederci scusa per non aver mai raccontato della mamma perchè 
aveva sempre avuto paura, non voleva farci vedere la mamma in quelle condizioni, 
dopo una malattia che da più di 8 anni la perseguitava. 
Ci eravamo seduti tutti insieme sul letto della mamma e in quel momento aveva aperto 
gli occhi forse perché aveva sentito il calore della nostra famiglia e la felicità di tutti noi. 
Non riusciva a parlare ma riusciva a scrivere e comunicavamo scrivendo su una sua 
agenda dove sfogliando avevo visto tutte le nostre foto di Natale di tutti gli anni e di 
quando eravamo piccole. In quel momento gli occhi mi si sono gonfiati di lacrime fino a 
quando non sono scoppiata a piangere. 
Da quel giorno tutti i giorni sono andata a trovare la mamma con le mie sorelline fino a 
quando lei a causa di quella sua malattia morì dopo 5 anni. 
Ora sono qui a casa che aspetto Peter che torni dal lavoro e aspetto anche Kevin il 
nostro bambino, che tra qualche mesetto nascerà. Intanto rileggo l’ultima lettera della 
mamma che ci aveva mandato due settimane prima di morire e le lacrime mi segnano il 
volto. 
Martina Fattori 
14
3 - Una lettera misteriosa 
J ohannes V ermeer - L ettera d ’a more 
15
Era inverno. Odiavo quella stagione in Olanda, perché la casa era sempre 
particolarmente fredda durante quel periodo. Non che fosse più calda nelle altre 
stagioni, ma almeno il sole dava un’ illusione di tepore. 
Il sole quel giorno non c’era, ma io avevo comunque preso la mia decisione, anche se 
le condizioni non erano perfette; avrei dipinto la mia padrona mentre suonava. 
La lettera che avevo scritto qualche giorno prima probabilmente era andata persa in 
mezzo a tutta l’altra posta che entrava in quella casa, non era stata una grande idea. 
Ma anche se l’avesse letta, non avrebbe mai ricambiato i miei sentimenti essendo io un 
servo e lei una dama. Sospirai e preparai i colori, probabilmente avrebbe cominciato a 
suonare da un momento all’altro. La stanza in cui mi trovavo era sopra il soggiorno 
dove lei stava e potevo sentire ogni suono che proveniva da lì; era inoltre collegata a 
uno sgabuzzino tramite una scala a chiocciola che dava perfettamente sul salone; per 
dipingere senza essere visti, quello era un luogo perfetto. Sentii della musica. “è ora di 
andare.” 
La dama era seduta su uno sgabello, sulle sue spalle era posato uno scialle di 
ermellino e indossava un voluminoso abito giallo. Al suo grembo poggiava il mandolino, 
e con leggiadri movimenti delle dita stava suonando una meravigliosa musica. Rimasi 
incantato per qualche secondo osservandola, ma ritornai alla realtà pensando al quadro 
che dovevo dipingere. Socchiusi le ante che davano sul soggiorno senza fare 
movimenti bruschi e cominciai a tirare fuori i colori. Fortunatamente avevo tempo per 
dipingere perché la mia padrona passava molte ore a suonare, forse perché le 
ricordava suo marito. 
Il mio padrone era infatti morto 2 anni fa di tifo, e ancora la dama non era riuscita a 
dimenticarlo. Da quel momento i giorni felici finirono e sulla grande casa calarono un 
freddo e buio eterni. Se prima i miei padroni suonavano ogni giorno, lui il flauto e lei il 
mandolino, ora si sentiva solo un eco di uno strimpellare solitario. Chiunque si trovava 
nelle vicinanze, era pervaso da un sentimento di tristezza ascoltando quella melodia. La 
sua musica era monotona perché da quando lui era scomparso anche l’ispirazione se 
n’era andata. 
Incominciai a dipingere e, come se lei avesse capito che la stavo ritraendo, compiva 
movimenti lenti e leggeri in modo da non muoversi più di tanto. Dopo alcune ore avevo 
quasi finito il quadro, mi mancavano soltanto le ultime pennellate. 
“Signora Roxanne!” disse Jodie, una serva, interrompendo la melodia. 
La padrona non si era accorta che la ragazza era entrata nella stanza e, un po’ 
meravigliata, un po’ seccata le rispose:”Cosa c’è?” 
“è arrivata una lettera un po’… strana.” 
“Spiegati meglio.” 
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“Ecco.. Non ha il mittente!” 
“Fammela vedere.” 
Jodie teneva in mano la lettera e appena sentito l’ordine gliela porse con un sorriso 
divertito sulle labbra. Probabilmente l’aveva letta, pensai io. Ma nel guardare meglio 
capii cosa stava succedendo e un senso di panico mi pervase; quella era la mia lettera! 
Pensavo di averla firmata, ma probabilmente nell’agitazione del momento mi dimenticai 
di scrivere il mio nome. Anche se avevo origini umili e non andavo a scuola, da piccolo 
mio padre mi aveva insegnato l’alfabeto e qualche frase,che a sua volta aveva imparato 
da un maestro. Ero molto contento di questo, perché in quell’epoca saper scrivere era 
un lusso. 
Volevo entrare nella stanza e riprendermi quella lettera, ma cosa avrebbe pensato dopo 
la padrona? Ci sarebbero state molte domande che avrebbe potuto rivolgermi, e sarei 
sicuramente finito fuori di casa. Quindi mi calmai e pensai che comunque non avrebbe 
mai saputo chi l’avesse scritta e ritornai a dipingere tranquillo. Aggiunsi anche Jodie per 
riempire il quadro. 
Nel frattempo la padrona Roxanne stava leggendo con occhi attenti la lettera. Non 
riuscivo a capire che cosa stesse pensando. Quando finì di leggere, guardò con aria 
interrogativa la serva e finalmente parlò. 
“Si tratta di uno scherzo, vero?” chiese a Jodie. 
“Non lo so signora,io l’ho solo trovata tra la posta.” 
“è sicuramente uno scherzo di qualche uomo che vuole approfittare di me.” E, detto 
questo, la strappò. Capii che che forse era spaventata, ma il mio cuore fece comunque 
un sussulto. 
“Gettala via, per favore.” Ordinò la padrona a Jodie. E ritornò a suonare, mentre io, col 
cuore spezzato, mi rifugiavo nella mia stanza lasciando il quadro incompiuto. 
I giorni passavano. L’inverno finì in fretta lasciando spazio alla primavera. Ogni volta 
che finivo i miei lavori in casa andavo in giardino a disegnare fiori, animali, alberi, 
nuvole, oppure la gente che passava. Non davo più importanza alla storia della lettera, 
sapevo che comunque la signora non avrebbe mai accettato i miei sentimenti. 
“Cosa disegni?” Non mi accorsi che la padrona era di fianco a me. Non rispondendole, 
le mostrai gli schizzi. 
“Che belli,sei proprio bravo” arrossii , e lei aggiunse: “allora forse ho capito da dove 
viene quel quadro.” Arrossii ulteriormente “Di che quadro parla signora?” 
“Qualche tempo fa ho trovato un quadro nello sgabuzzino del soggiorno, e non sapevo 
da dove provenisse … Non è che lo hai fatto tu?” 
Sospirai e le spiegai tutto col cuore in gola, preoccupato per le conseguenze di quelle 
parole. Le rivelai i miei sentimenti e le dissi anche della lettera, e lei non batté ciglio. 
Alla fine del discorso, rimase in silenzio per alcuni minuti, non sapendo che cosa dire. 
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Trovò le parole giuste e mi disse sorridendo: “Sei proprio un bravo ragazzo.”, e se ne 
andò dal giardino, lasciandomi solo e confuso. 
Quando rientrai in casa sentii nell’aria una dolce melodia; la padrona stava 
componendo una nuova, bellissima canzone. Ero estremamente sorpreso; Jodie mi 
venne di fianco e mi sussurrò: “La signora ha ritrovato l’ ispirazione! Non è forse 
fantastico? Chissà cos’è successo..” 
Senza risponderle andai verso il soggiorno: la dama era lì, con il mandolino tra le 
mani e con un dolce sorriso sulla bocca. Indossava gli stessi vestiti con cui l’avevo 
ritratta. 
“Sapevo saresti venuto.” Disse. “Grazie a te ho ritrovato l’ispirazione, e di questo ti 
ringrazio moltissimo. Voglio che tu finisca il quadro.” Mi guardai intorno e lo vidi, 
incompleto, su un cavalletto davanti a Roxanne. 
“Puoi finirlo, anche se Jodie non è qui.” 
Sia felice sia nervoso, mi sedetti su uno sgabello posizionato davanti al cavalletto e 
sorpreso trovai i miei colori su una tavolozza. Erano rimasti ancora nello sgabuzzino da 
quel giorno in cui avevo interrotto il quadro. Sorrisi e cominciai a dipingere. Era molto 
più bello lavorare senza la paura di essere scoperto e con una canzone di sottofondo 
tanto melodiosa. 
In due ore finii il quadro e lei venne a vederlo; era sinceramente contenta. 
“D’ora in poi voglio che tu dipinga per me, vuoi farlo?” mi chiese. 
“Ne sarei onorato” risposi. 
E, sorridendomi, ritornò al suo posto a suonare. 
Io andai nella mia camera soddisfatto; finalmente avevo finito il quadro e avevo rivelato 
alla padrona i miei sentimenti. Dal soggiorno sentivo la padrona suonare. Ero felice. 
Monica Massarenti 
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4 – Maria Elisabetta - L'inizio 
Johannes Vermeer - Donna con collana di perle 
19
Lui, il pittore che tutti stimavano, aveva perso l’ispirazione. Ormai non poteva neanche 
più permettersi una serva che lavorasse a tempo pieno e che andasse al mercato, così 
decise di andarci lui stesso. Mentre si incamminava a testa bassa, pensava a tutti quei 
quadri che l’avevano reso famoso. Ne aveva creati così tanti ormai, che non aveva più 
nulla da dipingere. Aveva perso l'ispirazione e aveva tentato con ogni cosa, ma niente! 
Ogni quadro che provava a impostare sembrava una copia di un altro fatto qualche 
tempo prima. 
Perso nelle sue riflessioni, era quasi arrivato al mercato, distolse il pensiero da ciò 
che lo preoccupava e iniziò ad addentrarsi nel caos delle bancarelle che vendevano 
grandi quantità di cibarie. Si diresse verso l’angolo destinato a legumi e ortaggi, ormai la 
carne era troppo cara per lui. Mentre si avvicinava al banco da cui si serviva sempre, 
vide una ragazza che lo colpì. Aveva un viso dolce, i capelli quasi del tutto coperti, ma 
si intravedevano delle ciocche castane. Vide che si avviava verso l’uscita del mercato, 
così decise di seguirla. In mezzo a tutta quella gente era difficile tenere d’occhio 
qualcuno, ma lui non la perse di vista un momento. Ad un certo punto la fanciulla svoltò 
in un vicolo molto stretto ed entrò nel cortile di una casa. Il pittore la seguì e si nascose 
dietro all’entrata del cortile. Sentì un’altra ragazza arrivare e urlare: “Maria Elisabetta! È 
tornata finalmente!” . Il suo nome era Maria Elisabetta, e probabilmente l’altra ragazza 
era la sua serva. Il pittore restò un po’ fuori dal cancello poi, vedendo che la fanciulla 
non usciva più, se ne tornò a casa. La sera pensò molto a lei e decise che il giorno 
seguente le avrebbe chiesto di fare la modella del suo quadro. 
L’indomani all’alba il pittore si avviò verso la casa della fanciulla e quando lei uscì la 
seguì fino al mercato. Ad un certo punto la vide voltare in un vicolo buio nel quale si 
vedeva solo una piccola panchina in legno dove lei si sedette. Il pittore colse 
l’occasione al volo e le si avvicinò. I due iniziarono a parlare, e dopo poco il pittore le 
chiese di posare per il suo quadro. 
Messa da parte la sua iniziale titubanza, lei accettò a condizione che l’opera 
rimanesse segreta, almeno fino al suo compimento. 
Si diedero appuntamento l’indomani nello stesso posto per poter parlare dei dettagli. 
Il giorno seguente decisero che la fanciulla sarebbe andata a casa del pittore ogni 
mattina con la complicità della serva che avrebbe mantenuto il segreto con il marito. Se 
egli l’avesse saputo sarebbe andato su tutte le furie e l’avrebbe abbandonata, perchè 
avrebbe macchiato il nome della sua nobile famiglia. 
Il primo giorno il pittore fece accomodare Maria, ma non riuscì a trovare una posa che 
lo soddisfacesse, così la mandò a casa senza aver neanche iniziato il quadro. I giorni 
seguenti furono uguali al primo, se non per un piccolo particolare. Il pittore ogni giorno 
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vedeva Maria con occhi diversi, gli sembrava sempre più bella. Maria pareva non 
accorgersene ma anche lei dopo poco tempo capì di essere attratta dal pittore. 
Dopo alcune settimane, il pittore decise di spendere i suoi ultimi risparmi e comprare 
un regalo degno per dichiararsi a Maria. Quando, il giorno seguente, esse vide la 
collana e gli orecchini di perla, fu felicissima, ma entrambi sapevano che, se avessero 
voluto stare insieme, avrebbero dovuto fare i conti con il marito della donna. Il pittore 
finalmente trovò la posa giusta e iniziò a dipingere Maria Elisabetta con i gioielli che le 
aveva regalato. 
Nel quadro c’era solo lei, la sua amata, con i gioielli che lui le aveva donato per 
dichiararle il suo amore. Nel quadro si intravedevano anche la finestra e il tavolo dello 
studio che davano un tocco di mistero alla creazione del pittore. 
Dopo tre mesi il quadro era quasi pronto, mancava solo da disegnare la cartina 
geografica sul muro, sarebbe stato il segno della loro fuga. Avevano iniziato a 
progettarla due mesi prima, per poter stare insieme senza subire le ire del marito di 
Maria Elisabetta. Il pittore quel giorno uscì di casa un po’ più tardi del solito per sbrigare 
le sue commissioni. Maria Elisabetta intanto, mentre percorreva la strada che la portava 
dal pittore, si sentiva strana, quasi osservata, le sembrava che qualcuno si stesse 
nascondendo nell’ombra e la seguisse. 
Quando arrivò, bussò alla porta della casa del pittore, le aprì la nuova serva che la 
fece accomodare e le disse che il pittore era ancora fuori per svolgere delle 
commissioni. Il marito, che l’aveva seguita per tutto il tragitto, era entrato di soppiatto 
dalla finestra e al sentire quelle parole, si fece avanti intimando a Maria di mostrargli il 
quadro. Lei decise così di portarlo nell’atelier. Quando furono là, il marito vide il quadro 
e iniziò ad urlare contro Maria Elisabetta. 
Dopo poco, il pittore, tornato a casa pensando di essere in ritardo, entrò nell’atelier e 
non trovò la donna, trovò solo un piccolo alone sul pavimento e qualche goccia di rosso 
ramato. Doveva essere stata la serva, che mentre puliva aveva versato un po’ di colore. 
Quel giorno Maria Elisabetta non arrivò. 
Gaia Lodi 
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5 – Maria Elisabetta - il ricatto 
J ohannes V ermeer - L a merlettaia 
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La osservavo sempre, amavo guardarla e avrei potuto passare giornate intere a 
scrutare i suoi movimenti senza mai stancarmi. Quello che più mi affascinava di lei 
erano senza alcun dubbio i suoi occhi, così piccoli e delicati ma in grado di far trasparire 
la forza incredibile di quella donna, che ne aveva passate tante e nonostante questo la 
vita aveva deciso che per lei non era ancora giunto il momento di essere felice e di 
lasciarsi alle spalle il passato. Aveva sempre vissuto in un mondo che non le 
apparteneva e fin da giovane aveva cercato di ribellarsi, ma la vera sofferenza per lei 
arrivò quando si rese conto che i suoi genitori erano più interessati a difendere il buon 
nome della famiglia che alla sua felicità. A soli sedici anni era stata rinchiusa in una 
torre, anche se purtroppo il principe azzurro a salvarla non arrivò mai. Dopo alcuni anni 
i genitori morirono a causa di una grave pestilenza a cui lei scampò miracolosamente, e 
per quanto possa essere crudele tale affermazione, Maria Elisabetta ne fu sollevata. A 
ventidue anni acquistò una reggia ed iniziò a cercare servitù, così la conobbi e mio 
malgrado, me ne innamorai. Ormai sono passati dieci anni, ma ricordo ancora come 
fosse ieri il nostro primo incontro, non riuscii mai a spiegarmi cosa di un semplice 
domestico come me catturò così violentemente la sua attenzione, ma di questo sono 
certo, ricambiava i miei sentimenti come mai nessuno prima d’ora. Purtroppo, a 
differenza di ciò che pensavamo ingenuamente, l’amore ha una classe sociale e non 
permette a nessuno di violarla. L’amore più forte e vero che avessimo mai provato era 
finito per colpa di una stupida classe sociale e non pensavamo di poter ricevere notizia 
peggiore, ma mi sbagliavo: Maria Elisabetta si sarebbe presto sposata con un principe 
verso il quale non provava alcun sentimento. Un marito che a distanza di dieci anni non 
esisteva già più, forse uno dei tanti misteri celati dietro la dama. Non che a me 
dispiacesse di questa perdita, Maria Elisabetta dopo il lutto aveva riallacciato i rapporti 
con me, non avevo mai smesso di lavorare per lei ma dopo il suo matrimonio si era 
creato il gelo tra di noi, e finalmente ora avevo la possibilità di recuperare tutto il tempo 
perso. Negli ultimi giorni passava gran parte del suo tempo nello sgabuzzino a cucire 
furtivamente dei merletti. Aveva sempre avuto la passione per il cucito, ma ero convinto 
che ci fosse di più, non aveva motivo di nascondere le sue creazioni in una cassapanca 
chiusa da un lucchetto, o probabilmente un motivo lo aveva. Questo diventava uno dei 
tanti enigmi che andava ad aggiungersi ad una lunga lista. Ma stavolta ne ero più sicuro 
che mai, non mi sarei lasciato sopraffare dal suo carattere impetuoso e sarei riuscito a 
scoprire, almeno in parte, cosa mi nascondeva quella donna. Non ero di certo la 
persona adatta per parlare di sincerità, era una delle tante cose che mi accomunava a 
Maria Elisabetta, ci eravamo conosciuti nella menzogna e avevamo costruito il nostro 
rapporto su bugie che speravamo non sarebbero mai emerse. Nonostante questo il 
nostro amore era vero e andava oltre tutte le sporche verità mancate. Dopo diverse 
settimane passate a meditare su cosa potesse turbare Maria Elisabetta e a scrutarla, 
cercando di non essere notato, decisi che era giunto il momento di parlarle; ero 
23
convinto che si fosse accorta della mia furtiva presenza da tempo, ma essere osservata 
la faceva sentire importante come mai per nessuno lo era stata, nessuno a parte me. 
Entrai nella stanza buia e la trovai intenta nella decorazione dei suoi merletti, cercai di 
scordarmi per un attimo delle sue stranezze e mi sedetti dolcemente su uno sgabello al 
suo fianco. Le chiesi cosa la tormentasse, la sua risposta fu "niente". Scoprii che il 
niente di cui parlava era un enorme problema, una valanga che se non fosse stata 
fermata in tempo avrebbe travolto non solo lei, ma anche me. Eravamo stati scoperti, il 
nostro enorme segreto lo sarebbe rimasto ancora per poco e tutto questo a causa di 
Don Lucio, una persona tanto crudele quanto falsa che aveva deciso di ricattarci. In 
caso non fossimo riusciti a soddisfare la sua richiesta, l’intero mondo sarebbe venuto a 
conoscenza di una scandalosa verità: la nobile Maria Elisabetta aveva messo al mondo 
una bambina con il suo maggiordomo, per lo più durante il matrimonio con il suo povero 
vedovo. Non avremmo dovuto dare spiegazioni solo dell’accaduto, ma anche della 
scomparsa di questa fanciulla, che era morta a causa di una feroce epidemia. 
Decidemmo così di incontrare Don Lucio; era una mattina d’inverno ed un timido sole 
splendeva nel cielo, ci dirigemmo verso la chiesa e appena giunti lo trovammo, ci invitò 
a sederci, iniziando il suo crudele discorso. Era venuto a conoscenza di tutto questo 
grazie all’archivio comunale delle morti premature, quando Francesca venne a mancare 
aveva solo sei anni, era stata con mia madre nella nostra umile dimora fino alla sua 
morte, motivo per cui nessuno si accorse della sua esistenza. Maria Elisabetta era stata 
una madre perfetta, nonostante l’avesse dovuto fare in incognita, purtroppo la sua 
morte ci aveva recato tanto dolore che avevamo dovuto nascondere in noi, senza mai 
lasciar trasparire nulla. Dopo un discorso di alcuni minuti, arrivammo ad una 
conclusione: avremmo dovuto fabbricare merletti per l’intero convento, che Don Lucio 
non poteva più permettersi. Riuscimmo ad accontentarlo e a proteggere il nostro grande 
segreto, ma mi resi conto che avevo passato fin troppi guai a causa di Maria Elisabetta, 
dovevo cambiare vita e potevo farlo solamente dimenticandomi di lei. La amavo con 
tutto il cuore, ma preferii la mia vita alla sua e la abbandonai miseramente. L’avevo 
ingenuamente lasciata come tutte le altre persone per le quali fino a poco prima 
provavo ribrezzo. Venni a sapere che in seguito si era trasferita in una meravigliosa villa 
sul mare, dopodiché non mi giunsero più sue notizie, “spero tu sia felice, te lo meriti 
veramente” erano state le ultime parole che le avevo rivolto prima di lasciarla, e le 
pensavo davvero. Quella donna non meritava altro che serenità e comprensione che 
non aveva mai avuto. 
Alice Penzo 
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6 – Maria Elisabetta: la nuova vita 
J ohannes V ermeer - S uonatrice d i chitarra 
25
Maria Elisabetta non amava restare da sola. Non ne poteva più di Vienna, una città 
così piena di ricordi che le procuravano dolore, perciò si era trasferita da qualche anno 
in una tenuta sulla riva dell’oceano. 
Leggeva libri sacri, quelli che la madre aveva letto da giovane con le sorelle, 
riposava, talvolta perdeva ore ad osservare le onde e la schiuma del mare, quella 
bianca schiuma che arrivava fino alla spiaggia, accarezzando la sabbia. Quelle belle 
giornate d’infanzia però Maria le aveva dimenticate insieme a tutti i gioiosi ricordi della 
giovinezza. Adesso era tutto diverso e l’aria portava con sè malinconia e 
rassegnazione. In inverno le giornate erano lunghe, interminabili, gli orologi 
sembravano dormire e le lancette pietrificate scandivano con triste lentezza i secondi: 
un giorno durava un anno e quel maledetto anno sarebbe durato una vita. La sua non 
era stata proprio una vita felice, e forse non la sarebbe mai stata. Era ancora 
intrappolata in quella realtà scomoda, falsa e ingombrante, a dover sorridere anche 
quando il cuore piangeva, ad accrescere dentro di sè i sensi di colpa e il rimpianto di 
non aver vissuto a pieno le gioie e le opportunità che quella stessa vita le aveva offerto, 
i momenti del passato le tornavano in mente spesso, troppo spesso. 
Quel mattino era più abbattuta che mai, anche le galline del pollaio erano più taciturne 
del solito e il gallo al mattino non cantò. Il sole, proprio quel sole pallido e malato, si 
nascose dietro la fitta cortina di nubi, scomparendo. Non c’era nemmeno lui ora a 
tenere compagnia alla donna, in quella casa fredda e smisuratamente grande per lei. Le 
pareti grigie e scure contrastavano le brillanti e lussuose cornici dorate che 
incorniciavano i quadri di Ludovico. Eh, si, a lui ci pensava ogni mattina quando, al 
risveglio, osservava quella splendida tela in cui si rivedeva da giovane, testarda e 
viziata, mentre provava i meravigliosi gioielli che ancora dopo tanti anni conservava nel 
cofanetto ornato con una sottile filigrana d’oro. Il tempo era passato e il rimpianto dei 
momenti sprecati, dei misfatti compiuti e degli orrori commessi la portava al pensiero di 
una vita da concludere con un nulla di fatto e ciò non le dava pace..Sentiva il gocciolio 
della pioggia penetrare dal tetto e cadere rimbombando nelle catinelle appoggiate sul 
pavimento del solaio. Teodoro se n’era andato e nessuno più sarebbe salito sul tetto 
per trovare l’origine di quelle infiltrazioni, non di certo lei. Anche se sola non aveva 
perduto la sua classe ed eleganza, in fondo, pur essendo sempre stata una ribelle, era 
stata allevata da una famiglia nobile ed abituata ad un ambiente sfarzoso… Dalla 
veranda vedeva le gocce cadere a terra, tuffarsi e perdersi nell’azzurro del mare. 
Avvertiva la brezza sfiorarle i ciuffi dei capelli, muovere il colletto del vestito e le tendine 
di pizzo ricamate dalla nonna che decoravano finemente le finestre della cucina. 
Entrò in casa lasciando spalancata la porta. Entrò nella stanza della musica dove 
teneva i libri, la chitarra e il clarinetto. Afferrò la chitarra e strimpellò per un paio di 
minuti. Erano già passati alcuni giorni da quando aveva cominciato a comporre. 
26
Appoggiò con delicatezza la mano sinistra sulla chitarra della figlia Francesca. 
Cominciò a diffondersi tra le stanze della villa una dolce melodia. Era uno dei pochi 
momenti felici. Intonò i versi di un’allegra ninna nanna. Quella musichetta le suonava 
sempre nella testa, a volte la tormentava e a volte invece le ricordava la figlioletta persa 
tristemente a causa di un’epidemia. A lei stava dedicando quella canzone e quelle 
parole poetiche. A lei aveva dato tutto e per lei aveva sempre fatto tutto. Quei pochi 
anni di vita di Francesca avevano assorbito completamente l’anima di Maria. 
Era giunta la sera. Maria accese le candele e cucinò una gallina con alcuni aromi colti 
dall’orto dietro casa. Cenò bevendo vino e cantando quella melodia che sembrava 
ormai non avere più un inizio e una fine ma continuava a risuonare nelle stanze della 
villa. Stanca si distese sul letto e osservò il dipinto di Ludovico. Ripensò anche a 
Teodoro e a Francesca. Ripensò ad Ernest, il marito tanto più grande di lei che diede 
origine a tutti i suoi tormenti. Pensando e riflettendo si addormentò, con la stanza e i 
quadri che la fissavano. 
Cominciò a sognare e viaggiò ritornando indietro nel tempo al giorno in cui il marito la 
picchiò a casa del pittore per quei meravigliosi dipinti. Fu l’istinto, un momento di rabbia, 
la voglia di indipendenza. Prese il cavalletto di un quadro e lo colpì. Lo vide cadere a 
terra. Era morto. L’aveva ucciso. Non pianse, finalmente non l’avrebbe più rivisto, era 
libera. Si stava rivedendo, ripercorreva i drammi e le disgrazie. Riuscì a coprire la 
situazione, dicendo ai genitori di Ernest che il figlio era tragicamente morto travolto da 
un calesse. Intanto Francesca cresceva. Altro dolore e bugie si stavano accumulando. 
Maria Elisabetta era scappata, non avrebbe più voluto vedere Ludovico. La vita a 
Vienna era caotica e Teodoro diveniva sempre più distaccato. Maria voleva che lui la 
smettesse di comportarsi come i membri della servitù. Era stato il suo servo, ma poi, si 
erano innamorati. Il sogno ripercorse anche i ricatti di Don Lucio, il viscido parroco 
approfittatore che obbligava Maria a cucire e a lavorare per non rivelare all’importante 
famiglia di Ernest che Francesca era in realtà figlia di Teodoro. Alla morte di Don Lucio 
i ricatti terminarono e vennero sostituiti dal senso di colpa di Maria che la spinse in una 
profonda depressione, culminata con la morte della figlioletta a causa di una malattia. 
Rivide il giorno in cui Teodoro la salutò e se ne andò per sempre nonostante lei lo 
amasse così tanto. 
Si risvegliò di colpo tutta sudata e pianse a lungo. Non ricordava l’ultima volta in cui 
aveva pianto perché le donne forti non hanno il tempo per piangere. Quel terribile 
incubo aveva portato alla luce le intricate peripezie di una ragazzina cresciuta in modo 
diverso rispetto alle coetanee. Voleva solo essere lasciata in pace da quei pensieri, dal 
passato che la divorava lentamente. Voleva solo una vita diversa, una vita migliore. 
Sara Campagnoli 
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7 – Scienza in corso 
J ohannes V ermeer - L ’a stronomo 
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Edward Van Varten era ormai conosciuto, a Breda, per la sua fama di astronomo. 
Egli, infatti, desiderava ardentemente scoprire i segreti dell’italiano Galileo Galilei, colui 
che era rimasto accecato dalla luce del sole. Il sole, esatto, la grande passione di 
Edward. 
Il suo sogno infatti era costruire una sonda abbastanza resistente da poter essere 
mandata su di esso, o almeno nelle vicinanze. 
Lui portava avanti questa passione perché voleva essere visto e ricordato per il suo 
contributo alla scienza. 
Il suo compagno di lavoro era il suo migliore amico, William, appartenente alla classe 
aristocratica, che si era guadagnato il suo posto grazie ad un’’impresa straordinaria: era 
stato il primo Olandese ad attraversare l’Oceano Pacifico. Egli era, come avrete già 
capito, un geografo. 
Edward aveva avuto un’ infanzia molto difficile, era cresciuto in Spagna, in un 
orfanotrofio, insieme ad altri dieci ragazzi, provenienti da Tibet, Australia, Israele, Italia 
e altri tra i più curiosi paesi al mondo. 
Da essi apprese nuove nozioni sulle differenti culture. 
All’età di sette anni fu adottato da una coppia americana e andò a vivere in Arizona. 
Lí in una sera estiva conobbe quelle che sarebbero diventate le sue ossessioni, le 
stelle. 
Quella sera faceva particolarmente caldo in casa, così decise di uscire. Stelle.. nella 
sua mente non vi era nient'altro. 
Astri, stelle, palle di differenti colori e dimensioni, per lui la definizione non aveva alcuna 
importanza, d'altronde come Shakespeare ci ricorda : "Cosa c'é in un nome ? Ciò che 
chiamiamo rosa conserverebbe il suo profumo anche con un altro nome." 
Guardando quelle lievi luci il suo cuore palpitava a più non posso, da quella sera non fu 
più lo stesso. 
Una volta completati gli studi, si recò in Olanda per sapere di più sulla fama del 
geografo William Buston. 
Una volta incontratolo, ne rimase fortemente colpito al punto che si mise a studiare la 
geografia, dopo pochi mesi i due divennero inseparabili compagni di avventure, 
progettarono, infatti, un razzo capace di attraversare sia la galassia che l'Oceano. Lo 
chiamarono Helter-Skelter, ossia, scivolo. 
Ovviamente, questa invenzione portò loro una buona fama. 
Durante la presentazione ufficiale del razzo, Edward conobbe un’incantevole fanciulla, 
chiamanta Lidia Galilei, un’italiana, parente lontana del famoso astronomo italiano, 
tanto amato da Edward. Non poté fare a meno di chiederle informazioni sempre più 
dettagliate sul suo “ mentore “. 
Dopo pochi mesi di uscite, le chiese di sposarlo, all’esibizione della grande filarmonica 
Olandese. 
29
Lei, pur se colta di sorpresa, non esitò ad accettare. 
Le nozze furono stupende, William fece loro da testimone e in luna di miele andarono a 
Venezia, la città sull’acqua. 
Qui trascorsero più di tre settimane. 
Una volta tornati, Edward e William decisero di intraprendere un nuovo progetto, la 
sonda per il Sole. 
“Questo progetto sarà molto costoso da finanziare, dovremmo chiedere un prestito alla 
banca!” disse William. Edward annuì sorridente e si mise a riflettere sulle possibilità di 
riuscita e funzionamento della sonda. 
Se l’impresa fosse stata un fiasco, si sarebbero trovati con debiti molto pesanti, ma ciò 
non preoccupava Edward, egli pensava principalmente alle conseguenze della riuscita, 
a quanto denaro e fama avrebbero acquisito. 
Infatti, questa impresa sarebbe stata molto proficua per entrambi e li avrebbe proiettati 
nella classe più alta, dove avrebbero potuto aver un posto come geografi e astronomi 
del re. 
Questi e altri pensieri influenzavano la mente di Edward e William. 
Una volta progettato il razzo, avevano bisogno dei materiali giusti e resistenti al calore 
del Sole. Codesti erano quasi introvabili, e ciò costrinse loro ad intraprendere un lungo 
viaggio. 
Il materiale era una particolare pietra vulcanica chiamata Dunite, che si trovava solo in 
Nuova Zelanda. 
Decisero di partire il giorno stesso, portandosi dietro solo l’essenziale, con l’aereo di 
William. 
Impiegarono un giorno ad arrivare e furono subito confusi dal “ Jet lag “. 
Il Monte Tongariro, fortunatamente, non era lontano. 
Dopo una bella dormita si incamminarono verso il vulcano. 
Dopo poche centinaia di metri iniziarono a vedere i “blocchi” di Cunite, che venivano 
inondati ogni due minuti da lava incandescente. 
Edward decise di correre il rischio, si avventò su uno dei blocchi con un piccone e 
staccò una quantità sufficiente di roccia e, con grande fortuna, riuscì ad allontanarsi 
poco prima dell’arrivo dell’ondata di lava. 
Recuperata la pietra preziosa i due impavidi viaggiatori tornarono a casa pieni di 
orgoglio e il mattino seguente, senza perdere un attimo, iniziarono a costruire la sonda. 
L'impresa fu lunga e complessa, ma dopo quasi sei estenuanti mesi riuscirono a 
completare il progetto. 
Fissarono la data del lancio per la settimana seguente e si dedicarono a passare del 
tempo con la famiglia. 
Quella sera era tutto perfetto, Edward e sua moglie erano a casa di William, a 
sorseggiare un buon tè e a fumare un grosso sigaro cubano. 
30
La settimana passò molto velocemente, il clima familiare era piacevole. La mattina del 
lancio William e Edward erano emozionati, non riuscivano a credere di aver realizzato il 
loro più grande sogno. 
Quando Edward premette il tasto per la partenza, la folla cominciò lentamente ad 
esaltarsi. 
Sua moglie piangeva lacrime di gioia, fiera del suo amato marito, poiché era riuscito 
nel suo sogno più grande. 
William ed Edward si strinsero la mano davanti al razzo che si innalzava. Un uomo 
scattò una foto. 
Matteo Battilani 
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8 – Il sentiero dei garofani rossi 
J ohannes V ermeer - D onna in p iedi a lla spinetta 
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Sbatté con forza la porta alle proprie spalle e, con ancora nelle orecchie i suoni stonati 
di quel dannato strumento, si avviò lungo il corridoio. 
La casa era deserta e tutto pareva immobile, imprigionato in uno statico silenzio. 
Cominciò a trascinare i piedi lungo il corridoio, senza sapere dove fermare lo sguardo. 
Negli ultimi giorni aveva cercato, disperatamente e con tutte le sue forze, di trovare in 
quella casa qualcosa che le portasse alla mente ricordi felici, qualcosa di cui avrebbe 
sentito la mancanza. 
Non aveva avuto successo. 
Tutto di quel posto la disgustava. Ogni ricordo che la legava a quelle mura le istillava, 
sempre più prepotente, il desiderio di scappare. 
I ritratti dei suoi antenati, appesi alle pareti, le incutevano un grande timore e i loro occhi 
dalle tinte glaciali la inquietavano, al punto che ogni volta che vi passava davanti si 
costringeva ad abbassare il capo. Le pareti bianche come la neve, d’altro canto, non 
erano uno spettacolo migliore. Tutto quel candore la faceva sentire fuori posto, troppo 
piccola e troppo sporca per vivere tra tutta quella meraviglia. Il peggio, però, erano 
senza dubbio l’oro e l’argento che spuntavano in ogni angolo della casa, piazzati a forza 
anche nei locali più umili. 
Erano ormai lontani i giorni in cui lei e sua sorella Angelique giocavano beate nelle 
stanze di quella enorme casa, fingendo di essere principesse nel loro personalissimo 
castello. I giorni in cui ancora la divertiva il suono che i tacchi delle scarpe producevano 
sul pavimento d’ebano, in cui lei e sua sorella erano un’unica entità, che mai niente le 
avrebbe separate. 
Erano i giorni in cui si sentiva amata ed importante. 
Rise di se stessa e della sua ingenuità, perché, di certo, importante lei non lo era 
affatto, men che meno in quella prigione d’avorio. 
Un suono ovattato, come di caduta, le arrivò leggero all’orecchio. 
Sorrise intimamente e voltò lo sguardo alle proprie spalle, per farlo cadere sulle chiazze 
vermiglie che interrompevano le rigide striature del legno. 
I suoi occhi seguirono la scia di petali rossi, fino a posarsi su quelli che, con grazia, 
stavano rotolando tra le pieghe della sua gonna, in una lenta caduta verso il suolo. 
Dal fondo della sua gola sorse una risata debole e meschina, che persino lei stentò a 
riconoscere. 
Si girò nuovamente verso la fine del corridoio e riprese a camminare. 
Aprì piano la porta della sua stanza e il vestito rosso rubino, piegato malamente nel 
baule aperto ai piedi del letto, attirò subito il suo sguardo. 
Sfiorò la seta vermiglia in una carezza leggera e scandagliò con gli occhi il resto della 
stanza. Quello era l’unico luogo della casa che parlasse realmente di lei, dal pettine in 
argento posato sul comò al suo libro preferito nascosto sotto al cuscino. 
Accarezzò con lo sguardo la struttura in legno di noce del letto a baldacchino, da cui 
33
pendevano, pesanti, le tende damascate. Mosse qualche passo e si affacciò alla 
finestra, che dava direttamente sulle vie di Delft. 
Sotto di lei, un gruppetto di cinque bambini giocava per strada, rincorrendosi tra il 
disappunto dei passanti. Tutto imbacuccato in un cappotto grigio fumo, un ometto 
occhialuto zoppicava appoggiato al suo bastone da passeggio. 
Ai margini del suo campo visivo, notò un puntino di luce sul muro alla sua destra. 
Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che, alle sue spalle, appesi ad un leggio mai 
utilizzato, pendevano sette pezzi di vetro colorato che proiettavano i raggi del sole 
morente in giro per la stanza. Si girò, infine, verso lo specchio a figura intera appeso 
alla parete. Fissò con disgusto la cornice dorata, incastonata di rubini, e sbuffò 
sonoramente. 
Certamente, di tutto quel ciarpame, quello era l’oggetto di cui avrebbe sentito meno la 
mancanza. Faticava a ricordare l’ultima volta in cui aveva sorriso di fronte alla propria 
immagine. 
Per un attimo, su quella fredda superficie, rivide la se stessa di qualche anno prima. La 
bambina dolce ed ingenua che non aveva un problema al mondo, se non quello di 
decidere cosa far indossare alle proprie bambole. 
Da ormai sei anni di quella bambina non v’era più traccia. 
Era stata spazzata via, all’improvviso, come un castello di sabbia durante l’alta marea. 
La vita le aveva scagliato contro un’onda anomala che l’aveva cambiata per sempre. 
Dieci anni. 
Aveva soltanto dieci anni quando i primi buchi neri cominciarono ad insinuarsi nella sua 
mente. 
Era il giorno del suo compleanno e tutto sarebbe stato perfetto se non avesse notato, a 
metà della cena, le lacrime che rigavano il volto di suo padre. 
“Padre, perché piangete?” chiese con tono sommesso. 
Un silenzio tombale scese d’improvviso sulla tavolata, il respiro di sua sorella Stephanie 
s’interruppe in un verso strozzato e la serva Caroline, sempre sorridente, si ritirò in 
cucina con un’espressione desolata dipinta sul volto. 
L’uomo le lanciò uno sguardo gelido e, con movimenti meccanici, si alzò da tavola. 
“Io vado nello studio, vi prego di non venire a disturbarmi” dichiarò con voce rotta. 
Mentre i passi del padre rimbombavano attraverso il corridoio, le ragazze rimasero 
immobili al loro posto. 
Lei continuò a muoversi inquieta sulla sedia per qualche minuto, mentre le sorelle 
terminavano la cena nel più completo silenzio. 
“Ho detto qualcosa di sbagliato?” non potè trattenersi dal chiedere. 
Stephanie posò stizzita la forchetta sul tavolo e Angelique le rivolse un’occhiata curiosa. 
La maggiore alzò lo sguardo su di lei, stampandosi in viso un sorriso tirato. 
“O Claire, non essere sciocca. Non hai fatto nulla di male. Nostro padre è solo molto 
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stanco” 
Il suo tono era teso e le mani, che stringevano convulsamente le pieghe del vestito, 
rendevano chiaro alle altre due che stesse mentendo. Era la più grande, parlava spesso 
con loro padre, ma mai avrebbero pensato che quei due avessero dei segreti con loro. 
Perché la dolce, premurosa e tranquilla Stephanie era arrivata a fare qualcosa di cui 
non era minimamente capace, come mentire? 
Claire e Angelique si lanciarono uno sguardo d’intesa e, in assoluta sincronia, si 
alzarono da tavola, porgendo un saluto sbrigativo alla sorella e lasciandola sola in sala 
da pranzo. 
“Hai notato anche tu?” domandò la più piccola. 
L’altra annuì convinta e affrettò il passo, deviando il percorso di entrambe verso la 
biblioteca. 
Si chiusero alle spalle il portone in legno e si gettarono senza grazia sulle poltroncine 
rosse, nascoste in un angolino tra gli scaffali. 
“Erano tutti talmente strani. Non capisco cosa gli sia preso” mormorò Angelique, 
portandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio. 
Sulle sorelle scese il silenzio, interrotto soltanto dal ticchettare della pendola che si 
trovava alle loro spalle. Claire non staccava gli occhi castani dalle finestre, mentre la 
sorella dondolava i piedi oltre il bordo della poltrona, lanciandole ogni tanto qualche 
occhiata obliqua. 
Dopo svariati minuti la minore emise un lungo sospiro. 
“Angie?” 
“Sì?” 
“Credi … credi che papà piangesse per colpa mia?” chiese con un fil di voce. 
L’altra si voltò di scatto con un’espressione sorpresa. 
“No! Assolutamente no! Perché mai pensi questo?” domandò con un tono tra il 
preoccupato e lo sconvolto. 
La bambina tentennò, torcendosi le dita delle mani e tenendo lo sguardo fisso sul 
pavimento. 
“Oggi, in fondo, è il mio compleanno, magari se è triste in questo giorno è colpa mia. E 
poi… si comportavano tutti in maniera così strana. Se la colpa non è mia, perché 
Stephanie ha dovuto mentirmi?” 
Ad ogni parola, la sua voce scendeva di tono, portandola a pronunciare le ultime lettere 
in un sussurro colmo di tristezza. 
La sorella si alzò di scatto e corse da lei, cingendole le spalle esili con le proprie 
braccia. 
Claire si strinse nel suo abbraccio e nascose il viso nell’incavo del suo collo, cercando 
di nascondere le lacrime che si era lasciata sfuggire. 
“Claire, basta adesso. Ti prego, smettila. Non è così, credimi! Anzi, se vuoi, vado a 
parlare con Stephanie, così ti dimostro che tu, con il malumore di nostro padre, non 
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c’entri un bel niente” le sussurrò la bionda all’orecchio. 
Detto questo, imboccò a grandi passi l’uscita e sparì oltre la porta della biblioteca. 
Claire si passò una mano sul volto, asciugando le lacrime, e fece un profondo respiro. 
Gettò qualche occhiata impaziente alla porta e cominciò a battere nervosamente un 
piede per terra. Le era praticamente impossibile rimanere lì ferma ad aspettare, 
nessuno poteva pretendere questo da lei. Troppo ansiosa, o troppo curiosa, si alzò di 
scatto e seguì la sorella lungo il corridoio. 
Passò davanti ad una decina di stanze prima di trovarsi davanti alla porta chiusa della 
camera da letto di Stephanie. Accostò l’orecchio alla superficie di legno e sentì le voci 
delle sue sorelle che discutevano. 
“Angelique, ho detto basta. Non mettere il naso dove non devi, tutto questo non ti 
riguarda.” Sbottò Stephanie con voce alterata. 
“Steph, insomma! Certo che mi riguarda, ci riguarda tutti, siamo una famiglia!” esclamò 
Angelique. 
“NO!” urlò la maggiore da dietro la porta. 
Il respiro di Claire si spezzò, infrangendosi contro la superficie lignea. La bambina fissò 
sconvolta il vuoto davanti a sè, incapace di formulare un pensiero concreto. 
“Cosa stai dicendo?” chiese in un tremolio la secondogenita. 
Ci fu un momento di pausa, come se Stephanie stesse raccogliendo dentro di sé la 
forza per rispondere. 
“Sorellina, non chiedermi di spiegarti. Sarebbe troppo doloroso, per entrambe. È meglio 
per te non sapere, fidati di me.” 
“MA COSA?! Cosa è meglio che io non sappia?!” fu lo strillo esasperato a cui seguì un 
forte tonfo. 
“ANGELIQUE! Abbassa la voce e non osare mai più utilizzare quel tono in questa casa! 
Sei una bambina intelligente, ma devi imparare a rispettare chi ti circonda, se non vuoi 
finire come nostra madre!” 
Il cuore di Claire mancò un colpo e le sue mani si strinsero a pungo. 
Mamma? 
“Cosa c’entra la mamma adesso?” 
Si sentì un forte sospiro, poi qualche attimo di silenzio. La tensione nell’aria era tale che 
Claire, ne era certa, avrebbe potuto tagliarla con un coltello. 
“Siediti sorellina” 
“Non voglio sedermi, voglio una spiegazione!” 
“È MORTA DI PARTO, VA BENE?!” sbottò improvvisamente. 
Le gambe di Claire tremarono e lei temette di non riuscire a rimanere in piedi. Respirare 
le sembrava sempre più difficile e grossi goccioloni salati premevano da dietro le 
palpebre per uscire. Tentò di inghiottire il groppo che le si era formato in gola e ricacciò 
indietro le lacrime. 
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“E se proprio vuoi saperla tutta, sono fermamente convinta che Nostro Signore le abbia 
dato la punizione che meritava!” 
Un verso strozzato, appena udibile da dietro quella porta che le stava celando la 
concitata discussione che la stava lacerando dentro. 
“Come puoi dire questo?” un singhiozzo sommesso, il tono della voce impregnato di 
lacrime trattenute a stento, lo sdegno contenuto nelle parole. 
Quella semplice domanda scosse Claire nel profondo. 
Da un angolino oscuro del suo animo qualcosa si mosse, in punta di piedi, appena 
percettibile, tanto discreto da passare inosservato. 
“Non guardarmi a quel modo, come se non sapessi più chi ti trovi davanti! Non sono io il 
mostro, lei lo era! Ha distrutto la nostra famiglia, ha spezzato il cuore di nostro padre, ha 
perfino osato portare il suo amante in casa nostra! ERA SOLTANTO UNA 
SGUALDRINA! Forse è meglio per te non averla mai conosciuta.” 
Queste parole risolute furono l’ultima cosa che Claire udì, prima che una fitta nebbia, 
sorta dal profondo di lei, la avvolgesse completamente. 
Buio. 
Le ore seguenti rimasero per sempre immerse nella più totale oscurità. 
In seguito Claire tentò più volte di ricordare cosa avesse fatto, visto, detto, ma aveva 
ottenuto soltanto una lunga lista di fallimenti. Quanto avrebbe desiderato sapere cos’era 
accaduto nella giornata che aveva distrutto la sua infanzia. Ma, in fin dei conti, forse 
non era nemmeno così importante capire. 
No, probabilmente, era qualcosa di irrilevante. 
Irrilevante davanti al fatto che Angelique non le aveva più rivolto la parola da quel 
momento. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare a quel pomeriggio, nella biblioteca, e 
sentire nuovamente la sua vocina sottile che la avvolgeva con parole d’affetto. 
I sei anni seguenti furono anni di assoluto inferno. 
Imprigionata nella propria casa, insieme ad una famiglia che, ormai lo sapeva, non la 
considerava altro che l’incarnazione di un tradimento bruciante. 
Si sentiva sempre più un peso e non riusciva a risolvere la questione. 
Un mese prima era arrivata la stoccata finale, il colpo di grazia. 
Era chiusa in biblioteca, stanza che non abbandonava quasi mai, quando suo padre 
era entrato con incedere deciso e le si era parato davanti. 
“Ho concluso un accordo con il signor Lefevre.” Dichiarò con voce gelida. 
Claire alzò il naso dal libro che stringeva tra le mani e fissò la figura slanciata dell’uomo. 
I suoi occhi grigi splendevano di risolutezza e la bocca sottile era contratta in una 
smorfia scocciata. 
Si aspettava una risposta da lei? 
Una domanda? 
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Una qualsiasi forma di interesse? 
Sarebbe rimasto deluso. 
Fece un vago cenno di assenso e si rigettò a capofitto tra le pagine ingiallite dal tempo. 
Il respiro dell’uomo si fece più pesante e rumoroso, in un’evidente pretesa d’attenzione. 
Claire trattenne a fatica un sorriso di soddisfazione per cui, lo sapeva, avrebbe pagato 
un caro prezzo. 
“Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi. Ho già firmato i documenti per farti diventare 
sua moglie.” 
Un tonfo sordo riempì l’aria e la ragazza guardò inorridita il tomo, che pochi istanti prima 
stringeva fra le mani, giacere a terra aperto malamente. 
Alzò lo sguardo sull’uomo, ma si trovò a fissare il vuoto, mentre nelle orecchie le 
rimbombavano i passi pesanti che lo stavano conducendo lontano da lei. 
Ho concluso un accordo con il signor Lefevre. 
Il respiro le si fece sempre più affannoso e un nodo le strinse la gola. 
Raccolse timidamente il romanzo da terra, per riporlo con cura sullo scaffale lì accanto. 
Allungò una mano verso il bracciolo della poltrona, in cerca di un appoggio. 
Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi. 
Le gambe le tremavano e non era più sicura di riuscire a reggersi in piedi. 
In quale momento la stanza aveva cominciato a girare? 
Ho già firmato i documenti per farti diventare sua moglie. 
E poi il nulla. 
Di quei giorni ricordava la rabbia. 
Ricordava le lacrime e le urla soffocate nel cuscino , come ogni notte da sei anni a 
quella parte, che si facevano sempre più forti, più disperate, quanto più i suoi incubi si 
facevano crudeli. 
Ricordava lo scricchiolio delle proprie nocche contro il muro e il dolore che le aveva 
preso la mano. 
Ricordava più di tutto il silenzio, che regnava ogni giorno con più fermezza sulla casa, e 
l’oscurità, che la avvolgeva sempre più spesso. 
Tuttavia erano tante, troppe, le cose che proprio non riusciva a ricordare. 
Non ricordava il momento in cui aveva buttato a terra tutti i libri dallo scaffale, né 
quando aveva tirato giù le tende del proprio letto a baldacchino e neppure il momento in 
cui aveva assaltato la casa delle bambole di quando era bambina. 
Sapeva soltanto che, tornata in se stessa, aveva trovato il pavimento della propria 
camera cosparso di corpi di pezza con arti mancanti e manine di porcellana mezze 
distrutte. I piccoli visi, di un bianco innaturale, la osservavano, con le loro crepe sulle 
guance e i loro nasi spuntati. 
Accidenti, guarda cos’hai combinato. 
Un moto di terrore l’invase nel profondo. Si portò le mani sulle orecchie, in un inutile 
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tentativo di scacciare quella voce tagliente, che conosceva fin troppo bene, dalla propria 
testa. 
Perché provi ancora a liberarti di me? Sai bene che non ci riuscirai. 
Basta, ti prego! 
Ma guardati! Sei patetica! Supplichi te stessa di lasciarti in pace. Per quanto ancora 
pensi di riuscire a scappare dalla verità? Loro ti detestano, tutti quanti, non hai visto 
com’era contento nostro padre mentre ti diceva che si sarebbe liberato di te? 
“Smettila! Sono stanca di sentirtelo ripetere! Tu non sai niente, niente di niente!” urlò 
con tutto il fiato che aveva in gola 
Una furia cieca la invase e, senza nemmeno avere il tempo di realizzare cosa stesse 
facendo, le sue mani artigliarono la struttura del letto. 
Graffiò, con forza, finché non vide dei solchi interrompere le nervature del legno, finché 
non sentì le proprie unghie spezzarsi, grosse schegge entrarle nella carne e il sangue 
che le imbrattava i polpastrelli. 
Pensi davvero che questa sia la soluzione? 
La schernì la voce. 
Cosa speri di ottenere, dimmi? O, meglio ancora, ammettilo a te stessa. Cos’é che 
vuoi? Punirti? 
Perché mai dovrei? Non è stata colpa mia, non sono io la responsabile! 
Di cosa, Claire? Di cosa vuoi convincerti di non essere la causa? Dillo! 
IO NON HO UCCISO NOSTRA MADRE! 
Un altro graffio contro al letto. 
Dolore, intenso e pulsante. 
Le mani cominciarono a tremarle 
No, magari no. Ma di sicuro hai distrutto una famiglia. 
Il tono di voce si faceva sempre più sibilante e Claire non desiderava altro che spegnere 
ognuno dei suoi sensi. 
Voleva che i lividi sulle nocche smettessero di dolerle, che le mani smettessero di 
tremare, gli occhi di piangere… 
Voleva pace, voleva l’amore della sua famiglia, voleva la felicità che le era stata 
strappata. 
Ma insomma Claire, non lo sai? Non c’è gioia per chi procura l’infelicità altrui. 
Le ginocchia cedettero. 
E poi, per l’ennesima volta, il Buio. 
Aveva aperto gli occhi, senza avere la minima idea di quanto tempo fosse passato. 
Poteva essere rimasta nell’oblio solo per pochi minuti. 
O per svariate ore 
Era in piedi al centro della propria stanza. Abbassò lo sguardo, ma il pavimento era 
sgombro e delle bambole distrutte non v’era più traccia. 
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Fissò la parete lucida dello specchio davanti a sé e ne accarezzò delicatamente la 
cornice, decorata con intarsi dorati. 
Fece scorrere le dita sui piccoli rubini incastonati nel metallo, che riflettevano i raggi del 
sole, creando punti di luce rossastri in giro per la stanza. 
Passò lentamente lo sguardo su tutta quella manifestazione di superbia e ricchezza, 
cercando di ritardare il più possibile lo scontro con la sua immagine riflessa. 
Il suo cuore ebbe un leggero sussulto quando, nell’estremità più bassa dello specchio, 
vide chiara l’immagine di un morbido panneggio di seta rossa. La sua mano corse 
automaticamente all’ampia gonna che le stringeva la vita e, sotto i polpastrelli, percepì 
chiaramente la consistenza della stoffa pregiata. 
Mentre passava le dita tra le pieghe della gonna, il panneggio rosso nello specchio si 
mosse, quasi fosse animato di vita propria. 
Osò alzare timidamente lo sguardo verso l’immagine riflessa e quello che vide la 
sconcertò al punto da farla indietreggiare di un passo. 
La ragazza riflessa nello specchio indossava un ampio vestito di un rosso acceso. La 
seta le fasciava il corpo minuto, per poi cadere un una cascata di morbide pieghe lunga 
fino al pavimento. 
Quando aveva indossato quell’abito? 
Non riusciva proprio a ricordare. 
La consapevolezza dell’aver perso il controllo di sé per l’ennesima volta si fece spazio 
in lei, mentre un profondo senso di vergogna le stringeva lo stomaco. 
Fece scorrere lo sguardo sulla propria figura riflessa, inorridendo alla vista delle mani. 
Il sangue incrostato bordava le unghie spezzate, le nocche livide si erano gonfiate e le 
dita avevano, ormai, un’angolazione strana. 
La sua linea di pensieri venne interrotta da un deciso bussare sulla porta alle sue 
spalle. 
“Claire, la carrozza è giù che ci aspetta. Non farmi fare tardi, mastro Vermeer è mio 
amico e non ho certo intenzione di fargli perdere tempo. Sbrigati.” la esortò la voce di 
suo padre. 
Giusto, l’incontro col pittore. 
Quando suo padre le aveva annunciato che il suo futuro marito desiderava avere un 
suo ritratto le era mancato il fiato. 
Ogni giorno l’idea del matrimonio combinato la opprimeva di più e le sue gambe 
fremevano dalla voglia di correre via. Scappare lontano, dalla famiglia che la odiava, 
dalle mura di quella casa che le sembravano sempre più strette, da tutto. 
Costrinse i propri piedi a seguire il padre lungo il corridoio, fuori dal portone di casa, fin 
sulla carrozza. Come era solita fare in presenza dell’uomo, o di qualsiasi altra persona, 
si stampò in faccia una gelido sorriso d’educazione, nascondendo l’orrore che la 
lacerava da dentro. Qualcosa dentro di lei stava urlando e si dovette mordere forte la 
guancia per trattenerlo. 
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Scese con movimenti meccanici dalla carrozza, seguendo suo padre in casa del 
rinomato pittore. Si scambiarono inutili convenevoli, come era giusto fare, e poi si 
diressero nello studio. Quando varcarono la porta dell’atelier, Claire si trattenne a stento 
dallo storcere il naso. Una spinetta, molto simile a quella che aveva a casa, occupava 
una buona parte della stanza. 
Rivolse uno sguardo interrogativo e di vago rimprovero all’artista che le sorrideva 
amichevolmente. 
“Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni.” 
Sorvolò tranquillamente sull’affermazione di suo padre e sul fatto che lei non sapesse 
suonare e si posizionò dove il pittore le indicava. Rimase immobile al suo posto, il viso 
rivolto verso mastro Vermeer, ma con gli occhi persi nel vuoto. Quelle ore le scorsero 
addosso come acqua, senza realmente toccarla. 
Che grande errore avevano commesso i due uomini, permettendole di rimanere sola coi 
suoi pensieri! 
Aveva riflettuto, valutato le ipotesi e finalmente si era decisa. 
Quel ritratto sarebbe stato totalmente inutile. 
Non si sarebbe celebrato nessun matrimonio. 
Era stata decisamente fortunata quel giorno: suo padre sarebbe rimasto fuori tutta la 
giornata per lavoro e Angelique era andata al mercato. 
Non avrebbe più avuto un’occasione del genere. 
Si alzò dal letto, lentamente, senza fretta e si avvicinò a quel vecchio leggio 
abbandonato, da cui pendevano, indolenti, sette pezzi di vetro di colori diversi. 
Due gialli, tre blu,uno rosso e uno solo trasparente. 
Ricordava ancora quando, da bambine, lei e Angelique avevano creato quella piccola 
opera d’arte tutta per loro e la voce di Stephanie che le rimproverava. 
Allungò la mano tremante e staccò quello trasparente dal filo che lo teneva sospeso. 
Se lo rigirò fra le dita, valutandone la forma, tracciandone il contorno coi polpastrelli. 
Fece un profondo respiro e, chiudendo a fatica la mano dolorante, impugnò quel piccolo 
pentagono incolore. 
Lo portò al polso, chiuse gli occhi e premette forte. 
Un forte bruciore accompagnò il lacerarsi della pelle, mentre il sangue cominciava ad 
affiorare. 
Claire si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: ogni millimetro di epidermide che 
recideva veniva liberato dalla tensione di cui, prima, non si rendeva nemmeno conto. 
Spingi di più! 
L’ordine arrivò dal profondo della sua mente e, immediatamente, le sue dita 
aumentarono la pressione. Il dolore si fece più intenso e lei si sentì solo più sicura. 
Ripeté l’operazione sull’altro polso e riappese il vetrino al leggio, come se niente fosse. 
Vedeva il proprio sangue sporcare la punta e colare verso il basso. 
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Un’idea le balenò improvvisa in mente e si diresse spedita verso la sala da musica. 
Varcò la porta e la lasciò sbattere alle sue spalle, puntando lo sguardo sulla spinetta 
che troneggiava nel centro della stanza. 
Si avvicinò e alzò le mani insanguinate. 
Sentiva la sostanza calda che colava lentamente lungo le sue dita, imbrattando lei e la 
sua camicia da notte. 
Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente, mentre la rabbia cominciava a riaffiorare. 
Premette con forza le dita sui tasti e sorrise nel vederli tingersi di rosso. 
Ogni suono che quell’arnese emetteva accresceva in lei la rabbia e faceva aumentare 
la velocità delle sue mani. 
Così com’era iniziata, la sua ira cessò di colpo e lei lasciò ricadere le braccia lungo i 
fianchi. 
Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni. 
Addio Vincent. 
Tu e la tua musica potete anche andare all’inferno. 
Beh, dopo di me, ovviamente. 
Gli angoli della sua bocca si tesero in un sorriso inquietante e dalla gola le sorse una 
risata folle. 
Si avvicinò il polso destro al viso e puntò gli occhi sul taglio orizzontale che lo 
attraversava. Il sangue che fuoriusciva lento si espandeva tutt’intorno, formando una 
corolla vermiglia che cresceva. Riconobbe i bordi frastagliati dei petali che si 
espandevano. 
Un garofano fiorì dalla ferita e, nel giro di pochi istanti, rotolò giù, fino alla punta delle 
sue dita, dove rimase sospeso, prima di cadere a terra. 
Si voltò e uscì dalla stanza. 
Sbatté le palpebre, riaprendo gli occhi sul presente. 
La testa cominciava a farsi leggera e lei si sentiva sempre più stanca. Guardò il 
pavimento e vide il parquet impregnato del suo sangue. 
Ci sei quasi Claire, un ultimo sforzo. 
Si voltò e alle proprie spalle lo vide. 
Un macabro sentiero rosso attraversava tutta la casa. 
La luce che entrava dalla finestra si fece d’un tratto accecante e lei dovette portare una 
mano a coprire gli occhi. Tutti i colori della stanza si fusero in un bianco abbagliante. 
Era già arrivata? Era questa la Morte? 
Ai suoi piedi le macchie vermiglie fiorirono, una ad una, trasformandosi in splendidi 
garofani. 
All’improvviso non era più nella propria stanza, ma in piedi in mezzo ad un enorme 
prato e davanti a lei si stendeva una via di fiori rossi come il tramonto che toccava 
l’orizzonte. 
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In fondo a quella bizzarra via, vide comparire tre figure, avvolte da un’aura buia. 
La sua famiglia. 
Angelique, i suoi sorrisi di bambina, i suoi anni di silenzio, il suo odio per lei. 
Suo padre, la sua voce gelida, le sue occhiate di fuoco, il suo odio per lei. 
Stephanie, la sua apprensione per la famiglia, il suo disprezzo per la madre, il suo odio 
per lei. 
Non gli mancherai Claire, a nessuno di loro. 
Un sospiro. 
Un masso le si era depositato sul petto e le sue mani tremavano incontrollate. 
Lascia andare, è il momento. 
Si piegò sulle ginocchia e colse un fiore, lo portò al viso e un odore ferroso le invase le 
narici. Lo strinse forte nel pugno, mentre questo le si liquefaceva tra le dita. 
Si stese sulla schiena e i suoi capelli rosso rame si mischiarono ai garofani vermigli. 
Sorrise e, con un sospiro, si lasciò avvolgere per l’ultima volta dal Buio. 
Giulia Sbardellati 
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9 – Un brano misterioso 
J ohannes V ermeer - D onna s eduta a lla spinetta 
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Ero sempre stata affascinata da quella spinetta. 
La vidi per la prima volta quando avevo cinque anni e mio padre ne portò a casa una. 
Io volevo imparare a suonarla, ma lui disse che ero troppo piccola e che, una volta 
cresciuta mi avrebbe insegnato. Passai ore ed ore della mia infanzia seduta ad 
ascoltare mio padre che suonava: era veramente bravo. 
All’età di undici anni lo vidi arrivare a casa con una viola da gamba. Disse che avrei 
potuto imparare a suonarla, ma quello strumento non mi attirava minimamente, allora 
mi concentrai ad imparare a suonare la spinetta. 
Come regalo per il mio tredicesimo compleanno me ne comprò una e iniziammo a 
suonare insieme. 
Quando ormai a quindici anni avevo imparato tutte le basi dello strumento espresse il 
desiderio di portarmi con sé a suonare ad un suo concerto; purtroppo avvenne un 
tragico evento. 
Ricordo ancora la scena: era una fredda notte di novembre e tutti dormivamo quando 
mio padre venne svegliato da alcuni strani rumori. 
Scese nel salone a controllare e lì sorprese un ladro. 
Questi per nulla intimorito iniziò a colpirlo, ma quando vide che mio padre reagiva 
prese il primo oggetto appuntito che trovò e lo ferì violentemente alla testa. Cadde a 
terra con un lamento. 
Io, che ne frattempo mi ero svegliata ed ero scesa al piano terra, avevo assistito alla 
scena nascosta dietro alla porta. Scappai di corsa nella mia camera e finsi di dormire. 
Quando il ladro si accorse che mio padre era morto scappò a mani vuote. 
Non toccai la spinetta per anni, mi ricordava mio padre e ancora non sopportavo che 
non fosse più con me. 
Dopo una paio d'anni dal tragico incidente si presentò un uomo, diceva di chiamarsi 
Van Halen. 
Anch'egli, come mio padre, era un noto poli strumentista dell'epoca e si offrì di 
insegnarmi quello che ancora non avevo imparato. 
Tuttavia non me la sentivo di riprendere la spinetta che era stata di mio papà, così gli 
chiesi di darmi lezione a casa sua a suonare, in modo da non utilizzare la spinetta di 
casa. Lui capì e accettò e da quel giorno mi recai a casa sua una volta a settimana. 
Un giorno gli chiesi come aveva conosciuto mio padre, mi rispose: 
“L’ho conosciuto quando eravamo ancora dei ragazzi, studiavamo insieme al 
conservatorio” 
Da quel giorno iniziai a fare sempre più domande riguardo il passato di mio padre fino 
ad arrivare a parlarne normalmente; con il tempo il dolore per la sua perdita si stava 
attenuando. 
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Mi disse che mio padre aveva molto talento e che lui lo aveva sempre invidiato per 
questo. 
Parlavamo sempre di lui, spesso mi raccontava sempre degli anni passati al 
conservatorio e del loro maestro: diceva che era il migliore e che gli insegnava loro 
brani composti da lui stesso. 
Nel frattempo io miglioravo con la spinetta, era davvero un bravo insegnate. Mi diceva 
sempre che avevo lo stesso talento di mio padre, ma ogni tanto potevo percepire un po’ 
di invidia nelle sue parole. 
Un giorno decisi che ero pronta per il grande passo: chiesi a Van Halen di tornare a 
casa mia a fare lezione. Lui accettò subito. 
Da quel giorno io usai sempre la spinetta di mio padre, ma con il tempo notai che lui 
la fissava sempre, quasi come se dovesse cercare qualcosa al suo interno. Iniziai a 
insospettirmi. 
Gli chiesi sempre più spesso di parlarmi del loro passato e quando notavo l’invidia 
affiorare, cercavo di approfondire. Iniziai anche a chiedere a mia madre di parlarmi di lui 
e di mio padre, lei era a conoscenza di molti fatti del loro passato e mi raccontò che da 
giovani erano rivali, a volte litigavano anche pesantemente e spesso la causa era il loro 
maestro che preferiva mio padre a lui. 
Un giorno Van Halen mi raccontò che il loro insegnante, durante una delle ultime 
lezioni disse ai due che aveva composto un nuovo brano, il migliore che avesse mai 
scritto e che gli sarebbe piaciuto che uno dei due lo interpretasse, ma solo dopo la 
morte del maestro. Così lo fece suonare a entrambi e, dopo le rispettive esecuzioni, 
decise che lo avrebbe interpretato mio padre. 
Notai che in quel momento disse il nome di mio padre in modo quasi dispregiativo. 
Nonostante ciò feci finta di niente e gli chiesi di parlarmi di quel brano; disse che 
avendolo suonato una sola volta non lo ricordava, ma che mio padre aveva gli spartiti e 
mi chiese se sapevo dove si trovavano. 
I sospetti crescevano, lo sguardo con cui guardava quella spinetta e il tono di voce 
dispregiativo che assumeva quando nominava mio padre mi feriva. Ma chi avrei potuto 
chiedere aiuto? Chi avrebbe ascoltato una ragazza. 
Sentii un giorno parlare di un pittore e scoprii che anche lui era stato un caro amico di 
mio padre: Jan Vermeer, famoso in tutta Europa. 
Chiesi a mia madre come potevo contattarlo, lei mi disse che non viveva lontano da 
noi, così andai a cercarlo a casa sua e gli chiesi aiuto. 
Conosceva anche Van Halen e confermò quanto mi aveva detto mia madre e 
aggiunse anche che il mio maestro non era mai stato neanche lontanamente 
paragonabile a mio padre e che quel brano di cui mi aveva parlato avrebbe garantito un 
ingaggio presso qualche nobile. 
46
Lui fu il primo a cui confessai i miei sospetti: credevo fosse stato Van Halen ad 
uccidere mio padre e Vermeer si offrì di aiutarmi ad indagare. Lui sarebbe stato 
ascoltato da qualcuno a differenza mia che ero solo una ragazzina. 
Ora dovevamo trovare il modo di incastrarlo. Ci pensammo per giorni fino a quando al 
pittore venne l’idea perfetta: io dovevo imparare il brano composto dal maestro di mio 
padre e suonarlo fingendo di aver trovato gli spartiti per caso, lui avrebbe sicuramente 
tentato di uccidere anche me se la causa dell’omicidio fosse stato proprio quel brano. 
Lui si sarebbe nascosto e al momento opportuno lo avrebbe preso. Era rischioso, ma 
accettai. 
Imparai il brano come voleva Vermeer e la settimana seguente lo suonai per Van 
Halen. A quel punto lui, riconoscendo il brano provò a prendere gli spartiti, ma io glielo 
impedii. Mi chiese perché non volevo che guardasse la composizione e gli risposi che 
mio padre era molto geloso di quel brano e non voleva che qualcuno lo vedesse. A quel 
punto il mio insegnante non si trattenne, prese lo stesso oggetto con cui l’avevo visto 
uccidere mio padre, ma a quel punto Vermeer uscì allo scoperto e lo colpì alle spalle 
facendolo svenire. 
L'assassino venne portato davanti a un giudice, dove confessò tutto e venne 
condannato. 
Conoscere chi aveva ucciso mio padre di certo non lo riportò in vita, ma mi 
tranquillizzò il fatto di sapere che era stata fatta giustizia e l’assassino era stato 
condannato. 
Questo quadro è stato realizzato da Vermeer per ricordare mio padre attraverso i suoi 
strumenti, la viola da gamba e la spinetta, alla quale siedo per iniziare a suonare. 
Fabio Carnevali 
47
10 – Il mistero della spinetta 
J ohannes V ermeer - L ezione d i musica 
48
Amanda fin da piccola, come tutte le giovani di buona famiglia, venne avviata allo 
studio della musica in particolare della spinetta; al compimento del 15° anno divenne 
una ragazza molto affascinante e curiosa di ciò che la vita poteva offrire. Tra i vari studi 
e interessi che intraprese le fu consigliato di approfondire in particolare quelli musicali. 
Per la famiglia agiata di Amanda non fu un problema trovarle un degno insegnante. Fu 
così che si rivolse al maestro Jan Vignarellì celebre maestro poli-strumentista. Era il 
giorno della prima lezione, e la ragazza assieme al padre si recò presso la lussuosa 
abitazione del maestro. Mentre s’incamminavano, s’imbatterono in un bizzarro 
personaggio con un pennello e una tavolozza in mano, avvolto in un mantello nero. 
Costui si trovava già di fronte all’abitazione di Jan Vagnarellì. Amanda si chiedeva cosa 
potesse farci un uomo così, vicino alla lussureggiante abitazione del maestro; 
probabilmente era un noto pittore considerando il luogo in cui si trovava. Amanda e il 
padre si fermarono davanti al grande portone dell’ingresso del palazzo in cui abitava 
Jan Vagnarellì. Si addentrarono nell’atrio nel quale si trovavano tre porte e su 
indicazione del misterioso pittore che nel frattempo si era avvicinato, andarono in quella 
sul fondo del grande atrio. Entrarono e qui furono accolti dal famoso maestro. 
Dopo la presentazione e alcune frasi di convenienza il maestro congedò il padre, 
anche Amanda salutò il proprio famigliare accordandosi per l’ora del ritorno a casa. 
Sola con il maestro Vagnarrellì fu invitata nello studio adiacente alla sala. Entrò e 
rimase incantata, esplorò con lo sguardo quello che le parve subito una splendida 
stanza da musica. Si accorse della grande luminosità che entrava dalla doppia finestra, 
tipicamente Olandese che faceva esaltare il pavimento a scacchiera bianco e nero e 
che creava una particolare prospettiva nella stanza. Girò attorno all’enorme tavolo 
coperto da tessuto drappeggiato con al centro un vassoio e una brocca bianca. Amanda 
proseguì verso la spinetta che aveva a fianco una viola da gamba. Il maestro invitò 
Amanda a provare la tastiera, quest intimidita si avvicinò e vedendosi riflessa nello 
specchio posto sopra la spinetta, cominciò a suonare timidamente. Jan Vagnarellì 
capendo l’imbarazzo della ragazza la interruppe e le chiese: “vuole accompagnarmi 
mentre io canto così potrò meglio comprendere la bellezza di questo strumento?” Fu 
mentre diceva queste parole che si accorse che tra i vari decori dello strumento 
compariva una scritta: musica letitiae(me) s medicina dolor (um), la musica è compagna 
di gioia e balsamo per il dolore. 
Cominciarono a suonare e cantare. Durante l’esecuzione ci fu un attimo di distrazione 
e Amanda alzò lo sguardo sopra la spinetta e si accorse che c’era il grande specchio 
che rifletteva l’immagine del pittore incontrato in precedenza. Si girò verso il maestro e 
si accorse della strana e particolare somiglianza che aveva con il pittore. Si voltò, il 
pittore non c’era, ma la sua immagine era ancora riflessa nello specchio. Fu presa da 
un attimo di smarrimento...e pensò, che mistero e mai questo? Ma…Non sarà che il 
pittore e il maestro sono la stessa persona? Allora, forse, sopra il spinetta non c’è uno 
49
specchio, ma un quadro. Se così fosse, pensò, non dovrei vedere il mio viso e 
nemmeno la stanza si dovrebbe riflettere! Guardò il maestro che impettito teneva il 
tempo della musica con il suo bastone. Amanda si accorse che Jan Vagnarellì la 
osservava in modo particolare come se volesse catturare quel momento e imprigionarlo 
nella memoria…fu lì che capì, forse, lo specchio serviva a questo, non a riflettere , ma a 
catturare i momenti belli e piacevoli della musica. 
Se così fosse; dov’era e chi era il pittore? Amanda disse a se stessa che stava 
farneticando il gioco dello specchio, era forse dato dalla luce. Continuarono a eseguire il 
brano e improvvisamente le parve di udire il suono della viola da gamba. Non c’era 
nessuno che la suonava, allora si ricordarono delle lezioni di acustica in cui mi 
spiegarono che uno strumento a corda può vibrare per simpatia se le corde degli 
strumenti sono esattamente accordate tra di loro, anche se solo uno strumento suona 
l’altro, vibra ugualmente. Però…il mistero rimase, i suoni erano troppi e non riproducibili 
dal solo effetto acustico. 
E il riflesso nello specchio? C’era ancora il pittore? Sì, questa volta forse dipingeva la 
scena, a questo pensava la ragazza. Amanda girò di nuovo lo sguardo tutto divenne 
buio. Sentiva delle voci in lontananza che la chiamavano, aprì gli occhi e si accorse, 
con meraviglia,che era a casa sua nel suo letto con i genitori e la tutrice che la 
incoraggiavano a svegliarsi a prepararsi in quanto era in ritardo per la lezione di musica 
e che doveva affrontare con il grande maestro Jan Vagnarellì. 
Francesco Guicciardi 
50
11 – Maledetta lettera 
J ohannes V ermeer - D onna c he s crive u na le ttera a lla p resenza d i u na domestica 
51
Andai ad aprire alla porta. Davanti a me c'era un'altra domestica. Ero sicura di averla 
già vista da qualche parte, forse al mercato o dallo speziale, ma non avrei saputo dire 
chi fosse. La salutai, aprendo la porta per farla entrare almeno per cinque minuti. Tirava 
un vento pazzesco fuori e, malgrado ci fosse il sole, sicuramente non faceva caldo. La 
fantesca si strinse nello scialle, ma non entrò. Mi porse una lettera senza dire nulla, poi 
girò i tacchi e se ne andò. 
Probabilmente aveva altre faccende da sbrigare e forse non voleva impiegarci troppo 
tempo per via del freddo. Chiusi la porta osservando la liscia superficie della busta, 
cercando qualcosa che potesse aiutarmi a capirne la provenienza. Non c'era scritto il 
mittente, ma comunque non sarebbe stato d'aiuto dato che non sapevo leggere. Sul 
sigillo di ceralacca era impresso lo stemma della città di Rotterdam, dove vivevamo. 
Probabilmente erano brutte notizie per la mia padrona. La famiglia dove lavoravo era 
composta da sole due persone, tre aggiungendo me. Erika, la mia padrona, aveva solo 
diciotto anni, mentre la sorellina Charlotte appena dodici. Avevano un legame speciale, 
fortissimo e indissolubile, come quello che nasce dopo un periodo difficile e una grande 
disgrazia. Due anni prima,infatti, i genitori delle ragazze erano morti schiacciati da quel 
morbo terribile che chiamano peste. Io lavoravo per i loro genitori da molto tempo, fin da 
quando avevo quattordici anni. Loro mi stimavano molto perché ero discreta ed 
eseguivo alla perfezione le mie faccende, inoltre non ficcavo il naso nei loro affari, cosa 
per cui tutte le domestiche erano ben note. I miei padroni non erano nobili, ma a forza di 
lavorare si erano arricchiti notevolmente e avevano comprato la casa dove noi 
vivevamo ancora. 
Era veramente grande, già per cinque persone era enorme, per tre era immensa. O 
almeno così mi sembrava, abituata com’ero alla mia piccola casetta dove abitavo prima 
di iniziare a lavorare per loro. 
Erika non aveva avuto il coraggio di venderla perché le ricordava i bei momenti 
passati con i genitori. Inoltre, le sembrava di vanificare i loro sforzi, perché avevano 
lavorato tanto per permettersi una casa del genere. A dir la verità anche io mi ero 
affezionata a quella casa e mi sarebbe dispiaciuto molto andarmene. 
Quando i genitori erano morti, Erika aveva solo sedici anni e non sarebbe mai riuscita 
a prendersi cura di tutto da sola. Così mi tenne a servizio da loro. Le aiutai moltissimo in 
quel periodo, e loro aiutavano me dandomi quella paga che mi permetteva di 
mantenere la mia famiglia, o quanto meno dare un piccolo contributo: avevo tre sorelle 
da mantenere. 
Conoscevo molto bene Erika e Charlotte: le avevo sempre seguite io, Charlotte 
l’avevo addirittura vista nascere. Erano entrambe molto tranquille e giudiziose. Erika 
ormai era diventata adulta e si occupava da sola della gestione della casa. Insegnava 
52
spesso alla sorella a svolgere i normali lavori di una donna: le mostrava come cucire, 
rammendare, ricamare, cucinare, stirare… e da qualche tempo aveva iniziato ad 
insegnarle a leggere e scrivere. Scrivere era infatti la grande passione di Erika. Una 
volta, mentre lei era al mercato, Charlotte aveva iniziato a leggermi uno dei racconti 
della sorella. Quel giorno rimasi sorpresa dal suo talento, e mi chiesi come mai non me 
ne aveva mai parlato prima. 
Da qualche tempo, però, i soldi lasciati dai genitori iniziavano a scarseggiare. 
Avevano debiti ovunque: dal macellaio, dal fornaio, dallo speziale, persino al banco 
dove compravamo il pesce. 
Non c’era giorno che non ci arrivasse una lettera che ci ricordasse i nostri mancati 
pagamenti. 
Proprio come dal fondo dell’oceano buio non si vede la luce del sole che splende in 
superficie, noi eravamo sommerse dai debiti e non vedevamo una via d'uscita. 
Per questo appena arrivavano lettere avevo smesso di sperare che fossero buone 
notizie. 
Lasciai cadere nel secchio lo straccio che stavo usando per pulire i vetri e che tenevo 
ancora in mano e salii le scale. Trovai Erika e Charlotte in quella che un tempo era stata 
la grande e lussuosa sala da pranzo, con un lungo tavolo di legno pregiato, preziosi 
arazzi venuti da lontano e un grande lampadario con le candele ormai consumate. 
Ora la stanza non sembrava più quella di una volta: l’aria era impregnata di un forte 
odore di solitudine che si percepiva in ogni angolo e tutto si era fatto più cupo e spento, 
o forse appariva così ai miei occhi tristi. 
Anche i quadri e gli arazzi che raccontavano storie incredibili e meravigliose 
sembravano aver perso la brillantezza e la vivacità ed erano diventati tristi figure che 
riposavano afflitte su uno sfondo grigio, senza alcuna traccia di vitalità. 
Le ragazze erano sedute vicine e lavoravano in sintonia. Charlotte stava 
rammendando il suo grembiule ormai logoro, la sorella sembrava osservare il suo 
lavoro; in realtà fissava il vuoto con occhi assorti. In mano aveva un foglio pieno di 
calcoli. 
-È arrivata una lettera, signora. - le dissi. 
Lei si alzò e venne verso di me con aria stanca, forse sapeva già di cosa si trattava. 
Allungò la mano con un gesto automatico e fece per aprire la lettera, ma quando passò 
lo sguardo distratto sul sigillo, si fermò, aggrottando le sopracciglia. 
-Charlotte, vai a prendere l’acqua alla fonte, tra poco è ora di pranzo. – 
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Adotta un quadro di Vermeer

  • 1. 1
  • 2. Adotta un quadro di Vermeer Racconti in scrittura collaborativa classe I B Liceo “G.Pico” Mirandola – MO A.S. 2013-14 iisgluosi Edizioni 2
  • 3. “Adotta un quadro di Vermeer” Racconti in scrittura collaborativa by: Gianluca Barelli, Matteo Battilani, Chiara Belloni, Cindy Berti, Miriam Calzolari, Sara Campagnoli, Fabio Carnevali, Luca Cavicchioli, Hajar Ezzaki, Martina Fattori, Rossella Grana, Francesco Guicciardi, Gaia Lodi, Rossana Magliocca, Giada Mantovani, Valentina Marando, Monica Massarenti, Chiara Moretti, Alice Penzo, Rebecca Pignatti, Lisa Polo, Giulia Sbardellati, Mihaela Scurtu, Alessia Vescovini, Chiara Voza. A cura di: Marina Marchi, Emanuela Zibordi I edizione, Settembre 2014 Licenza: Creative Commons BY- NC - SA 3.0 Italia Realizzazione a cura di iisgluosi Edizioni via 29 Maggio, Mirandola, MO http://www.iisgluosi.com ebook a cura di Emanuela Zibordi Copia di questo ebook in .epub e .mobi qui: http://www.emanuelazibordi.it/wp/ebooks/ 3
  • 4. Prefazione La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, con la Gioconda di Leonardo e L’urlo di Munch, è unanimemente riconosciuta come una delle tre opere d’arte più note, amate e riprodotte al mondo. Dall’8 febbraio al 25 maggio 2014, il capolavoro di Vermeer è stato in Italia, precisamente a Bologna, a Palazzo Fava, in una mostra unica, che ha ripercorso il mito della Golden Age. Per la prima volta è stato possibile ammirarla in Europa al di fuori della sua sede storica da dove, conclusa la mostra bolognese, probabilmente non uscirà mai più. La scuola non è rimasta indifferente a tale avvenimento e proprio perché inserita all’interno di un contesto territoriale, che la influenza , ne ha saputo cogliere spunti, ma anche momenti di riflessione e condivisione con l’intera comunità. Questo fatto è stato così il motore di un percorso tematico che è ruotato intorno al famoso quadro di Vermeer, partendo dalla visione dell’opera d’arte, passando attraverso il romanzo omonimo di Tracy Chevalier per approdare poi alla visione del film del regista Peter Webber del 2004. Il ritratto de La ragazza con l’orecchino di perla evoca bellezza e mistero e il suo volto da oltre tre secoli continua a stregare coloro che hanno la fortuna di poterla ammirare dal vero, o che magari l’hanno scoperta per la prima volta attraverso i romanzi e il film, di cui la bellissima ragazza dal copricapo color del cielo è diventata, forse suo malgrado, protagonista. Il quadro e il romanzo ci hanno offerto lo spunto per ripercorrere un po’ tutti i quadri dell’artista, sia quelli di certa attribuzione che quelli incerti e con i loro colori, con i loro chiaroscuri e le loro figure hanno ispirato un “laboratorio di scrittura creativa”. Ogni studente ha così adottato un quadro di Vermeer, scegliendolo fra quelli elencati e attribuiti al pittore da una ricerca effettuata su Wikipedia. L’analisi e la descrizione di ogni quadro è stata fatta nelle lingue straniere, che i ragazzi studiano a scuola, inglese, francese e tedesco. Poi intorno ad ogni quadro è stata creata una storia, un racconto, che ha preso spunto dalla ricerca del soggetto del quadro, dalla motivazione del quadro o dal personaggio ritratto nel quadro stesso. Dopo un attento studio della storia e della realtà del Seicento, epoca in cui sono state per lo più ambientate le storie create dai ragazzi, gli studenti hanno potuto vedere tutto il percorso creativo dello scrittore, anche grazie ad un incontro con Marco Fregni, autore di racconti e poesie (Al di là di ogni aldilà e Dialoghi con il padre). Il laboratorio di scrittura è partito dall'ispirazione per passare poi all’ideazione e lo sviluppo della trama, 4
  • 5. si è soffermato sulla costruzione e caratterizzazione dei personaggi e le tecniche narrative, fino ad arrivare alla revisione. Apprendere tecniche di scrittura narrativa, confrontarsi con i propri compagni e consultarsi per le scene dei propri racconti, porsi in ascolto e riscoprire il piacere della lettura, mettersi alla prova, conoscere qualche segreto del mestiere dello scrittore: il laboratorio di scrittura è stato un po’ tutto questo, oltre ad un modo pratico e divertente attraverso il quale ritrovare la propria creatività. Per produrre la stesura definitiva dell’opera si sono utilizzati diversi strumenti informatici: 1- Documenti di Google Drive per la scrittura cooperativa; 2- Open Office per la revisione off line, la gestione delle immagini, la prima bozza di epub e quella definitiva in pdf; 3- Sigil per il perfezionamento del file per dispositivi mobile; 4- Calibre per l'edizione per Kindle. che hanno sollecitato competenze caratteristiche del Web 2.0, così come si utilizzano ormai diffusamente per redigere documenti digitali a più mani, sia scientifici sia umanistici. Marina Marchi Emanuela Zibordi 5
  • 6. Contenuti 1 - Fortuna improvvisa 2 - Le lettere nascoste 3 - Una lettera misteriosa 4 - Maria Elisabetta - L'inizio 5 - Maria Elisabetta – Il ricatto 6 - Maria Elisabetta – La nuova vita 7 - Scienza in corso 8 - Il sentiero dei garofani rossi 9 - Un brano misterioso 10 - Il mistero della spinetta 11 - Maledetta lettera 12 - Il chicco di riso 13 - La storia di Philip 14 - Era vero amore? 15 - L'ultima lettera 16 - Ti scrivo da Berlino... 17 - La melodia finale 18 - Quella porta aperta 19 - Un nuovo inizio 20 - Un volto dal passato 21 - L'attesa 22 - La peccatrice 23 - Jaimy 24 - Il cappello rosso 25 - Spettacolo di canto 6
  • 7. 1 – Fortuna improvvisa J ohannes V ermeer - L a lattaia 7
  • 8. Erano le undici di sera ed eravamo tutti a dormire fino a quando all'improvviso si sentì una finestra rompersi, di conseguenza scesi le scale e andai a vedere intanto che le donne della servitù si calmavano. Immaginai che fossero i teppistelli che solitamente vanno di casa in casa per riuscire a raccogliere qualcosa in denaro o rubare oggetti di lavoro per venderli dopo. Una volta sceso mi ritrovai tre fratelli, tutti all'incirca di otto anni, che tenevano in mano un cesto di legno che già conteneva un soprammobile di inestimabile valore sia in denaro sia morale per me, dato che me lo aveva regalato mia madre prima di morire a causa dell'epidemia di peste. Uno di loro si voltò di scatto e appena mi vide ordinò agli altri due di rimettere a posto tutto, perché erano stati scoperti e che, questa volta, sarebbero andati nei guai. “Chiedo scusa, signore. Noi lo facevamo solo per poter mangiare e dare a nostra madre un momento di sollievo. Ci perdoni,signore, noi non verremo più a disturbarla e a derubarle qualcosa.” mi disse uno di loro. Li osservai bene e notai che indossavano pantaloni larghi molto vecchi di un marrone sbiadito e una maglietta grigia tutta strappata e sporca di fango a causa che fuori aveva appena finito di piovere e il terreno era molto umido. “Bambini,ditemi quanti anni avete e i vostri nomi. E parlatemi della vostra situazione a casa.” questi ragazzini mi incuriosivano e volevo veramente sentirne la storia. Volevo capire il motivo di quello che avevano appena fatto e cosa li spingeva a ciò. I miei pensieri vennero interrotti bruscamente dal richiamo della mia amata moglie in camera da letto che mi chiedeva cosa stesse succedendo in sala e quindi le risposi che sarei arrivato tra pochi minuti e che stavo chiarendo la situazioni con dei bambini, lei non mi rispose ma pensai che avesse capito quindi ritornai a guardare in faccia il bimbo che poco prima si era scusato. “Signore, io sono Alexander e questi sono i miei fratellini Daniel e Andreas. Io ho nove anni e loro, essendo gemelli, hanno entrambi cinque anni e mezzo. Sono giorni ormai che giriamo per la città alla ricerca di qualche moneta o qualcosa da vendere perché noi e nostra madre stiamo morendo di fame. Nostro padre è morto un anno fa e da allora fatichiamo a sopravvivere e nostra madre era una semplice serva presso una famiglia che, però, la licenziò per sospetto che lei avesse rubato loro una collana d'oro. Quindi lei è rimasta senza un'occupazione e noi cerchiamo di aiutarla.” “Domani, bambini, portate vostra madre qua che le voglio parlare riguardo a ciò che avete fatto. Però potete stare tranquilli perché non vi farò denuncia! Andate a casa, buonanotte!”. Li accompagnai alla porta e li salutai con la mano quando si allontanarono, mi era venuta in mente una brillante idea e di ciò ne avrei discusso con tutta la famiglia la mattina seguente. Il giorno dopo, poco prima di fare colazione, svegliai la mia amata e gli raccontai di tutta la conversazione avuta con i giovanotti della notte e le parlai della mia idea e lei, 8
  • 9. insicura sul da farsi, accettò. Scendemmo giù in cucina e chiesi a Matilda, nostra serva da ormai sette anni, di preparare due tazze di caffellatte per noi due e di mettere a riscaldare il latte per i nostri quattro figli che ancora dormivano e che l'altra serva Greta stava andando a svegliare. Subito dopo aver fatto il pasto più importante della giornata, sentimmo suonare il campanello e corsi alla porta per aprire e dissi a mia moglie di essere cortese con la nostra ospite e futura domestica. Salutai la donna dall'aria disperata e la feci accomodare nella sala dove avevo parlato la notte scorsa coi suoi bambini dove, attualmente, c'era mia moglie. “Signore, chiedo perdono dell'intrusione dei miei figli nella vostra casa successa ieri notte. Sono dispiaciuta del vetro della vostra finestra rotto.” “Non vi scusate, i vostri figli mi hanno parlato della perdita di vostro marito e del suo lavoro e vi abbiamo chiamata qua al fine di chiederle se voleva venire a lavorare qua come domestica per poter sfamare i suoi figli e essere più tranquilla. Accetta?” La madre dei ragazzi mi guardò stupita e dopo aver realizzato che ciò che le avevo chiesto era vero e non si trattava di un sogno lei sorrise prima a me e poi volse lo stesso sorriso alla mia compagna e ciò mi sollevo l'umore. “Signore, certo che accetto. Grazie mille, pensavo che questo non sarebbe mai successo e finalmente ricevo una proposta di lavoro. Sarei veramente incosciente se non accettassi e poi se non le avessi detto di sì avrei fatto probabilmente del male ai miei tesori, ai miei figli che tanto amo”. Aveva un bellissimo sorriso sul viso ed ero felice per ciò che avevo fatto. *quattro mesi dopo* Ero lì, seduto nella sala e stavo sorseggiando la mia tazza di tè e stavo riflettendo sul mio prossimo quadro e al mio prossimo soggetto. Andai in cucina per posare la tazza e vidi Anita, la domestica assunta quattro mesi fa, versare del latte in una ciotola che poi sarebbe stata riempita con i cereali per i miei figli. Subito mi ispirò, non era una cattiva idea immortalarla in quell’azione quotidiana. Lei era impegnata, concentrata nel suo lavoro per portare a casa dai figli un po’ di monete per sfamarli e per permettergli di andare a scuola e ne ero molto soddisfatto e in qualche modo la dovevo premiare. Salii in fretta e parlai con la mia amata compagna della mia idea e lei mi disse che se lo meritava per tutto il duro lavoro che faceva e per la gentilezza che aveva nei nostri confronti, il ricavato dalla vendita del quadro gliene avrei dato una parte in modo da mandarla a vivere da sola senza doversi occupare di cucinare per persone che non erano la sua famiglia e, magari, lei voleva andare in un’altra casa e cambiare un po’ o voleva cercare un nuovo compagno di vita che così poteva mandare avanti lei stessa e i suoi bambini. Dopo aver riflettuto su come avrei voluto dipingerla presi la tela e i colori che mi servivano per stendere la base e per rifinire le forme e di conseguenza i colori e tutti i particolari dell’immagine. Mi diressi nel mio atelier e osservai l’angolo della finestra e ci misi un piccolo tavolino e ci appoggiai degli oggetti che avevo preso in prestito dalla 9
  • 10. cucina come uno straccio blu che le domestiche usavano per asciugare i piatti, una cesta di pane di cui riposi delle pagnotte sparse sul tavolo, infine, una brocca d’acqua. Sullo sfondo non avevo ancora notato che per terra c’era il mio scaldino per i piedi che usavo in inverno e che sul muro erano appese un cestone e una piccola lanterna. Mi piacque subito questa atmosfera, così andai a chiamare Anita e le proposi di posare per il quadro. Lei non rifiutò, pensando che io potessi darle una parte del ricavato, io ovviamente non le dissi nulla. *cinque settimane dopo* Avevo finito il quadro e avevamo tutti visto il risultato, era venuto molto bene ed ero soddisfatto della mia idea e di come avevo dipinto. Quel giorno erano venuti più di dieci committenti a vederlo e ciò dimostrava che avevo realizzato un capolavoro ancora una volta e che questo quadro mi avrebbe fatto guadagnare tanto. In questo modo sarei riuscito a dare una parte alla mia “modella”. Anita era l’unica domestica che avevo assunto perchè mi stava a cuore la sua storia, perciò desideravo il meglio per lei. Una volta venduto il quadro, la sera stessa iniziai a fare i conti con la mia famiglia e il mattino dopo avrei dato le monete ad Anita e , con forte dispiacere, l’avrei licenziata. Il mattino seguente, verso le dieci, la chiamai in sala e lei, in breve tempo, mi raggiunse preoccupata chiedendomi che cosa lei avesse combinato e se avesse sbagliato qualcosa nelle pulizie. Le risposi semplicemente che non aveva commesso nessun errore ma che la volevo premiare, lei era rimasta stupita dalla mia affermazione e mi chiese subito che cosa intendessi dire. Arrivò mia moglie e le diede un sacchetto pieno di monete, dicendole “Anita, noi ti ringraziamo per tutti questi pochi mesi che hai lavorato da noi e grazie per aver posato per il quadro. Questa è una parte del guadagno di ieri, te la sei meritata. Purtroppo ti dobbiamo dire anche che, volendo il meglio per te non vogliamo vederti lavorare in queste misere condizioni e ti licenziamo. Noi vogliamo che tu ti possa trovare un marito, che tu accudisca i tuoi figli e la tua famiglia. Ti auguriamo tutta la fortuna possibile.”. Era senza parole quando io finii il discorsetto che mi ero preparato la sera prima. L’unica cosa che lei riuscì a dire fu un “Grazie.” sussurrato. Quella fu l’ultima giornata che la vidi, se ne era andata con un sorriso stampato in viso e, da quanto ero venuto a sapere, lei, dopo un mesetto o due, riuscì a trovare un compagno per giunta benestante così si risposò. Insomma, aveva iniziato una nuova vita. Alexander, Daniel e Andreas stavano frequentando la scuola, lei era casalinga e, secondo le voci del paese, era incinta del quarto bambino, infine lui era un ricco mercante. Stavano bene loro e stavo bene anche io perché avevo fatto una buona azione verso qualcuno che mi stava a cuore. Grazie a me era iniziato un capitolo felice della loro vita e su questo, non c’era soddisfazione più grande per me. Rossana Magliocca 10
  • 11. 2 – Le lettere nascoste J ohannes V ermeer - D onna in a zzurro c he le gge u na lettera 11
  • 12. "Sophie, riordina i vestiti e tu Carol aiutala a rimetterli in ordine. Bea tu aiutami a preparare il cibo perchè papà oggi torna a pranzo." Era raro che nostro padre tornasse a casa per pranzo quindi quelle poche volte volevamo che la casa fosse pulita e in ordine al suo rientro. Essendo la sorella maggiore, spettava a me occuparmi delle faccende domestiche e badare alle mie tre sorelline, Beatrice e le due gemelline di 8 anni, Sophie e Carolina, che erano una l’opposto dell’altra, sia come modo di fare, sia come aspetto esteriore. Sophie aveva preso gli occhi da papà, color blu mare e i capelli mori mori dalla mamma, per quello che posso ricordare di lei; Carol invece aveva preso tutto da papà, biondina con gli occhi azzurri. Sophie amava le favole, le principesse e le fate, mentre Carol desiderava diventare una naturalista come Beatrice; Bea di 10 anni era la più tranquilla di noi quattro e stava delle ore in giardino a curare le sue piante e i suoi fiori e ad osservare gli insetti assieme a Carol. Lei assomigliava in tutto a mamma, come diceva sempre papà, mora con gli occhi color castano. Io, invece, 3 anni maggiore a Beatrice e 5 alle gemelline, mi distinguevo da tutte loro e avevo gli occhi color verde e i capelli castano chiaro; probabilmente avevo preso da qualche nonno. Avevo cinque anni e mezzo circa quando la mamma sparì completamente dalla mia vista. Io ricordo poco di lei poiché ero ancora troppo piccola per capire quanto fosse grave la mancanza di una persona cara come la mamma; ricordo quando lei alla sera prima di andare a letto si recava nella mia cameretta e mi cantava sussurrando, per farmi addormentare, una dolce canzone di cui non ho mai saputo il titolo, con una voce cosi delicata e amorevole da far precipitare in un tempo brevissimo le palpebre. Poi ricordo quando mi coccolava, accarezzandomi o pettinandomi i capelli con mano leggera senza mai stancarsi. Quando io avevo 3 anni e nacque Beatrice, fui la prima persona a cui diede in braccio la neonata, alla sera andavamo sempre insieme nella sua cameretta a cantarle la ninna nanna. Papà non ci ha mai raccontato il motivo della morte della mamma e neanche a me che sono la maggiore, non ci ha mai parlato di lei a parte ogni tanto, quando gli capitava davanti un oggetto o qualcosa che la ricordasse. Una o due volte al mese arrivavano delle lettere per papà che mi hanno sempre incuriosita, ma non ho mai saputo chi gliele mandasse, da dove provenissero e dove le nascondeva; ho sempre pensato che magari fossero lettere di qualche nuova donna che stava iniziando a frequentare o magari solamente lettere di lavoro, ma non sono mai andata a rovistare nel suo studio. Di solito mi recavo ogni domenica al mercato del paese per delle commissioni e in una di queste incontrai Peter, il figlio del fornaio, con cui giocavo sempre da piccolina. Io e Peter molto probabilmente provavamo gli stessi sentimenti; io piacevo a lui e lui piaceva a me, ma la cosa che preferivo maggiormente erano i suoi occhioni azzurri che 12
  • 13. mi guardavano con aria dolce. Papà si era accorto che c'era qualcosa tra me e lui poiché la gente qui nel paese andava a riferire tutto quello che vedeva. Una sera, eravamo tutte e quattro pronte per andare a letto, tutte già sotto alle coperte al buio, e Carol improvvisamente si era alzata e aveva esclamato: " Ragazze mi manca tanto tanto la mamma" poi era scoppiata a piangere. Tutte ci eravamo alzate, io per prima, l'avevo presa in braccio e ci eravamo messe tutte sul mio letto a parlare della mamma mentre io intanto la coccolavo. Sophie disse: " Ma se lei si è dimenticata di noi? E magari se ne è andata perché non ci voleva più". A tutte mancava tanto la mamma ma io, essendo la più grande e la più matura, dovevo tranquillizzarle e rassicurarle; io le avevo prese tutte e tre fra le mie braccia e avevo detto loro:" Bambine non dovete preoccuparvi, la mamma sta benissimo e di sicuro di noi non se ne dimenticherà mai come noi non lo faremo di lei. E' andata in un posto migliore da dove ci segue in tutte le ore del giorno". Ci eravamo abbracciate forte forte da vere sorelle poi ognuna di noi era ritornata nel proprio lettino a dormire. Era domenica mattina e il cielo era grigio, molto probabilmente sarebbe piovuto da un momento all’altro, quindi non ero andata al mercato ma mi ero dedicata solamente alle pulizie di casa. Avevo appena finito di pulire la nostra cameretta e quella di nostro padre quando mi sono recata per la mia prima volta nello studio di mio papà per curiosare un po’; c’ erano pile di fogli e buste dappertutto, tutto era in disordine con carte a terra e polvere sopra ai mobili e alla scrivania; avevo iniziato a rovistare nelle buste per trovare quelle famose lettere che arrivavano una o due volte al mese e che probabilmente non si trovavano sulla scrivania, dove c'erano solo quelle di lavoro. Avevo deciso di rovistare in tutti i cassetti ma anche qui avevo trovato nulla. Ad un certo punto avevo visto sul tavolo una specie di bauletto color marrone chiuso con un lucchetto d’oro; sembrava uno di quei bauletti del tesoro, ma dovevo assolutamente trovar la chiave per aprirlo e scoprire cosa c’era al suo interno. Avevo iniziato a scaraventare tutto quello che mi trovavo davanti, stando attenta però a non rompere niente di importante o che comunque si potesse ammaccare. Ero riuscita a trovare la chiave dentro il cassetto del comodino di papà di fianco al letto. Mi ero seduta sulla sedia della scrivania di mio padre con il bauletto appoggiato sulle ginocchia e la chiave nella mano tremolante; avevo aperto il bauletto facendo quattro giri di chiave e subito avevo visto un plico di lettere e sfogliandole avevo scoperto che non erano le solite lettere di lavoro, ma provenivano tutte dallo stesso posto “Serdine” (che ricordavo non molto lontano da qui), ma sopra non c’era scritto il mittente. Cosi avevo iniziato ad aprirle ed ero rimasta sopraffatta poiché tutte queste lettere erano state mandate dalla mamma “Giovanna Luce” e l’ultima inviata era solamente della settimana prima. 13
  • 14. Avevo deciso di recarmi a Serdine per scoprire la verità, di conseguenza avevo raccontato anche alle mie sorelline la faccenda. Eravamo partite dopo pranzo senza dire niente a papà, ma lasciandogli un biglietto di fianco il bauletto aperto. Avevamo camminato per più di un’ora e mezza e poi avevamo visto il cartello con la scritta SERDINE in grassetto e avevamo iniziato a correre fino a quando eravamo arrivate in piazza dove quella poca gente che c’era girava sotto i viali. Avevamo chiesto ad un uomo alto e magro magro dove si trovava questo posto scritto su tutte le lettere: “ospedale Camirana”. Avevamo dovuto camminare per un’altra mezz’oretta fino a quando ci eravamo trovate questo edificio enorme, tutto in mattoni e silenzioso. Siamo entrate col cuore che batteva più forte che mai e avevamo iniziato a guardarci in giro dove c’erano solo persone vestite di bianco, infermieri, carrozzine e malati che urlavano dalle loro stanze. Avevamo trovato un dottore e dopo aver chiesto ci avevano detto che la mamma si trovava nella stanza 13 a sinistra. Man mano ci avvicinavamo a quella stanza tutte e quattro ci stavamo stringendo la mano forse dalla paura e dalla felicità insieme. Quando siamo arrivate davanti a quella stanza abbiamo aperto la porta, davanti a noi c’era nostro padre che dava la mano a nostra madre addormentata. In quel momento non sapevamo come comportarci, siamo rimaste immobili davanti a quella situazione mentre nostro padre si era alzato dal letto e ci era venuto incontro piangendo. Aveva iniziato a chiederci scusa per non aver mai raccontato della mamma perchè aveva sempre avuto paura, non voleva farci vedere la mamma in quelle condizioni, dopo una malattia che da più di 8 anni la perseguitava. Ci eravamo seduti tutti insieme sul letto della mamma e in quel momento aveva aperto gli occhi forse perché aveva sentito il calore della nostra famiglia e la felicità di tutti noi. Non riusciva a parlare ma riusciva a scrivere e comunicavamo scrivendo su una sua agenda dove sfogliando avevo visto tutte le nostre foto di Natale di tutti gli anni e di quando eravamo piccole. In quel momento gli occhi mi si sono gonfiati di lacrime fino a quando non sono scoppiata a piangere. Da quel giorno tutti i giorni sono andata a trovare la mamma con le mie sorelline fino a quando lei a causa di quella sua malattia morì dopo 5 anni. Ora sono qui a casa che aspetto Peter che torni dal lavoro e aspetto anche Kevin il nostro bambino, che tra qualche mesetto nascerà. Intanto rileggo l’ultima lettera della mamma che ci aveva mandato due settimane prima di morire e le lacrime mi segnano il volto. Martina Fattori 14
  • 15. 3 - Una lettera misteriosa J ohannes V ermeer - L ettera d ’a more 15
  • 16. Era inverno. Odiavo quella stagione in Olanda, perché la casa era sempre particolarmente fredda durante quel periodo. Non che fosse più calda nelle altre stagioni, ma almeno il sole dava un’ illusione di tepore. Il sole quel giorno non c’era, ma io avevo comunque preso la mia decisione, anche se le condizioni non erano perfette; avrei dipinto la mia padrona mentre suonava. La lettera che avevo scritto qualche giorno prima probabilmente era andata persa in mezzo a tutta l’altra posta che entrava in quella casa, non era stata una grande idea. Ma anche se l’avesse letta, non avrebbe mai ricambiato i miei sentimenti essendo io un servo e lei una dama. Sospirai e preparai i colori, probabilmente avrebbe cominciato a suonare da un momento all’altro. La stanza in cui mi trovavo era sopra il soggiorno dove lei stava e potevo sentire ogni suono che proveniva da lì; era inoltre collegata a uno sgabuzzino tramite una scala a chiocciola che dava perfettamente sul salone; per dipingere senza essere visti, quello era un luogo perfetto. Sentii della musica. “è ora di andare.” La dama era seduta su uno sgabello, sulle sue spalle era posato uno scialle di ermellino e indossava un voluminoso abito giallo. Al suo grembo poggiava il mandolino, e con leggiadri movimenti delle dita stava suonando una meravigliosa musica. Rimasi incantato per qualche secondo osservandola, ma ritornai alla realtà pensando al quadro che dovevo dipingere. Socchiusi le ante che davano sul soggiorno senza fare movimenti bruschi e cominciai a tirare fuori i colori. Fortunatamente avevo tempo per dipingere perché la mia padrona passava molte ore a suonare, forse perché le ricordava suo marito. Il mio padrone era infatti morto 2 anni fa di tifo, e ancora la dama non era riuscita a dimenticarlo. Da quel momento i giorni felici finirono e sulla grande casa calarono un freddo e buio eterni. Se prima i miei padroni suonavano ogni giorno, lui il flauto e lei il mandolino, ora si sentiva solo un eco di uno strimpellare solitario. Chiunque si trovava nelle vicinanze, era pervaso da un sentimento di tristezza ascoltando quella melodia. La sua musica era monotona perché da quando lui era scomparso anche l’ispirazione se n’era andata. Incominciai a dipingere e, come se lei avesse capito che la stavo ritraendo, compiva movimenti lenti e leggeri in modo da non muoversi più di tanto. Dopo alcune ore avevo quasi finito il quadro, mi mancavano soltanto le ultime pennellate. “Signora Roxanne!” disse Jodie, una serva, interrompendo la melodia. La padrona non si era accorta che la ragazza era entrata nella stanza e, un po’ meravigliata, un po’ seccata le rispose:”Cosa c’è?” “è arrivata una lettera un po’… strana.” “Spiegati meglio.” 16
  • 17. “Ecco.. Non ha il mittente!” “Fammela vedere.” Jodie teneva in mano la lettera e appena sentito l’ordine gliela porse con un sorriso divertito sulle labbra. Probabilmente l’aveva letta, pensai io. Ma nel guardare meglio capii cosa stava succedendo e un senso di panico mi pervase; quella era la mia lettera! Pensavo di averla firmata, ma probabilmente nell’agitazione del momento mi dimenticai di scrivere il mio nome. Anche se avevo origini umili e non andavo a scuola, da piccolo mio padre mi aveva insegnato l’alfabeto e qualche frase,che a sua volta aveva imparato da un maestro. Ero molto contento di questo, perché in quell’epoca saper scrivere era un lusso. Volevo entrare nella stanza e riprendermi quella lettera, ma cosa avrebbe pensato dopo la padrona? Ci sarebbero state molte domande che avrebbe potuto rivolgermi, e sarei sicuramente finito fuori di casa. Quindi mi calmai e pensai che comunque non avrebbe mai saputo chi l’avesse scritta e ritornai a dipingere tranquillo. Aggiunsi anche Jodie per riempire il quadro. Nel frattempo la padrona Roxanne stava leggendo con occhi attenti la lettera. Non riuscivo a capire che cosa stesse pensando. Quando finì di leggere, guardò con aria interrogativa la serva e finalmente parlò. “Si tratta di uno scherzo, vero?” chiese a Jodie. “Non lo so signora,io l’ho solo trovata tra la posta.” “è sicuramente uno scherzo di qualche uomo che vuole approfittare di me.” E, detto questo, la strappò. Capii che che forse era spaventata, ma il mio cuore fece comunque un sussulto. “Gettala via, per favore.” Ordinò la padrona a Jodie. E ritornò a suonare, mentre io, col cuore spezzato, mi rifugiavo nella mia stanza lasciando il quadro incompiuto. I giorni passavano. L’inverno finì in fretta lasciando spazio alla primavera. Ogni volta che finivo i miei lavori in casa andavo in giardino a disegnare fiori, animali, alberi, nuvole, oppure la gente che passava. Non davo più importanza alla storia della lettera, sapevo che comunque la signora non avrebbe mai accettato i miei sentimenti. “Cosa disegni?” Non mi accorsi che la padrona era di fianco a me. Non rispondendole, le mostrai gli schizzi. “Che belli,sei proprio bravo” arrossii , e lei aggiunse: “allora forse ho capito da dove viene quel quadro.” Arrossii ulteriormente “Di che quadro parla signora?” “Qualche tempo fa ho trovato un quadro nello sgabuzzino del soggiorno, e non sapevo da dove provenisse … Non è che lo hai fatto tu?” Sospirai e le spiegai tutto col cuore in gola, preoccupato per le conseguenze di quelle parole. Le rivelai i miei sentimenti e le dissi anche della lettera, e lei non batté ciglio. Alla fine del discorso, rimase in silenzio per alcuni minuti, non sapendo che cosa dire. 17
  • 18. Trovò le parole giuste e mi disse sorridendo: “Sei proprio un bravo ragazzo.”, e se ne andò dal giardino, lasciandomi solo e confuso. Quando rientrai in casa sentii nell’aria una dolce melodia; la padrona stava componendo una nuova, bellissima canzone. Ero estremamente sorpreso; Jodie mi venne di fianco e mi sussurrò: “La signora ha ritrovato l’ ispirazione! Non è forse fantastico? Chissà cos’è successo..” Senza risponderle andai verso il soggiorno: la dama era lì, con il mandolino tra le mani e con un dolce sorriso sulla bocca. Indossava gli stessi vestiti con cui l’avevo ritratta. “Sapevo saresti venuto.” Disse. “Grazie a te ho ritrovato l’ispirazione, e di questo ti ringrazio moltissimo. Voglio che tu finisca il quadro.” Mi guardai intorno e lo vidi, incompleto, su un cavalletto davanti a Roxanne. “Puoi finirlo, anche se Jodie non è qui.” Sia felice sia nervoso, mi sedetti su uno sgabello posizionato davanti al cavalletto e sorpreso trovai i miei colori su una tavolozza. Erano rimasti ancora nello sgabuzzino da quel giorno in cui avevo interrotto il quadro. Sorrisi e cominciai a dipingere. Era molto più bello lavorare senza la paura di essere scoperto e con una canzone di sottofondo tanto melodiosa. In due ore finii il quadro e lei venne a vederlo; era sinceramente contenta. “D’ora in poi voglio che tu dipinga per me, vuoi farlo?” mi chiese. “Ne sarei onorato” risposi. E, sorridendomi, ritornò al suo posto a suonare. Io andai nella mia camera soddisfatto; finalmente avevo finito il quadro e avevo rivelato alla padrona i miei sentimenti. Dal soggiorno sentivo la padrona suonare. Ero felice. Monica Massarenti 18
  • 19. 4 – Maria Elisabetta - L'inizio Johannes Vermeer - Donna con collana di perle 19
  • 20. Lui, il pittore che tutti stimavano, aveva perso l’ispirazione. Ormai non poteva neanche più permettersi una serva che lavorasse a tempo pieno e che andasse al mercato, così decise di andarci lui stesso. Mentre si incamminava a testa bassa, pensava a tutti quei quadri che l’avevano reso famoso. Ne aveva creati così tanti ormai, che non aveva più nulla da dipingere. Aveva perso l'ispirazione e aveva tentato con ogni cosa, ma niente! Ogni quadro che provava a impostare sembrava una copia di un altro fatto qualche tempo prima. Perso nelle sue riflessioni, era quasi arrivato al mercato, distolse il pensiero da ciò che lo preoccupava e iniziò ad addentrarsi nel caos delle bancarelle che vendevano grandi quantità di cibarie. Si diresse verso l’angolo destinato a legumi e ortaggi, ormai la carne era troppo cara per lui. Mentre si avvicinava al banco da cui si serviva sempre, vide una ragazza che lo colpì. Aveva un viso dolce, i capelli quasi del tutto coperti, ma si intravedevano delle ciocche castane. Vide che si avviava verso l’uscita del mercato, così decise di seguirla. In mezzo a tutta quella gente era difficile tenere d’occhio qualcuno, ma lui non la perse di vista un momento. Ad un certo punto la fanciulla svoltò in un vicolo molto stretto ed entrò nel cortile di una casa. Il pittore la seguì e si nascose dietro all’entrata del cortile. Sentì un’altra ragazza arrivare e urlare: “Maria Elisabetta! È tornata finalmente!” . Il suo nome era Maria Elisabetta, e probabilmente l’altra ragazza era la sua serva. Il pittore restò un po’ fuori dal cancello poi, vedendo che la fanciulla non usciva più, se ne tornò a casa. La sera pensò molto a lei e decise che il giorno seguente le avrebbe chiesto di fare la modella del suo quadro. L’indomani all’alba il pittore si avviò verso la casa della fanciulla e quando lei uscì la seguì fino al mercato. Ad un certo punto la vide voltare in un vicolo buio nel quale si vedeva solo una piccola panchina in legno dove lei si sedette. Il pittore colse l’occasione al volo e le si avvicinò. I due iniziarono a parlare, e dopo poco il pittore le chiese di posare per il suo quadro. Messa da parte la sua iniziale titubanza, lei accettò a condizione che l’opera rimanesse segreta, almeno fino al suo compimento. Si diedero appuntamento l’indomani nello stesso posto per poter parlare dei dettagli. Il giorno seguente decisero che la fanciulla sarebbe andata a casa del pittore ogni mattina con la complicità della serva che avrebbe mantenuto il segreto con il marito. Se egli l’avesse saputo sarebbe andato su tutte le furie e l’avrebbe abbandonata, perchè avrebbe macchiato il nome della sua nobile famiglia. Il primo giorno il pittore fece accomodare Maria, ma non riuscì a trovare una posa che lo soddisfacesse, così la mandò a casa senza aver neanche iniziato il quadro. I giorni seguenti furono uguali al primo, se non per un piccolo particolare. Il pittore ogni giorno 20
  • 21. vedeva Maria con occhi diversi, gli sembrava sempre più bella. Maria pareva non accorgersene ma anche lei dopo poco tempo capì di essere attratta dal pittore. Dopo alcune settimane, il pittore decise di spendere i suoi ultimi risparmi e comprare un regalo degno per dichiararsi a Maria. Quando, il giorno seguente, esse vide la collana e gli orecchini di perla, fu felicissima, ma entrambi sapevano che, se avessero voluto stare insieme, avrebbero dovuto fare i conti con il marito della donna. Il pittore finalmente trovò la posa giusta e iniziò a dipingere Maria Elisabetta con i gioielli che le aveva regalato. Nel quadro c’era solo lei, la sua amata, con i gioielli che lui le aveva donato per dichiararle il suo amore. Nel quadro si intravedevano anche la finestra e il tavolo dello studio che davano un tocco di mistero alla creazione del pittore. Dopo tre mesi il quadro era quasi pronto, mancava solo da disegnare la cartina geografica sul muro, sarebbe stato il segno della loro fuga. Avevano iniziato a progettarla due mesi prima, per poter stare insieme senza subire le ire del marito di Maria Elisabetta. Il pittore quel giorno uscì di casa un po’ più tardi del solito per sbrigare le sue commissioni. Maria Elisabetta intanto, mentre percorreva la strada che la portava dal pittore, si sentiva strana, quasi osservata, le sembrava che qualcuno si stesse nascondendo nell’ombra e la seguisse. Quando arrivò, bussò alla porta della casa del pittore, le aprì la nuova serva che la fece accomodare e le disse che il pittore era ancora fuori per svolgere delle commissioni. Il marito, che l’aveva seguita per tutto il tragitto, era entrato di soppiatto dalla finestra e al sentire quelle parole, si fece avanti intimando a Maria di mostrargli il quadro. Lei decise così di portarlo nell’atelier. Quando furono là, il marito vide il quadro e iniziò ad urlare contro Maria Elisabetta. Dopo poco, il pittore, tornato a casa pensando di essere in ritardo, entrò nell’atelier e non trovò la donna, trovò solo un piccolo alone sul pavimento e qualche goccia di rosso ramato. Doveva essere stata la serva, che mentre puliva aveva versato un po’ di colore. Quel giorno Maria Elisabetta non arrivò. Gaia Lodi 21
  • 22. 5 – Maria Elisabetta - il ricatto J ohannes V ermeer - L a merlettaia 22
  • 23. La osservavo sempre, amavo guardarla e avrei potuto passare giornate intere a scrutare i suoi movimenti senza mai stancarmi. Quello che più mi affascinava di lei erano senza alcun dubbio i suoi occhi, così piccoli e delicati ma in grado di far trasparire la forza incredibile di quella donna, che ne aveva passate tante e nonostante questo la vita aveva deciso che per lei non era ancora giunto il momento di essere felice e di lasciarsi alle spalle il passato. Aveva sempre vissuto in un mondo che non le apparteneva e fin da giovane aveva cercato di ribellarsi, ma la vera sofferenza per lei arrivò quando si rese conto che i suoi genitori erano più interessati a difendere il buon nome della famiglia che alla sua felicità. A soli sedici anni era stata rinchiusa in una torre, anche se purtroppo il principe azzurro a salvarla non arrivò mai. Dopo alcuni anni i genitori morirono a causa di una grave pestilenza a cui lei scampò miracolosamente, e per quanto possa essere crudele tale affermazione, Maria Elisabetta ne fu sollevata. A ventidue anni acquistò una reggia ed iniziò a cercare servitù, così la conobbi e mio malgrado, me ne innamorai. Ormai sono passati dieci anni, ma ricordo ancora come fosse ieri il nostro primo incontro, non riuscii mai a spiegarmi cosa di un semplice domestico come me catturò così violentemente la sua attenzione, ma di questo sono certo, ricambiava i miei sentimenti come mai nessuno prima d’ora. Purtroppo, a differenza di ciò che pensavamo ingenuamente, l’amore ha una classe sociale e non permette a nessuno di violarla. L’amore più forte e vero che avessimo mai provato era finito per colpa di una stupida classe sociale e non pensavamo di poter ricevere notizia peggiore, ma mi sbagliavo: Maria Elisabetta si sarebbe presto sposata con un principe verso il quale non provava alcun sentimento. Un marito che a distanza di dieci anni non esisteva già più, forse uno dei tanti misteri celati dietro la dama. Non che a me dispiacesse di questa perdita, Maria Elisabetta dopo il lutto aveva riallacciato i rapporti con me, non avevo mai smesso di lavorare per lei ma dopo il suo matrimonio si era creato il gelo tra di noi, e finalmente ora avevo la possibilità di recuperare tutto il tempo perso. Negli ultimi giorni passava gran parte del suo tempo nello sgabuzzino a cucire furtivamente dei merletti. Aveva sempre avuto la passione per il cucito, ma ero convinto che ci fosse di più, non aveva motivo di nascondere le sue creazioni in una cassapanca chiusa da un lucchetto, o probabilmente un motivo lo aveva. Questo diventava uno dei tanti enigmi che andava ad aggiungersi ad una lunga lista. Ma stavolta ne ero più sicuro che mai, non mi sarei lasciato sopraffare dal suo carattere impetuoso e sarei riuscito a scoprire, almeno in parte, cosa mi nascondeva quella donna. Non ero di certo la persona adatta per parlare di sincerità, era una delle tante cose che mi accomunava a Maria Elisabetta, ci eravamo conosciuti nella menzogna e avevamo costruito il nostro rapporto su bugie che speravamo non sarebbero mai emerse. Nonostante questo il nostro amore era vero e andava oltre tutte le sporche verità mancate. Dopo diverse settimane passate a meditare su cosa potesse turbare Maria Elisabetta e a scrutarla, cercando di non essere notato, decisi che era giunto il momento di parlarle; ero 23
  • 24. convinto che si fosse accorta della mia furtiva presenza da tempo, ma essere osservata la faceva sentire importante come mai per nessuno lo era stata, nessuno a parte me. Entrai nella stanza buia e la trovai intenta nella decorazione dei suoi merletti, cercai di scordarmi per un attimo delle sue stranezze e mi sedetti dolcemente su uno sgabello al suo fianco. Le chiesi cosa la tormentasse, la sua risposta fu "niente". Scoprii che il niente di cui parlava era un enorme problema, una valanga che se non fosse stata fermata in tempo avrebbe travolto non solo lei, ma anche me. Eravamo stati scoperti, il nostro enorme segreto lo sarebbe rimasto ancora per poco e tutto questo a causa di Don Lucio, una persona tanto crudele quanto falsa che aveva deciso di ricattarci. In caso non fossimo riusciti a soddisfare la sua richiesta, l’intero mondo sarebbe venuto a conoscenza di una scandalosa verità: la nobile Maria Elisabetta aveva messo al mondo una bambina con il suo maggiordomo, per lo più durante il matrimonio con il suo povero vedovo. Non avremmo dovuto dare spiegazioni solo dell’accaduto, ma anche della scomparsa di questa fanciulla, che era morta a causa di una feroce epidemia. Decidemmo così di incontrare Don Lucio; era una mattina d’inverno ed un timido sole splendeva nel cielo, ci dirigemmo verso la chiesa e appena giunti lo trovammo, ci invitò a sederci, iniziando il suo crudele discorso. Era venuto a conoscenza di tutto questo grazie all’archivio comunale delle morti premature, quando Francesca venne a mancare aveva solo sei anni, era stata con mia madre nella nostra umile dimora fino alla sua morte, motivo per cui nessuno si accorse della sua esistenza. Maria Elisabetta era stata una madre perfetta, nonostante l’avesse dovuto fare in incognita, purtroppo la sua morte ci aveva recato tanto dolore che avevamo dovuto nascondere in noi, senza mai lasciar trasparire nulla. Dopo un discorso di alcuni minuti, arrivammo ad una conclusione: avremmo dovuto fabbricare merletti per l’intero convento, che Don Lucio non poteva più permettersi. Riuscimmo ad accontentarlo e a proteggere il nostro grande segreto, ma mi resi conto che avevo passato fin troppi guai a causa di Maria Elisabetta, dovevo cambiare vita e potevo farlo solamente dimenticandomi di lei. La amavo con tutto il cuore, ma preferii la mia vita alla sua e la abbandonai miseramente. L’avevo ingenuamente lasciata come tutte le altre persone per le quali fino a poco prima provavo ribrezzo. Venni a sapere che in seguito si era trasferita in una meravigliosa villa sul mare, dopodiché non mi giunsero più sue notizie, “spero tu sia felice, te lo meriti veramente” erano state le ultime parole che le avevo rivolto prima di lasciarla, e le pensavo davvero. Quella donna non meritava altro che serenità e comprensione che non aveva mai avuto. Alice Penzo 24
  • 25. 6 – Maria Elisabetta: la nuova vita J ohannes V ermeer - S uonatrice d i chitarra 25
  • 26. Maria Elisabetta non amava restare da sola. Non ne poteva più di Vienna, una città così piena di ricordi che le procuravano dolore, perciò si era trasferita da qualche anno in una tenuta sulla riva dell’oceano. Leggeva libri sacri, quelli che la madre aveva letto da giovane con le sorelle, riposava, talvolta perdeva ore ad osservare le onde e la schiuma del mare, quella bianca schiuma che arrivava fino alla spiaggia, accarezzando la sabbia. Quelle belle giornate d’infanzia però Maria le aveva dimenticate insieme a tutti i gioiosi ricordi della giovinezza. Adesso era tutto diverso e l’aria portava con sè malinconia e rassegnazione. In inverno le giornate erano lunghe, interminabili, gli orologi sembravano dormire e le lancette pietrificate scandivano con triste lentezza i secondi: un giorno durava un anno e quel maledetto anno sarebbe durato una vita. La sua non era stata proprio una vita felice, e forse non la sarebbe mai stata. Era ancora intrappolata in quella realtà scomoda, falsa e ingombrante, a dover sorridere anche quando il cuore piangeva, ad accrescere dentro di sè i sensi di colpa e il rimpianto di non aver vissuto a pieno le gioie e le opportunità che quella stessa vita le aveva offerto, i momenti del passato le tornavano in mente spesso, troppo spesso. Quel mattino era più abbattuta che mai, anche le galline del pollaio erano più taciturne del solito e il gallo al mattino non cantò. Il sole, proprio quel sole pallido e malato, si nascose dietro la fitta cortina di nubi, scomparendo. Non c’era nemmeno lui ora a tenere compagnia alla donna, in quella casa fredda e smisuratamente grande per lei. Le pareti grigie e scure contrastavano le brillanti e lussuose cornici dorate che incorniciavano i quadri di Ludovico. Eh, si, a lui ci pensava ogni mattina quando, al risveglio, osservava quella splendida tela in cui si rivedeva da giovane, testarda e viziata, mentre provava i meravigliosi gioielli che ancora dopo tanti anni conservava nel cofanetto ornato con una sottile filigrana d’oro. Il tempo era passato e il rimpianto dei momenti sprecati, dei misfatti compiuti e degli orrori commessi la portava al pensiero di una vita da concludere con un nulla di fatto e ciò non le dava pace..Sentiva il gocciolio della pioggia penetrare dal tetto e cadere rimbombando nelle catinelle appoggiate sul pavimento del solaio. Teodoro se n’era andato e nessuno più sarebbe salito sul tetto per trovare l’origine di quelle infiltrazioni, non di certo lei. Anche se sola non aveva perduto la sua classe ed eleganza, in fondo, pur essendo sempre stata una ribelle, era stata allevata da una famiglia nobile ed abituata ad un ambiente sfarzoso… Dalla veranda vedeva le gocce cadere a terra, tuffarsi e perdersi nell’azzurro del mare. Avvertiva la brezza sfiorarle i ciuffi dei capelli, muovere il colletto del vestito e le tendine di pizzo ricamate dalla nonna che decoravano finemente le finestre della cucina. Entrò in casa lasciando spalancata la porta. Entrò nella stanza della musica dove teneva i libri, la chitarra e il clarinetto. Afferrò la chitarra e strimpellò per un paio di minuti. Erano già passati alcuni giorni da quando aveva cominciato a comporre. 26
  • 27. Appoggiò con delicatezza la mano sinistra sulla chitarra della figlia Francesca. Cominciò a diffondersi tra le stanze della villa una dolce melodia. Era uno dei pochi momenti felici. Intonò i versi di un’allegra ninna nanna. Quella musichetta le suonava sempre nella testa, a volte la tormentava e a volte invece le ricordava la figlioletta persa tristemente a causa di un’epidemia. A lei stava dedicando quella canzone e quelle parole poetiche. A lei aveva dato tutto e per lei aveva sempre fatto tutto. Quei pochi anni di vita di Francesca avevano assorbito completamente l’anima di Maria. Era giunta la sera. Maria accese le candele e cucinò una gallina con alcuni aromi colti dall’orto dietro casa. Cenò bevendo vino e cantando quella melodia che sembrava ormai non avere più un inizio e una fine ma continuava a risuonare nelle stanze della villa. Stanca si distese sul letto e osservò il dipinto di Ludovico. Ripensò anche a Teodoro e a Francesca. Ripensò ad Ernest, il marito tanto più grande di lei che diede origine a tutti i suoi tormenti. Pensando e riflettendo si addormentò, con la stanza e i quadri che la fissavano. Cominciò a sognare e viaggiò ritornando indietro nel tempo al giorno in cui il marito la picchiò a casa del pittore per quei meravigliosi dipinti. Fu l’istinto, un momento di rabbia, la voglia di indipendenza. Prese il cavalletto di un quadro e lo colpì. Lo vide cadere a terra. Era morto. L’aveva ucciso. Non pianse, finalmente non l’avrebbe più rivisto, era libera. Si stava rivedendo, ripercorreva i drammi e le disgrazie. Riuscì a coprire la situazione, dicendo ai genitori di Ernest che il figlio era tragicamente morto travolto da un calesse. Intanto Francesca cresceva. Altro dolore e bugie si stavano accumulando. Maria Elisabetta era scappata, non avrebbe più voluto vedere Ludovico. La vita a Vienna era caotica e Teodoro diveniva sempre più distaccato. Maria voleva che lui la smettesse di comportarsi come i membri della servitù. Era stato il suo servo, ma poi, si erano innamorati. Il sogno ripercorse anche i ricatti di Don Lucio, il viscido parroco approfittatore che obbligava Maria a cucire e a lavorare per non rivelare all’importante famiglia di Ernest che Francesca era in realtà figlia di Teodoro. Alla morte di Don Lucio i ricatti terminarono e vennero sostituiti dal senso di colpa di Maria che la spinse in una profonda depressione, culminata con la morte della figlioletta a causa di una malattia. Rivide il giorno in cui Teodoro la salutò e se ne andò per sempre nonostante lei lo amasse così tanto. Si risvegliò di colpo tutta sudata e pianse a lungo. Non ricordava l’ultima volta in cui aveva pianto perché le donne forti non hanno il tempo per piangere. Quel terribile incubo aveva portato alla luce le intricate peripezie di una ragazzina cresciuta in modo diverso rispetto alle coetanee. Voleva solo essere lasciata in pace da quei pensieri, dal passato che la divorava lentamente. Voleva solo una vita diversa, una vita migliore. Sara Campagnoli 27
  • 28. 7 – Scienza in corso J ohannes V ermeer - L ’a stronomo 28
  • 29. Edward Van Varten era ormai conosciuto, a Breda, per la sua fama di astronomo. Egli, infatti, desiderava ardentemente scoprire i segreti dell’italiano Galileo Galilei, colui che era rimasto accecato dalla luce del sole. Il sole, esatto, la grande passione di Edward. Il suo sogno infatti era costruire una sonda abbastanza resistente da poter essere mandata su di esso, o almeno nelle vicinanze. Lui portava avanti questa passione perché voleva essere visto e ricordato per il suo contributo alla scienza. Il suo compagno di lavoro era il suo migliore amico, William, appartenente alla classe aristocratica, che si era guadagnato il suo posto grazie ad un’’impresa straordinaria: era stato il primo Olandese ad attraversare l’Oceano Pacifico. Egli era, come avrete già capito, un geografo. Edward aveva avuto un’ infanzia molto difficile, era cresciuto in Spagna, in un orfanotrofio, insieme ad altri dieci ragazzi, provenienti da Tibet, Australia, Israele, Italia e altri tra i più curiosi paesi al mondo. Da essi apprese nuove nozioni sulle differenti culture. All’età di sette anni fu adottato da una coppia americana e andò a vivere in Arizona. Lí in una sera estiva conobbe quelle che sarebbero diventate le sue ossessioni, le stelle. Quella sera faceva particolarmente caldo in casa, così decise di uscire. Stelle.. nella sua mente non vi era nient'altro. Astri, stelle, palle di differenti colori e dimensioni, per lui la definizione non aveva alcuna importanza, d'altronde come Shakespeare ci ricorda : "Cosa c'é in un nome ? Ciò che chiamiamo rosa conserverebbe il suo profumo anche con un altro nome." Guardando quelle lievi luci il suo cuore palpitava a più non posso, da quella sera non fu più lo stesso. Una volta completati gli studi, si recò in Olanda per sapere di più sulla fama del geografo William Buston. Una volta incontratolo, ne rimase fortemente colpito al punto che si mise a studiare la geografia, dopo pochi mesi i due divennero inseparabili compagni di avventure, progettarono, infatti, un razzo capace di attraversare sia la galassia che l'Oceano. Lo chiamarono Helter-Skelter, ossia, scivolo. Ovviamente, questa invenzione portò loro una buona fama. Durante la presentazione ufficiale del razzo, Edward conobbe un’incantevole fanciulla, chiamanta Lidia Galilei, un’italiana, parente lontana del famoso astronomo italiano, tanto amato da Edward. Non poté fare a meno di chiederle informazioni sempre più dettagliate sul suo “ mentore “. Dopo pochi mesi di uscite, le chiese di sposarlo, all’esibizione della grande filarmonica Olandese. 29
  • 30. Lei, pur se colta di sorpresa, non esitò ad accettare. Le nozze furono stupende, William fece loro da testimone e in luna di miele andarono a Venezia, la città sull’acqua. Qui trascorsero più di tre settimane. Una volta tornati, Edward e William decisero di intraprendere un nuovo progetto, la sonda per il Sole. “Questo progetto sarà molto costoso da finanziare, dovremmo chiedere un prestito alla banca!” disse William. Edward annuì sorridente e si mise a riflettere sulle possibilità di riuscita e funzionamento della sonda. Se l’impresa fosse stata un fiasco, si sarebbero trovati con debiti molto pesanti, ma ciò non preoccupava Edward, egli pensava principalmente alle conseguenze della riuscita, a quanto denaro e fama avrebbero acquisito. Infatti, questa impresa sarebbe stata molto proficua per entrambi e li avrebbe proiettati nella classe più alta, dove avrebbero potuto aver un posto come geografi e astronomi del re. Questi e altri pensieri influenzavano la mente di Edward e William. Una volta progettato il razzo, avevano bisogno dei materiali giusti e resistenti al calore del Sole. Codesti erano quasi introvabili, e ciò costrinse loro ad intraprendere un lungo viaggio. Il materiale era una particolare pietra vulcanica chiamata Dunite, che si trovava solo in Nuova Zelanda. Decisero di partire il giorno stesso, portandosi dietro solo l’essenziale, con l’aereo di William. Impiegarono un giorno ad arrivare e furono subito confusi dal “ Jet lag “. Il Monte Tongariro, fortunatamente, non era lontano. Dopo una bella dormita si incamminarono verso il vulcano. Dopo poche centinaia di metri iniziarono a vedere i “blocchi” di Cunite, che venivano inondati ogni due minuti da lava incandescente. Edward decise di correre il rischio, si avventò su uno dei blocchi con un piccone e staccò una quantità sufficiente di roccia e, con grande fortuna, riuscì ad allontanarsi poco prima dell’arrivo dell’ondata di lava. Recuperata la pietra preziosa i due impavidi viaggiatori tornarono a casa pieni di orgoglio e il mattino seguente, senza perdere un attimo, iniziarono a costruire la sonda. L'impresa fu lunga e complessa, ma dopo quasi sei estenuanti mesi riuscirono a completare il progetto. Fissarono la data del lancio per la settimana seguente e si dedicarono a passare del tempo con la famiglia. Quella sera era tutto perfetto, Edward e sua moglie erano a casa di William, a sorseggiare un buon tè e a fumare un grosso sigaro cubano. 30
  • 31. La settimana passò molto velocemente, il clima familiare era piacevole. La mattina del lancio William e Edward erano emozionati, non riuscivano a credere di aver realizzato il loro più grande sogno. Quando Edward premette il tasto per la partenza, la folla cominciò lentamente ad esaltarsi. Sua moglie piangeva lacrime di gioia, fiera del suo amato marito, poiché era riuscito nel suo sogno più grande. William ed Edward si strinsero la mano davanti al razzo che si innalzava. Un uomo scattò una foto. Matteo Battilani 31
  • 32. 8 – Il sentiero dei garofani rossi J ohannes V ermeer - D onna in p iedi a lla spinetta 32
  • 33. Sbatté con forza la porta alle proprie spalle e, con ancora nelle orecchie i suoni stonati di quel dannato strumento, si avviò lungo il corridoio. La casa era deserta e tutto pareva immobile, imprigionato in uno statico silenzio. Cominciò a trascinare i piedi lungo il corridoio, senza sapere dove fermare lo sguardo. Negli ultimi giorni aveva cercato, disperatamente e con tutte le sue forze, di trovare in quella casa qualcosa che le portasse alla mente ricordi felici, qualcosa di cui avrebbe sentito la mancanza. Non aveva avuto successo. Tutto di quel posto la disgustava. Ogni ricordo che la legava a quelle mura le istillava, sempre più prepotente, il desiderio di scappare. I ritratti dei suoi antenati, appesi alle pareti, le incutevano un grande timore e i loro occhi dalle tinte glaciali la inquietavano, al punto che ogni volta che vi passava davanti si costringeva ad abbassare il capo. Le pareti bianche come la neve, d’altro canto, non erano uno spettacolo migliore. Tutto quel candore la faceva sentire fuori posto, troppo piccola e troppo sporca per vivere tra tutta quella meraviglia. Il peggio, però, erano senza dubbio l’oro e l’argento che spuntavano in ogni angolo della casa, piazzati a forza anche nei locali più umili. Erano ormai lontani i giorni in cui lei e sua sorella Angelique giocavano beate nelle stanze di quella enorme casa, fingendo di essere principesse nel loro personalissimo castello. I giorni in cui ancora la divertiva il suono che i tacchi delle scarpe producevano sul pavimento d’ebano, in cui lei e sua sorella erano un’unica entità, che mai niente le avrebbe separate. Erano i giorni in cui si sentiva amata ed importante. Rise di se stessa e della sua ingenuità, perché, di certo, importante lei non lo era affatto, men che meno in quella prigione d’avorio. Un suono ovattato, come di caduta, le arrivò leggero all’orecchio. Sorrise intimamente e voltò lo sguardo alle proprie spalle, per farlo cadere sulle chiazze vermiglie che interrompevano le rigide striature del legno. I suoi occhi seguirono la scia di petali rossi, fino a posarsi su quelli che, con grazia, stavano rotolando tra le pieghe della sua gonna, in una lenta caduta verso il suolo. Dal fondo della sua gola sorse una risata debole e meschina, che persino lei stentò a riconoscere. Si girò nuovamente verso la fine del corridoio e riprese a camminare. Aprì piano la porta della sua stanza e il vestito rosso rubino, piegato malamente nel baule aperto ai piedi del letto, attirò subito il suo sguardo. Sfiorò la seta vermiglia in una carezza leggera e scandagliò con gli occhi il resto della stanza. Quello era l’unico luogo della casa che parlasse realmente di lei, dal pettine in argento posato sul comò al suo libro preferito nascosto sotto al cuscino. Accarezzò con lo sguardo la struttura in legno di noce del letto a baldacchino, da cui 33
  • 34. pendevano, pesanti, le tende damascate. Mosse qualche passo e si affacciò alla finestra, che dava direttamente sulle vie di Delft. Sotto di lei, un gruppetto di cinque bambini giocava per strada, rincorrendosi tra il disappunto dei passanti. Tutto imbacuccato in un cappotto grigio fumo, un ometto occhialuto zoppicava appoggiato al suo bastone da passeggio. Ai margini del suo campo visivo, notò un puntino di luce sul muro alla sua destra. Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che, alle sue spalle, appesi ad un leggio mai utilizzato, pendevano sette pezzi di vetro colorato che proiettavano i raggi del sole morente in giro per la stanza. Si girò, infine, verso lo specchio a figura intera appeso alla parete. Fissò con disgusto la cornice dorata, incastonata di rubini, e sbuffò sonoramente. Certamente, di tutto quel ciarpame, quello era l’oggetto di cui avrebbe sentito meno la mancanza. Faticava a ricordare l’ultima volta in cui aveva sorriso di fronte alla propria immagine. Per un attimo, su quella fredda superficie, rivide la se stessa di qualche anno prima. La bambina dolce ed ingenua che non aveva un problema al mondo, se non quello di decidere cosa far indossare alle proprie bambole. Da ormai sei anni di quella bambina non v’era più traccia. Era stata spazzata via, all’improvviso, come un castello di sabbia durante l’alta marea. La vita le aveva scagliato contro un’onda anomala che l’aveva cambiata per sempre. Dieci anni. Aveva soltanto dieci anni quando i primi buchi neri cominciarono ad insinuarsi nella sua mente. Era il giorno del suo compleanno e tutto sarebbe stato perfetto se non avesse notato, a metà della cena, le lacrime che rigavano il volto di suo padre. “Padre, perché piangete?” chiese con tono sommesso. Un silenzio tombale scese d’improvviso sulla tavolata, il respiro di sua sorella Stephanie s’interruppe in un verso strozzato e la serva Caroline, sempre sorridente, si ritirò in cucina con un’espressione desolata dipinta sul volto. L’uomo le lanciò uno sguardo gelido e, con movimenti meccanici, si alzò da tavola. “Io vado nello studio, vi prego di non venire a disturbarmi” dichiarò con voce rotta. Mentre i passi del padre rimbombavano attraverso il corridoio, le ragazze rimasero immobili al loro posto. Lei continuò a muoversi inquieta sulla sedia per qualche minuto, mentre le sorelle terminavano la cena nel più completo silenzio. “Ho detto qualcosa di sbagliato?” non potè trattenersi dal chiedere. Stephanie posò stizzita la forchetta sul tavolo e Angelique le rivolse un’occhiata curiosa. La maggiore alzò lo sguardo su di lei, stampandosi in viso un sorriso tirato. “O Claire, non essere sciocca. Non hai fatto nulla di male. Nostro padre è solo molto 34
  • 35. stanco” Il suo tono era teso e le mani, che stringevano convulsamente le pieghe del vestito, rendevano chiaro alle altre due che stesse mentendo. Era la più grande, parlava spesso con loro padre, ma mai avrebbero pensato che quei due avessero dei segreti con loro. Perché la dolce, premurosa e tranquilla Stephanie era arrivata a fare qualcosa di cui non era minimamente capace, come mentire? Claire e Angelique si lanciarono uno sguardo d’intesa e, in assoluta sincronia, si alzarono da tavola, porgendo un saluto sbrigativo alla sorella e lasciandola sola in sala da pranzo. “Hai notato anche tu?” domandò la più piccola. L’altra annuì convinta e affrettò il passo, deviando il percorso di entrambe verso la biblioteca. Si chiusero alle spalle il portone in legno e si gettarono senza grazia sulle poltroncine rosse, nascoste in un angolino tra gli scaffali. “Erano tutti talmente strani. Non capisco cosa gli sia preso” mormorò Angelique, portandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio. Sulle sorelle scese il silenzio, interrotto soltanto dal ticchettare della pendola che si trovava alle loro spalle. Claire non staccava gli occhi castani dalle finestre, mentre la sorella dondolava i piedi oltre il bordo della poltrona, lanciandole ogni tanto qualche occhiata obliqua. Dopo svariati minuti la minore emise un lungo sospiro. “Angie?” “Sì?” “Credi … credi che papà piangesse per colpa mia?” chiese con un fil di voce. L’altra si voltò di scatto con un’espressione sorpresa. “No! Assolutamente no! Perché mai pensi questo?” domandò con un tono tra il preoccupato e lo sconvolto. La bambina tentennò, torcendosi le dita delle mani e tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. “Oggi, in fondo, è il mio compleanno, magari se è triste in questo giorno è colpa mia. E poi… si comportavano tutti in maniera così strana. Se la colpa non è mia, perché Stephanie ha dovuto mentirmi?” Ad ogni parola, la sua voce scendeva di tono, portandola a pronunciare le ultime lettere in un sussurro colmo di tristezza. La sorella si alzò di scatto e corse da lei, cingendole le spalle esili con le proprie braccia. Claire si strinse nel suo abbraccio e nascose il viso nell’incavo del suo collo, cercando di nascondere le lacrime che si era lasciata sfuggire. “Claire, basta adesso. Ti prego, smettila. Non è così, credimi! Anzi, se vuoi, vado a parlare con Stephanie, così ti dimostro che tu, con il malumore di nostro padre, non 35
  • 36. c’entri un bel niente” le sussurrò la bionda all’orecchio. Detto questo, imboccò a grandi passi l’uscita e sparì oltre la porta della biblioteca. Claire si passò una mano sul volto, asciugando le lacrime, e fece un profondo respiro. Gettò qualche occhiata impaziente alla porta e cominciò a battere nervosamente un piede per terra. Le era praticamente impossibile rimanere lì ferma ad aspettare, nessuno poteva pretendere questo da lei. Troppo ansiosa, o troppo curiosa, si alzò di scatto e seguì la sorella lungo il corridoio. Passò davanti ad una decina di stanze prima di trovarsi davanti alla porta chiusa della camera da letto di Stephanie. Accostò l’orecchio alla superficie di legno e sentì le voci delle sue sorelle che discutevano. “Angelique, ho detto basta. Non mettere il naso dove non devi, tutto questo non ti riguarda.” Sbottò Stephanie con voce alterata. “Steph, insomma! Certo che mi riguarda, ci riguarda tutti, siamo una famiglia!” esclamò Angelique. “NO!” urlò la maggiore da dietro la porta. Il respiro di Claire si spezzò, infrangendosi contro la superficie lignea. La bambina fissò sconvolta il vuoto davanti a sè, incapace di formulare un pensiero concreto. “Cosa stai dicendo?” chiese in un tremolio la secondogenita. Ci fu un momento di pausa, come se Stephanie stesse raccogliendo dentro di sé la forza per rispondere. “Sorellina, non chiedermi di spiegarti. Sarebbe troppo doloroso, per entrambe. È meglio per te non sapere, fidati di me.” “MA COSA?! Cosa è meglio che io non sappia?!” fu lo strillo esasperato a cui seguì un forte tonfo. “ANGELIQUE! Abbassa la voce e non osare mai più utilizzare quel tono in questa casa! Sei una bambina intelligente, ma devi imparare a rispettare chi ti circonda, se non vuoi finire come nostra madre!” Il cuore di Claire mancò un colpo e le sue mani si strinsero a pungo. Mamma? “Cosa c’entra la mamma adesso?” Si sentì un forte sospiro, poi qualche attimo di silenzio. La tensione nell’aria era tale che Claire, ne era certa, avrebbe potuto tagliarla con un coltello. “Siediti sorellina” “Non voglio sedermi, voglio una spiegazione!” “È MORTA DI PARTO, VA BENE?!” sbottò improvvisamente. Le gambe di Claire tremarono e lei temette di non riuscire a rimanere in piedi. Respirare le sembrava sempre più difficile e grossi goccioloni salati premevano da dietro le palpebre per uscire. Tentò di inghiottire il groppo che le si era formato in gola e ricacciò indietro le lacrime. 36
  • 37. “E se proprio vuoi saperla tutta, sono fermamente convinta che Nostro Signore le abbia dato la punizione che meritava!” Un verso strozzato, appena udibile da dietro quella porta che le stava celando la concitata discussione che la stava lacerando dentro. “Come puoi dire questo?” un singhiozzo sommesso, il tono della voce impregnato di lacrime trattenute a stento, lo sdegno contenuto nelle parole. Quella semplice domanda scosse Claire nel profondo. Da un angolino oscuro del suo animo qualcosa si mosse, in punta di piedi, appena percettibile, tanto discreto da passare inosservato. “Non guardarmi a quel modo, come se non sapessi più chi ti trovi davanti! Non sono io il mostro, lei lo era! Ha distrutto la nostra famiglia, ha spezzato il cuore di nostro padre, ha perfino osato portare il suo amante in casa nostra! ERA SOLTANTO UNA SGUALDRINA! Forse è meglio per te non averla mai conosciuta.” Queste parole risolute furono l’ultima cosa che Claire udì, prima che una fitta nebbia, sorta dal profondo di lei, la avvolgesse completamente. Buio. Le ore seguenti rimasero per sempre immerse nella più totale oscurità. In seguito Claire tentò più volte di ricordare cosa avesse fatto, visto, detto, ma aveva ottenuto soltanto una lunga lista di fallimenti. Quanto avrebbe desiderato sapere cos’era accaduto nella giornata che aveva distrutto la sua infanzia. Ma, in fin dei conti, forse non era nemmeno così importante capire. No, probabilmente, era qualcosa di irrilevante. Irrilevante davanti al fatto che Angelique non le aveva più rivolto la parola da quel momento. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare a quel pomeriggio, nella biblioteca, e sentire nuovamente la sua vocina sottile che la avvolgeva con parole d’affetto. I sei anni seguenti furono anni di assoluto inferno. Imprigionata nella propria casa, insieme ad una famiglia che, ormai lo sapeva, non la considerava altro che l’incarnazione di un tradimento bruciante. Si sentiva sempre più un peso e non riusciva a risolvere la questione. Un mese prima era arrivata la stoccata finale, il colpo di grazia. Era chiusa in biblioteca, stanza che non abbandonava quasi mai, quando suo padre era entrato con incedere deciso e le si era parato davanti. “Ho concluso un accordo con il signor Lefevre.” Dichiarò con voce gelida. Claire alzò il naso dal libro che stringeva tra le mani e fissò la figura slanciata dell’uomo. I suoi occhi grigi splendevano di risolutezza e la bocca sottile era contratta in una smorfia scocciata. Si aspettava una risposta da lei? Una domanda? 37
  • 38. Una qualsiasi forma di interesse? Sarebbe rimasto deluso. Fece un vago cenno di assenso e si rigettò a capofitto tra le pagine ingiallite dal tempo. Il respiro dell’uomo si fece più pesante e rumoroso, in un’evidente pretesa d’attenzione. Claire trattenne a fatica un sorriso di soddisfazione per cui, lo sapeva, avrebbe pagato un caro prezzo. “Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi. Ho già firmato i documenti per farti diventare sua moglie.” Un tonfo sordo riempì l’aria e la ragazza guardò inorridita il tomo, che pochi istanti prima stringeva fra le mani, giacere a terra aperto malamente. Alzò lo sguardo sull’uomo, ma si trovò a fissare il vuoto, mentre nelle orecchie le rimbombavano i passi pesanti che lo stavano conducendo lontano da lei. Ho concluso un accordo con il signor Lefevre. Il respiro le si fece sempre più affannoso e un nodo le strinse la gola. Raccolse timidamente il romanzo da terra, per riporlo con cura sullo scaffale lì accanto. Allungò una mano verso il bracciolo della poltrona, in cerca di un appoggio. Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi. Le gambe le tremavano e non era più sicura di riuscire a reggersi in piedi. In quale momento la stanza aveva cominciato a girare? Ho già firmato i documenti per farti diventare sua moglie. E poi il nulla. Di quei giorni ricordava la rabbia. Ricordava le lacrime e le urla soffocate nel cuscino , come ogni notte da sei anni a quella parte, che si facevano sempre più forti, più disperate, quanto più i suoi incubi si facevano crudeli. Ricordava lo scricchiolio delle proprie nocche contro il muro e il dolore che le aveva preso la mano. Ricordava più di tutto il silenzio, che regnava ogni giorno con più fermezza sulla casa, e l’oscurità, che la avvolgeva sempre più spesso. Tuttavia erano tante, troppe, le cose che proprio non riusciva a ricordare. Non ricordava il momento in cui aveva buttato a terra tutti i libri dallo scaffale, né quando aveva tirato giù le tende del proprio letto a baldacchino e neppure il momento in cui aveva assaltato la casa delle bambole di quando era bambina. Sapeva soltanto che, tornata in se stessa, aveva trovato il pavimento della propria camera cosparso di corpi di pezza con arti mancanti e manine di porcellana mezze distrutte. I piccoli visi, di un bianco innaturale, la osservavano, con le loro crepe sulle guance e i loro nasi spuntati. Accidenti, guarda cos’hai combinato. Un moto di terrore l’invase nel profondo. Si portò le mani sulle orecchie, in un inutile 38
  • 39. tentativo di scacciare quella voce tagliente, che conosceva fin troppo bene, dalla propria testa. Perché provi ancora a liberarti di me? Sai bene che non ci riuscirai. Basta, ti prego! Ma guardati! Sei patetica! Supplichi te stessa di lasciarti in pace. Per quanto ancora pensi di riuscire a scappare dalla verità? Loro ti detestano, tutti quanti, non hai visto com’era contento nostro padre mentre ti diceva che si sarebbe liberato di te? “Smettila! Sono stanca di sentirtelo ripetere! Tu non sai niente, niente di niente!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola Una furia cieca la invase e, senza nemmeno avere il tempo di realizzare cosa stesse facendo, le sue mani artigliarono la struttura del letto. Graffiò, con forza, finché non vide dei solchi interrompere le nervature del legno, finché non sentì le proprie unghie spezzarsi, grosse schegge entrarle nella carne e il sangue che le imbrattava i polpastrelli. Pensi davvero che questa sia la soluzione? La schernì la voce. Cosa speri di ottenere, dimmi? O, meglio ancora, ammettilo a te stessa. Cos’é che vuoi? Punirti? Perché mai dovrei? Non è stata colpa mia, non sono io la responsabile! Di cosa, Claire? Di cosa vuoi convincerti di non essere la causa? Dillo! IO NON HO UCCISO NOSTRA MADRE! Un altro graffio contro al letto. Dolore, intenso e pulsante. Le mani cominciarono a tremarle No, magari no. Ma di sicuro hai distrutto una famiglia. Il tono di voce si faceva sempre più sibilante e Claire non desiderava altro che spegnere ognuno dei suoi sensi. Voleva che i lividi sulle nocche smettessero di dolerle, che le mani smettessero di tremare, gli occhi di piangere… Voleva pace, voleva l’amore della sua famiglia, voleva la felicità che le era stata strappata. Ma insomma Claire, non lo sai? Non c’è gioia per chi procura l’infelicità altrui. Le ginocchia cedettero. E poi, per l’ennesima volta, il Buio. Aveva aperto gli occhi, senza avere la minima idea di quanto tempo fosse passato. Poteva essere rimasta nell’oblio solo per pochi minuti. O per svariate ore Era in piedi al centro della propria stanza. Abbassò lo sguardo, ma il pavimento era sgombro e delle bambole distrutte non v’era più traccia. 39
  • 40. Fissò la parete lucida dello specchio davanti a sé e ne accarezzò delicatamente la cornice, decorata con intarsi dorati. Fece scorrere le dita sui piccoli rubini incastonati nel metallo, che riflettevano i raggi del sole, creando punti di luce rossastri in giro per la stanza. Passò lentamente lo sguardo su tutta quella manifestazione di superbia e ricchezza, cercando di ritardare il più possibile lo scontro con la sua immagine riflessa. Il suo cuore ebbe un leggero sussulto quando, nell’estremità più bassa dello specchio, vide chiara l’immagine di un morbido panneggio di seta rossa. La sua mano corse automaticamente all’ampia gonna che le stringeva la vita e, sotto i polpastrelli, percepì chiaramente la consistenza della stoffa pregiata. Mentre passava le dita tra le pieghe della gonna, il panneggio rosso nello specchio si mosse, quasi fosse animato di vita propria. Osò alzare timidamente lo sguardo verso l’immagine riflessa e quello che vide la sconcertò al punto da farla indietreggiare di un passo. La ragazza riflessa nello specchio indossava un ampio vestito di un rosso acceso. La seta le fasciava il corpo minuto, per poi cadere un una cascata di morbide pieghe lunga fino al pavimento. Quando aveva indossato quell’abito? Non riusciva proprio a ricordare. La consapevolezza dell’aver perso il controllo di sé per l’ennesima volta si fece spazio in lei, mentre un profondo senso di vergogna le stringeva lo stomaco. Fece scorrere lo sguardo sulla propria figura riflessa, inorridendo alla vista delle mani. Il sangue incrostato bordava le unghie spezzate, le nocche livide si erano gonfiate e le dita avevano, ormai, un’angolazione strana. La sua linea di pensieri venne interrotta da un deciso bussare sulla porta alle sue spalle. “Claire, la carrozza è giù che ci aspetta. Non farmi fare tardi, mastro Vermeer è mio amico e non ho certo intenzione di fargli perdere tempo. Sbrigati.” la esortò la voce di suo padre. Giusto, l’incontro col pittore. Quando suo padre le aveva annunciato che il suo futuro marito desiderava avere un suo ritratto le era mancato il fiato. Ogni giorno l’idea del matrimonio combinato la opprimeva di più e le sue gambe fremevano dalla voglia di correre via. Scappare lontano, dalla famiglia che la odiava, dalle mura di quella casa che le sembravano sempre più strette, da tutto. Costrinse i propri piedi a seguire il padre lungo il corridoio, fuori dal portone di casa, fin sulla carrozza. Come era solita fare in presenza dell’uomo, o di qualsiasi altra persona, si stampò in faccia una gelido sorriso d’educazione, nascondendo l’orrore che la lacerava da dentro. Qualcosa dentro di lei stava urlando e si dovette mordere forte la guancia per trattenerlo. 40
  • 41. Scese con movimenti meccanici dalla carrozza, seguendo suo padre in casa del rinomato pittore. Si scambiarono inutili convenevoli, come era giusto fare, e poi si diressero nello studio. Quando varcarono la porta dell’atelier, Claire si trattenne a stento dallo storcere il naso. Una spinetta, molto simile a quella che aveva a casa, occupava una buona parte della stanza. Rivolse uno sguardo interrogativo e di vago rimprovero all’artista che le sorrideva amichevolmente. “Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni.” Sorvolò tranquillamente sull’affermazione di suo padre e sul fatto che lei non sapesse suonare e si posizionò dove il pittore le indicava. Rimase immobile al suo posto, il viso rivolto verso mastro Vermeer, ma con gli occhi persi nel vuoto. Quelle ore le scorsero addosso come acqua, senza realmente toccarla. Che grande errore avevano commesso i due uomini, permettendole di rimanere sola coi suoi pensieri! Aveva riflettuto, valutato le ipotesi e finalmente si era decisa. Quel ritratto sarebbe stato totalmente inutile. Non si sarebbe celebrato nessun matrimonio. Era stata decisamente fortunata quel giorno: suo padre sarebbe rimasto fuori tutta la giornata per lavoro e Angelique era andata al mercato. Non avrebbe più avuto un’occasione del genere. Si alzò dal letto, lentamente, senza fretta e si avvicinò a quel vecchio leggio abbandonato, da cui pendevano, indolenti, sette pezzi di vetro di colori diversi. Due gialli, tre blu,uno rosso e uno solo trasparente. Ricordava ancora quando, da bambine, lei e Angelique avevano creato quella piccola opera d’arte tutta per loro e la voce di Stephanie che le rimproverava. Allungò la mano tremante e staccò quello trasparente dal filo che lo teneva sospeso. Se lo rigirò fra le dita, valutandone la forma, tracciandone il contorno coi polpastrelli. Fece un profondo respiro e, chiudendo a fatica la mano dolorante, impugnò quel piccolo pentagono incolore. Lo portò al polso, chiuse gli occhi e premette forte. Un forte bruciore accompagnò il lacerarsi della pelle, mentre il sangue cominciava ad affiorare. Claire si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: ogni millimetro di epidermide che recideva veniva liberato dalla tensione di cui, prima, non si rendeva nemmeno conto. Spingi di più! L’ordine arrivò dal profondo della sua mente e, immediatamente, le sue dita aumentarono la pressione. Il dolore si fece più intenso e lei si sentì solo più sicura. Ripeté l’operazione sull’altro polso e riappese il vetrino al leggio, come se niente fosse. Vedeva il proprio sangue sporcare la punta e colare verso il basso. 41
  • 42. Un’idea le balenò improvvisa in mente e si diresse spedita verso la sala da musica. Varcò la porta e la lasciò sbattere alle sue spalle, puntando lo sguardo sulla spinetta che troneggiava nel centro della stanza. Si avvicinò e alzò le mani insanguinate. Sentiva la sostanza calda che colava lentamente lungo le sue dita, imbrattando lei e la sua camicia da notte. Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente, mentre la rabbia cominciava a riaffiorare. Premette con forza le dita sui tasti e sorrise nel vederli tingersi di rosso. Ogni suono che quell’arnese emetteva accresceva in lei la rabbia e faceva aumentare la velocità delle sue mani. Così com’era iniziata, la sua ira cessò di colpo e lei lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni. Addio Vincent. Tu e la tua musica potete anche andare all’inferno. Beh, dopo di me, ovviamente. Gli angoli della sua bocca si tesero in un sorriso inquietante e dalla gola le sorse una risata folle. Si avvicinò il polso destro al viso e puntò gli occhi sul taglio orizzontale che lo attraversava. Il sangue che fuoriusciva lento si espandeva tutt’intorno, formando una corolla vermiglia che cresceva. Riconobbe i bordi frastagliati dei petali che si espandevano. Un garofano fiorì dalla ferita e, nel giro di pochi istanti, rotolò giù, fino alla punta delle sue dita, dove rimase sospeso, prima di cadere a terra. Si voltò e uscì dalla stanza. Sbatté le palpebre, riaprendo gli occhi sul presente. La testa cominciava a farsi leggera e lei si sentiva sempre più stanca. Guardò il pavimento e vide il parquet impregnato del suo sangue. Ci sei quasi Claire, un ultimo sforzo. Si voltò e alle proprie spalle lo vide. Un macabro sentiero rosso attraversava tutta la casa. La luce che entrava dalla finestra si fece d’un tratto accecante e lei dovette portare una mano a coprire gli occhi. Tutti i colori della stanza si fusero in un bianco abbagliante. Era già arrivata? Era questa la Morte? Ai suoi piedi le macchie vermiglie fiorirono, una ad una, trasformandosi in splendidi garofani. All’improvviso non era più nella propria stanza, ma in piedi in mezzo ad un enorme prato e davanti a lei si stendeva una via di fiori rossi come il tramonto che toccava l’orizzonte. 42
  • 43. In fondo a quella bizzarra via, vide comparire tre figure, avvolte da un’aura buia. La sua famiglia. Angelique, i suoi sorrisi di bambina, i suoi anni di silenzio, il suo odio per lei. Suo padre, la sua voce gelida, le sue occhiate di fuoco, il suo odio per lei. Stephanie, la sua apprensione per la famiglia, il suo disprezzo per la madre, il suo odio per lei. Non gli mancherai Claire, a nessuno di loro. Un sospiro. Un masso le si era depositato sul petto e le sue mani tremavano incontrollate. Lascia andare, è il momento. Si piegò sulle ginocchia e colse un fiore, lo portò al viso e un odore ferroso le invase le narici. Lo strinse forte nel pugno, mentre questo le si liquefaceva tra le dita. Si stese sulla schiena e i suoi capelli rosso rame si mischiarono ai garofani vermigli. Sorrise e, con un sospiro, si lasciò avvolgere per l’ultima volta dal Buio. Giulia Sbardellati 43
  • 44. 9 – Un brano misterioso J ohannes V ermeer - D onna s eduta a lla spinetta 44
  • 45. Ero sempre stata affascinata da quella spinetta. La vidi per la prima volta quando avevo cinque anni e mio padre ne portò a casa una. Io volevo imparare a suonarla, ma lui disse che ero troppo piccola e che, una volta cresciuta mi avrebbe insegnato. Passai ore ed ore della mia infanzia seduta ad ascoltare mio padre che suonava: era veramente bravo. All’età di undici anni lo vidi arrivare a casa con una viola da gamba. Disse che avrei potuto imparare a suonarla, ma quello strumento non mi attirava minimamente, allora mi concentrai ad imparare a suonare la spinetta. Come regalo per il mio tredicesimo compleanno me ne comprò una e iniziammo a suonare insieme. Quando ormai a quindici anni avevo imparato tutte le basi dello strumento espresse il desiderio di portarmi con sé a suonare ad un suo concerto; purtroppo avvenne un tragico evento. Ricordo ancora la scena: era una fredda notte di novembre e tutti dormivamo quando mio padre venne svegliato da alcuni strani rumori. Scese nel salone a controllare e lì sorprese un ladro. Questi per nulla intimorito iniziò a colpirlo, ma quando vide che mio padre reagiva prese il primo oggetto appuntito che trovò e lo ferì violentemente alla testa. Cadde a terra con un lamento. Io, che ne frattempo mi ero svegliata ed ero scesa al piano terra, avevo assistito alla scena nascosta dietro alla porta. Scappai di corsa nella mia camera e finsi di dormire. Quando il ladro si accorse che mio padre era morto scappò a mani vuote. Non toccai la spinetta per anni, mi ricordava mio padre e ancora non sopportavo che non fosse più con me. Dopo una paio d'anni dal tragico incidente si presentò un uomo, diceva di chiamarsi Van Halen. Anch'egli, come mio padre, era un noto poli strumentista dell'epoca e si offrì di insegnarmi quello che ancora non avevo imparato. Tuttavia non me la sentivo di riprendere la spinetta che era stata di mio papà, così gli chiesi di darmi lezione a casa sua a suonare, in modo da non utilizzare la spinetta di casa. Lui capì e accettò e da quel giorno mi recai a casa sua una volta a settimana. Un giorno gli chiesi come aveva conosciuto mio padre, mi rispose: “L’ho conosciuto quando eravamo ancora dei ragazzi, studiavamo insieme al conservatorio” Da quel giorno iniziai a fare sempre più domande riguardo il passato di mio padre fino ad arrivare a parlarne normalmente; con il tempo il dolore per la sua perdita si stava attenuando. 45
  • 46. Mi disse che mio padre aveva molto talento e che lui lo aveva sempre invidiato per questo. Parlavamo sempre di lui, spesso mi raccontava sempre degli anni passati al conservatorio e del loro maestro: diceva che era il migliore e che gli insegnava loro brani composti da lui stesso. Nel frattempo io miglioravo con la spinetta, era davvero un bravo insegnate. Mi diceva sempre che avevo lo stesso talento di mio padre, ma ogni tanto potevo percepire un po’ di invidia nelle sue parole. Un giorno decisi che ero pronta per il grande passo: chiesi a Van Halen di tornare a casa mia a fare lezione. Lui accettò subito. Da quel giorno io usai sempre la spinetta di mio padre, ma con il tempo notai che lui la fissava sempre, quasi come se dovesse cercare qualcosa al suo interno. Iniziai a insospettirmi. Gli chiesi sempre più spesso di parlarmi del loro passato e quando notavo l’invidia affiorare, cercavo di approfondire. Iniziai anche a chiedere a mia madre di parlarmi di lui e di mio padre, lei era a conoscenza di molti fatti del loro passato e mi raccontò che da giovani erano rivali, a volte litigavano anche pesantemente e spesso la causa era il loro maestro che preferiva mio padre a lui. Un giorno Van Halen mi raccontò che il loro insegnante, durante una delle ultime lezioni disse ai due che aveva composto un nuovo brano, il migliore che avesse mai scritto e che gli sarebbe piaciuto che uno dei due lo interpretasse, ma solo dopo la morte del maestro. Così lo fece suonare a entrambi e, dopo le rispettive esecuzioni, decise che lo avrebbe interpretato mio padre. Notai che in quel momento disse il nome di mio padre in modo quasi dispregiativo. Nonostante ciò feci finta di niente e gli chiesi di parlarmi di quel brano; disse che avendolo suonato una sola volta non lo ricordava, ma che mio padre aveva gli spartiti e mi chiese se sapevo dove si trovavano. I sospetti crescevano, lo sguardo con cui guardava quella spinetta e il tono di voce dispregiativo che assumeva quando nominava mio padre mi feriva. Ma chi avrei potuto chiedere aiuto? Chi avrebbe ascoltato una ragazza. Sentii un giorno parlare di un pittore e scoprii che anche lui era stato un caro amico di mio padre: Jan Vermeer, famoso in tutta Europa. Chiesi a mia madre come potevo contattarlo, lei mi disse che non viveva lontano da noi, così andai a cercarlo a casa sua e gli chiesi aiuto. Conosceva anche Van Halen e confermò quanto mi aveva detto mia madre e aggiunse anche che il mio maestro non era mai stato neanche lontanamente paragonabile a mio padre e che quel brano di cui mi aveva parlato avrebbe garantito un ingaggio presso qualche nobile. 46
  • 47. Lui fu il primo a cui confessai i miei sospetti: credevo fosse stato Van Halen ad uccidere mio padre e Vermeer si offrì di aiutarmi ad indagare. Lui sarebbe stato ascoltato da qualcuno a differenza mia che ero solo una ragazzina. Ora dovevamo trovare il modo di incastrarlo. Ci pensammo per giorni fino a quando al pittore venne l’idea perfetta: io dovevo imparare il brano composto dal maestro di mio padre e suonarlo fingendo di aver trovato gli spartiti per caso, lui avrebbe sicuramente tentato di uccidere anche me se la causa dell’omicidio fosse stato proprio quel brano. Lui si sarebbe nascosto e al momento opportuno lo avrebbe preso. Era rischioso, ma accettai. Imparai il brano come voleva Vermeer e la settimana seguente lo suonai per Van Halen. A quel punto lui, riconoscendo il brano provò a prendere gli spartiti, ma io glielo impedii. Mi chiese perché non volevo che guardasse la composizione e gli risposi che mio padre era molto geloso di quel brano e non voleva che qualcuno lo vedesse. A quel punto il mio insegnante non si trattenne, prese lo stesso oggetto con cui l’avevo visto uccidere mio padre, ma a quel punto Vermeer uscì allo scoperto e lo colpì alle spalle facendolo svenire. L'assassino venne portato davanti a un giudice, dove confessò tutto e venne condannato. Conoscere chi aveva ucciso mio padre di certo non lo riportò in vita, ma mi tranquillizzò il fatto di sapere che era stata fatta giustizia e l’assassino era stato condannato. Questo quadro è stato realizzato da Vermeer per ricordare mio padre attraverso i suoi strumenti, la viola da gamba e la spinetta, alla quale siedo per iniziare a suonare. Fabio Carnevali 47
  • 48. 10 – Il mistero della spinetta J ohannes V ermeer - L ezione d i musica 48
  • 49. Amanda fin da piccola, come tutte le giovani di buona famiglia, venne avviata allo studio della musica in particolare della spinetta; al compimento del 15° anno divenne una ragazza molto affascinante e curiosa di ciò che la vita poteva offrire. Tra i vari studi e interessi che intraprese le fu consigliato di approfondire in particolare quelli musicali. Per la famiglia agiata di Amanda non fu un problema trovarle un degno insegnante. Fu così che si rivolse al maestro Jan Vignarellì celebre maestro poli-strumentista. Era il giorno della prima lezione, e la ragazza assieme al padre si recò presso la lussuosa abitazione del maestro. Mentre s’incamminavano, s’imbatterono in un bizzarro personaggio con un pennello e una tavolozza in mano, avvolto in un mantello nero. Costui si trovava già di fronte all’abitazione di Jan Vagnarellì. Amanda si chiedeva cosa potesse farci un uomo così, vicino alla lussureggiante abitazione del maestro; probabilmente era un noto pittore considerando il luogo in cui si trovava. Amanda e il padre si fermarono davanti al grande portone dell’ingresso del palazzo in cui abitava Jan Vagnarellì. Si addentrarono nell’atrio nel quale si trovavano tre porte e su indicazione del misterioso pittore che nel frattempo si era avvicinato, andarono in quella sul fondo del grande atrio. Entrarono e qui furono accolti dal famoso maestro. Dopo la presentazione e alcune frasi di convenienza il maestro congedò il padre, anche Amanda salutò il proprio famigliare accordandosi per l’ora del ritorno a casa. Sola con il maestro Vagnarrellì fu invitata nello studio adiacente alla sala. Entrò e rimase incantata, esplorò con lo sguardo quello che le parve subito una splendida stanza da musica. Si accorse della grande luminosità che entrava dalla doppia finestra, tipicamente Olandese che faceva esaltare il pavimento a scacchiera bianco e nero e che creava una particolare prospettiva nella stanza. Girò attorno all’enorme tavolo coperto da tessuto drappeggiato con al centro un vassoio e una brocca bianca. Amanda proseguì verso la spinetta che aveva a fianco una viola da gamba. Il maestro invitò Amanda a provare la tastiera, quest intimidita si avvicinò e vedendosi riflessa nello specchio posto sopra la spinetta, cominciò a suonare timidamente. Jan Vagnarellì capendo l’imbarazzo della ragazza la interruppe e le chiese: “vuole accompagnarmi mentre io canto così potrò meglio comprendere la bellezza di questo strumento?” Fu mentre diceva queste parole che si accorse che tra i vari decori dello strumento compariva una scritta: musica letitiae(me) s medicina dolor (um), la musica è compagna di gioia e balsamo per il dolore. Cominciarono a suonare e cantare. Durante l’esecuzione ci fu un attimo di distrazione e Amanda alzò lo sguardo sopra la spinetta e si accorse che c’era il grande specchio che rifletteva l’immagine del pittore incontrato in precedenza. Si girò verso il maestro e si accorse della strana e particolare somiglianza che aveva con il pittore. Si voltò, il pittore non c’era, ma la sua immagine era ancora riflessa nello specchio. Fu presa da un attimo di smarrimento...e pensò, che mistero e mai questo? Ma…Non sarà che il pittore e il maestro sono la stessa persona? Allora, forse, sopra il spinetta non c’è uno 49
  • 50. specchio, ma un quadro. Se così fosse, pensò, non dovrei vedere il mio viso e nemmeno la stanza si dovrebbe riflettere! Guardò il maestro che impettito teneva il tempo della musica con il suo bastone. Amanda si accorse che Jan Vagnarellì la osservava in modo particolare come se volesse catturare quel momento e imprigionarlo nella memoria…fu lì che capì, forse, lo specchio serviva a questo, non a riflettere , ma a catturare i momenti belli e piacevoli della musica. Se così fosse; dov’era e chi era il pittore? Amanda disse a se stessa che stava farneticando il gioco dello specchio, era forse dato dalla luce. Continuarono a eseguire il brano e improvvisamente le parve di udire il suono della viola da gamba. Non c’era nessuno che la suonava, allora si ricordarono delle lezioni di acustica in cui mi spiegarono che uno strumento a corda può vibrare per simpatia se le corde degli strumenti sono esattamente accordate tra di loro, anche se solo uno strumento suona l’altro, vibra ugualmente. Però…il mistero rimase, i suoni erano troppi e non riproducibili dal solo effetto acustico. E il riflesso nello specchio? C’era ancora il pittore? Sì, questa volta forse dipingeva la scena, a questo pensava la ragazza. Amanda girò di nuovo lo sguardo tutto divenne buio. Sentiva delle voci in lontananza che la chiamavano, aprì gli occhi e si accorse, con meraviglia,che era a casa sua nel suo letto con i genitori e la tutrice che la incoraggiavano a svegliarsi a prepararsi in quanto era in ritardo per la lezione di musica e che doveva affrontare con il grande maestro Jan Vagnarellì. Francesco Guicciardi 50
  • 51. 11 – Maledetta lettera J ohannes V ermeer - D onna c he s crive u na le ttera a lla p resenza d i u na domestica 51
  • 52. Andai ad aprire alla porta. Davanti a me c'era un'altra domestica. Ero sicura di averla già vista da qualche parte, forse al mercato o dallo speziale, ma non avrei saputo dire chi fosse. La salutai, aprendo la porta per farla entrare almeno per cinque minuti. Tirava un vento pazzesco fuori e, malgrado ci fosse il sole, sicuramente non faceva caldo. La fantesca si strinse nello scialle, ma non entrò. Mi porse una lettera senza dire nulla, poi girò i tacchi e se ne andò. Probabilmente aveva altre faccende da sbrigare e forse non voleva impiegarci troppo tempo per via del freddo. Chiusi la porta osservando la liscia superficie della busta, cercando qualcosa che potesse aiutarmi a capirne la provenienza. Non c'era scritto il mittente, ma comunque non sarebbe stato d'aiuto dato che non sapevo leggere. Sul sigillo di ceralacca era impresso lo stemma della città di Rotterdam, dove vivevamo. Probabilmente erano brutte notizie per la mia padrona. La famiglia dove lavoravo era composta da sole due persone, tre aggiungendo me. Erika, la mia padrona, aveva solo diciotto anni, mentre la sorellina Charlotte appena dodici. Avevano un legame speciale, fortissimo e indissolubile, come quello che nasce dopo un periodo difficile e una grande disgrazia. Due anni prima,infatti, i genitori delle ragazze erano morti schiacciati da quel morbo terribile che chiamano peste. Io lavoravo per i loro genitori da molto tempo, fin da quando avevo quattordici anni. Loro mi stimavano molto perché ero discreta ed eseguivo alla perfezione le mie faccende, inoltre non ficcavo il naso nei loro affari, cosa per cui tutte le domestiche erano ben note. I miei padroni non erano nobili, ma a forza di lavorare si erano arricchiti notevolmente e avevano comprato la casa dove noi vivevamo ancora. Era veramente grande, già per cinque persone era enorme, per tre era immensa. O almeno così mi sembrava, abituata com’ero alla mia piccola casetta dove abitavo prima di iniziare a lavorare per loro. Erika non aveva avuto il coraggio di venderla perché le ricordava i bei momenti passati con i genitori. Inoltre, le sembrava di vanificare i loro sforzi, perché avevano lavorato tanto per permettersi una casa del genere. A dir la verità anche io mi ero affezionata a quella casa e mi sarebbe dispiaciuto molto andarmene. Quando i genitori erano morti, Erika aveva solo sedici anni e non sarebbe mai riuscita a prendersi cura di tutto da sola. Così mi tenne a servizio da loro. Le aiutai moltissimo in quel periodo, e loro aiutavano me dandomi quella paga che mi permetteva di mantenere la mia famiglia, o quanto meno dare un piccolo contributo: avevo tre sorelle da mantenere. Conoscevo molto bene Erika e Charlotte: le avevo sempre seguite io, Charlotte l’avevo addirittura vista nascere. Erano entrambe molto tranquille e giudiziose. Erika ormai era diventata adulta e si occupava da sola della gestione della casa. Insegnava 52
  • 53. spesso alla sorella a svolgere i normali lavori di una donna: le mostrava come cucire, rammendare, ricamare, cucinare, stirare… e da qualche tempo aveva iniziato ad insegnarle a leggere e scrivere. Scrivere era infatti la grande passione di Erika. Una volta, mentre lei era al mercato, Charlotte aveva iniziato a leggermi uno dei racconti della sorella. Quel giorno rimasi sorpresa dal suo talento, e mi chiesi come mai non me ne aveva mai parlato prima. Da qualche tempo, però, i soldi lasciati dai genitori iniziavano a scarseggiare. Avevano debiti ovunque: dal macellaio, dal fornaio, dallo speziale, persino al banco dove compravamo il pesce. Non c’era giorno che non ci arrivasse una lettera che ci ricordasse i nostri mancati pagamenti. Proprio come dal fondo dell’oceano buio non si vede la luce del sole che splende in superficie, noi eravamo sommerse dai debiti e non vedevamo una via d'uscita. Per questo appena arrivavano lettere avevo smesso di sperare che fossero buone notizie. Lasciai cadere nel secchio lo straccio che stavo usando per pulire i vetri e che tenevo ancora in mano e salii le scale. Trovai Erika e Charlotte in quella che un tempo era stata la grande e lussuosa sala da pranzo, con un lungo tavolo di legno pregiato, preziosi arazzi venuti da lontano e un grande lampadario con le candele ormai consumate. Ora la stanza non sembrava più quella di una volta: l’aria era impregnata di un forte odore di solitudine che si percepiva in ogni angolo e tutto si era fatto più cupo e spento, o forse appariva così ai miei occhi tristi. Anche i quadri e gli arazzi che raccontavano storie incredibili e meravigliose sembravano aver perso la brillantezza e la vivacità ed erano diventati tristi figure che riposavano afflitte su uno sfondo grigio, senza alcuna traccia di vitalità. Le ragazze erano sedute vicine e lavoravano in sintonia. Charlotte stava rammendando il suo grembiule ormai logoro, la sorella sembrava osservare il suo lavoro; in realtà fissava il vuoto con occhi assorti. In mano aveva un foglio pieno di calcoli. -È arrivata una lettera, signora. - le dissi. Lei si alzò e venne verso di me con aria stanca, forse sapeva già di cosa si trattava. Allungò la mano con un gesto automatico e fece per aprire la lettera, ma quando passò lo sguardo distratto sul sigillo, si fermò, aggrottando le sopracciglia. -Charlotte, vai a prendere l’acqua alla fonte, tra poco è ora di pranzo. – 53