2. Adotta un quadro
di Vermeer
Racconti in scrittura collaborativa
classe I B Liceo “G.Pico”
Mirandola – MO
A.S. 2013-14
iisgluosi Edizioni
2
3. “Adotta un quadro di Vermeer”
Racconti in scrittura collaborativa
by:
Gianluca Barelli, Matteo Battilani, Chiara Belloni, Cindy Berti, Miriam Calzolari, Sara Campagnoli, Fabio
Carnevali, Luca Cavicchioli, Hajar Ezzaki, Martina Fattori, Rossella Grana, Francesco Guicciardi, Gaia
Lodi, Rossana Magliocca, Giada Mantovani, Valentina Marando, Monica Massarenti, Chiara Moretti, Alice
Penzo, Rebecca Pignatti, Lisa Polo, Giulia Sbardellati, Mihaela Scurtu, Alessia Vescovini, Chiara Voza.
A cura di: Marina Marchi, Emanuela Zibordi
I edizione, Settembre 2014
Licenza: Creative Commons BY- NC - SA 3.0 Italia
Realizzazione a cura di iisgluosi Edizioni
via 29 Maggio, Mirandola, MO
http://www.iisgluosi.com
ebook a cura di Emanuela Zibordi
Copia di questo ebook in .epub e .mobi qui:
http://www.emanuelazibordi.it/wp/ebooks/
3
4. Prefazione
La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, con la Gioconda di Leonardo e L’urlo di
Munch, è unanimemente riconosciuta come una delle tre opere d’arte più note, amate e
riprodotte al mondo.
Dall’8 febbraio al 25 maggio 2014, il capolavoro di Vermeer è stato in Italia,
precisamente a Bologna, a Palazzo Fava, in una mostra unica, che ha ripercorso il mito
della Golden Age. Per la prima volta è stato possibile ammirarla in Europa al di fuori
della sua sede storica da dove, conclusa la mostra bolognese, probabilmente non
uscirà mai più. La scuola non è rimasta indifferente a tale avvenimento e proprio perché
inserita all’interno di un contesto territoriale, che la influenza , ne ha saputo cogliere
spunti, ma anche momenti di riflessione e condivisione con l’intera comunità.
Questo fatto è stato così il motore di un percorso tematico che è ruotato intorno al
famoso quadro di Vermeer, partendo dalla visione dell’opera d’arte, passando
attraverso il romanzo omonimo di Tracy Chevalier per approdare poi alla visione del film
del regista Peter Webber del 2004.
Il ritratto de La ragazza con l’orecchino di perla evoca bellezza e mistero e il suo volto
da oltre tre secoli continua a stregare coloro che hanno la fortuna di poterla ammirare
dal vero, o che magari l’hanno scoperta per la prima volta attraverso i romanzi e il film,
di cui la bellissima ragazza dal copricapo color del cielo è diventata, forse suo
malgrado, protagonista.
Il quadro e il romanzo ci hanno offerto lo spunto per ripercorrere un po’ tutti i quadri
dell’artista, sia quelli di certa attribuzione che quelli incerti e con i loro colori, con i loro
chiaroscuri e le loro figure hanno ispirato un “laboratorio di scrittura creativa”.
Ogni studente ha così adottato un quadro di Vermeer, scegliendolo fra quelli elencati
e attribuiti al pittore da una ricerca effettuata su Wikipedia.
L’analisi e la descrizione di ogni quadro è stata fatta nelle lingue straniere, che i
ragazzi studiano a scuola, inglese, francese e tedesco. Poi intorno ad ogni quadro è
stata creata una storia, un racconto, che ha preso spunto dalla ricerca del soggetto del
quadro, dalla motivazione del quadro o dal personaggio ritratto nel quadro stesso.
Dopo un attento studio della storia e della realtà del Seicento, epoca in cui sono state
per lo più ambientate le storie create dai ragazzi, gli studenti hanno potuto vedere tutto
il percorso creativo dello scrittore, anche grazie ad un incontro con Marco Fregni, autore
di racconti e poesie (Al di là di ogni aldilà e Dialoghi con il padre). Il laboratorio di
scrittura è partito dall'ispirazione per passare poi all’ideazione e lo sviluppo della trama,
4
5. si è soffermato sulla costruzione e caratterizzazione dei personaggi e le tecniche
narrative, fino ad arrivare alla revisione.
Apprendere tecniche di scrittura narrativa, confrontarsi con i propri compagni e
consultarsi per le scene dei propri racconti, porsi in ascolto e riscoprire il piacere della
lettura, mettersi alla prova, conoscere qualche segreto del mestiere dello scrittore: il
laboratorio di scrittura è stato un po’ tutto questo, oltre ad un modo pratico e divertente
attraverso il quale ritrovare la propria creatività.
Per produrre la stesura definitiva dell’opera si sono utilizzati diversi strumenti
informatici:
1- Documenti di Google Drive per la scrittura cooperativa;
2- Open Office per la revisione off line, la gestione delle immagini, la prima bozza di
epub e quella definitiva in pdf;
3- Sigil per il perfezionamento del file per dispositivi mobile;
4- Calibre per l'edizione per Kindle.
che hanno sollecitato competenze caratteristiche del Web 2.0, così come si utilizzano
ormai diffusamente per redigere documenti digitali a più mani, sia scientifici sia
umanistici.
Marina Marchi
Emanuela Zibordi
5
6. Contenuti
1 - Fortuna improvvisa
2 - Le lettere nascoste
3 - Una lettera misteriosa
4 - Maria Elisabetta - L'inizio
5 - Maria Elisabetta – Il ricatto
6 - Maria Elisabetta – La nuova vita
7 - Scienza in corso
8 - Il sentiero dei garofani rossi
9 - Un brano misterioso
10 - Il mistero della spinetta
11 - Maledetta lettera
12 - Il chicco di riso
13 - La storia di Philip
14 - Era vero amore?
15 - L'ultima lettera
16 - Ti scrivo da Berlino...
17 - La melodia finale
18 - Quella porta aperta
19 - Un nuovo inizio
20 - Un volto dal passato
21 - L'attesa
22 - La peccatrice
23 - Jaimy
24 - Il cappello rosso
25 - Spettacolo di canto
6
7. 1 – Fortuna improvvisa
J ohannes V ermeer - L a lattaia
7
8. Erano le undici di sera ed eravamo tutti a dormire fino a quando all'improvviso si sentì
una finestra rompersi, di conseguenza scesi le scale e andai a vedere intanto che le
donne della servitù si calmavano. Immaginai che fossero i teppistelli che solitamente
vanno di casa in casa per riuscire a raccogliere qualcosa in denaro o rubare oggetti di
lavoro per venderli dopo.
Una volta sceso mi ritrovai tre fratelli, tutti all'incirca di otto anni, che tenevano in
mano un cesto di legno che già conteneva un soprammobile di inestimabile valore sia in
denaro sia morale per me, dato che me lo aveva regalato mia madre prima di morire a
causa dell'epidemia di peste. Uno di loro si voltò di scatto e appena mi vide ordinò agli
altri due di rimettere a posto tutto, perché erano stati scoperti e che, questa volta,
sarebbero andati nei guai.
“Chiedo scusa, signore. Noi lo facevamo solo per poter mangiare e dare a nostra
madre un momento di sollievo. Ci perdoni,signore, noi non verremo più a disturbarla e a
derubarle qualcosa.” mi disse uno di loro. Li osservai bene e notai che indossavano
pantaloni larghi molto vecchi di un marrone sbiadito e una maglietta grigia tutta
strappata e sporca di fango a causa che fuori aveva appena finito di piovere e il terreno
era molto umido. “Bambini,ditemi quanti anni avete e i vostri nomi. E parlatemi della
vostra situazione a casa.” questi ragazzini mi incuriosivano e volevo veramente sentirne
la storia.
Volevo capire il motivo di quello che avevano appena fatto e cosa li spingeva a ciò. I
miei pensieri vennero interrotti bruscamente dal richiamo della mia amata moglie in
camera da letto che mi chiedeva cosa stesse succedendo in sala e quindi le risposi che
sarei arrivato tra pochi minuti e che stavo chiarendo la situazioni con dei bambini, lei
non mi rispose ma pensai che avesse capito quindi ritornai a guardare in faccia il bimbo
che poco prima si era scusato.
“Signore, io sono Alexander e questi sono i miei fratellini Daniel e Andreas. Io ho nove
anni e loro, essendo gemelli, hanno entrambi cinque anni e mezzo. Sono giorni ormai
che giriamo per la città alla ricerca di qualche moneta o qualcosa da vendere perché noi
e nostra madre stiamo morendo di fame. Nostro padre è morto un anno fa e da allora
fatichiamo a sopravvivere e nostra madre era una semplice serva presso una famiglia
che, però, la licenziò per sospetto che lei avesse rubato loro una collana d'oro. Quindi
lei è rimasta senza un'occupazione e noi cerchiamo di aiutarla.”
“Domani, bambini, portate vostra madre qua che le voglio parlare riguardo a ciò che
avete fatto. Però potete stare tranquilli perché non vi farò denuncia! Andate a casa,
buonanotte!”. Li accompagnai alla porta e li salutai con la mano quando si
allontanarono, mi era venuta in mente una brillante idea e di ciò ne avrei discusso con
tutta la famiglia la mattina seguente.
Il giorno dopo, poco prima di fare colazione, svegliai la mia amata e gli raccontai di
tutta la conversazione avuta con i giovanotti della notte e le parlai della mia idea e lei,
8
9. insicura sul da farsi, accettò. Scendemmo giù in cucina e chiesi a Matilda, nostra serva
da ormai sette anni, di preparare due tazze di caffellatte per noi due e di mettere a
riscaldare il latte per i nostri quattro figli che ancora dormivano e che l'altra serva Greta
stava andando a svegliare.
Subito dopo aver fatto il pasto più importante della giornata, sentimmo suonare il
campanello e corsi alla porta per aprire e dissi a mia moglie di essere cortese con la
nostra ospite e futura domestica. Salutai la donna dall'aria disperata e la feci
accomodare nella sala dove avevo parlato la notte scorsa coi suoi bambini dove,
attualmente, c'era mia moglie.
“Signore, chiedo perdono dell'intrusione dei miei figli nella vostra casa successa ieri
notte. Sono dispiaciuta del vetro della vostra finestra rotto.” “Non vi scusate, i vostri figli
mi hanno parlato della perdita di vostro marito e del suo lavoro e vi abbiamo chiamata
qua al fine di chiederle se voleva venire a lavorare qua come domestica per poter
sfamare i suoi figli e essere più tranquilla. Accetta?”
La madre dei ragazzi mi guardò stupita e dopo aver realizzato che ciò che le avevo
chiesto era vero e non si trattava di un sogno lei sorrise prima a me e poi volse lo
stesso sorriso alla mia compagna e ciò mi sollevo l'umore.
“Signore, certo che accetto. Grazie mille, pensavo che questo non sarebbe mai
successo e finalmente ricevo una proposta di lavoro. Sarei veramente incosciente se
non accettassi e poi se non le avessi detto di sì avrei fatto probabilmente del male ai
miei tesori, ai miei figli che tanto amo”. Aveva un bellissimo sorriso sul viso ed ero felice
per ciò che avevo fatto.
*quattro mesi dopo*
Ero lì, seduto nella sala e stavo sorseggiando la mia tazza di tè e stavo riflettendo sul
mio prossimo quadro e al mio prossimo soggetto. Andai in cucina per posare la tazza e
vidi Anita, la domestica assunta quattro mesi fa, versare del latte in una ciotola che poi
sarebbe stata riempita con i cereali per i miei figli. Subito mi ispirò, non era una cattiva
idea immortalarla in quell’azione quotidiana. Lei era impegnata, concentrata nel suo
lavoro per portare a casa dai figli un po’ di monete per sfamarli e per permettergli di
andare a scuola e ne ero molto soddisfatto e in qualche modo la dovevo premiare. Salii
in fretta e parlai con la mia amata compagna della mia idea e lei mi disse che se lo
meritava per tutto il duro lavoro che faceva e per la gentilezza che aveva nei nostri
confronti, il ricavato dalla vendita del quadro gliene avrei dato una parte in modo da
mandarla a vivere da sola senza doversi occupare di cucinare per persone che non
erano la sua famiglia e, magari, lei voleva andare in un’altra casa e cambiare un po’ o
voleva cercare un nuovo compagno di vita che così poteva mandare avanti lei stessa e i
suoi bambini.
Dopo aver riflettuto su come avrei voluto dipingerla presi la tela e i colori che mi
servivano per stendere la base e per rifinire le forme e di conseguenza i colori e tutti i
particolari dell’immagine. Mi diressi nel mio atelier e osservai l’angolo della finestra e ci
misi un piccolo tavolino e ci appoggiai degli oggetti che avevo preso in prestito dalla
9
10. cucina come uno straccio blu che le domestiche usavano per asciugare i piatti, una
cesta di pane di cui riposi delle pagnotte sparse sul tavolo, infine, una brocca d’acqua.
Sullo sfondo non avevo ancora notato che per terra c’era il mio scaldino per i piedi che
usavo in inverno e che sul muro erano appese un cestone e una piccola lanterna. Mi
piacque subito questa atmosfera, così andai a chiamare Anita e le proposi di posare per
il quadro. Lei non rifiutò, pensando che io potessi darle una parte del ricavato, io
ovviamente non le dissi nulla.
*cinque settimane dopo*
Avevo finito il quadro e avevamo tutti visto il risultato, era venuto molto bene ed ero
soddisfatto della mia idea e di come avevo dipinto. Quel giorno erano venuti più di dieci
committenti a vederlo e ciò dimostrava che avevo realizzato un capolavoro ancora una
volta e che questo quadro mi avrebbe fatto guadagnare tanto. In questo modo sarei
riuscito a dare una parte alla mia “modella”. Anita era l’unica domestica che avevo
assunto perchè mi stava a cuore la sua storia, perciò desideravo il meglio per lei. Una
volta venduto il quadro, la sera stessa iniziai a fare i conti con la mia famiglia e il mattino
dopo avrei dato le monete ad Anita e , con forte dispiacere, l’avrei licenziata.
Il mattino seguente, verso le dieci, la chiamai in sala e lei, in breve tempo, mi
raggiunse preoccupata chiedendomi che cosa lei avesse combinato e se avesse
sbagliato qualcosa nelle pulizie. Le risposi semplicemente che non aveva commesso
nessun errore ma che la volevo premiare, lei era rimasta stupita dalla mia affermazione
e mi chiese subito che cosa intendessi dire. Arrivò mia moglie e le diede un sacchetto
pieno di monete, dicendole “Anita, noi ti ringraziamo per tutti questi pochi mesi che hai
lavorato da noi e grazie per aver posato per il quadro. Questa è una parte del guadagno
di ieri, te la sei meritata. Purtroppo ti dobbiamo dire anche che, volendo il meglio per te
non vogliamo vederti lavorare in queste misere condizioni e ti licenziamo. Noi vogliamo
che tu ti possa trovare un marito, che tu accudisca i tuoi figli e la tua famiglia. Ti
auguriamo tutta la fortuna possibile.”. Era senza parole quando io finii il discorsetto che
mi ero preparato la sera prima. L’unica cosa che lei riuscì a dire fu un “Grazie.”
sussurrato. Quella fu l’ultima giornata che la vidi, se ne era andata con un sorriso
stampato in viso e, da quanto ero venuto a sapere, lei, dopo un mesetto o due, riuscì a
trovare un compagno per giunta benestante così si risposò. Insomma, aveva iniziato
una nuova vita. Alexander, Daniel e Andreas stavano frequentando la scuola, lei era
casalinga e, secondo le voci del paese, era incinta del quarto bambino, infine lui era un
ricco mercante. Stavano bene loro e stavo bene anche io perché avevo fatto una buona
azione verso qualcuno che mi stava a cuore. Grazie a me era iniziato un capitolo felice
della loro vita e su questo, non c’era soddisfazione più grande per me.
Rossana Magliocca
10
11. 2 – Le lettere nascoste
J ohannes V ermeer - D onna in a zzurro c he le gge u na lettera
11
12. "Sophie, riordina i vestiti e tu Carol aiutala a rimetterli in ordine. Bea tu aiutami a
preparare il cibo perchè papà oggi torna a pranzo."
Era raro che nostro padre tornasse a casa per pranzo quindi quelle poche volte
volevamo che la casa fosse pulita e in ordine al suo rientro. Essendo la sorella
maggiore, spettava a me occuparmi delle faccende domestiche e badare alle mie tre
sorelline, Beatrice e le due gemelline di 8 anni, Sophie e Carolina, che erano una
l’opposto dell’altra, sia come modo di fare, sia come aspetto esteriore. Sophie aveva
preso gli occhi da papà, color blu mare e i capelli mori mori dalla mamma, per quello
che posso ricordare di lei; Carol invece aveva preso tutto da papà, biondina con gli
occhi azzurri. Sophie amava le favole, le principesse e le fate, mentre Carol desiderava
diventare una naturalista come Beatrice; Bea di 10 anni era la più tranquilla di noi
quattro e stava delle ore in giardino a curare le sue piante e i suoi fiori e ad osservare
gli insetti assieme a Carol.
Lei assomigliava in tutto a mamma, come diceva sempre papà, mora con gli occhi
color castano. Io, invece, 3 anni maggiore a Beatrice e 5 alle gemelline, mi distinguevo
da tutte loro e avevo gli occhi color verde e i capelli castano chiaro; probabilmente
avevo preso da qualche nonno.
Avevo cinque anni e mezzo circa quando la mamma sparì completamente dalla mia
vista. Io ricordo poco di lei poiché ero ancora troppo piccola per capire quanto fosse
grave la mancanza di una persona cara come la mamma; ricordo quando lei alla sera
prima di andare a letto si recava nella mia cameretta e mi cantava sussurrando, per
farmi addormentare, una dolce canzone di cui non ho mai saputo il titolo, con una voce
cosi delicata e amorevole da far precipitare in un tempo brevissimo le palpebre. Poi
ricordo quando mi coccolava, accarezzandomi o pettinandomi i capelli con mano
leggera senza mai stancarsi. Quando io avevo 3 anni e nacque Beatrice, fui la prima
persona a cui diede in braccio la neonata, alla sera andavamo sempre insieme nella
sua cameretta a cantarle la ninna nanna.
Papà non ci ha mai raccontato il motivo della morte della mamma e neanche a me
che sono la maggiore, non ci ha mai parlato di lei a parte ogni tanto, quando gli capitava
davanti un oggetto o qualcosa che la ricordasse.
Una o due volte al mese arrivavano delle lettere per papà che mi hanno sempre
incuriosita, ma non ho mai saputo chi gliele mandasse, da dove provenissero e dove le
nascondeva; ho sempre pensato che magari fossero lettere di qualche nuova donna
che stava iniziando a frequentare o magari solamente lettere di lavoro, ma non sono
mai andata a rovistare nel suo studio.
Di solito mi recavo ogni domenica al mercato del paese per delle commissioni e in
una di queste incontrai Peter, il figlio del fornaio, con cui giocavo sempre da piccolina.
Io e Peter molto probabilmente provavamo gli stessi sentimenti; io piacevo a lui e lui
piaceva a me, ma la cosa che preferivo maggiormente erano i suoi occhioni azzurri che
12
13. mi guardavano con aria dolce. Papà si era accorto che c'era qualcosa tra me e lui
poiché la gente qui nel paese andava a riferire tutto quello che vedeva.
Una sera, eravamo tutte e quattro pronte per andare a letto, tutte già sotto alle
coperte al buio, e Carol improvvisamente si era alzata e aveva esclamato: " Ragazze mi
manca tanto tanto la mamma" poi era scoppiata a piangere. Tutte ci eravamo alzate, io
per prima, l'avevo presa in braccio e ci eravamo messe tutte sul mio letto a parlare della
mamma mentre io intanto la coccolavo. Sophie disse: " Ma se lei si è dimenticata di
noi? E magari se ne è andata perché non ci voleva più". A tutte mancava tanto la
mamma ma io, essendo la più grande e la più matura, dovevo tranquillizzarle e
rassicurarle; io le avevo prese tutte e tre fra le mie braccia e avevo detto loro:" Bambine
non dovete preoccuparvi, la mamma sta benissimo e di sicuro di noi non se ne
dimenticherà mai come noi non lo faremo di lei. E' andata in un posto migliore da dove
ci segue in tutte le ore del giorno". Ci eravamo abbracciate forte forte da vere sorelle poi
ognuna di noi era ritornata nel proprio lettino a dormire.
Era domenica mattina e il cielo era grigio, molto probabilmente sarebbe piovuto da un
momento all’altro, quindi non ero andata al mercato ma mi ero dedicata solamente alle
pulizie di casa. Avevo appena finito di pulire la nostra cameretta e quella di nostro padre
quando mi sono recata per la mia prima volta nello studio di mio papà per curiosare un
po’; c’ erano pile di fogli e buste dappertutto, tutto era in disordine con carte a terra e
polvere sopra ai mobili e alla scrivania; avevo iniziato a rovistare nelle buste per trovare
quelle famose lettere che arrivavano una o due volte al mese e che probabilmente non
si trovavano sulla scrivania, dove c'erano solo quelle di lavoro. Avevo deciso di rovistare
in tutti i cassetti ma anche qui avevo trovato nulla. Ad un certo punto avevo visto sul
tavolo una specie di bauletto color marrone chiuso con un lucchetto d’oro; sembrava
uno di quei bauletti del tesoro, ma dovevo assolutamente trovar la chiave per aprirlo e
scoprire cosa c’era al suo interno.
Avevo iniziato a scaraventare tutto quello che mi trovavo davanti, stando attenta però a
non rompere niente di importante o che comunque si potesse ammaccare.
Ero riuscita a trovare la chiave dentro il cassetto del comodino di papà di fianco al letto.
Mi ero seduta sulla sedia della scrivania di mio padre con il bauletto appoggiato sulle
ginocchia e la chiave nella mano tremolante; avevo aperto il bauletto facendo quattro
giri di chiave e subito avevo visto un plico di lettere e sfogliandole avevo scoperto che
non erano le solite lettere di lavoro, ma provenivano tutte dallo stesso posto “Serdine”
(che ricordavo non molto lontano da qui), ma sopra non c’era scritto il mittente. Cosi
avevo iniziato ad aprirle ed ero rimasta sopraffatta poiché tutte queste lettere erano
state mandate dalla mamma “Giovanna Luce” e l’ultima inviata era solamente della
settimana prima.
13
14. Avevo deciso di recarmi a Serdine per scoprire la verità, di conseguenza avevo
raccontato anche alle mie sorelline la faccenda. Eravamo partite dopo pranzo senza
dire niente a papà, ma lasciandogli un biglietto di fianco il bauletto aperto.
Avevamo camminato per più di un’ora e mezza e poi avevamo visto il cartello con la
scritta SERDINE in grassetto e avevamo iniziato a correre fino a quando eravamo
arrivate in piazza dove quella poca gente che c’era girava sotto i viali.
Avevamo chiesto ad un uomo alto e magro magro dove si trovava questo posto scritto
su tutte le lettere: “ospedale Camirana”. Avevamo dovuto camminare per un’altra
mezz’oretta fino a quando ci eravamo trovate questo edificio enorme, tutto in mattoni e
silenzioso.
Siamo entrate col cuore che batteva più forte che mai e avevamo iniziato a guardarci
in giro dove c’erano solo persone vestite di bianco, infermieri, carrozzine e malati che
urlavano dalle loro stanze.
Avevamo trovato un dottore e dopo aver chiesto ci avevano detto che la mamma si
trovava nella stanza 13 a sinistra. Man mano ci avvicinavamo a quella stanza tutte e
quattro ci stavamo stringendo la mano forse dalla paura e dalla felicità insieme. Quando
siamo arrivate davanti a quella stanza abbiamo aperto la porta, davanti a noi c’era
nostro padre che dava la mano a nostra madre addormentata.
In quel momento non sapevamo come comportarci, siamo rimaste immobili davanti a
quella situazione mentre nostro padre si era alzato dal letto e ci era venuto incontro
piangendo.
Aveva iniziato a chiederci scusa per non aver mai raccontato della mamma perchè
aveva sempre avuto paura, non voleva farci vedere la mamma in quelle condizioni,
dopo una malattia che da più di 8 anni la perseguitava.
Ci eravamo seduti tutti insieme sul letto della mamma e in quel momento aveva aperto
gli occhi forse perché aveva sentito il calore della nostra famiglia e la felicità di tutti noi.
Non riusciva a parlare ma riusciva a scrivere e comunicavamo scrivendo su una sua
agenda dove sfogliando avevo visto tutte le nostre foto di Natale di tutti gli anni e di
quando eravamo piccole. In quel momento gli occhi mi si sono gonfiati di lacrime fino a
quando non sono scoppiata a piangere.
Da quel giorno tutti i giorni sono andata a trovare la mamma con le mie sorelline fino a
quando lei a causa di quella sua malattia morì dopo 5 anni.
Ora sono qui a casa che aspetto Peter che torni dal lavoro e aspetto anche Kevin il
nostro bambino, che tra qualche mesetto nascerà. Intanto rileggo l’ultima lettera della
mamma che ci aveva mandato due settimane prima di morire e le lacrime mi segnano il
volto.
Martina Fattori
14
15. 3 - Una lettera misteriosa
J ohannes V ermeer - L ettera d ’a more
15
16. Era inverno. Odiavo quella stagione in Olanda, perché la casa era sempre
particolarmente fredda durante quel periodo. Non che fosse più calda nelle altre
stagioni, ma almeno il sole dava un’ illusione di tepore.
Il sole quel giorno non c’era, ma io avevo comunque preso la mia decisione, anche se
le condizioni non erano perfette; avrei dipinto la mia padrona mentre suonava.
La lettera che avevo scritto qualche giorno prima probabilmente era andata persa in
mezzo a tutta l’altra posta che entrava in quella casa, non era stata una grande idea.
Ma anche se l’avesse letta, non avrebbe mai ricambiato i miei sentimenti essendo io un
servo e lei una dama. Sospirai e preparai i colori, probabilmente avrebbe cominciato a
suonare da un momento all’altro. La stanza in cui mi trovavo era sopra il soggiorno
dove lei stava e potevo sentire ogni suono che proveniva da lì; era inoltre collegata a
uno sgabuzzino tramite una scala a chiocciola che dava perfettamente sul salone; per
dipingere senza essere visti, quello era un luogo perfetto. Sentii della musica. “è ora di
andare.”
La dama era seduta su uno sgabello, sulle sue spalle era posato uno scialle di
ermellino e indossava un voluminoso abito giallo. Al suo grembo poggiava il mandolino,
e con leggiadri movimenti delle dita stava suonando una meravigliosa musica. Rimasi
incantato per qualche secondo osservandola, ma ritornai alla realtà pensando al quadro
che dovevo dipingere. Socchiusi le ante che davano sul soggiorno senza fare
movimenti bruschi e cominciai a tirare fuori i colori. Fortunatamente avevo tempo per
dipingere perché la mia padrona passava molte ore a suonare, forse perché le
ricordava suo marito.
Il mio padrone era infatti morto 2 anni fa di tifo, e ancora la dama non era riuscita a
dimenticarlo. Da quel momento i giorni felici finirono e sulla grande casa calarono un
freddo e buio eterni. Se prima i miei padroni suonavano ogni giorno, lui il flauto e lei il
mandolino, ora si sentiva solo un eco di uno strimpellare solitario. Chiunque si trovava
nelle vicinanze, era pervaso da un sentimento di tristezza ascoltando quella melodia. La
sua musica era monotona perché da quando lui era scomparso anche l’ispirazione se
n’era andata.
Incominciai a dipingere e, come se lei avesse capito che la stavo ritraendo, compiva
movimenti lenti e leggeri in modo da non muoversi più di tanto. Dopo alcune ore avevo
quasi finito il quadro, mi mancavano soltanto le ultime pennellate.
“Signora Roxanne!” disse Jodie, una serva, interrompendo la melodia.
La padrona non si era accorta che la ragazza era entrata nella stanza e, un po’
meravigliata, un po’ seccata le rispose:”Cosa c’è?”
“è arrivata una lettera un po’… strana.”
“Spiegati meglio.”
16
17. “Ecco.. Non ha il mittente!”
“Fammela vedere.”
Jodie teneva in mano la lettera e appena sentito l’ordine gliela porse con un sorriso
divertito sulle labbra. Probabilmente l’aveva letta, pensai io. Ma nel guardare meglio
capii cosa stava succedendo e un senso di panico mi pervase; quella era la mia lettera!
Pensavo di averla firmata, ma probabilmente nell’agitazione del momento mi dimenticai
di scrivere il mio nome. Anche se avevo origini umili e non andavo a scuola, da piccolo
mio padre mi aveva insegnato l’alfabeto e qualche frase,che a sua volta aveva imparato
da un maestro. Ero molto contento di questo, perché in quell’epoca saper scrivere era
un lusso.
Volevo entrare nella stanza e riprendermi quella lettera, ma cosa avrebbe pensato dopo
la padrona? Ci sarebbero state molte domande che avrebbe potuto rivolgermi, e sarei
sicuramente finito fuori di casa. Quindi mi calmai e pensai che comunque non avrebbe
mai saputo chi l’avesse scritta e ritornai a dipingere tranquillo. Aggiunsi anche Jodie per
riempire il quadro.
Nel frattempo la padrona Roxanne stava leggendo con occhi attenti la lettera. Non
riuscivo a capire che cosa stesse pensando. Quando finì di leggere, guardò con aria
interrogativa la serva e finalmente parlò.
“Si tratta di uno scherzo, vero?” chiese a Jodie.
“Non lo so signora,io l’ho solo trovata tra la posta.”
“è sicuramente uno scherzo di qualche uomo che vuole approfittare di me.” E, detto
questo, la strappò. Capii che che forse era spaventata, ma il mio cuore fece comunque
un sussulto.
“Gettala via, per favore.” Ordinò la padrona a Jodie. E ritornò a suonare, mentre io, col
cuore spezzato, mi rifugiavo nella mia stanza lasciando il quadro incompiuto.
I giorni passavano. L’inverno finì in fretta lasciando spazio alla primavera. Ogni volta
che finivo i miei lavori in casa andavo in giardino a disegnare fiori, animali, alberi,
nuvole, oppure la gente che passava. Non davo più importanza alla storia della lettera,
sapevo che comunque la signora non avrebbe mai accettato i miei sentimenti.
“Cosa disegni?” Non mi accorsi che la padrona era di fianco a me. Non rispondendole,
le mostrai gli schizzi.
“Che belli,sei proprio bravo” arrossii , e lei aggiunse: “allora forse ho capito da dove
viene quel quadro.” Arrossii ulteriormente “Di che quadro parla signora?”
“Qualche tempo fa ho trovato un quadro nello sgabuzzino del soggiorno, e non sapevo
da dove provenisse … Non è che lo hai fatto tu?”
Sospirai e le spiegai tutto col cuore in gola, preoccupato per le conseguenze di quelle
parole. Le rivelai i miei sentimenti e le dissi anche della lettera, e lei non batté ciglio.
Alla fine del discorso, rimase in silenzio per alcuni minuti, non sapendo che cosa dire.
17
18. Trovò le parole giuste e mi disse sorridendo: “Sei proprio un bravo ragazzo.”, e se ne
andò dal giardino, lasciandomi solo e confuso.
Quando rientrai in casa sentii nell’aria una dolce melodia; la padrona stava
componendo una nuova, bellissima canzone. Ero estremamente sorpreso; Jodie mi
venne di fianco e mi sussurrò: “La signora ha ritrovato l’ ispirazione! Non è forse
fantastico? Chissà cos’è successo..”
Senza risponderle andai verso il soggiorno: la dama era lì, con il mandolino tra le
mani e con un dolce sorriso sulla bocca. Indossava gli stessi vestiti con cui l’avevo
ritratta.
“Sapevo saresti venuto.” Disse. “Grazie a te ho ritrovato l’ispirazione, e di questo ti
ringrazio moltissimo. Voglio che tu finisca il quadro.” Mi guardai intorno e lo vidi,
incompleto, su un cavalletto davanti a Roxanne.
“Puoi finirlo, anche se Jodie non è qui.”
Sia felice sia nervoso, mi sedetti su uno sgabello posizionato davanti al cavalletto e
sorpreso trovai i miei colori su una tavolozza. Erano rimasti ancora nello sgabuzzino da
quel giorno in cui avevo interrotto il quadro. Sorrisi e cominciai a dipingere. Era molto
più bello lavorare senza la paura di essere scoperto e con una canzone di sottofondo
tanto melodiosa.
In due ore finii il quadro e lei venne a vederlo; era sinceramente contenta.
“D’ora in poi voglio che tu dipinga per me, vuoi farlo?” mi chiese.
“Ne sarei onorato” risposi.
E, sorridendomi, ritornò al suo posto a suonare.
Io andai nella mia camera soddisfatto; finalmente avevo finito il quadro e avevo rivelato
alla padrona i miei sentimenti. Dal soggiorno sentivo la padrona suonare. Ero felice.
Monica Massarenti
18
19. 4 – Maria Elisabetta - L'inizio
Johannes Vermeer - Donna con collana di perle
19
20. Lui, il pittore che tutti stimavano, aveva perso l’ispirazione. Ormai non poteva neanche
più permettersi una serva che lavorasse a tempo pieno e che andasse al mercato, così
decise di andarci lui stesso. Mentre si incamminava a testa bassa, pensava a tutti quei
quadri che l’avevano reso famoso. Ne aveva creati così tanti ormai, che non aveva più
nulla da dipingere. Aveva perso l'ispirazione e aveva tentato con ogni cosa, ma niente!
Ogni quadro che provava a impostare sembrava una copia di un altro fatto qualche
tempo prima.
Perso nelle sue riflessioni, era quasi arrivato al mercato, distolse il pensiero da ciò
che lo preoccupava e iniziò ad addentrarsi nel caos delle bancarelle che vendevano
grandi quantità di cibarie. Si diresse verso l’angolo destinato a legumi e ortaggi, ormai la
carne era troppo cara per lui. Mentre si avvicinava al banco da cui si serviva sempre,
vide una ragazza che lo colpì. Aveva un viso dolce, i capelli quasi del tutto coperti, ma
si intravedevano delle ciocche castane. Vide che si avviava verso l’uscita del mercato,
così decise di seguirla. In mezzo a tutta quella gente era difficile tenere d’occhio
qualcuno, ma lui non la perse di vista un momento. Ad un certo punto la fanciulla svoltò
in un vicolo molto stretto ed entrò nel cortile di una casa. Il pittore la seguì e si nascose
dietro all’entrata del cortile. Sentì un’altra ragazza arrivare e urlare: “Maria Elisabetta! È
tornata finalmente!” . Il suo nome era Maria Elisabetta, e probabilmente l’altra ragazza
era la sua serva. Il pittore restò un po’ fuori dal cancello poi, vedendo che la fanciulla
non usciva più, se ne tornò a casa. La sera pensò molto a lei e decise che il giorno
seguente le avrebbe chiesto di fare la modella del suo quadro.
L’indomani all’alba il pittore si avviò verso la casa della fanciulla e quando lei uscì la
seguì fino al mercato. Ad un certo punto la vide voltare in un vicolo buio nel quale si
vedeva solo una piccola panchina in legno dove lei si sedette. Il pittore colse
l’occasione al volo e le si avvicinò. I due iniziarono a parlare, e dopo poco il pittore le
chiese di posare per il suo quadro.
Messa da parte la sua iniziale titubanza, lei accettò a condizione che l’opera
rimanesse segreta, almeno fino al suo compimento.
Si diedero appuntamento l’indomani nello stesso posto per poter parlare dei dettagli.
Il giorno seguente decisero che la fanciulla sarebbe andata a casa del pittore ogni
mattina con la complicità della serva che avrebbe mantenuto il segreto con il marito. Se
egli l’avesse saputo sarebbe andato su tutte le furie e l’avrebbe abbandonata, perchè
avrebbe macchiato il nome della sua nobile famiglia.
Il primo giorno il pittore fece accomodare Maria, ma non riuscì a trovare una posa che
lo soddisfacesse, così la mandò a casa senza aver neanche iniziato il quadro. I giorni
seguenti furono uguali al primo, se non per un piccolo particolare. Il pittore ogni giorno
20
21. vedeva Maria con occhi diversi, gli sembrava sempre più bella. Maria pareva non
accorgersene ma anche lei dopo poco tempo capì di essere attratta dal pittore.
Dopo alcune settimane, il pittore decise di spendere i suoi ultimi risparmi e comprare
un regalo degno per dichiararsi a Maria. Quando, il giorno seguente, esse vide la
collana e gli orecchini di perla, fu felicissima, ma entrambi sapevano che, se avessero
voluto stare insieme, avrebbero dovuto fare i conti con il marito della donna. Il pittore
finalmente trovò la posa giusta e iniziò a dipingere Maria Elisabetta con i gioielli che le
aveva regalato.
Nel quadro c’era solo lei, la sua amata, con i gioielli che lui le aveva donato per
dichiararle il suo amore. Nel quadro si intravedevano anche la finestra e il tavolo dello
studio che davano un tocco di mistero alla creazione del pittore.
Dopo tre mesi il quadro era quasi pronto, mancava solo da disegnare la cartina
geografica sul muro, sarebbe stato il segno della loro fuga. Avevano iniziato a
progettarla due mesi prima, per poter stare insieme senza subire le ire del marito di
Maria Elisabetta. Il pittore quel giorno uscì di casa un po’ più tardi del solito per sbrigare
le sue commissioni. Maria Elisabetta intanto, mentre percorreva la strada che la portava
dal pittore, si sentiva strana, quasi osservata, le sembrava che qualcuno si stesse
nascondendo nell’ombra e la seguisse.
Quando arrivò, bussò alla porta della casa del pittore, le aprì la nuova serva che la
fece accomodare e le disse che il pittore era ancora fuori per svolgere delle
commissioni. Il marito, che l’aveva seguita per tutto il tragitto, era entrato di soppiatto
dalla finestra e al sentire quelle parole, si fece avanti intimando a Maria di mostrargli il
quadro. Lei decise così di portarlo nell’atelier. Quando furono là, il marito vide il quadro
e iniziò ad urlare contro Maria Elisabetta.
Dopo poco, il pittore, tornato a casa pensando di essere in ritardo, entrò nell’atelier e
non trovò la donna, trovò solo un piccolo alone sul pavimento e qualche goccia di rosso
ramato. Doveva essere stata la serva, che mentre puliva aveva versato un po’ di colore.
Quel giorno Maria Elisabetta non arrivò.
Gaia Lodi
21
22. 5 – Maria Elisabetta - il ricatto
J ohannes V ermeer - L a merlettaia
22
23. La osservavo sempre, amavo guardarla e avrei potuto passare giornate intere a
scrutare i suoi movimenti senza mai stancarmi. Quello che più mi affascinava di lei
erano senza alcun dubbio i suoi occhi, così piccoli e delicati ma in grado di far trasparire
la forza incredibile di quella donna, che ne aveva passate tante e nonostante questo la
vita aveva deciso che per lei non era ancora giunto il momento di essere felice e di
lasciarsi alle spalle il passato. Aveva sempre vissuto in un mondo che non le
apparteneva e fin da giovane aveva cercato di ribellarsi, ma la vera sofferenza per lei
arrivò quando si rese conto che i suoi genitori erano più interessati a difendere il buon
nome della famiglia che alla sua felicità. A soli sedici anni era stata rinchiusa in una
torre, anche se purtroppo il principe azzurro a salvarla non arrivò mai. Dopo alcuni anni
i genitori morirono a causa di una grave pestilenza a cui lei scampò miracolosamente, e
per quanto possa essere crudele tale affermazione, Maria Elisabetta ne fu sollevata. A
ventidue anni acquistò una reggia ed iniziò a cercare servitù, così la conobbi e mio
malgrado, me ne innamorai. Ormai sono passati dieci anni, ma ricordo ancora come
fosse ieri il nostro primo incontro, non riuscii mai a spiegarmi cosa di un semplice
domestico come me catturò così violentemente la sua attenzione, ma di questo sono
certo, ricambiava i miei sentimenti come mai nessuno prima d’ora. Purtroppo, a
differenza di ciò che pensavamo ingenuamente, l’amore ha una classe sociale e non
permette a nessuno di violarla. L’amore più forte e vero che avessimo mai provato era
finito per colpa di una stupida classe sociale e non pensavamo di poter ricevere notizia
peggiore, ma mi sbagliavo: Maria Elisabetta si sarebbe presto sposata con un principe
verso il quale non provava alcun sentimento. Un marito che a distanza di dieci anni non
esisteva già più, forse uno dei tanti misteri celati dietro la dama. Non che a me
dispiacesse di questa perdita, Maria Elisabetta dopo il lutto aveva riallacciato i rapporti
con me, non avevo mai smesso di lavorare per lei ma dopo il suo matrimonio si era
creato il gelo tra di noi, e finalmente ora avevo la possibilità di recuperare tutto il tempo
perso. Negli ultimi giorni passava gran parte del suo tempo nello sgabuzzino a cucire
furtivamente dei merletti. Aveva sempre avuto la passione per il cucito, ma ero convinto
che ci fosse di più, non aveva motivo di nascondere le sue creazioni in una cassapanca
chiusa da un lucchetto, o probabilmente un motivo lo aveva. Questo diventava uno dei
tanti enigmi che andava ad aggiungersi ad una lunga lista. Ma stavolta ne ero più sicuro
che mai, non mi sarei lasciato sopraffare dal suo carattere impetuoso e sarei riuscito a
scoprire, almeno in parte, cosa mi nascondeva quella donna. Non ero di certo la
persona adatta per parlare di sincerità, era una delle tante cose che mi accomunava a
Maria Elisabetta, ci eravamo conosciuti nella menzogna e avevamo costruito il nostro
rapporto su bugie che speravamo non sarebbero mai emerse. Nonostante questo il
nostro amore era vero e andava oltre tutte le sporche verità mancate. Dopo diverse
settimane passate a meditare su cosa potesse turbare Maria Elisabetta e a scrutarla,
cercando di non essere notato, decisi che era giunto il momento di parlarle; ero
23
24. convinto che si fosse accorta della mia furtiva presenza da tempo, ma essere osservata
la faceva sentire importante come mai per nessuno lo era stata, nessuno a parte me.
Entrai nella stanza buia e la trovai intenta nella decorazione dei suoi merletti, cercai di
scordarmi per un attimo delle sue stranezze e mi sedetti dolcemente su uno sgabello al
suo fianco. Le chiesi cosa la tormentasse, la sua risposta fu "niente". Scoprii che il
niente di cui parlava era un enorme problema, una valanga che se non fosse stata
fermata in tempo avrebbe travolto non solo lei, ma anche me. Eravamo stati scoperti, il
nostro enorme segreto lo sarebbe rimasto ancora per poco e tutto questo a causa di
Don Lucio, una persona tanto crudele quanto falsa che aveva deciso di ricattarci. In
caso non fossimo riusciti a soddisfare la sua richiesta, l’intero mondo sarebbe venuto a
conoscenza di una scandalosa verità: la nobile Maria Elisabetta aveva messo al mondo
una bambina con il suo maggiordomo, per lo più durante il matrimonio con il suo povero
vedovo. Non avremmo dovuto dare spiegazioni solo dell’accaduto, ma anche della
scomparsa di questa fanciulla, che era morta a causa di una feroce epidemia.
Decidemmo così di incontrare Don Lucio; era una mattina d’inverno ed un timido sole
splendeva nel cielo, ci dirigemmo verso la chiesa e appena giunti lo trovammo, ci invitò
a sederci, iniziando il suo crudele discorso. Era venuto a conoscenza di tutto questo
grazie all’archivio comunale delle morti premature, quando Francesca venne a mancare
aveva solo sei anni, era stata con mia madre nella nostra umile dimora fino alla sua
morte, motivo per cui nessuno si accorse della sua esistenza. Maria Elisabetta era stata
una madre perfetta, nonostante l’avesse dovuto fare in incognita, purtroppo la sua
morte ci aveva recato tanto dolore che avevamo dovuto nascondere in noi, senza mai
lasciar trasparire nulla. Dopo un discorso di alcuni minuti, arrivammo ad una
conclusione: avremmo dovuto fabbricare merletti per l’intero convento, che Don Lucio
non poteva più permettersi. Riuscimmo ad accontentarlo e a proteggere il nostro grande
segreto, ma mi resi conto che avevo passato fin troppi guai a causa di Maria Elisabetta,
dovevo cambiare vita e potevo farlo solamente dimenticandomi di lei. La amavo con
tutto il cuore, ma preferii la mia vita alla sua e la abbandonai miseramente. L’avevo
ingenuamente lasciata come tutte le altre persone per le quali fino a poco prima
provavo ribrezzo. Venni a sapere che in seguito si era trasferita in una meravigliosa villa
sul mare, dopodiché non mi giunsero più sue notizie, “spero tu sia felice, te lo meriti
veramente” erano state le ultime parole che le avevo rivolto prima di lasciarla, e le
pensavo davvero. Quella donna non meritava altro che serenità e comprensione che
non aveva mai avuto.
Alice Penzo
24
25. 6 – Maria Elisabetta: la nuova vita
J ohannes V ermeer - S uonatrice d i chitarra
25
26. Maria Elisabetta non amava restare da sola. Non ne poteva più di Vienna, una città
così piena di ricordi che le procuravano dolore, perciò si era trasferita da qualche anno
in una tenuta sulla riva dell’oceano.
Leggeva libri sacri, quelli che la madre aveva letto da giovane con le sorelle,
riposava, talvolta perdeva ore ad osservare le onde e la schiuma del mare, quella
bianca schiuma che arrivava fino alla spiaggia, accarezzando la sabbia. Quelle belle
giornate d’infanzia però Maria le aveva dimenticate insieme a tutti i gioiosi ricordi della
giovinezza. Adesso era tutto diverso e l’aria portava con sè malinconia e
rassegnazione. In inverno le giornate erano lunghe, interminabili, gli orologi
sembravano dormire e le lancette pietrificate scandivano con triste lentezza i secondi:
un giorno durava un anno e quel maledetto anno sarebbe durato una vita. La sua non
era stata proprio una vita felice, e forse non la sarebbe mai stata. Era ancora
intrappolata in quella realtà scomoda, falsa e ingombrante, a dover sorridere anche
quando il cuore piangeva, ad accrescere dentro di sè i sensi di colpa e il rimpianto di
non aver vissuto a pieno le gioie e le opportunità che quella stessa vita le aveva offerto,
i momenti del passato le tornavano in mente spesso, troppo spesso.
Quel mattino era più abbattuta che mai, anche le galline del pollaio erano più taciturne
del solito e il gallo al mattino non cantò. Il sole, proprio quel sole pallido e malato, si
nascose dietro la fitta cortina di nubi, scomparendo. Non c’era nemmeno lui ora a
tenere compagnia alla donna, in quella casa fredda e smisuratamente grande per lei. Le
pareti grigie e scure contrastavano le brillanti e lussuose cornici dorate che
incorniciavano i quadri di Ludovico. Eh, si, a lui ci pensava ogni mattina quando, al
risveglio, osservava quella splendida tela in cui si rivedeva da giovane, testarda e
viziata, mentre provava i meravigliosi gioielli che ancora dopo tanti anni conservava nel
cofanetto ornato con una sottile filigrana d’oro. Il tempo era passato e il rimpianto dei
momenti sprecati, dei misfatti compiuti e degli orrori commessi la portava al pensiero di
una vita da concludere con un nulla di fatto e ciò non le dava pace..Sentiva il gocciolio
della pioggia penetrare dal tetto e cadere rimbombando nelle catinelle appoggiate sul
pavimento del solaio. Teodoro se n’era andato e nessuno più sarebbe salito sul tetto
per trovare l’origine di quelle infiltrazioni, non di certo lei. Anche se sola non aveva
perduto la sua classe ed eleganza, in fondo, pur essendo sempre stata una ribelle, era
stata allevata da una famiglia nobile ed abituata ad un ambiente sfarzoso… Dalla
veranda vedeva le gocce cadere a terra, tuffarsi e perdersi nell’azzurro del mare.
Avvertiva la brezza sfiorarle i ciuffi dei capelli, muovere il colletto del vestito e le tendine
di pizzo ricamate dalla nonna che decoravano finemente le finestre della cucina.
Entrò in casa lasciando spalancata la porta. Entrò nella stanza della musica dove
teneva i libri, la chitarra e il clarinetto. Afferrò la chitarra e strimpellò per un paio di
minuti. Erano già passati alcuni giorni da quando aveva cominciato a comporre.
26
27. Appoggiò con delicatezza la mano sinistra sulla chitarra della figlia Francesca.
Cominciò a diffondersi tra le stanze della villa una dolce melodia. Era uno dei pochi
momenti felici. Intonò i versi di un’allegra ninna nanna. Quella musichetta le suonava
sempre nella testa, a volte la tormentava e a volte invece le ricordava la figlioletta persa
tristemente a causa di un’epidemia. A lei stava dedicando quella canzone e quelle
parole poetiche. A lei aveva dato tutto e per lei aveva sempre fatto tutto. Quei pochi
anni di vita di Francesca avevano assorbito completamente l’anima di Maria.
Era giunta la sera. Maria accese le candele e cucinò una gallina con alcuni aromi colti
dall’orto dietro casa. Cenò bevendo vino e cantando quella melodia che sembrava
ormai non avere più un inizio e una fine ma continuava a risuonare nelle stanze della
villa. Stanca si distese sul letto e osservò il dipinto di Ludovico. Ripensò anche a
Teodoro e a Francesca. Ripensò ad Ernest, il marito tanto più grande di lei che diede
origine a tutti i suoi tormenti. Pensando e riflettendo si addormentò, con la stanza e i
quadri che la fissavano.
Cominciò a sognare e viaggiò ritornando indietro nel tempo al giorno in cui il marito la
picchiò a casa del pittore per quei meravigliosi dipinti. Fu l’istinto, un momento di rabbia,
la voglia di indipendenza. Prese il cavalletto di un quadro e lo colpì. Lo vide cadere a
terra. Era morto. L’aveva ucciso. Non pianse, finalmente non l’avrebbe più rivisto, era
libera. Si stava rivedendo, ripercorreva i drammi e le disgrazie. Riuscì a coprire la
situazione, dicendo ai genitori di Ernest che il figlio era tragicamente morto travolto da
un calesse. Intanto Francesca cresceva. Altro dolore e bugie si stavano accumulando.
Maria Elisabetta era scappata, non avrebbe più voluto vedere Ludovico. La vita a
Vienna era caotica e Teodoro diveniva sempre più distaccato. Maria voleva che lui la
smettesse di comportarsi come i membri della servitù. Era stato il suo servo, ma poi, si
erano innamorati. Il sogno ripercorse anche i ricatti di Don Lucio, il viscido parroco
approfittatore che obbligava Maria a cucire e a lavorare per non rivelare all’importante
famiglia di Ernest che Francesca era in realtà figlia di Teodoro. Alla morte di Don Lucio
i ricatti terminarono e vennero sostituiti dal senso di colpa di Maria che la spinse in una
profonda depressione, culminata con la morte della figlioletta a causa di una malattia.
Rivide il giorno in cui Teodoro la salutò e se ne andò per sempre nonostante lei lo
amasse così tanto.
Si risvegliò di colpo tutta sudata e pianse a lungo. Non ricordava l’ultima volta in cui
aveva pianto perché le donne forti non hanno il tempo per piangere. Quel terribile
incubo aveva portato alla luce le intricate peripezie di una ragazzina cresciuta in modo
diverso rispetto alle coetanee. Voleva solo essere lasciata in pace da quei pensieri, dal
passato che la divorava lentamente. Voleva solo una vita diversa, una vita migliore.
Sara Campagnoli
27
28. 7 – Scienza in corso
J ohannes V ermeer - L ’a stronomo
28
29. Edward Van Varten era ormai conosciuto, a Breda, per la sua fama di astronomo.
Egli, infatti, desiderava ardentemente scoprire i segreti dell’italiano Galileo Galilei, colui
che era rimasto accecato dalla luce del sole. Il sole, esatto, la grande passione di
Edward.
Il suo sogno infatti era costruire una sonda abbastanza resistente da poter essere
mandata su di esso, o almeno nelle vicinanze.
Lui portava avanti questa passione perché voleva essere visto e ricordato per il suo
contributo alla scienza.
Il suo compagno di lavoro era il suo migliore amico, William, appartenente alla classe
aristocratica, che si era guadagnato il suo posto grazie ad un’’impresa straordinaria: era
stato il primo Olandese ad attraversare l’Oceano Pacifico. Egli era, come avrete già
capito, un geografo.
Edward aveva avuto un’ infanzia molto difficile, era cresciuto in Spagna, in un
orfanotrofio, insieme ad altri dieci ragazzi, provenienti da Tibet, Australia, Israele, Italia
e altri tra i più curiosi paesi al mondo.
Da essi apprese nuove nozioni sulle differenti culture.
All’età di sette anni fu adottato da una coppia americana e andò a vivere in Arizona.
Lí in una sera estiva conobbe quelle che sarebbero diventate le sue ossessioni, le
stelle.
Quella sera faceva particolarmente caldo in casa, così decise di uscire. Stelle.. nella
sua mente non vi era nient'altro.
Astri, stelle, palle di differenti colori e dimensioni, per lui la definizione non aveva alcuna
importanza, d'altronde come Shakespeare ci ricorda : "Cosa c'é in un nome ? Ciò che
chiamiamo rosa conserverebbe il suo profumo anche con un altro nome."
Guardando quelle lievi luci il suo cuore palpitava a più non posso, da quella sera non fu
più lo stesso.
Una volta completati gli studi, si recò in Olanda per sapere di più sulla fama del
geografo William Buston.
Una volta incontratolo, ne rimase fortemente colpito al punto che si mise a studiare la
geografia, dopo pochi mesi i due divennero inseparabili compagni di avventure,
progettarono, infatti, un razzo capace di attraversare sia la galassia che l'Oceano. Lo
chiamarono Helter-Skelter, ossia, scivolo.
Ovviamente, questa invenzione portò loro una buona fama.
Durante la presentazione ufficiale del razzo, Edward conobbe un’incantevole fanciulla,
chiamanta Lidia Galilei, un’italiana, parente lontana del famoso astronomo italiano,
tanto amato da Edward. Non poté fare a meno di chiederle informazioni sempre più
dettagliate sul suo “ mentore “.
Dopo pochi mesi di uscite, le chiese di sposarlo, all’esibizione della grande filarmonica
Olandese.
29
30. Lei, pur se colta di sorpresa, non esitò ad accettare.
Le nozze furono stupende, William fece loro da testimone e in luna di miele andarono a
Venezia, la città sull’acqua.
Qui trascorsero più di tre settimane.
Una volta tornati, Edward e William decisero di intraprendere un nuovo progetto, la
sonda per il Sole.
“Questo progetto sarà molto costoso da finanziare, dovremmo chiedere un prestito alla
banca!” disse William. Edward annuì sorridente e si mise a riflettere sulle possibilità di
riuscita e funzionamento della sonda.
Se l’impresa fosse stata un fiasco, si sarebbero trovati con debiti molto pesanti, ma ciò
non preoccupava Edward, egli pensava principalmente alle conseguenze della riuscita,
a quanto denaro e fama avrebbero acquisito.
Infatti, questa impresa sarebbe stata molto proficua per entrambi e li avrebbe proiettati
nella classe più alta, dove avrebbero potuto aver un posto come geografi e astronomi
del re.
Questi e altri pensieri influenzavano la mente di Edward e William.
Una volta progettato il razzo, avevano bisogno dei materiali giusti e resistenti al calore
del Sole. Codesti erano quasi introvabili, e ciò costrinse loro ad intraprendere un lungo
viaggio.
Il materiale era una particolare pietra vulcanica chiamata Dunite, che si trovava solo in
Nuova Zelanda.
Decisero di partire il giorno stesso, portandosi dietro solo l’essenziale, con l’aereo di
William.
Impiegarono un giorno ad arrivare e furono subito confusi dal “ Jet lag “.
Il Monte Tongariro, fortunatamente, non era lontano.
Dopo una bella dormita si incamminarono verso il vulcano.
Dopo poche centinaia di metri iniziarono a vedere i “blocchi” di Cunite, che venivano
inondati ogni due minuti da lava incandescente.
Edward decise di correre il rischio, si avventò su uno dei blocchi con un piccone e
staccò una quantità sufficiente di roccia e, con grande fortuna, riuscì ad allontanarsi
poco prima dell’arrivo dell’ondata di lava.
Recuperata la pietra preziosa i due impavidi viaggiatori tornarono a casa pieni di
orgoglio e il mattino seguente, senza perdere un attimo, iniziarono a costruire la sonda.
L'impresa fu lunga e complessa, ma dopo quasi sei estenuanti mesi riuscirono a
completare il progetto.
Fissarono la data del lancio per la settimana seguente e si dedicarono a passare del
tempo con la famiglia.
Quella sera era tutto perfetto, Edward e sua moglie erano a casa di William, a
sorseggiare un buon tè e a fumare un grosso sigaro cubano.
30
31. La settimana passò molto velocemente, il clima familiare era piacevole. La mattina del
lancio William e Edward erano emozionati, non riuscivano a credere di aver realizzato il
loro più grande sogno.
Quando Edward premette il tasto per la partenza, la folla cominciò lentamente ad
esaltarsi.
Sua moglie piangeva lacrime di gioia, fiera del suo amato marito, poiché era riuscito
nel suo sogno più grande.
William ed Edward si strinsero la mano davanti al razzo che si innalzava. Un uomo
scattò una foto.
Matteo Battilani
31
32. 8 – Il sentiero dei garofani rossi
J ohannes V ermeer - D onna in p iedi a lla spinetta
32
33. Sbatté con forza la porta alle proprie spalle e, con ancora nelle orecchie i suoni stonati
di quel dannato strumento, si avviò lungo il corridoio.
La casa era deserta e tutto pareva immobile, imprigionato in uno statico silenzio.
Cominciò a trascinare i piedi lungo il corridoio, senza sapere dove fermare lo sguardo.
Negli ultimi giorni aveva cercato, disperatamente e con tutte le sue forze, di trovare in
quella casa qualcosa che le portasse alla mente ricordi felici, qualcosa di cui avrebbe
sentito la mancanza.
Non aveva avuto successo.
Tutto di quel posto la disgustava. Ogni ricordo che la legava a quelle mura le istillava,
sempre più prepotente, il desiderio di scappare.
I ritratti dei suoi antenati, appesi alle pareti, le incutevano un grande timore e i loro occhi
dalle tinte glaciali la inquietavano, al punto che ogni volta che vi passava davanti si
costringeva ad abbassare il capo. Le pareti bianche come la neve, d’altro canto, non
erano uno spettacolo migliore. Tutto quel candore la faceva sentire fuori posto, troppo
piccola e troppo sporca per vivere tra tutta quella meraviglia. Il peggio, però, erano
senza dubbio l’oro e l’argento che spuntavano in ogni angolo della casa, piazzati a forza
anche nei locali più umili.
Erano ormai lontani i giorni in cui lei e sua sorella Angelique giocavano beate nelle
stanze di quella enorme casa, fingendo di essere principesse nel loro personalissimo
castello. I giorni in cui ancora la divertiva il suono che i tacchi delle scarpe producevano
sul pavimento d’ebano, in cui lei e sua sorella erano un’unica entità, che mai niente le
avrebbe separate.
Erano i giorni in cui si sentiva amata ed importante.
Rise di se stessa e della sua ingenuità, perché, di certo, importante lei non lo era
affatto, men che meno in quella prigione d’avorio.
Un suono ovattato, come di caduta, le arrivò leggero all’orecchio.
Sorrise intimamente e voltò lo sguardo alle proprie spalle, per farlo cadere sulle chiazze
vermiglie che interrompevano le rigide striature del legno.
I suoi occhi seguirono la scia di petali rossi, fino a posarsi su quelli che, con grazia,
stavano rotolando tra le pieghe della sua gonna, in una lenta caduta verso il suolo.
Dal fondo della sua gola sorse una risata debole e meschina, che persino lei stentò a
riconoscere.
Si girò nuovamente verso la fine del corridoio e riprese a camminare.
Aprì piano la porta della sua stanza e il vestito rosso rubino, piegato malamente nel
baule aperto ai piedi del letto, attirò subito il suo sguardo.
Sfiorò la seta vermiglia in una carezza leggera e scandagliò con gli occhi il resto della
stanza. Quello era l’unico luogo della casa che parlasse realmente di lei, dal pettine in
argento posato sul comò al suo libro preferito nascosto sotto al cuscino.
Accarezzò con lo sguardo la struttura in legno di noce del letto a baldacchino, da cui
33
34. pendevano, pesanti, le tende damascate. Mosse qualche passo e si affacciò alla
finestra, che dava direttamente sulle vie di Delft.
Sotto di lei, un gruppetto di cinque bambini giocava per strada, rincorrendosi tra il
disappunto dei passanti. Tutto imbacuccato in un cappotto grigio fumo, un ometto
occhialuto zoppicava appoggiato al suo bastone da passeggio.
Ai margini del suo campo visivo, notò un puntino di luce sul muro alla sua destra.
Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che, alle sue spalle, appesi ad un leggio mai
utilizzato, pendevano sette pezzi di vetro colorato che proiettavano i raggi del sole
morente in giro per la stanza. Si girò, infine, verso lo specchio a figura intera appeso
alla parete. Fissò con disgusto la cornice dorata, incastonata di rubini, e sbuffò
sonoramente.
Certamente, di tutto quel ciarpame, quello era l’oggetto di cui avrebbe sentito meno la
mancanza. Faticava a ricordare l’ultima volta in cui aveva sorriso di fronte alla propria
immagine.
Per un attimo, su quella fredda superficie, rivide la se stessa di qualche anno prima. La
bambina dolce ed ingenua che non aveva un problema al mondo, se non quello di
decidere cosa far indossare alle proprie bambole.
Da ormai sei anni di quella bambina non v’era più traccia.
Era stata spazzata via, all’improvviso, come un castello di sabbia durante l’alta marea.
La vita le aveva scagliato contro un’onda anomala che l’aveva cambiata per sempre.
Dieci anni.
Aveva soltanto dieci anni quando i primi buchi neri cominciarono ad insinuarsi nella sua
mente.
Era il giorno del suo compleanno e tutto sarebbe stato perfetto se non avesse notato, a
metà della cena, le lacrime che rigavano il volto di suo padre.
“Padre, perché piangete?” chiese con tono sommesso.
Un silenzio tombale scese d’improvviso sulla tavolata, il respiro di sua sorella Stephanie
s’interruppe in un verso strozzato e la serva Caroline, sempre sorridente, si ritirò in
cucina con un’espressione desolata dipinta sul volto.
L’uomo le lanciò uno sguardo gelido e, con movimenti meccanici, si alzò da tavola.
“Io vado nello studio, vi prego di non venire a disturbarmi” dichiarò con voce rotta.
Mentre i passi del padre rimbombavano attraverso il corridoio, le ragazze rimasero
immobili al loro posto.
Lei continuò a muoversi inquieta sulla sedia per qualche minuto, mentre le sorelle
terminavano la cena nel più completo silenzio.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?” non potè trattenersi dal chiedere.
Stephanie posò stizzita la forchetta sul tavolo e Angelique le rivolse un’occhiata curiosa.
La maggiore alzò lo sguardo su di lei, stampandosi in viso un sorriso tirato.
“O Claire, non essere sciocca. Non hai fatto nulla di male. Nostro padre è solo molto
34
35. stanco”
Il suo tono era teso e le mani, che stringevano convulsamente le pieghe del vestito,
rendevano chiaro alle altre due che stesse mentendo. Era la più grande, parlava spesso
con loro padre, ma mai avrebbero pensato che quei due avessero dei segreti con loro.
Perché la dolce, premurosa e tranquilla Stephanie era arrivata a fare qualcosa di cui
non era minimamente capace, come mentire?
Claire e Angelique si lanciarono uno sguardo d’intesa e, in assoluta sincronia, si
alzarono da tavola, porgendo un saluto sbrigativo alla sorella e lasciandola sola in sala
da pranzo.
“Hai notato anche tu?” domandò la più piccola.
L’altra annuì convinta e affrettò il passo, deviando il percorso di entrambe verso la
biblioteca.
Si chiusero alle spalle il portone in legno e si gettarono senza grazia sulle poltroncine
rosse, nascoste in un angolino tra gli scaffali.
“Erano tutti talmente strani. Non capisco cosa gli sia preso” mormorò Angelique,
portandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio.
Sulle sorelle scese il silenzio, interrotto soltanto dal ticchettare della pendola che si
trovava alle loro spalle. Claire non staccava gli occhi castani dalle finestre, mentre la
sorella dondolava i piedi oltre il bordo della poltrona, lanciandole ogni tanto qualche
occhiata obliqua.
Dopo svariati minuti la minore emise un lungo sospiro.
“Angie?”
“Sì?”
“Credi … credi che papà piangesse per colpa mia?” chiese con un fil di voce.
L’altra si voltò di scatto con un’espressione sorpresa.
“No! Assolutamente no! Perché mai pensi questo?” domandò con un tono tra il
preoccupato e lo sconvolto.
La bambina tentennò, torcendosi le dita delle mani e tenendo lo sguardo fisso sul
pavimento.
“Oggi, in fondo, è il mio compleanno, magari se è triste in questo giorno è colpa mia. E
poi… si comportavano tutti in maniera così strana. Se la colpa non è mia, perché
Stephanie ha dovuto mentirmi?”
Ad ogni parola, la sua voce scendeva di tono, portandola a pronunciare le ultime lettere
in un sussurro colmo di tristezza.
La sorella si alzò di scatto e corse da lei, cingendole le spalle esili con le proprie
braccia.
Claire si strinse nel suo abbraccio e nascose il viso nell’incavo del suo collo, cercando
di nascondere le lacrime che si era lasciata sfuggire.
“Claire, basta adesso. Ti prego, smettila. Non è così, credimi! Anzi, se vuoi, vado a
parlare con Stephanie, così ti dimostro che tu, con il malumore di nostro padre, non
35
36. c’entri un bel niente” le sussurrò la bionda all’orecchio.
Detto questo, imboccò a grandi passi l’uscita e sparì oltre la porta della biblioteca.
Claire si passò una mano sul volto, asciugando le lacrime, e fece un profondo respiro.
Gettò qualche occhiata impaziente alla porta e cominciò a battere nervosamente un
piede per terra. Le era praticamente impossibile rimanere lì ferma ad aspettare,
nessuno poteva pretendere questo da lei. Troppo ansiosa, o troppo curiosa, si alzò di
scatto e seguì la sorella lungo il corridoio.
Passò davanti ad una decina di stanze prima di trovarsi davanti alla porta chiusa della
camera da letto di Stephanie. Accostò l’orecchio alla superficie di legno e sentì le voci
delle sue sorelle che discutevano.
“Angelique, ho detto basta. Non mettere il naso dove non devi, tutto questo non ti
riguarda.” Sbottò Stephanie con voce alterata.
“Steph, insomma! Certo che mi riguarda, ci riguarda tutti, siamo una famiglia!” esclamò
Angelique.
“NO!” urlò la maggiore da dietro la porta.
Il respiro di Claire si spezzò, infrangendosi contro la superficie lignea. La bambina fissò
sconvolta il vuoto davanti a sè, incapace di formulare un pensiero concreto.
“Cosa stai dicendo?” chiese in un tremolio la secondogenita.
Ci fu un momento di pausa, come se Stephanie stesse raccogliendo dentro di sé la
forza per rispondere.
“Sorellina, non chiedermi di spiegarti. Sarebbe troppo doloroso, per entrambe. È meglio
per te non sapere, fidati di me.”
“MA COSA?! Cosa è meglio che io non sappia?!” fu lo strillo esasperato a cui seguì un
forte tonfo.
“ANGELIQUE! Abbassa la voce e non osare mai più utilizzare quel tono in questa casa!
Sei una bambina intelligente, ma devi imparare a rispettare chi ti circonda, se non vuoi
finire come nostra madre!”
Il cuore di Claire mancò un colpo e le sue mani si strinsero a pungo.
Mamma?
“Cosa c’entra la mamma adesso?”
Si sentì un forte sospiro, poi qualche attimo di silenzio. La tensione nell’aria era tale che
Claire, ne era certa, avrebbe potuto tagliarla con un coltello.
“Siediti sorellina”
“Non voglio sedermi, voglio una spiegazione!”
“È MORTA DI PARTO, VA BENE?!” sbottò improvvisamente.
Le gambe di Claire tremarono e lei temette di non riuscire a rimanere in piedi. Respirare
le sembrava sempre più difficile e grossi goccioloni salati premevano da dietro le
palpebre per uscire. Tentò di inghiottire il groppo che le si era formato in gola e ricacciò
indietro le lacrime.
36
37. “E se proprio vuoi saperla tutta, sono fermamente convinta che Nostro Signore le abbia
dato la punizione che meritava!”
Un verso strozzato, appena udibile da dietro quella porta che le stava celando la
concitata discussione che la stava lacerando dentro.
“Come puoi dire questo?” un singhiozzo sommesso, il tono della voce impregnato di
lacrime trattenute a stento, lo sdegno contenuto nelle parole.
Quella semplice domanda scosse Claire nel profondo.
Da un angolino oscuro del suo animo qualcosa si mosse, in punta di piedi, appena
percettibile, tanto discreto da passare inosservato.
“Non guardarmi a quel modo, come se non sapessi più chi ti trovi davanti! Non sono io il
mostro, lei lo era! Ha distrutto la nostra famiglia, ha spezzato il cuore di nostro padre, ha
perfino osato portare il suo amante in casa nostra! ERA SOLTANTO UNA
SGUALDRINA! Forse è meglio per te non averla mai conosciuta.”
Queste parole risolute furono l’ultima cosa che Claire udì, prima che una fitta nebbia,
sorta dal profondo di lei, la avvolgesse completamente.
Buio.
Le ore seguenti rimasero per sempre immerse nella più totale oscurità.
In seguito Claire tentò più volte di ricordare cosa avesse fatto, visto, detto, ma aveva
ottenuto soltanto una lunga lista di fallimenti. Quanto avrebbe desiderato sapere cos’era
accaduto nella giornata che aveva distrutto la sua infanzia. Ma, in fin dei conti, forse
non era nemmeno così importante capire.
No, probabilmente, era qualcosa di irrilevante.
Irrilevante davanti al fatto che Angelique non le aveva più rivolto la parola da quel
momento. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare a quel pomeriggio, nella biblioteca, e
sentire nuovamente la sua vocina sottile che la avvolgeva con parole d’affetto.
I sei anni seguenti furono anni di assoluto inferno.
Imprigionata nella propria casa, insieme ad una famiglia che, ormai lo sapeva, non la
considerava altro che l’incarnazione di un tradimento bruciante.
Si sentiva sempre più un peso e non riusciva a risolvere la questione.
Un mese prima era arrivata la stoccata finale, il colpo di grazia.
Era chiusa in biblioteca, stanza che non abbandonava quasi mai, quando suo padre
era entrato con incedere deciso e le si era parato davanti.
“Ho concluso un accordo con il signor Lefevre.” Dichiarò con voce gelida.
Claire alzò il naso dal libro che stringeva tra le mani e fissò la figura slanciata dell’uomo.
I suoi occhi grigi splendevano di risolutezza e la bocca sottile era contratta in una
smorfia scocciata.
Si aspettava una risposta da lei?
Una domanda?
37
38. Una qualsiasi forma di interesse?
Sarebbe rimasto deluso.
Fece un vago cenno di assenso e si rigettò a capofitto tra le pagine ingiallite dal tempo.
Il respiro dell’uomo si fece più pesante e rumoroso, in un’evidente pretesa d’attenzione.
Claire trattenne a fatica un sorriso di soddisfazione per cui, lo sapeva, avrebbe pagato
un caro prezzo.
“Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi. Ho già firmato i documenti per farti diventare
sua moglie.”
Un tonfo sordo riempì l’aria e la ragazza guardò inorridita il tomo, che pochi istanti prima
stringeva fra le mani, giacere a terra aperto malamente.
Alzò lo sguardo sull’uomo, ma si trovò a fissare il vuoto, mentre nelle orecchie le
rimbombavano i passi pesanti che lo stavano conducendo lontano da lei.
Ho concluso un accordo con il signor Lefevre.
Il respiro le si fece sempre più affannoso e un nodo le strinse la gola.
Raccolse timidamente il romanzo da terra, per riporlo con cura sullo scaffale lì accanto.
Allungò una mano verso il bracciolo della poltrona, in cerca di un appoggio.
Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi.
Le gambe le tremavano e non era più sicura di riuscire a reggersi in piedi.
In quale momento la stanza aveva cominciato a girare?
Ho già firmato i documenti per farti diventare sua moglie.
E poi il nulla.
Di quei giorni ricordava la rabbia.
Ricordava le lacrime e le urla soffocate nel cuscino , come ogni notte da sei anni a
quella parte, che si facevano sempre più forti, più disperate, quanto più i suoi incubi si
facevano crudeli.
Ricordava lo scricchiolio delle proprie nocche contro il muro e il dolore che le aveva
preso la mano.
Ricordava più di tutto il silenzio, che regnava ogni giorno con più fermezza sulla casa, e
l’oscurità, che la avvolgeva sempre più spesso.
Tuttavia erano tante, troppe, le cose che proprio non riusciva a ricordare.
Non ricordava il momento in cui aveva buttato a terra tutti i libri dallo scaffale, né
quando aveva tirato giù le tende del proprio letto a baldacchino e neppure il momento in
cui aveva assaltato la casa delle bambole di quando era bambina.
Sapeva soltanto che, tornata in se stessa, aveva trovato il pavimento della propria
camera cosparso di corpi di pezza con arti mancanti e manine di porcellana mezze
distrutte. I piccoli visi, di un bianco innaturale, la osservavano, con le loro crepe sulle
guance e i loro nasi spuntati.
Accidenti, guarda cos’hai combinato.
Un moto di terrore l’invase nel profondo. Si portò le mani sulle orecchie, in un inutile
38
39. tentativo di scacciare quella voce tagliente, che conosceva fin troppo bene, dalla propria
testa.
Perché provi ancora a liberarti di me? Sai bene che non ci riuscirai.
Basta, ti prego!
Ma guardati! Sei patetica! Supplichi te stessa di lasciarti in pace. Per quanto ancora
pensi di riuscire a scappare dalla verità? Loro ti detestano, tutti quanti, non hai visto
com’era contento nostro padre mentre ti diceva che si sarebbe liberato di te?
“Smettila! Sono stanca di sentirtelo ripetere! Tu non sai niente, niente di niente!” urlò
con tutto il fiato che aveva in gola
Una furia cieca la invase e, senza nemmeno avere il tempo di realizzare cosa stesse
facendo, le sue mani artigliarono la struttura del letto.
Graffiò, con forza, finché non vide dei solchi interrompere le nervature del legno, finché
non sentì le proprie unghie spezzarsi, grosse schegge entrarle nella carne e il sangue
che le imbrattava i polpastrelli.
Pensi davvero che questa sia la soluzione?
La schernì la voce.
Cosa speri di ottenere, dimmi? O, meglio ancora, ammettilo a te stessa. Cos’é che
vuoi? Punirti?
Perché mai dovrei? Non è stata colpa mia, non sono io la responsabile!
Di cosa, Claire? Di cosa vuoi convincerti di non essere la causa? Dillo!
IO NON HO UCCISO NOSTRA MADRE!
Un altro graffio contro al letto.
Dolore, intenso e pulsante.
Le mani cominciarono a tremarle
No, magari no. Ma di sicuro hai distrutto una famiglia.
Il tono di voce si faceva sempre più sibilante e Claire non desiderava altro che spegnere
ognuno dei suoi sensi.
Voleva che i lividi sulle nocche smettessero di dolerle, che le mani smettessero di
tremare, gli occhi di piangere…
Voleva pace, voleva l’amore della sua famiglia, voleva la felicità che le era stata
strappata.
Ma insomma Claire, non lo sai? Non c’è gioia per chi procura l’infelicità altrui.
Le ginocchia cedettero.
E poi, per l’ennesima volta, il Buio.
Aveva aperto gli occhi, senza avere la minima idea di quanto tempo fosse passato.
Poteva essere rimasta nell’oblio solo per pochi minuti.
O per svariate ore
Era in piedi al centro della propria stanza. Abbassò lo sguardo, ma il pavimento era
sgombro e delle bambole distrutte non v’era più traccia.
39
40. Fissò la parete lucida dello specchio davanti a sé e ne accarezzò delicatamente la
cornice, decorata con intarsi dorati.
Fece scorrere le dita sui piccoli rubini incastonati nel metallo, che riflettevano i raggi del
sole, creando punti di luce rossastri in giro per la stanza.
Passò lentamente lo sguardo su tutta quella manifestazione di superbia e ricchezza,
cercando di ritardare il più possibile lo scontro con la sua immagine riflessa.
Il suo cuore ebbe un leggero sussulto quando, nell’estremità più bassa dello specchio,
vide chiara l’immagine di un morbido panneggio di seta rossa. La sua mano corse
automaticamente all’ampia gonna che le stringeva la vita e, sotto i polpastrelli, percepì
chiaramente la consistenza della stoffa pregiata.
Mentre passava le dita tra le pieghe della gonna, il panneggio rosso nello specchio si
mosse, quasi fosse animato di vita propria.
Osò alzare timidamente lo sguardo verso l’immagine riflessa e quello che vide la
sconcertò al punto da farla indietreggiare di un passo.
La ragazza riflessa nello specchio indossava un ampio vestito di un rosso acceso. La
seta le fasciava il corpo minuto, per poi cadere un una cascata di morbide pieghe lunga
fino al pavimento.
Quando aveva indossato quell’abito?
Non riusciva proprio a ricordare.
La consapevolezza dell’aver perso il controllo di sé per l’ennesima volta si fece spazio
in lei, mentre un profondo senso di vergogna le stringeva lo stomaco.
Fece scorrere lo sguardo sulla propria figura riflessa, inorridendo alla vista delle mani.
Il sangue incrostato bordava le unghie spezzate, le nocche livide si erano gonfiate e le
dita avevano, ormai, un’angolazione strana.
La sua linea di pensieri venne interrotta da un deciso bussare sulla porta alle sue
spalle.
“Claire, la carrozza è giù che ci aspetta. Non farmi fare tardi, mastro Vermeer è mio
amico e non ho certo intenzione di fargli perdere tempo. Sbrigati.” la esortò la voce di
suo padre.
Giusto, l’incontro col pittore.
Quando suo padre le aveva annunciato che il suo futuro marito desiderava avere un
suo ritratto le era mancato il fiato.
Ogni giorno l’idea del matrimonio combinato la opprimeva di più e le sue gambe
fremevano dalla voglia di correre via. Scappare lontano, dalla famiglia che la odiava,
dalle mura di quella casa che le sembravano sempre più strette, da tutto.
Costrinse i propri piedi a seguire il padre lungo il corridoio, fuori dal portone di casa, fin
sulla carrozza. Come era solita fare in presenza dell’uomo, o di qualsiasi altra persona,
si stampò in faccia una gelido sorriso d’educazione, nascondendo l’orrore che la
lacerava da dentro. Qualcosa dentro di lei stava urlando e si dovette mordere forte la
guancia per trattenerlo.
40
41. Scese con movimenti meccanici dalla carrozza, seguendo suo padre in casa del
rinomato pittore. Si scambiarono inutili convenevoli, come era giusto fare, e poi si
diressero nello studio. Quando varcarono la porta dell’atelier, Claire si trattenne a stento
dallo storcere il naso. Una spinetta, molto simile a quella che aveva a casa, occupava
una buona parte della stanza.
Rivolse uno sguardo interrogativo e di vago rimprovero all’artista che le sorrideva
amichevolmente.
“Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni.”
Sorvolò tranquillamente sull’affermazione di suo padre e sul fatto che lei non sapesse
suonare e si posizionò dove il pittore le indicava. Rimase immobile al suo posto, il viso
rivolto verso mastro Vermeer, ma con gli occhi persi nel vuoto. Quelle ore le scorsero
addosso come acqua, senza realmente toccarla.
Che grande errore avevano commesso i due uomini, permettendole di rimanere sola coi
suoi pensieri!
Aveva riflettuto, valutato le ipotesi e finalmente si era decisa.
Quel ritratto sarebbe stato totalmente inutile.
Non si sarebbe celebrato nessun matrimonio.
Era stata decisamente fortunata quel giorno: suo padre sarebbe rimasto fuori tutta la
giornata per lavoro e Angelique era andata al mercato.
Non avrebbe più avuto un’occasione del genere.
Si alzò dal letto, lentamente, senza fretta e si avvicinò a quel vecchio leggio
abbandonato, da cui pendevano, indolenti, sette pezzi di vetro di colori diversi.
Due gialli, tre blu,uno rosso e uno solo trasparente.
Ricordava ancora quando, da bambine, lei e Angelique avevano creato quella piccola
opera d’arte tutta per loro e la voce di Stephanie che le rimproverava.
Allungò la mano tremante e staccò quello trasparente dal filo che lo teneva sospeso.
Se lo rigirò fra le dita, valutandone la forma, tracciandone il contorno coi polpastrelli.
Fece un profondo respiro e, chiudendo a fatica la mano dolorante, impugnò quel piccolo
pentagono incolore.
Lo portò al polso, chiuse gli occhi e premette forte.
Un forte bruciore accompagnò il lacerarsi della pelle, mentre il sangue cominciava ad
affiorare.
Claire si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: ogni millimetro di epidermide che
recideva veniva liberato dalla tensione di cui, prima, non si rendeva nemmeno conto.
Spingi di più!
L’ordine arrivò dal profondo della sua mente e, immediatamente, le sue dita
aumentarono la pressione. Il dolore si fece più intenso e lei si sentì solo più sicura.
Ripeté l’operazione sull’altro polso e riappese il vetrino al leggio, come se niente fosse.
Vedeva il proprio sangue sporcare la punta e colare verso il basso.
41
42. Un’idea le balenò improvvisa in mente e si diresse spedita verso la sala da musica.
Varcò la porta e la lasciò sbattere alle sue spalle, puntando lo sguardo sulla spinetta
che troneggiava nel centro della stanza.
Si avvicinò e alzò le mani insanguinate.
Sentiva la sostanza calda che colava lentamente lungo le sue dita, imbrattando lei e la
sua camicia da notte.
Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente, mentre la rabbia cominciava a riaffiorare.
Premette con forza le dita sui tasti e sorrise nel vederli tingersi di rosso.
Ogni suono che quell’arnese emetteva accresceva in lei la rabbia e faceva aumentare
la velocità delle sue mani.
Così com’era iniziata, la sua ira cessò di colpo e lei lasciò ricadere le braccia lungo i
fianchi.
Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni.
Addio Vincent.
Tu e la tua musica potete anche andare all’inferno.
Beh, dopo di me, ovviamente.
Gli angoli della sua bocca si tesero in un sorriso inquietante e dalla gola le sorse una
risata folle.
Si avvicinò il polso destro al viso e puntò gli occhi sul taglio orizzontale che lo
attraversava. Il sangue che fuoriusciva lento si espandeva tutt’intorno, formando una
corolla vermiglia che cresceva. Riconobbe i bordi frastagliati dei petali che si
espandevano.
Un garofano fiorì dalla ferita e, nel giro di pochi istanti, rotolò giù, fino alla punta delle
sue dita, dove rimase sospeso, prima di cadere a terra.
Si voltò e uscì dalla stanza.
Sbatté le palpebre, riaprendo gli occhi sul presente.
La testa cominciava a farsi leggera e lei si sentiva sempre più stanca. Guardò il
pavimento e vide il parquet impregnato del suo sangue.
Ci sei quasi Claire, un ultimo sforzo.
Si voltò e alle proprie spalle lo vide.
Un macabro sentiero rosso attraversava tutta la casa.
La luce che entrava dalla finestra si fece d’un tratto accecante e lei dovette portare una
mano a coprire gli occhi. Tutti i colori della stanza si fusero in un bianco abbagliante.
Era già arrivata? Era questa la Morte?
Ai suoi piedi le macchie vermiglie fiorirono, una ad una, trasformandosi in splendidi
garofani.
All’improvviso non era più nella propria stanza, ma in piedi in mezzo ad un enorme
prato e davanti a lei si stendeva una via di fiori rossi come il tramonto che toccava
l’orizzonte.
42
43. In fondo a quella bizzarra via, vide comparire tre figure, avvolte da un’aura buia.
La sua famiglia.
Angelique, i suoi sorrisi di bambina, i suoi anni di silenzio, il suo odio per lei.
Suo padre, la sua voce gelida, le sue occhiate di fuoco, il suo odio per lei.
Stephanie, la sua apprensione per la famiglia, il suo disprezzo per la madre, il suo odio
per lei.
Non gli mancherai Claire, a nessuno di loro.
Un sospiro.
Un masso le si era depositato sul petto e le sue mani tremavano incontrollate.
Lascia andare, è il momento.
Si piegò sulle ginocchia e colse un fiore, lo portò al viso e un odore ferroso le invase le
narici. Lo strinse forte nel pugno, mentre questo le si liquefaceva tra le dita.
Si stese sulla schiena e i suoi capelli rosso rame si mischiarono ai garofani vermigli.
Sorrise e, con un sospiro, si lasciò avvolgere per l’ultima volta dal Buio.
Giulia Sbardellati
43
44. 9 – Un brano misterioso
J ohannes V ermeer - D onna s eduta a lla spinetta
44
45. Ero sempre stata affascinata da quella spinetta.
La vidi per la prima volta quando avevo cinque anni e mio padre ne portò a casa una.
Io volevo imparare a suonarla, ma lui disse che ero troppo piccola e che, una volta
cresciuta mi avrebbe insegnato. Passai ore ed ore della mia infanzia seduta ad
ascoltare mio padre che suonava: era veramente bravo.
All’età di undici anni lo vidi arrivare a casa con una viola da gamba. Disse che avrei
potuto imparare a suonarla, ma quello strumento non mi attirava minimamente, allora
mi concentrai ad imparare a suonare la spinetta.
Come regalo per il mio tredicesimo compleanno me ne comprò una e iniziammo a
suonare insieme.
Quando ormai a quindici anni avevo imparato tutte le basi dello strumento espresse il
desiderio di portarmi con sé a suonare ad un suo concerto; purtroppo avvenne un
tragico evento.
Ricordo ancora la scena: era una fredda notte di novembre e tutti dormivamo quando
mio padre venne svegliato da alcuni strani rumori.
Scese nel salone a controllare e lì sorprese un ladro.
Questi per nulla intimorito iniziò a colpirlo, ma quando vide che mio padre reagiva
prese il primo oggetto appuntito che trovò e lo ferì violentemente alla testa. Cadde a
terra con un lamento.
Io, che ne frattempo mi ero svegliata ed ero scesa al piano terra, avevo assistito alla
scena nascosta dietro alla porta. Scappai di corsa nella mia camera e finsi di dormire.
Quando il ladro si accorse che mio padre era morto scappò a mani vuote.
Non toccai la spinetta per anni, mi ricordava mio padre e ancora non sopportavo che
non fosse più con me.
Dopo una paio d'anni dal tragico incidente si presentò un uomo, diceva di chiamarsi
Van Halen.
Anch'egli, come mio padre, era un noto poli strumentista dell'epoca e si offrì di
insegnarmi quello che ancora non avevo imparato.
Tuttavia non me la sentivo di riprendere la spinetta che era stata di mio papà, così gli
chiesi di darmi lezione a casa sua a suonare, in modo da non utilizzare la spinetta di
casa. Lui capì e accettò e da quel giorno mi recai a casa sua una volta a settimana.
Un giorno gli chiesi come aveva conosciuto mio padre, mi rispose:
“L’ho conosciuto quando eravamo ancora dei ragazzi, studiavamo insieme al
conservatorio”
Da quel giorno iniziai a fare sempre più domande riguardo il passato di mio padre fino
ad arrivare a parlarne normalmente; con il tempo il dolore per la sua perdita si stava
attenuando.
45
46. Mi disse che mio padre aveva molto talento e che lui lo aveva sempre invidiato per
questo.
Parlavamo sempre di lui, spesso mi raccontava sempre degli anni passati al
conservatorio e del loro maestro: diceva che era il migliore e che gli insegnava loro
brani composti da lui stesso.
Nel frattempo io miglioravo con la spinetta, era davvero un bravo insegnate. Mi diceva
sempre che avevo lo stesso talento di mio padre, ma ogni tanto potevo percepire un po’
di invidia nelle sue parole.
Un giorno decisi che ero pronta per il grande passo: chiesi a Van Halen di tornare a
casa mia a fare lezione. Lui accettò subito.
Da quel giorno io usai sempre la spinetta di mio padre, ma con il tempo notai che lui
la fissava sempre, quasi come se dovesse cercare qualcosa al suo interno. Iniziai a
insospettirmi.
Gli chiesi sempre più spesso di parlarmi del loro passato e quando notavo l’invidia
affiorare, cercavo di approfondire. Iniziai anche a chiedere a mia madre di parlarmi di lui
e di mio padre, lei era a conoscenza di molti fatti del loro passato e mi raccontò che da
giovani erano rivali, a volte litigavano anche pesantemente e spesso la causa era il loro
maestro che preferiva mio padre a lui.
Un giorno Van Halen mi raccontò che il loro insegnante, durante una delle ultime
lezioni disse ai due che aveva composto un nuovo brano, il migliore che avesse mai
scritto e che gli sarebbe piaciuto che uno dei due lo interpretasse, ma solo dopo la
morte del maestro. Così lo fece suonare a entrambi e, dopo le rispettive esecuzioni,
decise che lo avrebbe interpretato mio padre.
Notai che in quel momento disse il nome di mio padre in modo quasi dispregiativo.
Nonostante ciò feci finta di niente e gli chiesi di parlarmi di quel brano; disse che
avendolo suonato una sola volta non lo ricordava, ma che mio padre aveva gli spartiti e
mi chiese se sapevo dove si trovavano.
I sospetti crescevano, lo sguardo con cui guardava quella spinetta e il tono di voce
dispregiativo che assumeva quando nominava mio padre mi feriva. Ma chi avrei potuto
chiedere aiuto? Chi avrebbe ascoltato una ragazza.
Sentii un giorno parlare di un pittore e scoprii che anche lui era stato un caro amico di
mio padre: Jan Vermeer, famoso in tutta Europa.
Chiesi a mia madre come potevo contattarlo, lei mi disse che non viveva lontano da
noi, così andai a cercarlo a casa sua e gli chiesi aiuto.
Conosceva anche Van Halen e confermò quanto mi aveva detto mia madre e
aggiunse anche che il mio maestro non era mai stato neanche lontanamente
paragonabile a mio padre e che quel brano di cui mi aveva parlato avrebbe garantito un
ingaggio presso qualche nobile.
46
47. Lui fu il primo a cui confessai i miei sospetti: credevo fosse stato Van Halen ad
uccidere mio padre e Vermeer si offrì di aiutarmi ad indagare. Lui sarebbe stato
ascoltato da qualcuno a differenza mia che ero solo una ragazzina.
Ora dovevamo trovare il modo di incastrarlo. Ci pensammo per giorni fino a quando al
pittore venne l’idea perfetta: io dovevo imparare il brano composto dal maestro di mio
padre e suonarlo fingendo di aver trovato gli spartiti per caso, lui avrebbe sicuramente
tentato di uccidere anche me se la causa dell’omicidio fosse stato proprio quel brano.
Lui si sarebbe nascosto e al momento opportuno lo avrebbe preso. Era rischioso, ma
accettai.
Imparai il brano come voleva Vermeer e la settimana seguente lo suonai per Van
Halen. A quel punto lui, riconoscendo il brano provò a prendere gli spartiti, ma io glielo
impedii. Mi chiese perché non volevo che guardasse la composizione e gli risposi che
mio padre era molto geloso di quel brano e non voleva che qualcuno lo vedesse. A quel
punto il mio insegnante non si trattenne, prese lo stesso oggetto con cui l’avevo visto
uccidere mio padre, ma a quel punto Vermeer uscì allo scoperto e lo colpì alle spalle
facendolo svenire.
L'assassino venne portato davanti a un giudice, dove confessò tutto e venne
condannato.
Conoscere chi aveva ucciso mio padre di certo non lo riportò in vita, ma mi
tranquillizzò il fatto di sapere che era stata fatta giustizia e l’assassino era stato
condannato.
Questo quadro è stato realizzato da Vermeer per ricordare mio padre attraverso i suoi
strumenti, la viola da gamba e la spinetta, alla quale siedo per iniziare a suonare.
Fabio Carnevali
47
48. 10 – Il mistero della spinetta
J ohannes V ermeer - L ezione d i musica
48
49. Amanda fin da piccola, come tutte le giovani di buona famiglia, venne avviata allo
studio della musica in particolare della spinetta; al compimento del 15° anno divenne
una ragazza molto affascinante e curiosa di ciò che la vita poteva offrire. Tra i vari studi
e interessi che intraprese le fu consigliato di approfondire in particolare quelli musicali.
Per la famiglia agiata di Amanda non fu un problema trovarle un degno insegnante. Fu
così che si rivolse al maestro Jan Vignarellì celebre maestro poli-strumentista. Era il
giorno della prima lezione, e la ragazza assieme al padre si recò presso la lussuosa
abitazione del maestro. Mentre s’incamminavano, s’imbatterono in un bizzarro
personaggio con un pennello e una tavolozza in mano, avvolto in un mantello nero.
Costui si trovava già di fronte all’abitazione di Jan Vagnarellì. Amanda si chiedeva cosa
potesse farci un uomo così, vicino alla lussureggiante abitazione del maestro;
probabilmente era un noto pittore considerando il luogo in cui si trovava. Amanda e il
padre si fermarono davanti al grande portone dell’ingresso del palazzo in cui abitava
Jan Vagnarellì. Si addentrarono nell’atrio nel quale si trovavano tre porte e su
indicazione del misterioso pittore che nel frattempo si era avvicinato, andarono in quella
sul fondo del grande atrio. Entrarono e qui furono accolti dal famoso maestro.
Dopo la presentazione e alcune frasi di convenienza il maestro congedò il padre,
anche Amanda salutò il proprio famigliare accordandosi per l’ora del ritorno a casa.
Sola con il maestro Vagnarrellì fu invitata nello studio adiacente alla sala. Entrò e
rimase incantata, esplorò con lo sguardo quello che le parve subito una splendida
stanza da musica. Si accorse della grande luminosità che entrava dalla doppia finestra,
tipicamente Olandese che faceva esaltare il pavimento a scacchiera bianco e nero e
che creava una particolare prospettiva nella stanza. Girò attorno all’enorme tavolo
coperto da tessuto drappeggiato con al centro un vassoio e una brocca bianca. Amanda
proseguì verso la spinetta che aveva a fianco una viola da gamba. Il maestro invitò
Amanda a provare la tastiera, quest intimidita si avvicinò e vedendosi riflessa nello
specchio posto sopra la spinetta, cominciò a suonare timidamente. Jan Vagnarellì
capendo l’imbarazzo della ragazza la interruppe e le chiese: “vuole accompagnarmi
mentre io canto così potrò meglio comprendere la bellezza di questo strumento?” Fu
mentre diceva queste parole che si accorse che tra i vari decori dello strumento
compariva una scritta: musica letitiae(me) s medicina dolor (um), la musica è compagna
di gioia e balsamo per il dolore.
Cominciarono a suonare e cantare. Durante l’esecuzione ci fu un attimo di distrazione
e Amanda alzò lo sguardo sopra la spinetta e si accorse che c’era il grande specchio
che rifletteva l’immagine del pittore incontrato in precedenza. Si girò verso il maestro e
si accorse della strana e particolare somiglianza che aveva con il pittore. Si voltò, il
pittore non c’era, ma la sua immagine era ancora riflessa nello specchio. Fu presa da
un attimo di smarrimento...e pensò, che mistero e mai questo? Ma…Non sarà che il
pittore e il maestro sono la stessa persona? Allora, forse, sopra il spinetta non c’è uno
49
50. specchio, ma un quadro. Se così fosse, pensò, non dovrei vedere il mio viso e
nemmeno la stanza si dovrebbe riflettere! Guardò il maestro che impettito teneva il
tempo della musica con il suo bastone. Amanda si accorse che Jan Vagnarellì la
osservava in modo particolare come se volesse catturare quel momento e imprigionarlo
nella memoria…fu lì che capì, forse, lo specchio serviva a questo, non a riflettere , ma a
catturare i momenti belli e piacevoli della musica.
Se così fosse; dov’era e chi era il pittore? Amanda disse a se stessa che stava
farneticando il gioco dello specchio, era forse dato dalla luce. Continuarono a eseguire il
brano e improvvisamente le parve di udire il suono della viola da gamba. Non c’era
nessuno che la suonava, allora si ricordarono delle lezioni di acustica in cui mi
spiegarono che uno strumento a corda può vibrare per simpatia se le corde degli
strumenti sono esattamente accordate tra di loro, anche se solo uno strumento suona
l’altro, vibra ugualmente. Però…il mistero rimase, i suoni erano troppi e non riproducibili
dal solo effetto acustico.
E il riflesso nello specchio? C’era ancora il pittore? Sì, questa volta forse dipingeva la
scena, a questo pensava la ragazza. Amanda girò di nuovo lo sguardo tutto divenne
buio. Sentiva delle voci in lontananza che la chiamavano, aprì gli occhi e si accorse,
con meraviglia,che era a casa sua nel suo letto con i genitori e la tutrice che la
incoraggiavano a svegliarsi a prepararsi in quanto era in ritardo per la lezione di musica
e che doveva affrontare con il grande maestro Jan Vagnarellì.
Francesco Guicciardi
50
51. 11 – Maledetta lettera
J ohannes V ermeer - D onna c he s crive u na le ttera a lla p resenza d i u na domestica
51
52. Andai ad aprire alla porta. Davanti a me c'era un'altra domestica. Ero sicura di averla
già vista da qualche parte, forse al mercato o dallo speziale, ma non avrei saputo dire
chi fosse. La salutai, aprendo la porta per farla entrare almeno per cinque minuti. Tirava
un vento pazzesco fuori e, malgrado ci fosse il sole, sicuramente non faceva caldo. La
fantesca si strinse nello scialle, ma non entrò. Mi porse una lettera senza dire nulla, poi
girò i tacchi e se ne andò.
Probabilmente aveva altre faccende da sbrigare e forse non voleva impiegarci troppo
tempo per via del freddo. Chiusi la porta osservando la liscia superficie della busta,
cercando qualcosa che potesse aiutarmi a capirne la provenienza. Non c'era scritto il
mittente, ma comunque non sarebbe stato d'aiuto dato che non sapevo leggere. Sul
sigillo di ceralacca era impresso lo stemma della città di Rotterdam, dove vivevamo.
Probabilmente erano brutte notizie per la mia padrona. La famiglia dove lavoravo era
composta da sole due persone, tre aggiungendo me. Erika, la mia padrona, aveva solo
diciotto anni, mentre la sorellina Charlotte appena dodici. Avevano un legame speciale,
fortissimo e indissolubile, come quello che nasce dopo un periodo difficile e una grande
disgrazia. Due anni prima,infatti, i genitori delle ragazze erano morti schiacciati da quel
morbo terribile che chiamano peste. Io lavoravo per i loro genitori da molto tempo, fin da
quando avevo quattordici anni. Loro mi stimavano molto perché ero discreta ed
eseguivo alla perfezione le mie faccende, inoltre non ficcavo il naso nei loro affari, cosa
per cui tutte le domestiche erano ben note. I miei padroni non erano nobili, ma a forza di
lavorare si erano arricchiti notevolmente e avevano comprato la casa dove noi
vivevamo ancora.
Era veramente grande, già per cinque persone era enorme, per tre era immensa. O
almeno così mi sembrava, abituata com’ero alla mia piccola casetta dove abitavo prima
di iniziare a lavorare per loro.
Erika non aveva avuto il coraggio di venderla perché le ricordava i bei momenti
passati con i genitori. Inoltre, le sembrava di vanificare i loro sforzi, perché avevano
lavorato tanto per permettersi una casa del genere. A dir la verità anche io mi ero
affezionata a quella casa e mi sarebbe dispiaciuto molto andarmene.
Quando i genitori erano morti, Erika aveva solo sedici anni e non sarebbe mai riuscita
a prendersi cura di tutto da sola. Così mi tenne a servizio da loro. Le aiutai moltissimo in
quel periodo, e loro aiutavano me dandomi quella paga che mi permetteva di
mantenere la mia famiglia, o quanto meno dare un piccolo contributo: avevo tre sorelle
da mantenere.
Conoscevo molto bene Erika e Charlotte: le avevo sempre seguite io, Charlotte
l’avevo addirittura vista nascere. Erano entrambe molto tranquille e giudiziose. Erika
ormai era diventata adulta e si occupava da sola della gestione della casa. Insegnava
52
53. spesso alla sorella a svolgere i normali lavori di una donna: le mostrava come cucire,
rammendare, ricamare, cucinare, stirare… e da qualche tempo aveva iniziato ad
insegnarle a leggere e scrivere. Scrivere era infatti la grande passione di Erika. Una
volta, mentre lei era al mercato, Charlotte aveva iniziato a leggermi uno dei racconti
della sorella. Quel giorno rimasi sorpresa dal suo talento, e mi chiesi come mai non me
ne aveva mai parlato prima.
Da qualche tempo, però, i soldi lasciati dai genitori iniziavano a scarseggiare.
Avevano debiti ovunque: dal macellaio, dal fornaio, dallo speziale, persino al banco
dove compravamo il pesce.
Non c’era giorno che non ci arrivasse una lettera che ci ricordasse i nostri mancati
pagamenti.
Proprio come dal fondo dell’oceano buio non si vede la luce del sole che splende in
superficie, noi eravamo sommerse dai debiti e non vedevamo una via d'uscita.
Per questo appena arrivavano lettere avevo smesso di sperare che fossero buone
notizie.
Lasciai cadere nel secchio lo straccio che stavo usando per pulire i vetri e che tenevo
ancora in mano e salii le scale. Trovai Erika e Charlotte in quella che un tempo era stata
la grande e lussuosa sala da pranzo, con un lungo tavolo di legno pregiato, preziosi
arazzi venuti da lontano e un grande lampadario con le candele ormai consumate.
Ora la stanza non sembrava più quella di una volta: l’aria era impregnata di un forte
odore di solitudine che si percepiva in ogni angolo e tutto si era fatto più cupo e spento,
o forse appariva così ai miei occhi tristi.
Anche i quadri e gli arazzi che raccontavano storie incredibili e meravigliose
sembravano aver perso la brillantezza e la vivacità ed erano diventati tristi figure che
riposavano afflitte su uno sfondo grigio, senza alcuna traccia di vitalità.
Le ragazze erano sedute vicine e lavoravano in sintonia. Charlotte stava
rammendando il suo grembiule ormai logoro, la sorella sembrava osservare il suo
lavoro; in realtà fissava il vuoto con occhi assorti. In mano aveva un foglio pieno di
calcoli.
-È arrivata una lettera, signora. - le dissi.
Lei si alzò e venne verso di me con aria stanca, forse sapeva già di cosa si trattava.
Allungò la mano con un gesto automatico e fece per aprire la lettera, ma quando passò
lo sguardo distratto sul sigillo, si fermò, aggrottando le sopracciglia.
-Charlotte, vai a prendere l’acqua alla fonte, tra poco è ora di pranzo. –
53